Volume 38 - Società Italiana di Pediatria

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Volume 38 - Società Italiana di Pediatria
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Alberto Martini, Genova
Pierpaolo Mastroiacovo, Roma
Luigi Daniele Notarangelo, Boston
Fabio Sereni, Milano
Luigi Titomanlio, Napoli
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Pasquale Di Pietro, Genova
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Alberto Fois, Siena
Renzo Galanello, Cagliari
Carlo Gelmetti, Milano
Achille Iolascon, Napoli
Giuseppe Maggiore, Pisa
Paola Marchisio, Milano
Bruno Marino, Roma
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Paolo Paolucci, Modena
Franca Rusconi, Firenze
Michele Salata, Padova
Fabian R. Schumacher, Brescia
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Volume 38
149-150
Gennaio-Giugno 2008
INDICE numero 149-150 Gennaio - Giugno 2008
Editoriale
Pasquale Di Pietro, Pierpaolo Mastroiacovo, Fabio Sereni........................................................................................................................... 1
Dove eravamo e dove siamo: riflessioni ed emozioni
Fabio Sereni, Franco Panizon, Rino Vullo...................................................................................................................................................... 2
Malattie da accumulo lisosomiale: nuove conoscenze patogenetiche e terapie innovative
Generoso Andria, Giancarlo Parenti.............................................................................................................................................................. 8
La malattia celiaca: la ricerca oggi e le prospettive future
Carmen Gianfrani, Salvatore Auricchio....................................................................................................................................................... 18
Trattamento con ormone della crescita: come, quando e perché
Sergio Bernasconi, Cecilia Volta................................................................................................................................................................. 27
Le β-thalassemie
Antonio Cao................................................................................................................................................................................................ 36
Trauma cranico minore
Liviana Da Dalt, Barbara Andreola.............................................................................................................................................................. 46
L’artrite idiopatica giovanile
Alberto Martini............................................................................................................................................................................................ 52
Malformazioni congenite: epidemiologia e prevenzione
Pierpaolo Mastroiacovo.............................................................................................................................................................................. 59
Vecchie e nuove immunodeficienze
Alessandro Plebani, Luigi Daniele Notarangelo.......................................................................................................................................... 73
Malattia renale cronica e insufficienza renale
Sara Testa, Alberto Edefonti, Fabio Sereni.................................................................................................................................................. 81
Paralisi cerebrali infantili
Luigi Titomanlio, Ennio Del Giudice............................................................................................................................................................. 89
Dove va la Pediatria
Armido Rubino............................................................................................................................................................................................ 96
Nel prossimo numero 151 Luglio - Settembre 2008
Ortopedia (a cura di S. Becchetti)
La nuova chirurgia ortopedica infantile tra prevenzione e mini-invasività
S. Becchetti, F. Becchetti
Le rachialgie in età pediatrica
F. Becchetti
Pediatria dello sviluppo e del comportamento (a cura di E. Del Giudice)
Salute mentale infantile e psicopatologia dello sviluppo
A. Romano, M. Macca, E. Del Giudice
Lo studio dei disturbi dello sviluppo e del comportamento mediante Risonanza Magnetica funzionale
G.S. Colafati, R. Siracusano, C. Mastroeni, V. Maglio, A. Gagliano, S. Malena, F. Calamoneri, F. Di Salle
Malattie metaboliche (a cura di G. Andria)
Malattie metaboliche ereditarie di interesse pediatrico: nuove patologie, nuovi geni/malattia e novità nel campo della diagnosi e della terapia
D. Melis, F. Deodato, R. Parini, C. Dionisi-Vici
Screening allargato neonatale per le malattie metaboliche
P. Rinaldo, S. Tortorelli
Terapia genica nelle malattie metaboliche
N. Brunetti-Pierri
Frontiere (a cura di A. Cao, L.D. Notarangelo, A. Iolascon)
Alterata regolazione della via di trasduzione del segnale RAS-MAPK come meccanismo unificante delle sindromi
di Noonan, Leopard, Costello e cardiofaciocutanea: le sindromi neurocardiofaciocutanee
G. Zampino, M. Tartaglia
Linee guida SIP (a cura di R. Longhi)
Diagnosi e terapia dello stroke ischemico pediatrico in fase acuta. Linea guida SIP-SIMEUP-SINP 2007
INFORMAZIONI SIP (a cura del Presidente)
FOCUS SU: (a cura di P. Mastroiacovo)
Acido folico nella prevenzione delle malformazioni congenite
I. Scala, R. Bortolus, P. Mastroiacovo
Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 1
Editoriale
Per più di 37 anni Prospettive in Pediatria è stata una rivista di aggiornamento diretta da un gruppo di amici animati dal solo desiderio di
fare e diffondere cultura pediatrica. Il sostegno, da parte dei pediatri italiani non è mai mancato, tanto che è sempre riuscita a sostenersi
finanziariamente attraverso gli abbonamenti.
Con questo numero Prospettive in Pediatria diventa “Organo Ufficiale della Società Italiana di Pediatria” e sarà quindi distribuito gratuitamente
a tutti i Soci. La sua principale missione continuerà ad essere l’aggiornamento culturale del pediatra nelle varie sub-specialità pediatriche;
favorire il trasferimento delle conoscenze dalle sub-specialità alla Pediatria tutta: ospedaliera, di famiglia e di comunità. Ma sarà anche un
mezzo di comunicazione della SIP attraverso il quale diffondere documentazione, approvata dal Direttivo, di interesse culturale e assistenziale, come ad esempio linee guida e schemi terapeutici e/o diagnostici, notizie di eventi culturali particolarmente rilevanti, ecc. Così come sarà
un ulteriore strumento di collegamento con le Società Affiliate e le Sezioni Regionali.
Questo editoriale è firmato, molto inusualmente, da tre persone (Pasquale Di Pietro, Presidente della SIP, da Pierpaolo Mastroiacovo, Coordinatore Operativo della Direzione della Rivista, e da Fabio Sereni, uno dei fondatori della Rivista che ha da sempre contribuito a dirigerla)
in rappresentanza di un’ampia, coesa ed efficiente Direzione (anche questo un fatto inusuale), che ha garantito nel passato e garantirà nel
futuro un metodo di lavoro: scegliere in modo documentato la qualità migliore da offrire al lettore. Facendo tesoro delle esperienze passate
e tenendo presenti le esigenze future siamo fortemente convinti della bontà di questa nuova avventura editoriale, che ha trovato il Comitato
Direttivo della SIP, la Direzione tutta di Prospettive e l’Editore Pacini, non solo assolutamente concordi, ma anche entusiasti nell’affrontare
il nuovo corso.
Inoltre, il passaggio di Prospettive in Pediatria alla SIP arricchisce e completa il settore editoriale della Società rendendolo di altissimo livello
e che comprende: l’Italian Journal of Pediatrics, rivista scientifica on-line in inglese che raccoglierà i contributi originali dei pediatri italiani
(e perché no, anche di quelli stranieri) e avrà quindi una “target” allargato e internazionale; Area Pediatrica, specificatamente destinata
all’aggiornamento in Pediatria generalistica; Pediatria Notizie, newsletter di informazione sulle attività della SIP; la Collana Monografica della
SIP, impegnata nella edizione di volumi su argomenti di interesse pediatrico; e il Sito Internet, in continua crescita ed evoluzione.
In questo panorama l’obiettivo di Prospettive in Pediatria è quello di cambiare nella continuità e riuscire a coinvolgere i nuovi e vecchi lettori.
Forse non sarà “tutto per tutti”, ma ogni Socio SIP dovrà trovare in ogni numero della Rivista uno o più contributi di interesse e di stimolo.
La Direzione e la Redazione di Prospettive, che hanno svolto in questi anni un eccellente lavoro, saranno ulteriormente rafforzate con l’inserimento di Gianni Bona e di Alberto Villani (nel Comitato Direttivo) e di Pasquale Di Pietro e Antonio Correra (nel Comitato di Redazione) ma,
soprattutto, desideriamo una reale interazione con i lettori, in particolare con i Direttivi delle Società Affiliate, e poter contare su contributi e
suggerimenti che rendano Prospettive in Pediatria una rivista sempre più letta, completa e funzionale.
È un obiettivo ambizioso – ne siamo consapevoli - ma riteniamo che sia necessario porselo, per il progresso culturale della Pediatria italiana.
Cercheremo, con impegno e dedizione, di raggiungerlo.
Pasquale Di Pietro
Presidente Società Italiana di Pediatria
Pierpaolo Mastroiacovo
Direttore Prospettive in Pediatria
Fabio Sereni
Fondatore di Prospettive in Pediatria
Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 2-7
Dove eravamo e dove siamo:
riflessioni ed emozioni
... di Fabio Sereni
Centocinquanta (numeri della Rivista) diviso quattro è eguale a trentasette virgola cinque.
Sono quindi più di 37 anni che Prospettive in Pediatria viene regolarmente pubblicata, ogni
tre mesi, ed è letta da un significativo numero di pediatri italiani. Ha avuto tre editori diversi,
ma ha saputo mantenere sempre le sue principali caratteristiche, che sono rigore culturale
e informazione tempestiva e aggiornata dei progressi più significativi delle conoscenze mediche pediatriche.
Il nostro attuale benemerito editore, Pacini di Pisa, ci ha incoraggiato a festeggiare il traguardo dei 150 numeri con un’edizione speciale di Prospettive. Gli siamo grati.
Pierpaolo Mastroiacovo e il Comitato Editoriale mi hanno chiesto di aprire questo numero con
un “amarcord” personale. Non so cosa sperassero che scrivessi, ma ho subito accettato, non
solo per ovvi motivi sentimentali, ma anche come dovere di testimonianza e di gratitudine per
i tanti amici che molto più di me hanno contribuito con il loro sapere a far sì che Prospettive
abbia acquisito un ruolo, credo non effimero e non irrilevante, nell’evoluzione culturale della
Pediatria italiana degli ultimi anni.
Ho scritto tutto quello che mi saltava in mente. Il risultato, a rileggermi, è stato che forse
ho accentuato, se possibile, quello che è sempre stato uno dei miei maggiori difetti, e cioè
l’impulsività. Non pretendo quindi certo di avere interpretato il pensiero degli altri illustri amici
co-fondatori che hanno partecipato sin dall’inizio a questa avventura. Chiedo scusa se non
tutti saranno d’accordo su alcune delle considerazioni, ma Franco Panizon e Calogero Vullo,
che con me sono stati i primi direttori, con i loro appunti che seguono questa nota potranno
correggere eventuali mie “distorsioni”.
Nell’autunno del 1970 un mio amico, industriale farmaceutico di larghe vedute culturali 1,
invitò a cena, al ristorante “Giannino” di Milano, un piccolo numero di pediatri “quarantenni”
di belle speranze (per lo meno carrieristiche) per proporre loro di fondare una nuova rivista,
che l’industria da lui diretta avrebbe non solo sostenuto finanziariamente, ma anche curato
dal punto di vista editoriale e della diffusione, affidandone la responsabilità a Gianni Bordoli,
persona che si rivelò di importanza fondamentale per il successo dell’iniziativa.
Ovviamente tra di noi (Franco Panizon, Rino Vullo, Giovanni Bucci, Gennaro Sansone, Paolo
Durand, Sergio Nordio e altri) ne avevamo discusso in precedenza, e non arrivammo quindi
a quella riunione conviviale del tutto sprovveduti, ma ben sapevamo ciò che volevamo.
Eravamo molto concordi su un punto. Se una rivista si doveva fare, se l’industriale farmaceutico ci avesse dato adeguate garanzie, la rivista doveva essere di aggiornamento e non
di contributi originali.
E questo per due ragioni fondamentali. La più importante è che, forse con un poco di presunzione, volevamo inaugurare una nuova stagione di seria e avanzata informazione culturale
per i pediatri italiani. Eravamo sostanzialmente critici sulla tipologia dell’editoria pediatrica di
quei tempi. Si pubblicavano allora numerosissimi periodici pediatrici. Ne ho perso il conto, ma
a Padova come a Bologna, a Napoli come in Sicilia, a Genova e Torino Istituti e Cliniche universitarie avevano il loro giornale. Giornali che pubblicavano di certo anche cose buone, ma che
in linea di massima accettavano i manoscritti con una certa larghezza, senza programmazione
di lungo e largo respiro e, soprattutto, senza una significativa revisione editoriale. Erano gli
1
Ambrogio detto Gino Secondi, con il quale già allora condividevo la passione per l’equitazione e i cavalli.
Fabio Sereni è nato a Roma il 16
Dicembre 1927. Research Fellow,
Cornell Medical School di New York
(1953-1954); Direttore Clinica Pediatrica II, Milano (1957-2003); Consigliere e poi Assessore alla Sanità Regione Lombardia (1992-1994). È stato
Presidente dell’Associazione Culturale
Pediatri, Società Italiana di Nefrologia
Pediatrica, European Society for Pediatric Research, European Society for
Developmental Pharmacology. È stato
uno dei fondatori, il principale animatore, il garante della qualità e della
continuità di Prospettive in Pediatria
(ndr). Autore di più di 200 articoli nel
campo della biochimica, farmacologia
e nefrologia pediatrica. Attualmente
Professore Emerito dell’Università
di Milano, Presidente del Comitato
Scientifico della Fondazione Mariani,
riversa la sua esperienza e passione
per la Pediatria (ndr) nell’assistenza ai
bambini con nefrouropatie in America
Centrale. Si occupa appena può di
storia della Pediatria, nel cui campo
ha pubblicato un libro “d’autore” (ndr).
Sposato, con due figli e due nipoti. Si
interessa di libri antichi e cavalli.
F. Sereni, F. Panizon, R. Vullo
anni in cui per un giovane pediatra il progresso della carriera (universitaria o ospedaliera) passava per una strettoia obbligata, che era
rappresentata dalla docenza. E la docenza si otteneva sì per meriti
culturali e assistenziali, ma era anche pesantemente condizionata
dall’avere pubblicato un numero sufficientemente grande di articoli.
Oltre alla qualità era necessaria la quantità. La seconda ragione per
cui decidemmo di proporre una rivista di aggiornamento, e non di
contributi originali, è che giudicavamo la nostra pediatria non ancora
abbastanza produttiva da poter sostenere, quantitativamente e qualitativamente un periodico medico che pubblicasse ricerche italiane.
Stabilimmo anche di chiedere al nostro sponsor-proprietario impegni precisi, come basi di partenza per il nostro impegno nella nuova avventura editoriale. Chiedemmo, ovviamente, piena libertà dei
temi da trattare, ma anche che non fosse contemplata la stampa
di pagine pubblicitarie (neppure dell’industria farmaceutica che ci
sosteneva) e infine che per il primo anno la Rivista fosse inviata
gratuitamente ai pediatri italiani, e che gli abbonamenti iniziassero
quindi, di fatto, dal secondo anno di pubblicazione.
La riunione conviviale andò molto bene 2. Stabilimmo di contattare
anche coloro che non avevano potuto partecipare al pranzo, ma che
giudicavamo importante che partecipassero all’avventura editoriale
(Salvatore Auricchio, Roberto Burgio, Gianni Mastella e altri) e ci demmo la scadenza di iniziare in tempi brevi. Il primo numero uscì nella
primavera dell’anno seguente (1971). La Figura 1 riproduce il frontespizio e la pagina che riporta il Comitato Editoriale del primo numero.
Così è nata Prospettive. Ma ben presto la Rivista assunse anche
una valenza politica, nel senso che il Comitato Editoriale, che era un
gruppo singolarmente unito da vincoli ideali e di amicizia personale,
non si accontentava solo di trasmettere cultura asettica, ma aveva
la pretesa di incidere sulla politica sanitaria e sulla eticità della condotta professionale.
Non fu quindi certo casuale la scelta del tema della prima Tavola Rotonda che Prospettive organizzò a Saint Vincent, e cioè “Riforma sanitaria e pediatria”. Erano i tempi dell’inizio della grande discussione
sulle modalità con le quali doveva essere istituito e regolamentato il
Servizio Sanitario Nazionale, superando l’epoca delle mutue, e che
avrebbe, dopo ben sette anni, portato all’approvazione in Parlamento della Legge 833/78. Riporto una pagina del primo numero di Prospettive con le fotografie e le qualifiche dei partecipanti alla Tavola
Rotonda (Fig. 2). Il professor Ettore De Toni, allora presidente della
Società Italiana di Pediatria, non poté intervenire, ma inviò una lunga
e argomentata introduzione. Tra i partecipanti mi piace segnalare la
presenza di Giovanni Berlinguer, già allora molto attivo in politica sanitaria, come quelle di Piero Fornara e di Alberto Mario Cavallotti, tra i
più impegnati e autorevoli primari ospedalieri dell’epoca.
A questa Tavola Rotonda ne seguirono moltissime altre, molte su temi
che ancora oggi sono attuali. La seconda fu intitolata “Alimenti speciali
per l’infanzia”, in cui si trattò del delicato rapporto con l’industria; la terza “Prospettive future e implicazioni etico-legali della diagnosi prenatale
di malattie congenite”, con ovvie implicazioni alla liceità dell’interruzione
volontaria della gravidanza; la quarta “La sperimentazione clinica in pediatria”, con tutta la sua problematicità bioetica; la quinta “La medicina
preventiva pediatrica in Europa” (in effetti questa Tavola Rotonda non fu
direttamente organizzata da noi ma da Sergio Nordio nell’ambito di un
convegno triestino di pediatria sociale); la sesta “La città e il bambino”,
con un confronto con urbanisti e politici; la settima “L’insegnamento
post-universitario delle discipline di interesse pediatrico”; l’ottava “Il disegno del bambino e la sua malattia”; la nona “La madre lavoratrice”; la
decima “L’esperienza ospedaliera nella vita del bambino”.
Insomma, nel corso degli anni Settanta, forse anche senza apertamente volerlo e senza che tutti gli amici fossero d’accordo, Prospettive in Pediatria si trasformò gradualmente in un gruppo di pressione
di pediatri per una nuova Pediatria italiana, operando non solo nei
confronti della Società Italiana di Pediatria ma anche interloquendo
con la società e le autorità sanitarie.
A questo proposito ci fu per tutti noi un momento, nel 1974, e cioè
tre anni dopo la creazione di Prospettive, che è stato senza dubbio,
se visto obiettivamente a posteriori, un punto di svolta, anche se fu
vissuto inizialmente come un’iniziativa puramente culturale, assolutamente non politica.
Figura 1.
2
Solo Giovanni Bucci si lamentò senza fondamento per porzioni di cibo da lui giudicate non abbastanza generose …
Dove eravamo e dove siamo: riflessioni ed emozioni
Figura 2.
Fu quando, avendo superato le perplessità sopra accennate, decidemmo di dare vita a una rivista di contributi originali, e fondammo
la Rivista Italiana di Pediatria 3. Ci tassammo (100.000 lire ognuno,
non tanto poco). Eravamo tutti non solo ambiziosi ma anche presuntuosi e pensavamo fosse possibile garantire la serietà scientifica del nuovo giornale solo se lo avessimo posseduto e controllato.
Giuridicamente era necessario creare un’Associazione che potesse
esserne la proprietaria, e così fu creata l’Associazione Culturale Pediatri (ACP) (Fig. 3). Primo Direttore del nuovo periodico fu uno dei
più giovani (e brillanti) del nostro gruppo, e cioè Armido Rubino.
La Rivista Italiana di Pediatria fu ceduta anni dopo per una lira simbolica alla Società Italiana di Pediatria, ma l’ACP restò, crebbe e si
sviluppò indipendentemente da Prospettive, e giocò quel ben distinto ruolo politico e culturale che, nel bene o nel male (io dico, soprattutto nel bene), tutti oggi devono riconoscerle. Ma per alcuni anni (io
direi fino al 1979) il gruppo di Prospettive e l’ACP perseguirono, in
assoluta armonia, obiettivi pediatrici comuni e nell’ambito pediatrico
italiano erano considerate una sola cosa!
Nel 1979 decidemmo di candidare quel grande galantuomo che era
Paolo Nicola alla presidenza della Società Italiana di Pediatria. Eravamo
fiduciosi che si ripetesse la felice esperienza precedente, allorché, nel
1976, Roberto Burgio fu il nostro candidato vincente. Ma Paolo Nicola,
e tutti noi, fummo sconfitti. Il sogno era finito. Dovemmo ammettere di
essere in minoranza, che la nostra visione rigorosa di politica culturale
non riscuoteva l’approvazione della maggioranza dei pediatri italiani.
Eravamo considerati teste calde, utopisti, troppo radicali.
3
Figura 3.
Dopo questo spiacevole fondamentale episodio iniziò la seconda vita
di Prospettive.
Furono lunghi anni obiettivamente difficili. Nel 1988 l’industria farmaceutica che ci aveva a lungo sostenuto, attraversando un delicato periodo gestionale, decise, col nostro pieno accordo, di cedere la testata
a una piccola ma molto seria casa editrice (denominata CIS, Centro
Informazione Sanitaria, diretta e posseduta dal professor Antonio Brenna), cui va a mio parere il merito di avere mantenuto ogni impegno e di
avere conservato il rigore editoriale che ci ha sempre caratterizzati.
E avvenne quello che a me sembra sia stato un mezzo miracolo. Il
gruppo unito di Prospettive non si dissolse, pur avendo perso ogni “potere” politico pediatrico. Non morì l’entusiasmo, continuammo a credere che fare avanzata formazione culturale fosse cosa degna, anche se
alle volte dal punto di vista editoriale-finanziario non redditizia.
E quando anche il nostro secondo editore considerò la sua disponibilità esaurita, iniziò la risalita, che in prima battuta ha avuto due
principali protagonisti: l’editore Pacini e Pierpaolo Mastroiacovo.
Pierfrancesco Pacini non ha esitato a rilevare la testata, pur nella
Che quindi deve essere considerata con filiazione di “Prospettive”. L’attuale “Italian Journal of Pediatrics” ne è il nipote.
F. Sereni, F. Panizon, R. Vullo
sicura consapevolezza di non compiere un “affare”, ma per motivi
esclusivamente di prestigio editoriale-culturale e di sostegno a un
gruppo di amici.
Per Pierpaolo Mastroiacovo devo fare un discorso a parte, anche a
costo di uscire dal tema che mi è stato assegnato. Desidero cioè tesserne pubblicamente gli elogi. Sono convinto che senza di lui mai e
poi mai ce l’avremmo fatta. Ha dimostrato come si possa mantenere
unito un gruppo di amici su un progetto culturale anche quando non
sia né direttamente, né indirettamente connesso con gli interessi
specifici di ricerca, professionali e accademici di ognuno di essi.
Solo per il piacere di fare e diffondere cultura. Mettendo per giunta
a disposizione della Direzione e della Redazione di Prospettive le
sue strutture di lavoro, per fare regolarmente funzionare l’attività
editoriale. Caso unico.
E siamo giunti ai tempi nostri, al termine di questo lungo, un po’
noioso, ma credo istruttivo racconto. Ma, mentre mi accingevo a
consegnare questo manoscritto alla Redazione, è capitato qualcosa che rischia di convertire questa cronistoria in una favola a lieto
fine. La testata di Prospettive in Pediatria, che per quasi quarant’anni ha vissuto, orgogliosamente, una sua vita indipendente, passa di
proprietà alla Società Italiana di Pediatria. È, dobbiamo confessarlo,
quanto io con altri amici abbiamo sempre desiderato.
Così come trent’anni fa, nel 1977, donando la Rivista Italiana di Pediatria alla SIP abbiamo inteso metterci al servizio della Pediatria
Ufficiale, così oggi torniamo alla “casa madre”. Ringrazio per questa
importante decisione il presidente Pasquale Di Pietro e il Consiglio
Direttivo della SIP, con la speranza che Prospettive renda ancora una
volta un utile servizio alla Pediatria italiana.
... di Franco Panizon
Amarcord … No … anmarcord minga … Non mi ricordo più quasi niente.
È passato tanto tempo; tanto … 1970 … Non esiste.
Ed erano passati, allora, poco più di vent’anni dalla fine della guerra; e ne sono passati, oggi,
quasi quaranta, da allora. Dunque, se immaginiamo questo tratto, dalla guerra ad oggi come
il percorso di una regata, eravamo alla prima boa, a un terzo del percorso; un percorso che
per la maggior parte di noi è stato più o meno il percorso della vita professionale.
L’Italia stava ancora uscendo, precipitosamente, e con moto ancora uniformemente accelerato, da una specie di oltretomba fatto di povertà, di ignoranza, di isolamento culturale. Stava
uscendo, ma non era ancora uscita.
Io, allora, in quei giorni della nascita di Prospettive in Pediatria, avevo poco più di quarant’anni, ed ero appena approdato a Trieste, che è anche la città dove ero nato, dopo aver girato
mezza Italia, sempre nel carrozzone universitario, da assistente volontario, a Padova, poi
straordinario e poi incaricato a Sassari, poi di ruolo, poi aiuto a Ferrara e poi Pavia, poi professore incaricato, ancora a Padova, poi direttore (sempre incaricato) di Clinica. Allora usava
così. Si mettevano i mobili in un vagone ferroviario, si affittava un appartamento, si cambiava
città, si cambiavano i compagni di lavoro; si scambiava con loro quel poco che si sapeva. Era
anche quello un modo per sprovincializzarsi.
In quella Pediatria, si cambiava anche mestiere dentro al mestiere. Io, nelle Cliniche in cui
ho girato, ho fatto il radiologo, l’elettrocardiografista, l’elettroencefalografista, il laboratorista,
l’infettivologo, l’ematologo, il neonatologo, l’oncologo, l’allergologo.
In quella Pediatria italiana un po’ scalcinata, confusa, ignorante, ma comunque in cammino e
in fermento, nasce, naturalmente, l’idea di una rivista. Come al tempo del Risorgimento Italiano, dei carbonari, dei mazziniani, dei garibaldini, o del Partito Operaio, o dell’anarchismo. Una
rivista come una bandiera, come un punto di riferimento. Una rivista nuova, che nasca dalle
cose che stanno nascendo e che faccia nascere nuove cose. Una rivista fatta per essere letta
(fino ad allora le riviste erano fatte solo per essere scritte, per permettere agli ardimentosi in
carriera di accumulare abbastanza lavori per aspirare alla Libera Docenza), per insegnare e
per imparare insegnando.
La rivista, questa, Prospettive in Pediatria, prende corpo a Milano, in Clinica Pediatrica, dalle
parti di Fabio Sereni, pensata da Fabio Sereni, e sostenuta da una piccola Ditta farmaceutica
che se ne assume le spese (NB: la Ditta accetta di non fare pubblicità su quella Rivista!!!).
Quattro numeri all’anno, con una grafica splendida e innovativa, semi-monografici, con contributi stranieri (perché c’era qualcuno tra noi, i non provinciali tra i provinciali, che avevano
perfino lavorato “fuori”, in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Svizzera, in Francia, e avevano legami internazionali, fatti di lavoro in comune, di amicizia e di stima). Io non sono uno di questi
pediatri d’avanguardia, che sono stati fuori e che hanno amici fuori. In compenso, ho amici
dentro, fatti nel mio girovagare. Ed eccomi nella Rivista, in un gruppo composito di ospedalieri, associati, giovani cattedratici; con un desiderio di auto-analisi, di analisi critica dello stato
dell’arte, del costume, della prassi; desiderosi di avere una voce, e nello stesso tempo anche
di cambiare il panorama attorno a sé; e anche di cambiare se stessi, di rinnovare la cultura,
per se stessi e per tutti gli altri, per tutti i pediatri, per tutti i bambini.
Franco Panizon è nato a Trieste il 23
Aprile 1925. Tappe della carriera accademica dal 1950 al 1969: Padova,
Sassari, Ferrara, Pavia. Direttore Clinica Pediatrica di Trieste (1969-2000).
Attualmente Professore Emerito dell’Università di Trieste. Co-direttore di
Prospettive in Pediatria dalla fondazione al 1982. Fondatore di Medico
e Bambino, Direttore 1982-2006. Si
autodefinisce “pediatra generalista”,
anche se ha pubblicato circa 250
pubblicazioni e di una decina di libri,
soprattutto in ematologia e immunopatologia.
Per decenni (e lo è ancora) riferimento
culturale e guida per una generazione
di pediatri italiani “generalisti” (ndr).
Sposato con tre figli. Ama disegnare e
dipingere con caratteristiche qualitative professionali (ndr).
Dove eravamo e dove siamo: riflessioni ed emozioni
Non credo di deformare le cose, anche se resta vero quello che ho detto al principio, e cioè che non ricordo, e che quindi, almeno un poco,
ricostruisco. Non ricordo le cose, i fatti, la sequenza degli avvenimenti,
la loro collocazione precisa nel tempo. Mi sono dimenticato perfino di
essere stato, e non per pochi anni, uno dei tre direttori della Rivista nella
quale tutte queste voglie e questi bisogni si sono concretizzati, coagulati. Mi ricordo l’allegria, l’entusiasmo di quell’imparare/insegnare; le
trasferte a Saint Vincent, dove si tenevano i primi Congressi/Corso, il
Casino, la Valle, i castelli, la polenta. L’impegno e il sapore di nuovo delle
Tavole Rotonde, una per ogni numero, quattro incontri all’anno, sulla
sperimentazione in pediatria (indimenticabile il confronto tra Garattini,
neo-illuminista, e Maccacaro, neo-giacobino), sulla presenza dei genitori (fino ad allora esclusi dal reparto!!!) al letto del malato; sull’organizzazione e sulla distribuzione territoriale dell’ospedale (Fornara e il sogno
di un reparto ogni 100.000 abitanti, allora molto più ragionevole che
oggi) e altri e altri che non posso più ricordare. … Amarcord minga …
... di Rino Vullo
Fabio Sereni ha ripercorso, in maniera esauriente e magistrale, le tappe della vita e della crescita di Prospettive in Pediatria: come è nata, quale è stata la sua filosofia, come si è evoluta.
Franco Panizon – con un intervento anticonvenzionale, secondo le sue abitudini, dicendo di
non ricordare il passato – ha, in realtà, riportato in vita gli stati d’animo che hanno fatto della
nascita e della crescita di Prospettive un episodio molto importante della nostra vita di medici
e docenti. Credo, quindi, di dover limitare il mio intervento a poche righe.
Ciò che desidero sottolineare si riferisce a due aspetti della storia di Prospettive che, a mio
parere, non sono stati sufficientemente messi in luce.
Il primo di essi è rappresentato dalla posizione di Fabio Sereni nella vicenda di Prospettive.
Fabio Sereni ha avuto un ruolo propositivo e organizzativo fondamentale nella nascita e nella
conduzione della Rivista. Questo può essere affermato senza toglier nulla ai meriti di tutti
gli altri che hanno collaborato alla Rivista perché, come ho già detto, il ruolo di Fabio è stato
centrale. Senza Fabio, Prospettive non sarebbe nata e, se fosse nata, non sarebbe cresciuta e
noi non saremmo oggi nella condizione di festeggiare l’uscita del centocinquantesimo fascicolo. Grazie a Fabio, quindi, per quanto ha fatto e per averci dato la possibilità di partecipare
alla straordinaria avventura professionale ed umana che è risultata essere la partecipazione
a Prospettive.
Un altro aspetto che, forse, non risulta sufficientemente messo in evidenza dai contributi di
Fabio e di Franco è che Prospettive è stata una rivoluzione. È stato rivoluzionario fondare
una nuova rivista senza includere tra i direttori nessun cattedratico, invitare a far parte del
comitato di redazione solo coloro che godevano di stima consolidata per la loro cultura e la
loro disponibilità senza tenere conto dei titoli accademici, affidare la veste tipografica a un
esperto del ramo (la rivista deve essere bella oltre che colta, dicevamo), svolgere il programma di Tavole Rotonde ricordato da Fabio e invitare a parteciparvi, se lo si considera opportuno, esperti la cui sola presenza era ritenuta motivo di scandalo nell’establishment (come,
ad esempio, Piero Fornara e Giovanni Berlinguer, a causa del loro colore politico), eliminare
la propaganda, infine introdurre il sistema dei revisori che è stato applicato senza eccezioni
a partire dal primo fascicolo. A questo proposito ricordo che, quando è stato il momento di
preparare il primo fascicolo, è stato deciso di chiedere l’articolo di presentazione della Rivista
la professor Ettore Rossi di Berna, una delle massime autorità in campo pediatrico nazionale
e certamente il pediatra che nel nostro Paese godeva della maggiore popolarità. Pensavamo
che una sua presentazione sarebbe stata un biglietto da visita in grado di tranquillizzare
coloro che temevano che la Rivista sarebbe stata governata da un manipolo di comunisti. Il
professor Rossi accettò l’invito, l’articolo promesso arrivò in redazione con puntualità svizzera
e fu accolto con grande entusiasmo. L’entusiasmo si trasformò in delusione quando la lettura
dell’articolo mise in evidenza che esso non corrispondeva alle nostre aspettative e aveva
bisogno di alcune importanti correzioni. Che fare in una simile situazione? Era possibile che
noi ci permettessimo di chiedere al professor Rossi – che molti di noi conoscevano di persona
e stimavano per le sue doti professionali ed umane – di modificare l’articolo che egli aveva
cortesemente accettato di scrivere su nostra richiesta? Se ciò non era possibile, potevamo
pubblicare l’articolo così com’era, venendo meno alla regola che ci eravamo data di sottoporre a revisione critica tutti gli articoli, indipendentemente dalla persona che li aveva scritti?
Alla fine, fu deciso di fare la mossa che sembrava più corretta: Fabio telefonò al professor
Rossi e gli espose la situazione. Il professor Rossi, da quel grande uomo che era, capì il nostro
imbarazzo e ci autorizzò a introdurre le modifiche che ritenevamo più opportune. L’articolo
fu aggiustato e il risultato dell’operazione fu ottimo, come può constatare chiunque voglia
prendersi il gusto di rileggerlo.
Calogero Vullo è nato a Crotone il
24 Marzo 1927. Ricercatore al Walter Reed Army Institute of Research
(1958-1959). Tappe accademiche a
Sassari e Ferrara. Ha diretto per molti
anni il Centro della Microcitemia, Ferrara. Primario Ospedaliero: Cesena
(1962-1972) e Ferrara (1972-1997).
Co-direttore di Prospettive in Pediatria
dalla fondazione al 1996. È stato soprattutto un ematologo pediatra. Vincitore del “George P. Englezos Award”,
Thalassemia International Federation,
per i successi ottenuti nella cura e
prevenzione della Talassemia. Fondatore e primo Presidente della Società
Italiana di Adolescentologia. Professore a contratto di Bioetica all’Istituto
di Filosofia dell’Università di Ferrara.
Sposato con due figli. Ha un solo hobby: il dovere (ndr).
F. Sereni, F. Panizon, R. Vullo
Qualcuno può domandarsi se Prospettive risultò veramente essere
tanto diversa dalle altre riviste pediatriche già in circolazione. La mia
esperienza personale può dare un’idea di come funzionavano le redazioni in passato: alla fine degli anni ’50 ero assistente nella Clinica
pediatrica di Ferrara diretta dal professor Schwarz Tiene. Una mattina
il Direttore mi chiese di andare nel suo studio, una volta terminate le
incombenze di reparto. La direzione di una importante rivista pediatrica, disse il professor Schwartz, mi ha chiesto il nome di un pediatra
da inserire nel comitato editoriale: io ho proposto il suo nome. Naturalmente accettai la sua designazione, pensando che il mio ruolo di
componente del comitato di redazione della rivista mi avrebbe permesso di incontrare pediatri molto noti, che diversamente non avrei
avuto la possibilità di conoscere, e di proporre l’introduzione di modifiche che avrebbero permesso di avvicinare la rivista agli standards
internazionali. In attesa di essere convocato a partecipare ai lavori
della redazione, iniziai a leggere la rivista, della quale ero diventato
redattore, con particolare attenzione. La lettera di convocazione non
arrivò mai, ma in compenso ebbi modo di rilevare la pubblicazione
di un articolo sul favismo che ignorava la letteratura fondamentale,
come dimostrato dal fatto che l’Autore, o gli Autori, sostenevano che
il favismo era una malattia a patogenesi allergica, cioè avvaloravano
una tesi ormai superata. Scrissi una lettera alla redazione spiegando
che, purtroppo per l’Autore dell’articolo, la patogenesi allergica non
poteva più essere accreditata dopo che Autori nord-americani avevano dimostrato che la crisi emolitica da indigestione di fave è dovuta
ad un difetto di attività della G6PD eritrocitaria che viene trasmesso
come un fattore legato al sesso. Non mi giunse alcuna lettera di risposta e io feci l’unica cosa che potevo fare, cioè presentare le mie
dimissioni per evitare di essere ritenuto corresponsabile della pubblicazione di articoli che non meritavano di essere accettati. Certamente non bisogna generalizzare, ma la mia esperienza lascia pensare
che nel nostro Paese le riviste pediatriche allora in circolazione non
fossero gestite in maniera appropriata.
Sono trascorsi quasi quarant’anni da quando la Rivista è stata fondata, e alcuni amici che hanno fatto parte del comitato di redazione
non sono più con noi. Credo che dobbiamo approfittare della pubblicazione degli articoli commemorativi per ringraziarli per la loro
collaborazione e per la loro amicizia.
Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 8-17
Malattie da accumulo lisosomiale:
nuove conoscenze patogenetiche
e terapie innovative
Generoso Andria, Giancarlo Parenti
Dipartimento di Pediatria, Università “Federico II”, Napoli
Riassunto
Le malattie da accumulo lisosomiale (LSD) sono causate da difetti genetici che causano deficit di specifiche idrolasi, proteine attivatrici, recettori o alterazioni nel trafficking intracellulare.
Al momento sono note una cinquantina di LSD, che, come gruppo, hanno una frequenza stimabile in
1/5-6000 nati vivi. Nella maggior parte dei casi le LSD sono caratterizzate da un decorso progressivo,
gravemente disabilitante o letale, che provoca handicap severo nei pazienti e comporta un carico sociale significativo. Tuttavia, i quadri clinici delle LSD sono anche caratterizzati da una estrema variabilità
con coinvolgimento multisistemico di tessuti, organi e apparati. Nel corso degli ultimi anni è stata rivolta
una rinnovata attenzione ai meccanismi implicati nella patogenesi delle LSD: oltre le conseguenze dell’accumulo del substrato, si sta scoprendo il ruolo di processi infiammatori mediati da citochine, alterazioni dell’autofagia, attivazione dell’apoptosi e una funzione biologica diretta dei metaboliti accumulati.
Fino a poco meno di 20 anni fa l’unica terapia delle malattie lisosomiali proponibile era una terapia
di supporto, mirata a combattere le complicanze (neurologiche, ortopediche, nutrizionali, respiratorie)
delle LSD. Oggi stanno diventando disponibili approcci terapeutici che riescono ad aumentare i livelli
dell’attività enzimatica geneticamente carente (trapianti di cellule staminali, terapia enzimatica sostitutiva, riduzione della sintesi del substrato, stimolazione dell’attività residua con molecole chaperones)
con efficacia documentata anche sulla qualità della vita del paziente. La terapia genica somatica rappresenta la vera speranza per una cura efficace, una volta che sarà possibile trasferire a trial clinici le
“prove di principio” ottenute in laboratorio. È prevedibile che la disponibilità di terapie efficaci comporti
l’allargamento degli screening neonatali di massa anche alle LSD, consentendo la diagnosi di individui
asintomatici con storia familiare negativa e l’avvio precoce allo specifico trattamento.
Summary
Generoso Andria è nato a Giffoni Valle
Piana (SA) il 20 Luglio 1943. È Professore ordinario di Pediatria e Direttore
del Dipartimento Clinico di Pediatria,
Università Federico II di Napoli. È
Presidente della Società Italiana Malattie Genetiche Pediatriche e Disabilità Congenite (SIMGePeD). Il campo
principale dei suoi interessi scientifici
è rappresentato dalle malattie genetiche e metaboliche, per alcune delle
quali ha contribuito con la descrizione
di nuove entità nosografiche e la definizione delle caratteristiche cliniche,
biochimiche e molecolari. Autore di
oltre 250 pubblicazioni scientifiche in
gran parte su riviste internazionali. Ha
sempre lavorato a tempo pieno nell’università, in cui continua a credere,
nonostante i problemi. Ha, tra i primi,
promosso attività didattiche innovative per gli specializzandi in Pediatria.
è sposato e ha tre figli e due nipoti.
Tra i numerosi interessi non scientifici:
fumetti e giochi di parole (l’anagramma del suo nome e cognome è “adoro
insegnare”).
Lysosomal storage disorders (LSD) are due to genetic defects leading to the deficiency of specific hydrolases, activating proteins, receptors or abnormalities of the intracellular trafficking.
More than 50 LSD are presently known. As a group they have a frequency of approximately 1/5-6000
live born. In most cases LSD show a progressive and severe course with a heavy social burden. However,
clinical presentations can be extremely variable with a multisystemic involvement. Over the last years
new insights have been obtained in the pathogenesis of LSD: besides the consequences of substrate
storage, new research lines are investigating the role of cytokine-mediated inflammation, autophagy,
apoptosis and a direct biological action of the stored metabolites. Until 20 years ago, only symptomatic
treatments were available to patients with LSD. More recently new therapeutic approaches have been
developed to correct the enzymatic genetic defect (hematopoietic stem cells transplantation, enzyme
replacement therapy, substrate reduction therapy, enzyme enhancement therapy with pharmacological
chaperones) and also improve patients’ quality of life. Gene therapy is the ultimate hope, but proofs of
principle so far obtained are still to be transferred to clinical trials. As efficacious treatments are becoming available, in the near future mass screening programs in newborn will diagnose asymptomatic
patients with negative family history and allow early start of the specific treatment.
Un po’ di storia: da dove siamo partiti
La cronologia delle malattie da accumulo lisosomiale
classiche
La storia delle malattie da accumulo lisosomiale (Lysosomal Storage
Diseases, LSD) è ormai lunga, dal momento che si è sviluppata nell’arco di più di un secolo, a partire dalla fine dell’Ottocento. L’evolu-
zione delle conoscenze nel campo delle LSD è andata di pari passo
con il progresso della medicina moderna ed in questo senso queste
malattie possono essere considerate un perfetto modello dell’avvicendarsi di nuove acquisizioni, con la progressiva introduzione di
nuove tecnologie diagnostiche e terapeutiche che, soprattutto negli
ultimi 10-15 anni, ha subito un’impressionante accelerazione.
La storia delle LSD è iniziata, come in numerosi altri campi della
medicina, con l’acuta osservazione di clinici che hanno descrit-
Malattie da accumulo lisosomiale: nuove conoscenze patogenetiche e terapie innovative
to le caratteristiche di singoli pazienti e scoperto le prime entità nosologiche molti anni prima che si conoscessero le loro basi
biochimiche e molecolari. Ancora oggi molte di queste malattie
sono note con il nome del medico o dei medici che, più o meno
contemporaneamente, hanno affidato alla letteratura le prime descrizioni cliniche.
Il caso della malattia di Gaucher è paradigmatico di questo lungo
percorso. Nel 1882 Philippe Gaucher descrisse una donna con splenomegalia e osservò anche la presenza nella sua milza di cellule
insolite, che in seguito divennero note come “cellule di Gaucher”
(Beutler et al., 2001). Nei successivi cinquant’anni furono osservati
ulteriori segni e sintomi, fino a che nel 1934 la sostanza accumulata
nei visceri fu identificata come glucosilceramide, definendo in tal
modo la principale caratteristica della malattia di Gaucher, cioè una
patologia da accumulo di uno specifico materiale in cellule e tessuti.
Tutto questo rappresentava già una significativa acquisizione nelle
conoscenze di questa malattia, ma quello che più sorprende è che
tutto ciò avveniva ancor prima che i lisosomi, gli organelli subcellulari protagonisti della fisiopatologia di queste malattie, venissero
identificati.
Finalmente, negli anni ’50 e ’60 Brady et al. mostrarono che l’accumulo di glucosilceramide era causato dal deficit dell’attività di un
enzima che esplica la sua funzione nei lisosomi, la glucocerebrosidasi/β-glucosidasi (Brady, 1997).
Una volta scoperto l’enzima deficitario cominciò a svilupparsi il
concetto della terapia enzimatica sostituiva, in cui l’enzima carente
può essere sostituito dalla supplementazione di un enzima attivo.
Tuttavia la realizzazione di questo approccio dovette attendere ancora qualche decennio, cioè fino a quando furono identificate le basi
biochimiche del traffico (e quindi dell’uptake) degli enzimi lisosomiali, furono scoperte le basi molecolari della malattia di Gaucher e
diventarono disponibili tecnologie per la preparazione su larga scala di enzimi ricombinanti. La terapia enzimatica sostitutiva è stata
commercializzata agli inizi degli anni ’90 ed è oggi adoperata per il
trattamento di più di 5.000 pazienti in tutto il mondo.
Lo sviluppo e l’estensione di questi approcci terapeutici ad altre malattie ha modificato sostanzialmente l’atteggiamento del medico di
fronte a pazienti con LSD. La prognosi delle LSD solo pochi anni fa
era nella maggior parte dei casi grave, con un’aspettativa di sopravvivenza breve, oltre che con una qualità di vita molto povera. Il
medico che formulava una diagnosi di LSD poteva solo offrire alla
famiglia e al paziente una terapia sintomatica, per attenuare le conseguenze della malattia, con la prospettiva di prolungare un’esistenza dominata da sofferenze e disagio anche sociale. Ora per alcune di
queste malattie sono disponibili una o più opzioni terapeutiche.
I progressi delle conoscenze sulle LSD, soprattutto per quanto riguarda le basi biochimiche e molecolari, hanno anche contribuito a
fornire strumenti per una consulenza genetica sempre più precisa,
a cominciare da una valutazione dei rischi di ricorrenza nelle gravidanze successive alla nascita del primo figlio affetto, fino ad offrire
alla coppia a rischio la scelta di una diagnosi prenatale. Tuttavia, nonostante i grandi progressi, alcuni aspetti della LSD restano ancora
parzialmente oscuri, in particolare per quanto riguarda i meccanismi
attraverso cui l’accumulo nei lisosomi causa il danno cellulare e tessutale.
I lisosomi
I lisosomi sono organelli subcellulari, limitati da membrana, che
contengono enzimi idrolitici utilizzati per la degradazione di macromolecole. Nei lisosomi sono contenuti oltre una cinquantina di enzimi idrolitici, che comprendono proteasi, nucleasi, glicosidasi, lipasi,
fosforilasi, fosfatasi e solfatasi. Tutti questi enzimi sono idrolasi, che
richiedono un ambiente acido per svolgere in maniera ottimale la
loro attività (Futerman e van Meer, 2004).
In generale si è portati a schematizzare la struttura delle cellule ed a
considerare i vari compartimenti come qualcosa di statico e isolato dal
resto della cellula. I lisosomi sono invece un ottimo esempio di come i
diversi compartimenti cellulari costituiscano sistemi molto dinamici che
interagiscono, attraverso la fusione, con una serie di altri organelli.
Le proteine e gli altri substrati vengono portati ai lisosomi attraverso numerose vie, che comprendono l’endocitosi e l’autofagia,
quest’ultima utilizzata dalla cellula per il riciclo di componenti invecchiate, quali parti del citoplasma, mitocondri, ecc. Gli enzimi
lisosomiali, una volta sintetizzati nel reticolo endoplasmico, sono
trasportati verso i lisosomi attraverso un complesso itinerario che
comprende l’apparato di Golgi, il network trans-Golgi, e i late endosomes, che maturando danno infine origine ai lisosomi (Fig. 1)
(Gosh et al., 2003).
Figura 1.
Gli enzimi lisosomiali sono sintetizzati nel reticolo endoplasmico e sono
trasportati attraverso l’apparato di Golgi al network trans-Golgi. In questo si formano delle vescicole che trasportano le proteine al late endosome, il quale, maturando, dà origine al lisosoma, che rappresenta
la destinazione finale dell’enzima ed il sito dove gli enzimi esplicano la
loro azione.
Le proteine e gli altri substrati vengono portati ai lisosomi attraverso
numerose vie, che comprendono l’endocitosi e l’autofagia, una via utilizzata dalla cellula per eliminare componenti obsoleti (per il riciclo di
componenti invecchiate, quali parti del citoplasma, mitocondri, ecc.).
Gli enzimi vengono riconosciuti in maniera specifica per essere etichettati e diretti ai lisosomi. Ciò avviene grazie alla presenza di un marcatore
unico che è il mannosio-6-fosfato (M6P), che viene aggiunto in maniera
specifica agli oligosaccaridi N-linked di questi enzimi solubili, nel momento in cui attraversano il lume del cis-Golgi. Due enzimi agiscono
in maniera sequenziale per catalizzare l’aggiunta del M6P alle idrolasi
lisosomiali. Gli enzimi lisosomiali che posseggono il marcatore M6P si
legano al recettore del M6P (MPR) dell’apparato di Golgi, sono impacchettati in vescicole rivestite di clatrina e trasportati ai late endosome,
o direttamente o attraverso gli early endosome. Il recettore M6P viene
quindi riciclato prima nel Golgi e poi nella membrana plasmatica. È da
sottolineare un punto importante e cioè che alcuni degli enzimi neosintetizzati non si legano al recettore M6P, ma vengono secreti. Questi
enzimi possono essere catturati dal recettore M6P posto sulla membrana plasmatica delle cellule vicine ed entrare in queste cellule.
G. Andria, G. Parenti
Tabella I.
Segni clinici comunemente presenti nelle malattie da accumulo lisosomiale (in parentesi esempi di malattie in cui sono presenti segni/sintomi
meno frequenti).
Facies
facies grossolana gargoil-simile
“faccia da bambola” (Gangliosidosi GM2)
Apparato osteo-articolare
displasia scheletrica con o senza bassa statura
limitazione dei movimenti articolari
Rene
ascite neonatale o idrope fetale non immune
insufficienza renale (M. di Fabry)
Cuore
cardiomiopatia con ipotonia (M. di Pompe, M. di Danon)
Organi ipocondriaci
epato (spleno) megalia
colestasi (M. di Niemann-Pick tipo C)
Cute
irsutismo
angiokeratoma corporis diffusum (M. di Fabry)
Sangue
linfociti vacuolati
Occhio
macchia rosso ciliegia
opacità corneale
oftalmoplegia verticale sopranucleare
Sistema nervoso
ritardo mentale, degenerazione neurologica progressiva
neuropatia periferica
leucodistrofia (alla TAC) (M. di Krabbe, leuodistrofia metacromatica)
convulsioni
mioclonie
atassia
In questo itinerario gli enzimi vengono riconosciuti e guidati in maniera specifica grazie alla presenza di un marcatore unico che è il
mannosio-6-fosfato (M6P), che si lega al recettore del M6P (MPR),
e li trasporta ai lisosomi. Il M6P viene aggiunto in maniera specifica
agli oligosaccaridi N-linked di questi enzimi solubili, nel momento
in cui attraversano il lume del cis-Golgi. È da sottolineare che parte
del MPR è presente sulla membrana plasmatica delle cellule dove
è in grado di captare e internalizzare eventuali enzimi lisosomiali in
circolo, endogeni o esogeni.
Le malattie da accumulo lisosomiale
Come si vede, molte tappe sono necessarie per ottenere una sintesi
e una maturazione corretta degli enzimi lisosomiali. Le LSD sono
appunto causate da difetti genetici che interessano la sintesi o la
maturazione delle idrolasi lisosomiali. Per questo motivo una malattia lisosomiale può essere dovuta al difetto di una specifica idrolasi,
10
a deficit di proteine attivatrici o di recettori o ad alterazioni nel trafficking.
Il deficit di uno specifico enzima lisosomiale, causato da uno qualunque dei meccanismi su indicati, porta a un accumulo intracellulare
di una varietà di substrati cellulari non degradati, che comprendono,
per esempio, sfingolipidi, glicosaminoglicani e glicogeno. Al momento sono note una cinquantina di malattie lisosomiali d’accumulo,
che, come gruppo, hanno una frequenza stimabile in 1/5-6.000 nati
vivi, ma sono rare o molto rare se considerate singolarmente (Meikle
et al., 1999).
Approccio clinico-metabolico: i segni e i sintomi comuni
Nella maggior parte dei casi le LSD sono caratterizzate da un decorso progressivo, gravemente disabilitante o letale, che provoca
handicap severo nei pazienti e comporta un carico sociale significativo. Inoltre, molte di queste malattie colpiscono bambini nella prima
decade di vita.
Tuttavia, i quadri clinici delle LSD sono anche caratterizzati da una
estrema variabilità. Un primo aspetto da sottolineare è la variabilità
dell’età di esordio della sintomatologia e la rapidità del decorso clinico.
La maggioranza delle LSD possono infatti esordire a età diverse e si distinguono forme infantili, giovanili e adulte. Le forme più severe, quelle
infantili, di solito si presentano con un coinvolgimento acuto del sistema nervoso e i pazienti muoiono nei primi anni di vita. All’altro estremo,
nelle forme adulte, i sintomi si sviluppano più lentamente e la disabilità
ha spesso origine da sintomi periferici. Le forme giovanili rappresentano una situazione intermedia tra le forme infantili e quelle adulte.
Anche le manifestazioni cliniche ed il coinvolgimento di tessuti, organi e apparati sono diversi. La variabilità può osservarsi tra i diversi
difetti genetici o anche nell’ambito della stessa malattia. In Tabella I
sono elencati alcuni dei segni e sintomi più comuni nelle varie LSD.
I segni neurologici possono comprendere convulsioni, regressione mentale e psicomotoria e disfunzioni varie del sistema nervoso
centrale. Tra i sintomi periferici sono da citare la splenomegalia, il
danno cardiaco e renale, anomalie della formazione ossea, atrofia
dei muscoli e compromissione oculare. Parecchie malattie sono caratterizzate da un coinvolgimento preminente del sistema nervoso e
un’alterazione molto minore degli altri organi e apparati (per esempio la malattia di Sanfilippo), mentre altre sono dominate da disfunzione di organi e apparati diversi dal sistema nervoso (per esempio
la malattia di Fabry).
Che cosa determina questa ampia variabilità di manifestazioni cliniche?
In generale ogni LSD ha un quadro tipico, sia sul piano clinico che
patologico, che probabilmente è in qualche modo correlato con la
natura del substrato che si accumula e col tipo di cellule in cui si
verifica questo accumulo. Per esempio, tutte le forme di malattia di
Pompe (o glicogenosi tipo II) sono caratterizzate dall’ipotonia, come
conseguenza dell’importante ruolo che il glicogeno svolge nella funzione muscolare (Hirschhorn e Reuser, 2001). Molte delle sfingolipidosi sono caratterizzate da interessamento cerebrale, che potrebbe
essere atteso sulla base degli alti livelli di glicosfingolipidi trovati nel
cervello. Tuttavia, solo in una piccola frazione di pazienti con malattia di Gaucher, che pure è una sfingolipidosi, si ritrovano sintomi
neurologici e non è chiaro perché esistano tipi di questa malattia con
e senza coinvolgimento neurologico.
In aggiunta alle differenze legate alla biosintesi ed al turn-over
dei diversi substrati nei differenti tessuti, la variabilità clinica può
essere causata da fattori genetici. Le LSD sono normalmente di
tipo monogenico, ma, per la maggior parte di esse, sono descritte
numerose mutazioni dello stesso gene in pazienti diversi. Queste
Malattie da accumulo lisosomiale: nuove conoscenze patogenetiche e terapie innovative
Tabella II.
Classificazione delle malattie da accumulo lisosomiale (da Futerman e van Meer, 2004, mod.).
Malattia (M.)
Enzima/Proteina carente
Principale materiale da accumulo
M. Fabry
α-galattosidasi A
Globotriaosilceramide e sostanze di gruppo
sanguigno B
Lipogranulomatosi di Farber
Ceramidasi
Ceramide
M. Gaucher
β-glucosidasi
Glucosilceramide
M. Gaucher
(deficit di attivatore della saposina-C)
Attivatore della saposina-C
Glucosilceramide
Leucodistrofia a cellule Globoidi
(M. Krabbe)
Galattocerebroside β-galattosidasi
Galattosilceramide
Leucodistrofia metacromatica
Arilsolfatasi A
Glicolipidi solfati
Leucodistrofia metacromatica
(deficit di attivatore della saposina-B)
Attivatore della saposina-B
Glicolipidi solfati e ganglioside GM1
M. Niemann-Pick A e B
Sfingomielinasi
Sfingomielina
Deficit di attivatore degli sfingolipidi
Attivatore degli sfingolipidi
Glicolipidi
Gangliosidosi GM1
β-Galattosidasi
Ganglioside GM1
Gangliosidosi GM2 (M. Tay–Sachs)
β-Esosaminidasi A
Ganglioside GM2 e glicolipidi correlati
Gangliosidosi GM2 (M. Sandhoff)
β-Esosaminidasi A and B
Ganglioside GM2 e glicolipidi correlati
Gangliosidosi GM2
(deficit di attivatore del GM2)
Proteina attivatrice del GM2
Ganglioside GM2 e glicolipidi correlati
MPS I (M. Hurler, Scheie, H /S)
α-Iduronidasi
Dermatan solfato ed eparan solfato
MPS II (M. Hunter)
Iduronato-2-solfatasi
Dermatan solfato ed eparan solfato
MPS IIIA (M. Sanfilippo)
Eparan N-solfatasi (sulfamidasi)
Eparan solfato
MPS IIIB (M. Sanfilippo)
N-Acetil-α-glucosaminidasi
Eparan solfato
MPS IIIC (M. Sanfilippo)
Acetil-CoA: α-glucosamide
N-acetiltransferasi
Eparan solfato
MPS IIID (M. Sanfilippo)
N-Acetilglucosamina-6-solfatasi
Eparan solfato
MPS IV A (M. Morquio A)
N-Acetilgalattosamina
-6-solfato-solfatasi
Cheratan solfato, condroitin-6-solfato
MPS IV B (M. Morquio B)
β-Galattosidasi
Cheratan solfato
MPS VI (M. Maroteaux–Lamy)
N-Acetilgalattosamina-4-solfatasi
(arilsolfatasi B)
Dermatan solfato
MPS VII (M. Sly)
β-Glicuronidasi
Eparan solfato, dermatan solfato
chondroitin-4- e -6-solfato
MPS IX
Ialuronidasi
Ialuronano
Aspartilglucosaminuria
Aspartilglucosaminidasi
Aspartilglucosamina
Fucosidosi
α-Fucosidasi
Fucosidi and glicolipidi
α-Mannosidosi
α-Mannosidasi
Oligosaccaridi contenenti mannosio
β-Mannosidosi
β-Mannosidasi
Man(β1→4)GlcNAc
M. Pompe (glicogenosi tipo II)
α-Glucosidasi
Glicogeno
Sialidosi
Sialidasi
Sialiloligosaccaridi e sialilglicopeptidi
M. Schindler
α-N-Acetilgalattosaminidasi
Glicoconiugati contenenti
α-N-acetilgalattosaminil
Sfingolipidosi
Mucopolisaccaridosi (MPS)
Oligosaccaridosi and glicoproteinosi
(continua)
11
G. Andria, G. Parenti
(segue Tab. II)
Lipidosi
M. Wolman e M. da accumulo
di esteri del colesterolo
Lipasi acida
Esteri del colesterolo e trigliceridi
Malattie causate da difetti di proteine integrali di membrana
Cistinosi
Cistinosina
Cistina
M. Danon
LAMP2
materiale citoplasmatico e glicogeno
M. da accumulo di acido sialico
infantile (ISSD) e M. Salla
Sialina
Acido sialico
Mucoplipidosi (ML) IV
Mucolipina-1
Lipidi e mucopolisaccaridi acidi
M. Niemann–Pick C (NPC)
NPC1 e NPC2
Colesterolo e sfingolipidi
Galattosialidosi
Catepsina A
Sialiloligosaccaridi
I Cell Disease e Pseudo-Hurler
Polydystrophy (ML II and
ML III, rispettivamente)
UDP-N-acetilglucosamina: enzima
lisosomiale N-acetilglucosaminil-1fosfotransferasi
Oligosaccaridi, mucopolisaccaridi
e lipidi
Deficit multiplo di solfatasi
FGE (“Cα-formylglycine-generating enzyme”) Solfatidi
Ceroido lipofuscinosi neuronali
CLN1 (proteina palmitoiltioesterasi-1)
Tioesteri lipidati
NCL2 (M. Batten)
CLN2 (tripeptidil amino peptidasi-1)
Subunità c di ATP sintasi mitocondriale
NCL3 (M. Batten)
Trasportatore di arginina
Subunità c di ATP sintasi mitocondriale
Picnodisostosi
Catepsina K
Proteine ossee e fibrille di collagene
Altre
NCL1 (M. Batten)
mutazioni comprendono mutazioni missenso, nonsenso e di splicing, delezioni parziali e inserzioni. Alcune mutazioni portano alla
completa carenza dell’attività enzimatica, mentre altre provocano
una ridotta attività. Il livello di attività residua correla in alcuni casi
con la gravità del fenotipo. Tuttavia le eccezioni sono numerose e
per la maggior parte delle LSD non è stata trovata una correlazione
ovvia tra genotipo e fenotipo: perciò non è possibile formulare di
solito una chiara predizione del decorso clinico della malattia sulla
base dell’analisi mutazionale. In molte malattie sono tipiche gravi
alterazioni neuropatologiche, che portano a morte in età precoce,
mentre in altre malattie i sintomi sono soprattutto limitati ai tessuti
periferici. Addirittura alcuni individui possono essere asintomatici,
pur essendo portatori di mutazione responsabile di forma severa
in altri soggetti. Questa variabilità fenotipica delle malattie monogeniche, anche in presenza delle stesse mutazioni, è un’osservazione non rara ed è spiegata, per esempio, con l’intervento di geni
modificatori, ma anche di fattori ambientali: in questo senso le
malattie ereditarie monogeniche devono essere sempre più considerate malattie “multifattoriali”.
Va comunque sottolineato che la mancata correlazione genotipofenotipo delle LSD in larga parte dipende anche dalle scarse informazioni circa le vie biochimiche e cellulari che risultano alterate
a valle del difetto enzimatico e dell’accumulo del substrato nei
lisosomi. Solo di recente, come si dirà in seguito, si sta prestando
particolare attenzione al ruolo dei meccanismi patologici secondari, innescati dall’accumulo intra-lisosomiale (Futerman e van Meer,
2004).
Nel 1974 C. de Duve, lo scopritore dei lisosomi, nella sua Nobel lecture dichiarò: “The misterious chapter of the pathology of congenital lysosomal enzyme deficiencies has been largely elucidated”. Si
vedrà in seguito che l’affermazione era stata troppo ottimistica (de
Duve, 1975).
12
Criteri di classificazione delle malattie da accumulo lisosomiale
Dopo la prima descrizione dei lisosomi da parte di De Duve come “sacchetti suicidi”, cioè organelli subcellulari limitate da membrana e contenenti enzimi digestivi con pH ottimale acido, più recentemente studi
di proteomica hanno identificato nuove proteine solubili lisosomiali,
incluse quelle con attività idrolasica e proteine integrali di membrana.
Al momento attuale si stima che ci siano circa 50-60 idrolasi solubili
e almeno 7 proteine integrali della membrana dei lisosomi. In linea di
principio qualunque mutazione dei geni che codificano per una di queste proteine può causare una LSD (Futerman e van Meer, 2004).
Finora sono stati proposti vari criteri per la classificazione delle LSD.
La classificazione tradizionale (Tab. II) è quella basta sul tipo di metabolita che si accumula. In alternativa è stata utilizzata una classificazione basata sul deficit enzimatico oppure ancora una classificazione basata sulla diversa funzione delle proteine deficitarie.
In realtà nessuna classificazione è esente da critiche e da possibili
inaccuratezze.
La classificazione può essere, come si è detto, basata sul tipo di
substrato che si accumula. Per esempio nelle mucopolisaccaridosi
si accumulano mucopolisaccaridi (più correttamente denominati glicosaminoglicani), a causa dell’alterata funzione di uno degli enzimi
lisosomiali, che comprendono esoglicosidasi, solfatasi e una transferasi non idrolitica e sono necessari alla degradazione sequenziale
dei glicosaminoglicani. Nelle sfingolipidosi si accumulano sfingolipidi non metabolizzati, in conseguenza del difetto di uno degli enzimi
(o proteine attivatrici) specifici. Nelle oligosaccaridosi si accumulano
oligosaccaridi.
Tuttavia, in alcuni casi, quando più di una classe di macromolecole può fungere da substrato in conseguenza di un determinante comune, il deficit di un singolo enzima può provocare l’accumulo di substrati differenti. Per esempio, la gangliosidosi GM1 e
la malattia di Morquio tipo B sono entrambe causate da difetti
Malattie da accumulo lisosomiale: nuove conoscenze patogenetiche e terapie innovative
nell’attività della β-galattosidasi, ma la sostanza accumulata è
il ganglioside GM1 o il cheratan-solfato, rispettivamente, e le
caratteristiche cliniche e biochimiche di ciascuna malattia sono
diverse (Callahan, 1999).
Un’altra classificazione è basata sul criterio dell’individuazione dell’enzima o proteina difettosa, piuttosto che sulla natura del substrato
o dei substrati che si accumulano. Questa classificazione ha portato
in qualche caso a una caratterizzazione sbagliata di alcune malattie,
per le quali il substrato accumulato era stato identificato alcuni anni
prima della scoperta del difetto enzimatico. Per esempio si è visto
col tempo che le mucolipidosi II e III (forme alleliche di diversa gravità, anche note come I-cell disease e Pseudo-Hurler polydystrophy,
rispettivamente) sono causate da difetti del trasporto di enzimi lisosomiali attraverso il sistema M6P, piuttosto che dal difetto di idrolasi
lisosomiali (Kornfeld et al., 2001). Analogamente furono inizialmente
caratterizzate tre forme di malattia di Niemann-Pick, tutte considerate disordini da accumulo di sfingomieline e presumibilmente dovute allo stesso difetto enzimatico, mentre è ora ben noto che solo
le malattie di Niemann Pick tipo A e B sono causate da un difetto di
sfingomielinasi, mentre la malattia di Niemann Pick tipo C è dovuta
alla difettosa attività di un trasportatore putativo del colesterolo, la
proteina NPC1, oppure da difetti della proteina solubile lisosomiale
NPC2, che lega il colesterolo.
Un’altra possibile classificazione, basata sulla funzione della proteina lisosomiale difettosa potrebbe essere la seguente (in parentesi
sono indicati esempi di malattie nella specifica categoria):
• deficit di singole attività enzimatiche (LSD classiche);
• deficit di attivatori di enzimi lisosomiali (malattia di Gaucher da
deficit di saposina-c);
• deficit del trasporto o di proteine di membrana (malattie di Salla,
cistinosi);
• deficit del trafficking di enzimi lisosomiali (mucolipidosi Ii e iii);
• deficit di modificazioni post-translazionali di enzimi lisosomiali
(deficit multiplo di solfatasi);
• deficit di sistemi di protezione di enzimi lisosomiali (galattosialidosi);
• deficit ancora non noti di altre funzioni lisosomiali:
- attività enzimatiche;
- acidificazione lisosomiale;
- meccanismi di trasporto;
- proteine adattatrici e di rivestimento;
- recettori.
È possibile che in futuro vengano identificate nuove malattie lisosomiali, legate al deficit di proteine localizzate in questi organelli, ma
che finora non sono state associate a patologia umana.
Modelli particolari di malattie lisosomiali
Come già detto, la maggior parte delle malattie lisosomiali ha alla
sua base un difetto enzimatico che comporta l’accumulo del substrato. Esistono, tuttavia, due esempi di LSD con basi molecolari
inattese, che rappresentano quindi una novità nel panorama di questo gruppo di malattie. Il primo esempio è costituito dal deficit multiplo di solfatasi descritto per la prima volta alla metà degli anni ’60. Si
tratta di uno delle LSD più rare con una frequenza di 1 su 1,4 milioni
di nati. In questa malattia si assiste a una ridotta attività di tutti i 17
membri della famiglia dei geni che codificano per solfatasi, alcune
delle quali, peraltro, non sono localizzate nei lisosomi. La carenza
delle attività solfatasiche nei pazienti MSD porta all’accumulo di lipidi solfati e carboidrati, che ha come conseguenza un fenotipo clinico
in cui risultano combinate le caratteristiche di almeno sei malattie
dovute a deficit di singole solfatasi: leucodistrofia metacromatica,
ittiosi legata all’X, sindrome di Maroteaux-Lamy, sindrome di Hunter,
sindrome di Sanfilippo A e sindrome di Morquio A.
Solo recentemente sono state riconosciute le basi molecolari della
malattia e si è riusciti a spiegare il perché della simultanea carenza
di tante attività enzimatiche in una singola malattia ad ereditarietà
monogenica. È stato dimostrato che essa è dovuta al difetto di un
gene chiamato Sulfatase Modifying Factor 1 (SUMF1) che codifica
per l’enzima che genera la conversione post-translazionale di uno
specifico residuo di cisteina, che si trova nel sito catalitico di tutte
le solfatasi, in un residuo di Cα- formilglicina (Cosma et al., 2003;
Dierks et al., 2003).
Gli studi che hanno portato all’identificazione del difetto di base del
deficit multiplo di solfatasi hanno fornito i presupposti per possibili applicazioni cliniche della scoperta. La co-espressione di SUMF1
con cDNA di solfatasi provoca un impressionante aumento dell’attività enzimatica, indicando che SUMF1 è da un lato un fattore essenziale e dall’altro un fattore limitante per le solfatasi. Questi dati
hanno perciò importanza per la produzione industriale di maggiori
quantità di solfatasi umane ricombinanti da utilizzare per la terapia
enzimatica sostitutiva per i singoli deficit di solfatasi lisosomiali.
Un secondo modello particolare di malattia lisosomiale è la galattosialidosi, che è pure associata con il difetto di attività di più di un enzima,
cioè la β-galattosidasi e la sialidasi. È stato scoperto, proprio dallo
studio di questa malattia, che esiste un complesso multienzimatico,
di cui è parte la catepsina A, una serina-carbossipeptidasi (d’Azzo
et al., 2001). Durante la sua biosintesi la catepsina A dimerizza e si
associa con i precursori della β-galattosidasi e della sialidasi. Quest’associazione, essenziale per proteggere queste glicosidasi da una
rapida proteolisi intralisosomiale è anche richiesta per il loro corretto
processamento proteolitico intracellulare. Quando il complesso multienzimatico si forma in maniera alterata, la β-galattosidasi e la sialidasi vengono rapidamente degradate e si verificano le conseguenze
della loro carenza combinata, in base alla quale fu coniato per la prima
volta il nome “galattosialidosi” (Zhou et al., 1996).
Un altro esempio intrigante è rappresentato dalle ceroidolipofuscinosi, che rappresentano il gruppo più comune di malattie neurodegenerative progressive dei bambini, con un’incidenza di 1/12.500
nati vivi (Hofmann et al., 2001). Per le ceroidolipofuscinosi sono stati
identificati difetti in almeno otto geni, che codificano per proteine
con funzioni diverse, di tipo enzimatico, ma anche per proteine integrali di membrana o proteine solubili glicosilate. Non è noto come
mutazioni in uno di questi otto diversi geni possano provocare una
patologia simile e l’accumulo di sostanze simili nei lisosomi (Cooper,
2003; Jolly et al., 2002).
Oltre alle proteine di membrana coinvolte nelle ceroidolipofuscinosi,
i lisosomi contengono proteine integrali di membrana con funzioni
note, la maggior parte delle quali sono trasportatori che esportano
metaboliti solubili fuori dei lisosomi. Due di queste proteine sono
state implicate in malattie lisosomiali, cioè la sialina e la cistinosina
(Eskelinen et al., 2003; Mancini et al., 2000), responsabili, rispettivamente, la prima della malattia da accumulo di acido sialico e della
malattia di Salla e la seconda della cistinosi, un difetto di trasporto
della cistina (Verheijen et al., 1999; Town et al., 1998). Un’altra proteina di trasporto, la NPC1, è coinvolta direttamente o indirettamente nel trasporto del colesterolo ed è carente, come già detto, nella
malattia di Niemann-Pick tipo C (Simons et al., 2000). Infine è nota
una malattia collegata a mutazioni in una proteina della membrana
lisosomiale (LAMP-2) cioè la malattia di Danon, che ha un fenotipo
cardiaco molto simile alla forma infantile di glicogenosi tipo II (Nishino et al., 2000).
13
G. Andria, G. Parenti
Esistono poi numerosi altri difetti di proteine lisosomiali, che potrebbero essere causa di LSD. Per esempio alcune forme di sfingolipidosi
sono causate da mutazioni di proteine attivatrici, che sono richieste
per il catabolismo degli sfingolipidi, o di precursori di proteine attivatrici, come la prosaposina.
Anche le mucolipidosi II e III, originariamente così chiamate in base
all’accumulo intralisosomiale di vari substrati, sono conseguenza
del difettoso trasporto di enzimi lisosomiali per mutazione del gene
che codifica per l’enzima che catalizza la prima tappa, nell’apparato
di Golgi, della formazione del M6P, il marcatore di riconoscimento
che indirizza la maggior parte delle idrolasi ai lisosomi. In queste
malattie gli enzimi lisosomiali sono secreti fuori dalle cellule, invece
di essere avviati verso l’apparato di Golgi, per cui le cellule risultano
carenti di enzimi lisosomiali. Il fatto che non tutte le cellule, però,
siano deficienti in queste idrolasi ha fatto supporre che esistano vie
metaboliche indipendenti dal M6P (Kornfeld e Sly 2001; Dittmer et
al., 1999).
A che punto siamo arrivati
Nuove conoscenze sulla patogenesi
Nel corso degli ultimi anni è stata rivolta una rinnovata attenzione ai
meccanismi implicati nella patogenesi delle LSD. Infatti, nonostante
ormai da decenni siano state riconosciute le basi biochimiche e molecolari di pressoché tutte queste malattie, la sequenza degli eventi
che portano al danno cellulare e tessutale, e quindi alle manifestazioni cliniche delle malattie, resta ancora in gran parte oscura.
L’accumulo di substrato nei lisosomi dovuto al deficit di una idrolasi
lisosomiale è sicuramente il primun movens. Tuttavia, la visione tradizionale dell’accumulo intracellulare come unico fattore patogenetico del danno cellulare è verosimilmente superata dalle più recenti
acquisizioni.
Durante gli ultimi anni si sono ottenute prove sperimentali che documentano come l’accumulo intralisosomiale inneschi una serie di
risposte strutturali e biochimiche che mediano l’inizio e la progressione di malattia. A tale riguardo, già è stato riconosciuto il ruolo di
una varietà di fattori, tra cui l’infiammazione, un danno della pathway dell’autofagia, l’innesco di meccanismi pro-apoptotici e una
funzione biochimica diretta del materiale accumulato (d’Azzo, 2003,
Wu et al., 2005; Ko et al., 2005, Settembre et al., 2008).
Un ruolo di processi infiammatori mediati da citochine è stato riconosciuto nelle LSD, sia come fattore patogenetico delle manifestazioni a carico dell’apparato osteoarticolare, sia a livello neurologico.
A tale proposito sono stati pubblicati diversi studi (Simonaro et al.,
2001). Tra questi va ricordato il contributo di gruppi italiani che hanno approfondito questo aspetto. Villani et al. (2007) hanno dimostrato un ruolo di citochine, neurotrofine, e stress ossidativo nel coinvolgimento cerebrale in un modello murino di mucopolisaccaridosi IIIB.
Settembre et al. (2008), nel modello di deficit multiplo di solfatasi
già citato, hanno dimostrato un aumento generalizzato (fegato, rene,
polmone) di marcatori di attivazione dei macrofagi (MOMA-2) e di
citochine, proprio nelle zone dove è maggiore l’accumulo tissutale
di metaboliti (mucopolisaccaridi), suggerendo così una relazione diretta tra accumulo e attivazione di processi infiammatori.
L’identificazione di questi meccanismi patogenetici ha anche una rilevanza clinica immediata. Ad esempio la quantizzazione dei mediatori dell’infiammazione potrebbe essere utilizzata come marcatore
di attività di malattia, come suggerito da Di Natale et al. (2008) per il
TNF-α nella mucopolisaccaridosi VI.
Un ruolo di alterazioni dell’autofagia nella patogenesi delle LSD è
14
stato segnalato negli anni più recenti. L’autofagia è un meccanismo
catabolico fisiologico mediante il quale proteine e organelli intracellulari (come i mitocondri) sono sequestrati da vescicole caratterizzate da una doppia membrana (autofagosomi o vescicole autofagiche)
e avviati alla degradazione nei lisosomi dopo fusione di queste vescicole con gli stessi lisosomi.
Nei modelli murini di alcune LSD sono state descritte anomalie della pathway dell’autofagia: tra queste la malattia di Niemann-Pick
tipo C, la malattia di Pompe (glicogenosi II) e, ancora una volta il
deficit multiplo di solfatasi. Nella malattia di Niemann-Pick tipo C
la pathway dell’autofagia sembra abnormemente attivata a causa
di livelli aumentati di beclin-1 (Pacheco et al., 2007). Nel modello
di malattia di Pompe è stata osservata un’espansione del compartimento autofagico in cellule muscolari tipo II (Fukuda et al., 2006).
Infine, nel modello murino di deficit multiplo di solfatasi è stato ipotizzato un difetto della fusione dei vacuoli autofagici con i lisosomi
(Settembre et al., 2008).
Le anomalie dell’autofagia osservate nelle LSD possono essere rilevanti per la comprensione della fisiopatologia di queste malattie.
È stato infatti suggerito che, come conseguenza delle alterazioni
dell’autofagia, si verifichi un accumulo di proteine tossiche e di mitocondri non funzionali, tale da attivare l’apoptosi e quindi il danno
tessutale.
L’attivazione dell’apoptosi è, infatti, un altro dei meccanismi implicati nel danno cellulare e rappresenta probabilmente l’evento finale
a cui portano alcuni dei meccanismi in precedenza descritti (infiammazione, anomalie dell’autofagia).
L’apoptosi è un forma di morte cellulare programmata, ben distinta
rispetto alla necrosi cellulare, risultante da un stress acuto o da un
trauma cellulare e ben regolato da precisi meccanismi molecolari. È
stato suggerito che alterazioni dell’omeostasi citoplasmatica dovute
all’accumulo di specifici substrati (ad esempio gangliosidi) portino
all’attivazione di una cascata di eventi che innescano la morte cellulare mediata da apoptosi. Una recente review sull’argomento è
quella di d’Azzo et al. (2006).
È stato osservato, inoltre, in diversi modelli animali di malattia da
accumulo, che alcuni metaboliti accumulati possono avere una
funzione biologica diretta. Un esempio è il ruolo di gangliosidi e
sfingolipidi nel provocare una dendritogenesi anomala in modelli
di malattia di Tay-Sachs, Sandhoff e Niemann-Pick tipo A, di mucopolisaccaridosi I e VI, di mannosidosi e di gangliosidosi GM1, causando quindi un’alterata funzione del sistema nervoso centrale.
Diversi studi sono stati pubblicati in letteratura a tale proposito
(Chiulli et al., 2007).
Una comprensione precisa degli eventi che conducono a danni dei
tessuti e del loro effetto sui differenti compartimenti delle cellule e sulle loro funzioni, è di particolare interesse, anche perché
può avere implicazioni per l’efficacia dei trattamenti attualmente
disponibili e può permettere l’identificazione di nuovi target terapeutici.
Nuovi approcci terapeutici efficaci
Le innovazioni che hanno avuto maggiore rilevanza clinica nel campo delle LSD sono state legate all’introduzione di approcci terapeutici. Fino a poco meno di 20 anni fa l’unica terapia delle malattie lisosomiali proponibile era una terapia di supporto, mirata a combattere
le complicanze (neurologiche, ortopediche, nutrizionali, respiratorie)
delle LSD. Al contrario non era disponibile alcun approccio mirato
alla correzione del difetto di base della malattia.
La situazione ha iniziato a modificarsi con l’introduzione del trapianto di cellule staminali ematopoietiche che, in specifici casi e in
Malattie da accumulo lisosomiale: nuove conoscenze patogenetiche e terapie innovative
accordo con precise Linee Guida, ha dimostrato una discreta efficacia in pazienti con mucopolisaccaridosi I e VI (Orchard et al., 2007),
alcuni casi di leucodistrofia di Krabbe (Escolar et al., 2005) e nelle
forme ad esordio tardivo di leucodistrofia metacromatica (Sevin et
al., 2007) sebbene non tutti i tessuti dell’organismo del ricevente
possano beneficiare di tale procedura.
L’incremento delle conoscenze sulla fisiopatologia del trafficking intracellulare di enzimi lisosomiali ha aperto la strada all’introduzione
della terapia enzimatica sostitutiva (Enzyme Replacement Therapy,
ERT) (Grabowski et al., 2003). Il razionale di questo approccio è basato
sul fatto che gli enzimi lisosomiali vengono indirizzati ai lisosomi, dove
devono esplicare la loro funzione, mediante un sistema di ligandi (il
mannosio 6-fosfato e il mannosio, esposti sulle catene oligosaccaridiche degli enzimi) e di recettori (i recettori del mannosio 6-fosfato e
del mannosio). Grazie a questo meccanismo ed al fatto che i recettori
sono presenti anche sulla membrana delle cellule (membrana plasmatica) è ipotizzabile che un enzima dato dall’esterno, per infusione
venosa, sia ricaptato dalle cellule e arrivi a destinazione nei lisosomi,
dove è in grado di correggere il difetto enzimatico.
La ERT fu sperimentata con successo per la malattia di Gaucher e
ora sono migliaia i pazienti affetti da questa malattia che sono stati
trattati con questo approccio (Pastores et al., 2004).
Sulla scorta dei successi ottenuti per la malattia di Gaucher, lo stesso approccio è stato esteso ad altre LSD. Ad oggi sono disponibili
ERT per la malattia di Fabry, per le mucopolisaccaridosi I, II e VI, per
la malattia di Pompe (Rohrbach e Clarke, 2007). Sono invece in corso di valutazione terapie basate sull’ERT per la malattia di NiemannPick tipo B, l’α-mannosidosi, la leucodistrofia metacromatica. In tutti
i casi il farmaco è un enzima ricombinante (l’enzima deficitario nelle
specifiche malattie) prodotto in laboratorio con tecniche di biologia
molecolare. Purtroppo anche questo tipo di approccio non risolve
pienamente tutti i problemi della cura delle LSD. Infatti, trattandosi di
macromolecole proteiche, gli enzimi ricombinanti non attraversano
la barriera emato-encefalica e quindi non sono efficaci nel curare le
manifestazioni neurologiche, spesso presenti in pazienti con LSD.
Tuttavia, l’armamentario terapeutico a disposizione dei medici impegnati nella cura dei pazienti con LSD si è ulteriormente arricchito
con l’introduzione di terapie basate su piccole molecole. Il razionale
per l’uso di questi farmaci può essere diverso.
In un caso i farmaci sono inibitori della sintesi del substrato accumulato. In questo modo la terapia mira a ridurre il carico di substrato
nelle cellule, ristabilendo un equilibrio tra la sintesi di quest’ultimo e
la degradazione. Questo approccio è definito appunto riduzione della
sintesi del substrato (Substrate Reduction Therapy, SRT) (Cox, 2005).
Esiste però ancora un’altra possibilità, quella basata sull’uso di farmaci chaperone in grado di produrre uno stimolo dell’attività enzimatica residua endogena (Enzyme Enhancement Therapy, EET)
(Fan, 2003).
Entrambi questi approcci sono ancora largamente sperimentali e
sono stati utilizzati prevalentemente in modelli cellulari e animali di
LSD. Per la SRT c’è però già una applicazione clinica, con discreti
risultati, con l’uso del miglustat nella malattia di Gaucher (Cox et al.,
2000). In questo caso l’uso del miglustat ha migliorato o stabilizzato
i parametri ematologici (anemia, conta piastrinica), biochimici (livelli
plasmatici di chitotriosidasi) e le dimensioni del fegato e della milza.
Effetti positivi sono stati anche osservati sul coinvolgimento scheletrico della malattia di Gaucher (Pastores et al., 2007). Nel campo
delle EET c’è stata un’unica applicazione in un singolo paziente con
variante cardiaca della malattia di Fabry, con effetti positivi sui parametri di funzionalità cardiaca (Frustaci et al., 2001). Possibili ulteriori applicazioni sono per le gangliosidosi GM1 e GM2 (Matsuda et al.,
2003) e per la malattia di Pompe. Quest’ultima malattia è il caso più
recente di segnalazione di un possibile impiego della EET. In questo
caso si è dimostrato che analoghi del substrato dell’α-glucosidasi,
l’enzima carente nella malattia di Pompe, sono in grado di migliorare
i livelli di enzima e di favorirne la stabilità ed il corretto trafficking
verso i lisosomi (Parenti et al., 2007).
Il vantaggio degli approcci basati sulle piccole molecole è legato alla
migliore biodisponibilità (queste molecole possono attraversare la
barriera emato-encefalica) ed al fatto che possono essere somministrate per via orale, evitando infusioni venose periodiche.
Che cosa ci riserva il futuro
Screening neonatali di massa
Gli studi sui modelli animali stanno dimostrando la possibilità di terapie per le LSD, efficaci almeno nel migliorare la qualità della vita.
Proprio sulla base di queste considerazioni si stanno impostando
programmi di screening neonatale per le LSD, al fine di identificare i neonati affetti precocemente, prima cioè dell’insorgenza di una
patologia grave e irreversibile, pur con la riserva ancora aperta circa la difficoltà di predire la gravità della malattia e prevedere gli
effetti sulla prognosi a distanza di una precoce terapia. In Australia
in particolare, nel gruppo diretto da John Hopwood, si stanno mettendo a punto strategie per lo screening neonatale di massa delle
LSD, basate su varie metodologie: quantificazione mediante saggi
immunologici delle proteine enzimatiche, che nella maggior parte
delle malattie risultano fortemente carenti; identificazione di livelli
aumentati o diminuiti di marcatori o combinazioni di marcatori e
dei loro reciproci rapporti (Meikle et al., 2006). Per una quindicina
di malattie potenzialmente trattabili e con un’incidenza complessiva in Australia di 1/10.000 neonati circa, risulterebbe tecnicamente
possibile attuare un programma di screening neonatale di massa
(Fletcher, 2006). Nei casi dubbi si potrebbe effettuare una conferma
diagnostica successiva, dosando in maniera quantitativa l’attività
enzimatica che appare deficiente sullo stesso cartoncino del test di
Guthrie, cioè senza bisogno di richiamare il paziente.
Terapia genica
Per molte malattie, comprese le LSD, la terapia genica viene considerata la terapia risolutiva e realmente alternativa rispetto ai trattamenti finora disponibili. Infatti l’obiettivo della terapia genica per le
LSD è quello di modificare geneticamente le stesse cellule del paziente, in vitro o in vivo, in maniera che siano in grado di esprimere
costitutivamente alti livelli dell’enzima normale e possano diventare
la sorgente dell’enzima nel paziente. Si rimanda per una più completa revisione della materia a riviste sintetiche indicate in bibliografia
(Beck, 2007; Biffi e Naldini, 2007; Ponder e Haskins, 2007; Hodges e
Cheng, 2006).
In questa sede si vuole soltanto sottolineare che sono stati sperimentati diversi metodi efficaci per il trasferimento di materiale
genetico nelle cellule deficienti in cultura e la conseguente ricostituzione dell’attività enzimatica carente. Tuttavia gli stessi metodi applicati nell’uomo o nei modelli animali non hanno sempre
fornito risultati consistenti, per motivi ancora in corso di studio. La
disponibilità di modelli animali che riproducono il fenotipo delle
LSD umane, associata all’uso di vettori virali sempre più efficienti
e senza rischio significativo di effetti collaterali, fa sperare che la
terapia genica somatica per questo gruppo di malattie così devastanti e complesse possa diventare il vero approccio terapeutico
di successo nel futuro.
15
G. Andria, G. Parenti
Ringraziamenti
In un articolo di revisione in cui si intrecciano, con i risultati scientifici, molti ricordi personali, è doveroso per gli Autori riconoscere vari
debiti di gratitudine.
Paolo Durand è stata senza dubbio la figura fondante di tutto il gruppo di italiani – pediatri (Gianni Coppa, Enrico Zammarchi), neurologi
(Stefano Di Donato, Antonio Federico), biochimici (Guido Tettamanti,
Bruno Berra) e genetisti (Giovanni Romeo) che hanno sviluppato la
ricerca sulle malattie lisosomiali d’accumulo a partire dagli anni ’70
– e a lui va un ricordo commosso per quanto ha saputo insegnare.
Rosanna Gatti e Carla Borrone e, successivamente, Mirella Filocamo
e Maja Di Rocco hanno strettamente collaborato e proseguito l’opera
di Durand. Nuovi centri si sono sviluppati grazie all’impegno di una
nuova generazione di pediatri, come Bruno Bembi, Maurizio Scarpa,
Rossella Parini, Alice Donati, Carlo Dionisi Vici, Marco Spada, Orazio
Gabrielli, particolarmente attivi oggi nel network nazionale sulle LSD.
Un ringraziamento particolare per gli insegnamenti e le collaborazioni sviluppatesi in lunghi anni, dobbiamo a ricercatori di alta qualificazione internazionale, come William S. Sly, Hans Galjaard, Arnold
Reuser e Alessandra D’Azzo.
Un grazie di cuore a Andrea Ballabio, Paola Di Natale, Pietro Strisciuglio, con i quali abbiamo condiviso e continuiamo a condividere,
qui a Napoli, non solo una proficua collaborazione scientifica, ma
soprattutto affetto e amicizia.
Infine esprimiamo una riconoscenza sincera all’opera intelligente
di tanti giovani, con cui per anni abbiamo lavorato fianco a fianco
nelle attività cliniche e di ricerca e i sentimenti della più profonda
gratitudine alle famiglie dei pazienti con malattie d’accumulo lisosomiale, che ci hanno dimostrato la loro fiducia, affidando i loro cari
alle nostre cure.
Box di orientamento
Che cosa si sapeva prima
• La prognosi delle LSD solo pochi anni fa era nella maggior parte dei casi grave, con un’aspettativa di sopravvivenza breve, oltre che con una qualità
di vita molto povera.
• Il medico che formulava una diagnosi di LSD poteva solo offrire alla famiglia e al paziente una terapia sintomatica, per attenuare le conseguenze
della malattia e offrire una consulenza genetica, con l’opzione di una diagnosi prenatale dopo la nascita di un primo membro affetto nella famiglia.
Che cosa sappiamo adesso
• Sono note le basi biochimiche e molecolari della quasi totalità delle LSD e questo consente una consulenza genetica più precisa.
• Sono disponibili approcci terapeutici che riescono ad aumentare i livelli dell’attività enzimatica geneticamente carente (trapianti di cellule staminali,
ERT, SRT, EET) con efficacia documentata anche sulla qualità della vita del paziente.
Quali ricadute per la pratica clinica
• Si aprono nuovi scenari per il futuro grazie allo sviluppo di terapie specifiche per un sempre maggior numero di condizioni, con gli approcci già oggi
sperimentati con successo.
• La terapia genica somatica rappresenta la vera speranza per una cura efficace, una volta che sarà possibile trasferire a trial clinici le “prove di principio” ottenute in laboratorio.
• È prevedibile che la disponibilità di terapie efficaci comporti l’allargamento degli screening neonatali di massa anche alle LSD, consentendo la diagnosi di individui asintomatici con storia familiare negativa e l’avvio precoce allo specifico trattamento.
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Corrispondenza
prof. Generoso Andria, Dipartimento di Pediatria, Università di Napoli “Federico II”, via S. Pansini 5, 80131 Napoli • E-mail: [email protected]
17
Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 18-26
La malattia celiaca: la ricerca oggi
e le prospettive future
Carmen Gianfrani* ***, Salvatore Auricchio** ***
Istituto di Scienze dell’Alimentazione, CNR, Avellino; ** Dipartimento di Pediatria,
Università “Federico II”, Napoli; *** Laboratorio Europeo per lo Studio delle Malattie
Indotte da Alimenti, Università “Federico II”, Napoli
*
Riassunto
Dal lontano 1950 anno in cui è stato individuato il glutine contenuto nel grano quale la causa scatenante
la malattia celiaca, la ricerca ha fatto passi da gigante nella delucidazione dei complessi meccanismi
cellulari e molecolari responsabili del danno della mucosa del piccolo intestino.
È stato dimostrato che i peptidi del glutine e delle prolamine correlate di altri cereali tossici per il celiaco,
resistenti alla digestione degli enzimi gastrointestinali, attivano le cellule del sistema immune intestinale appartenenti sia alla branca adattava che innata; sono state identificate le sequenze aminoacidiche di
molti peptidi tossici; il ruolo chiave svolto dall’enzima transglutaminasi tissutale, l’antigene verso cui il
celiaco produce autoanticorpi, nel rendere i peptidi del glutine stimolatori dei linfociti T intestinali; infine
del tutto recentemente, si è scoperto che il glutine è capace di esplicare un’azione lesiva sui tessuti
comportandosi come un microrganismo patogeno.
Nel presente articolo vengono illustrati i risultati salienti della ricerca scientifica di base sia mondiale
che del nostro gruppo napoletano; inoltre vengono discussi i possibili riflessi che queste ricerche sulla
patogenesi hanno sulla clinica e sulla terapia della celiachia.
Summary
Since the original description in the 1950 that wheat gluten is the agent that causes celiac disease, a
significantly improvement has been done in the knowledge of molecular and cellular mechanisms leading to the damage of small intestine.
It has been observed that: 1. gluten peptides, escaping the proteolysis of gastrointestinal enzymes,
reach the mucosal tissues and activate the cells of both the adaptive and innate immune systems; 2. the
amino acidic sequences of a large panel of gluten immunogenic peptides are known; 3. tissue transglutaminase is the autoantigen in celiac disease and is a key factor in the pathogenesis since it favours
the recognition of gluten peptides by CD4+ T lymphocytes; 4. gluten possess peculiar biological properties that lead to the damage of intestinal epithelial cells and mimic the effect of infectious agents.
In the present article, we review the most recent studies on the pathogenesis of celiac disease obtained
by both International and Neapolitan research groups. Furthermore we discuss how these basic research findings could improve the diagnosis and the clinical management of celiac disease.
Obiettivi e metodologia della ricerca bibliografica
effettuata
Questa review si propone l’obiettivo di rivedere gli studi recenti sui
meccanismi dell’azione lesiva delle gliadine sull’intestino del celiaco. Partendo da questi studi si tenterà di illustrare quali riflessi queste informazioni hanno sulle nostre conoscenze in clinica e terapia
della malattia celiaca e quali potrebbero essere alcuni degli sviluppi
della ricerca futura. Tutto ciò sulla base di:
• revisione della letteratura degli ultimi 5 anni, condotta tramite medline utilizzando come motore di ricerca PubMed e le
seguenti parole chiave: 1. celiac disease & cereal & T-cells; 2.
gluten & prolyl endopeptidase; 3. celiac disease & rotavirus; 4.
anti-tissue transglutaminase antibodies & celiac lesion; 5. celiac
disease & oat;
• personale esperienza di ricerca del gruppo napoletano che opera presso l’Università “Federico II” di Napoli, Dipartimento di Pe-
18
Salvatore Auricchio è nato a Napoli
il 26 Febbraio 1934. Professore fuori ruolo di Pediatria, Direttore della
Scuola di Specializzazione in Pediatria
e del Laboratorio Europeo per lo Studio delle Malattie indotte da Alimenti
dell’Università di Napoli “Federico II”.
È stato Presidente della European
Society for Pediatric Gastroenterology and Nutrition, che ha contribuito a
fondare. È accademico della Deutsche
Akademie der Naturforscher Leopoldina (Halle, Germania). Dottore in Medicina Honoris Causa dell’Università di
Tampere (Finlandia). Medaglia d’oro
ai Benemeriti della Scienza e della
Cultura.
Ha vinto il premio Internazionale Maria Vilma e Bianca Querci per Triennio
2003-2005 ed il Warren Price for
Coeliac Disease per l’anno 2008.
Autore di oltre 300 pubblicazioni
scientifiche in maggioranza su riviste
internazionali, soprattutto nel campo
dei difetti di disaccaridasi e della celiachia. Sposato, quattro figli ed otto
nipoti. Ama studiare e lavorare, leggere e giocare a tennis.
diatria e Laboratorio Europeo per lo Studio delle Malattie Indotte
da Alimenti e presso l’Istituto di Scienze dell’Alimentazione del
CNR di Avellino.
Per un aggiornamento invece sulla clinica, diagnosi e prevenzione
della malattia celiaca si rimanda alla lettura di una review recentemente pubblicata su questa rivista (Limongelli, Greco, Troncone.
Diagnosi e prevenzione della malattia celiaca. Prospettive in Pediatria 2006).
Glossario
Consensus QXP
Combinazione di aminoacidi richiesta per la deamidazione delle glutamine (Q) in acido glutammico (E) ad opera della transglutaminasi
tissutale di tipo 2 (tTG2).
La malattia celiaca: la ricerca oggi e le prospettive future
Binding motif di HLA-DQ2 e -DQ8
Insieme degli aminoacidi che preferenzialmente si trovano nelle posizioni di ancoraggio del peptide alla tasca dell’HLA. Il binding motif
del DQ2 prevede residui carichi negativamente in posizioni ancora
P4, P6 e P7, mentre il DQ8 preferisce residui carichi negativamente
nelle posizioni P1, P4 e P9.
EGF, EGFR e vescicole di endocitosi
EGF è il fattore di crescita epiteliale e l’EGFR il suo recettore specifico. Il legame dell’EGF all’EGFR ne induce la dimerizzazione e l’attivazione della parte tirosino-kinasica citoplasmatica, che poi attiva
varie vie di trasduzione del segnale a valle. Dopo il binding dell’EGF,
il complesso EGF-EGFR è reclutato in vescicole ricoperte da clatrina, internalizzato e trasportato negli early endosomi, per essere poi,
attraverso il multivesicular body, riciclato alla superficie cellulare
o trasportato ai lisosomi, dove è degradato ed inattivato: è questo
il principale meccanismo di attenuazione del signaling dell’EGF. Il
complesso ligando-recettore continua a segnalare all’interno delle
cellule prima della inattivazione nei lisosomi.
Epitopo T
Sequenza aminoacidica di un peptide antigenico riconosciuto dal
recettore di una cellula T (TCR).
Introduzione
Colpendo all’incirca 1 individuo su 100, la malattia celiaca è una
delle forme più comuni di intolleranza alimentare, con sintomatologia clinica molto variabile. La celiachia è la conseguenza di una
disturbata interazione tra uomo ed alimento; infatti l’ingestione del
glutine contenuto nel grano e delle prolamine di orzo e della segale,
scatena in soggetti geneticamente predisposti un’alterata risposta
immunitaria a livello del piccolo intestino, con infiammazione della
mucosa intestinale, atrofia dei villi ed iperplasia delle cripte e conseguenti disturbi nell’assorbimento dei nutrienti. La terapia consiste
in una dieta priva delle proteine non tollerate che, se da un lato
consente il ripristino della normale morfologia e funzionalità dell’intestino, dall’altro non garantisce il recupero della tolleranza a questi
cereali neppure dopo molti anni.
Recentemente si è cominciato a capire perché, tra tante proteine alimentari solo quelle alcool solubili (prolamine) di alcuni cereali sono
capaci di provocare, in soggetti geneticamente predisposti, quadri
morbosi così vari e complessi, come nella celiachia. La domanda
che la comunità scientifica da tempo si pone è quale sia la combinazione esistente tra struttura relativamente semplice di queste
proteine, ricche di due aminoacidi, glutamina e prolina, e la capacità
dell’organismo umano, in particolare dei prodotti di alcuni suoi geni,
di riconoscere proprietà peculiari di queste proteine, sì da fare della
celiachia un esempio unico in patologia umana.
Sia fattori genetici che ambientali sono coinvolti nello sviluppo della
celiachia: infatti si tratta di una malattia poligenica, nella quale non
è l’alterazione del singolo gene a provocare il quadro morboso, bensì
l’associazione di diversi polimorfismi genetici comuni che, agendo
insieme, provocano una peculiare risposta dell’organismo, in gran
parte su base immunologica, ad una proteina alimentare di ampio
consumo. È noto da tempo che i geni del complesso maggiore di
istocompatibilità (MHC o HLA) contribuiscono alla predisposizione
genetica per la celiachia, in quanto la quasi totalità dei pazienti risulta portatrice dei geni codificanti le molecole HLA DQ2 o DQ8. Altri
geni coinvolti nell’insorgenza della malattia sono localizzati in altre
parti del genoma umano (5q31-33; 19p13; 2q33; 4q27) anche se
non sono stati ancora identificati (Limongelli et al., 2006). Il fattore
ambientale più importante è il glutine (o le gliadine e le glutenine,
le principali proteine del glutine) e le altre prolamine dei cereali non
tollerati: non vi è malattia in assenza di queste. Un altro fattore ambientale è stato recentemente identificato nel rotavirus (Zanoni et al.,
2006). Nel siero di tutti i soggetti celiaci studiati sono stati individuati
anticorpi diretti verso la proteina VP-7 del rotavirus che cross-reagiscono con l’enzima transglutaminasi (tTG2), l’autoantigene verso
cui il celiaco produce anticorpi (noti anche come anticorpi anti-endomisio, EMA) la cui importanza ai fini diagnostici è ben nota. Un
importante studio prospettico americano eseguito su una coorte di
1.931 bambini ha evidenziato una stretta correlazione tra l’infezione
da rotavirus e l’insorgenza della celiachia in soggetti geneticamente
predisposti (Stene et al., 2006).
È noto da tempo che la malattia celiaca è una patologia immunomediata. Nell’intestino di alcuni soggetti geneticamente predisposti
albergano linfociti T CD4+ della branca adattativa della risposta immune che, in seguito al contatto con il glutine, reagiscono attivandosi e producendo citochine proinfiammatorie. Ora sappiamo molto
di più rispetto a dieci anni fa sui meccanismi del danno intestinale,
che consiste nell’infiammazione della mucosa e nel rimodellamento
dei tessuti, con scomparsa dei villi e ipertrofia delle cripte; le recenti
scoperte dell’enzima transglutaminasi quale antigene della risposta
autoanticorpale, del suo ruolo nel rendere i peptidi della gliadina
più immunogenici, fino alla recente scoperta del ruolo dei linfociti
T CD8+ citotossici e della branca innata dell’immunità, hanno profondamente modificato le conoscenze finora acquisite sulla tossicità
del glutine. Inoltre, le tecniche di biologia cellulare e molecolare, di
immunologia, di genomica e proteomica permettono oggi di studiare, a livello sempre più sofisticato, l’interazione di questa importante
proteina alimentare con il tessuto epiteliale ed il sistema immune
dell’intestino.
Ne emerge una nuova visione sugli alimenti, che non sono solo nutrienti, ma sono anche capaci di indurre risposte complesse da parte
dei tessuti, mimando talvolta l’azione di virus e batteri.
Idrolisi intraluminale del glutine: ruolo delle
endopeptidasi
Il glutine, a differenza di altre proteine alimentari, è molto resistente alla digestione da parte degli enzimi gastro-intestinali, proprio
per la sua ricchezza di prolina (Shan et al., 2000). Questa spiccata
resistenza alla digestione proteolitica fa si che la mucosa dei villi
venga a contatto con grossi peptidi del glutine, che dal punto di
vista immunitario, sono cruciali per l’attivazione della reazione infiammatoria.
Le prime evidenze della tossicità dei peptidi del glutine sono state ottenute proprio presso i laboratori del Dipartimento di Pediatria
di Napoli, utilizzando la tecnica della cultura d’organo di biopsie di
celiaci in fase acuta di malattia e a dieta con glutine. La A-gliadina, una delle alfa-gliadine del glutine, veniva digerita con bromuro di cianogeno in 3 grossi polipeptidi (1-127, 128-246, 247-266).
Di questi solo i frammenti N-terminale e centrale conservavano le
proprietà tossiche dell’intera proteina sulla mucosa dopo 48 ore di
cultura (De Ritis et al., 1988). Inoltre, dall’idrolisi enzimatica con chimotripsina del frammento N-terminale 1-127 si ottenevano diversi
corti peptidi; tra questi solo il peptide 31-55 danneggiava le cellule
epiteliali quando messo a contatto con la mucosa celiaca (De Ritis et
al., 1988), mentre il 56-68 non aveva alcun effetto sulla morfologia
19
C. Gianfrani, S. Auricchio
della mucosa intestinale. Studi successivi sulla mucosa del celiaco
in remissione hanno dimostrato che il 31-55 o parti di questo, quali
il 31-43, erano in grado di danneggiare gli enterociti e di indurre
l’espressione del DR nelle cripte e del CD25 nelle cellule mononucleate della lamina propria (Maiuri et al., 1995).
Un importante studio di un gruppo di ricercatori della Stanford
University ha dimostrato che dopo prolungata digestione della Agliadina con enzimi gastrointestinali, tra cui pepsina, tripsina, ed
endopeptidasi del brush border, si ottiene un grosso frammento
peptidico di 33 aminoacidi (33-mer) mappante la regione 57-89
dell’estremità N-terminale della proteina (Shan et al., 2002). Questo
peptide o parti di esso, ad esempio il 56-68, sono stati dimostrati
indurre una forte risposta immunitaria da parte delle cellule T CD4+
nella maggioranza dei pazienti celiaci DQ2 positivi, come descritto
ampiamente di seguito. La spiccata resistenza delle gliadine alla digestione proteolitica è stata confermata anche successivamente su
gliadine ricombinanti (Mamone et al., 2007). È interessante che in
questo studio oltre al 33-mer viene ritrovato non degradato anche il
peptide tossico 31-55. Peptidi resistenti alla digestione proteolitica,
che includeva la chimotripsina e le peptidasi del brush border, sono
stati recentemente osservati anche nelle γ-gliadine. In particolare, è
stato identificato un frammento di 26 aminocidi (26-mer) che analogamente al 33-mer, è idrolisi resistente e contiene diversi epitopi
(peptide multiepitopico) in grado di stimolare una risposta CD4+ Tmediata nei pazienti celiaci (Shan et al., 2005). Inoltre, con l’ausilio
dell’analisi computazionale (bioinformatica e disponibilità di banche
dati di sequenze peptidiche), sono state identificati più di 60 peptidi
diversi sia del glutine che delle prolamine dell’orzo e della segale
(entrambe non tollerate dai celiaci) con caratteristiche strutturali simili ai peptidi 33-mer e 26-mer, confermando in tal modo la tossicità
delle proteine esaminate anche su base teorica. Inoltre, a conferma
di questa analisi predittiva, i ricercatori hanno messo a punto proteine mutanti delle α-gliadine mancanti del 33-mer con l’ausilio di
tecniche di ingegneria genetica. I mutanti venivano completamente digeriti e perdevano la capacità di stimolare linee linfocitarie da
intestino celiaco. Se ne deduce che questo approccio può essere
utilizzato per l’identificazione di proteine di cereali mancanti delle
regioni resistenti all’idrolisi e quindi potenzialmente tollerate dai celiaci. L’analisi computazionale ha evidenziato che alcune avenine (la
tossicità dell’avena per i pazienti celiaci è ancora oggetto di discussione) non possedevano sequenze omologhe al 33-mer e 26-mer e
venivano completamente digerite dagli enzimi proteolitici (Shan et
al., 2005). Questi risultati apportano nuovi elementi a favore della
non tossicità dell’avena per i pazienti celiaci.
Riflessi sulla clinica
La scoperta della peculiare resistenza del glutine alla digestione enzimatica ha aperto la strada alla ricerca di strategie terapeutiche
miranti a diminuire il carico antigenico di glutine e basate sull’utilizzo di enzimi proteolitici o di microrganismi che li producono, o di
macromolecole capaci sequestrare i peptidi del glutine non digeriti
a livello intestinale.
Di Cagno et al. hanno dimostrato che, attraverso la lievitazione di farine
di grano con criscito a base di lattobacilli ricchi di proteasi, si otteneva
la completa pre-digestione dei peptidi del glutine ricchi di prolina. Inoltre, i pazienti celiaci alimentati con pani lievitati con il criscito a base di
lattobacilli non presentavano alterazioni della permeabilità intestinale
(Di Cagno et al., 2004). La degradazione dei peptidi tossici è stata successivamente confermata dall’assenza di reattività immunologica di
linee T intestinali ottenute da intestino celiaco e stimolate con estratti
proteici ottenute dai pani pre-digeriti (Rizzello et al., 2007).
20
Altri studi hanno invece dimostrato che è possibile digerire i peptidi
lesivi per il celiaco mediante pre-trattamento del glutine o di alimenti finiti contenenti glutine con prolyl-endopeptidasi (PEP) di origine
batterica (Pyle et al., 2005; Hausch et al., 2002); oppure direttamente a livello gastrico mediante somministrazione di capsule lipoproteiche contenenti prolyl-endopeptidasi di origine batterica o vegetale (Marti et al., 2005). Una delle limitazioni di questa terapia orale
risiede sulla suscettibilità delle PEP alla degradazione ad opera della
pepsina e del pH acido dello stomaco. Per aggirare questo ostacolo,
è stata identificata una PEP fungina resistente a pH acido estratta
dall’Aspergillus niger (Stepniak et al., 2006). Un recentissimo studio
su un modello in vitro del tratto gastrointestinale ha evidenziato che
la somministrazione orale delle PEP fungine, unitamente a prodotti
da forno a base di farina di grano, induceva la totale degradazione
dei peptidi del glutine già a livello gastrico (Mitea et al., 2007), suggerendo la notevole potenzialità della terapia orale con proteasi per
la malattia celiaca.
Un’altra possibile strategia per la riduzione del carico antigenico del
glutine viene da uno studio in vitro nel quale si dimostra che oligomeri del mannosio o di N-acetilglucosamina impediscono il danno
della mucosa intestinale del celiaco coltivata in vitro che si verifica
in seguito al contatto con i peptidi della gliadina. Quest’azione protettiva viene spiegata probabilmente dalla peculiare proprietà degli
oligomeri di legare, mascherandoli, i peptidi del glutine (Auricchio
et al., 1990).
Risposta T adattativa CD4-mediata
Nel precedente paragrafo abbiamo visto che la gliadina contiene
molti peptidi in grado di stimolare i linfociti T infiltranti la mucosa
intestinale del celiaco. L’individuazione dei peptidi immunogenici è
stata a lungo ostacolata dalla complessità strutturale del glutine (più
di 40 proteine diverse anche se con elevata omologia di sequenza), e
solo la disponibilità di sofisticati e costosi spettrometri di massa e la
possibilità di clonare i linfociti isolati da biopsie intestinali di celiaci
ha permesso la loro identificazione negli ultimi 10 anni (Lundin et
al., 1993; Troncone et al., 1998; van de Wal et al., 1998). Peptidi in
grado di attivare i linfociti T CD4+ dell’intestino di celiaci sono stati
identificati sia nelle α-gliadine, che nelle γ-gliadine e recentemente anche nelle ω-gliadine (Camarca et al. risultati non pubblicati)
e nelle glutenine. La grande maggioranza di questi peptidi sono
presentati dalle molecole HLA-DQ2 e sono quindi attivi in pazienti
celiaci DQ2 positivi (Lundin et al., 1993; Arenz-Hansen et al., 2002).
Solo due peptidi sono stati descritti essere riconosciuti da pazienti
DQ8 positivi e negativi per il DQ2 (Van De Wal et al., 1998; Vader
et al., 2002) e, a tutt’oggi, non sono noti peptidi presentati da altre
molecole dell’MHC: ciò spiega la stretta associazione genetica della
malattia celiaca con l’HLA-DQ2 e -DQ8. Ciononostante, dall’analisi
comparativa del binding motif delle molecole DQ2 e DQ8, che prevede peptidi carichi negativamente, e della struttura primaria delle
proteine del glutine, molto povere di peptidi acidi, risultava inspiegabile tale associazione; e questo fino alla scoperta del ruolo della
tTG2 nella patogenesi della malattia celiaca. Questo enzima, molto
diffuso ed attivo nella mucosa intestinale infiammata del celiaco,
in condizioni di pH leggermente acido, può deamidare la glutamina
in acido glutammico, carico negativamente. L’attività di deamidasi
della tTG2 è altamente sito-specifica, in quanto vengono deamidate
prevalentemente le glutamine (Q) in prossimità di una prolina (P), ed
in particolare nella sequenza QXP, dove X è un aminoacido diverso
da Q e P. L’introduzione di cariche negative in specifiche posizioni
della proteina aumenta l’affinità di legame dei peptidi modificati con
La malattia celiaca: la ricerca oggi e le prospettive future
le molecole HLA-DQ2/DQ8. Test in vitro hanno dimostrato che i peptidi del glutine deamidati hanno elevata affinità di legame all’HLA e
capacità di stimolatore i linfociti T circa 10 volte superiore ai peptidi
non modificati. Tra i diversi peptidi della gliadina, che soddisfano le
suddette condizioni, il 33-mer dell’estremità N-terminale dell’A-gliadina è riconosciuto dalle cellule T della maggior parte dei pazienti
celiaci studiati e pertanto è stato definito immunodominante. Inoltre,
contenendo ben 6 copie di 3 epitopi diversi stimola potentemente i
linfociti T a proliferare e a produrre γ-interferone (Shan et al., 2002).
Recenti studi, alcuni anche nostri, hanno dimostrato che i peptidi
immunostimolanti dell’α-gliadina DQ2-ristretti risiedono tutti nelle
regione N-terminale e sono porzioni più corte del 33-mer. Maggiore
variabilità è stata riscontrata nella sequenza aminoacidica dei peptidi delle γ-gliadine ed attivi in un elevato numero di pazienti analizzati (Shan et al., 2005; Mamone et al., risultati non pubblicati; Camarca
et al. risultati non pubblicati). Studi bioinformatici e di analisi di sequenze in banche dati hanno dimostrato che solo poche prolamine
contengono sequenze capaci di soddisfare sia i motivi strutturali
specifici per la deamidazione ad opera della tTG che quelli di binding
all’HLA, e sono quindi potenzialmente tossiche per i celiaci.
Un effetto dose della molecole HLA-DQ2 è stato evidenziato da studi
sia genetici che funzionali. Individui HLA-DQ2 omozigoti avrebbero
un rischio di sviluppare la malattia celiaca circa 5 volte superiore
rispetto a quello degli eterozigoti (Limongelli et al., 2006). In saggi
funzionali, le linee T intestinali rispondono più vigorosamente quando i peptidi della gliadina vengono presentati da cellule presentanti
l’antigene DQ2 omozigote (ad esempio DR3/3 positive) rispetto alle
APC DQ2 eterozigote (ad esempio DR3/X, DR5/7) (Vader et al., 2003),
probabilmente perché le prime esprimono più molecole DQ2 sulla
superficie cellulare. Ne deriva un importante ed innovativo concetto:
per ammalare di celiachia occorre che si verifichi una stimolazione
antigenica molto elevata in soggetti DQ2 e DQ8 positivi, che può
realizzarsi o per elevato carico di glutine o per una presentazione
molto efficiente dei peptidi immunologicamente attivi. Vi è cioè una
quantità soglia dello stimolo antigenico al di sotto della quale il rischio di ammalarsi, o di avere lesioni intestinali e manifestazioni
cliniche severe, è basso anche in soggetti predisposti.
• la conoscenza della sequenza QXP necessaria per la deamidazione dei peptidi da parte della tTG2 e dei binding motif al DQ2
e DQ8 apre la strada alla possibilità di trovare (o creare) grani, le
cui gliadine non siano (o lo siano poco) riconosciute da cellule T
del celiaco, e quindi utilizzabili per produrre pane e pasta da destinarsi agli individui intolleranti, o per prevenire la malattia nei
soggetti a rischio. Se l’utilizzo di questi grani meno tossici dovesse risultare efficace, sia come prodotto dietoterapeutico che
nel diminuire l’incidenza della celiachia nei soggetti a rischio,
si potrebbe pensare ad una loro coltivazione su larga scala per
l’alimentazione umana;
• l’avena, appartenente alla sottofamiglia delle Aveneae, filogeneticamente lontana dalle Triticeae (grano), contiene poche sequenze potenzialmente tossiche e viene infatti tollerata da molti
pazienti come dimostrato in alcuni studi sia su bambini che
adulti (Janatuinen et al., 1995; Srinivasan et al., 1996). Sono tuttavia necessari ulteriori studi sia in vitro che in vivo per stabilire
la totale assenza di tossicità dell’avena per il celiaco;
• è possibile detossificate i peptidi della gliadina immunostimolanti (ad esempio il 56-68) transamidando le glutamine con lisina e lisina metilata ad opera della tTG. I peptidi della gliadina
transamidati perdono la capacità di stimolare i linfociti T CD4+
specifici ottenuti da intestino celiaco. Trattando poi direttamente
le farine con una TG estratta da batteri (mTG) e lisina metilata
si ottiene una gliadina priva della capacità di stimolare la risposta T adattativa specifica (Gianfrani et al., 2007). Anche se studi
precedenti avevano evidenziato il ruolo protettivo delle amine
sul danno della mucosa del celiaco indotto dai peptidi del glutine
(Auricchio et al., 1990), resta da chiarire se la transamidazione
della gliadina con metil-lisina abbia effetto anche sulle altre proprietà lesive dei peptidi del glutine sull’intestino del celiaco, in
particolare sull’attivazione dell’immunità innata (vedere appres-
Riflessi sulla clinica
Molte sono le implicazioni cliniche, soprattutto ai fini terapeutici,
dell’identificazione del repertorio completo dei peptidi del glutine in
grado di stimolare una risposta T adattativa e del ruolo delle molecole HLA. Ne elenchiamo di seguito alcune:
• solo i soggetti DQ2 o DQ8 positivi si ammalano di celiachia (Limongelli et al., 2006);
• un’importante conseguenza del concetto di soglia risiede nella
eventuale possibilità di prevenire la malattia celiaca in soggetti a
rischio riducendo il carico antigenico. Attualmente la dieta priva di
glutine resta, invece, l’unica efficace nella terapia della celiachia;
• sulla base di un analisi approfondita del genotipo DR e DQ, è
oggi possibile, calcolare il rischio di ammalare dei parenti di primo grado del celiaco. Per i neonati ad alto rischio (superiore al
20%) è partito ora uno studio prospettico e collaborativo europeo nel quale, per la prima volta, si tenta una prevenzione della
malattia, introducendo quantità molto piccole di glutine al 4° e
5° mese di vita insieme al latte materno (studio europeo PreventCD; Limongelli et al., 2006). Studi precedenti, avevano infatti
suggerito che l’allattamento al seno ritarda l’insorgenza della
malattia (Auricchio et al., 1983; Ivarsson et al., 2002; Akobeng
et al., 2006);
Figura 1.
Risposta T CD4+ adattativa alla gliadina nella mucosa intestinale del
celiaco.
I peptidi della gliadina dopo aver attraversato la barriera epiteliale sono
deamidati dalla transglutaminasi tissutale (TG2) e processati dalle APC
della lamina propria. Il complesso HLA-D2/DQ8- peptidi della gliadina
sulla superficie delle APC interagisce con il TCR delle cellule T CD4+ di
memoria della lamina propria, le quali rilasciano interferone-γ.
21
C. Gianfrani, S. Auricchio
so), prima che il trattamento delle farine con mTG possa essere
utilizzato per la preparazione di farine di grano non tossiche per
il celiaco;
• è in corso di sperimentazione un vaccino basato sulla somministrazione sottocutanea di un peptide multiplo (combo-peptide)
costituito da il peptide 57-73 (un frammento del 33-mer) dell’Agliadina e da un peptide omologo dell’ω-gliadina (Anderson et
al., risultati non pubblicati).
Cellule T regolatorie
In condizioni normali, il sistema immune tollera gli antigeni alimentari. I meccanismi alla base della tolleranza orale agli alimenti sono
complessi e coinvolgono anche l’attività di cellule T regolatorie ad
attività soppressoria. Nella mucosa intestinale del celiaco sono
presenti cellule T CD4+ regolatorie del tipo Tr1, che secernono in
risposta alla gliadina IFN-γ, IL-10, TGF-β (no IL-4 e poca IL-2) e sopprimono la proliferazione di cloni T effettori (Gianfrani et al., 2006).
Non vi è evidenza di tali cellule nell’intestino normale.
Un’altra importante popolazione di cellule T regolatorie sono le
CD4+CD25+Foxp3+, per le quali è stato dimostrato un ruolo centrale sia nell’autoimmunità che nelle patologie infiammatorie intestinali. Il numero delle cellule CD4+Foxp3+ è aumentato nella mucosa
intestinale del celiaco, sia atrofica che in remissione (Mazzarella et
al. risultati non pubblicati). Inoltre la densità di tali cellule aumenta
notevolmente in seguito al challenge in vitro con gliadina della mucosa intestinale del celiaco in remissione. Nell’intestino del celiaco
sembrerebbe, perciò, non esserci un difetto primario di regolazione,
e le cellule T regolatorie, sia Tr1 che CD4+CD25+Foxp3+, vengono
reclutate o si differenziano in loco, per controbilanciare la forte reazione immunitaria scatenata dalla gliadina.
di 10 aminoacidi (A-gliadina 123-132) capace di legarsi alla molecola HLA di Classe I A2 e in grado di attivare linfociti T CD8+
citotossici ottenuti da sangue periferico e da intestino di celiaci
e di indurre, da parte di questi, la produzione di IFN-γ e la lisi di
cellule bersaglio (Gianfrani et al., 2003). Questo peptide citotossico
elicita in cultura d’organo di mucosa celiaca una forte reazione
immunitaria sia a livello della lamina propria, con aumento delle
cellule che esprimono marcatori di attivazione (CD25 e CD80), e di
apoptosi (FASL), che a livello epiteliale, dove si osserva aumento
dell’espressione del FAS e dell’apoptosi. Infine, le linee T CD8+
generate dalla mucosa intestinale celiaca rilasciano Granzyme-B
ed inducono l’apoptosi di cellule epiteliali Caco2 (A2+) quando stimolate con il peptide citotossico (Mazzarella et al., 2008).
Riflessi sulla clinica
I tentativi di realizzare un modello animale di enteropatia sono sinora falliti. È probabile che, per rompere la tolleranza al glutine e
creare un modello animale di celiachia, occorra attivare in modo
sinergico sia la risposta adattativa mediata dai linfociti CD4+ che
dai CD8+ citotossici, nonché la risposta innata, come vedremo di
seguito. I topi doppi transgenici HLA-DQ2 (o DQ8) e HLA-A2 forniscono un ottimo background genetico su cui effettuare tali studi,
in quanto è possibile attivare una risposta adattativa verso i peptidi
della gliadina che sono noti essere ristretti dall’HLA DQ2 (DQ8) e
dall’HLA-A2.
Riflessi sulla clinica
Le cellule T regolatorie sono potenziali candidati per nuove terapie immunomodulanti della celiachia. La loro scoperta nell’intestino celiaco apre, infatti, nuovi scenari per la terapia farmacologica
dell’intolleranza al glutine. Va studiata la possibilità di espandere e
potenziare in vitro e in vivo l’attività delle cellule Tr1, per esempio
attraverso somministrazione di IL-10 esogena. Un modo efficace per
somministrare l’IL-10 a livello intestinale potrebbe essere l’utilizzo
di un lattobacillo (lactococcus lactis) transfettato con il gene dell’IL10 umana. Tale lattobacillo è stato somministrato in trials clinici in
soggetti con malattia di Crohn’s, con risultati molto incoraggianti sia
per la remissione delle lesioni intestinali che per la totale assenza di
effetti collaterali (Braat et al., 2006).
Risposta T adattativa CD8-mediata
La stretta e ben documentata associazione della malattia celiaca
con le molecole HLA di Classe II, che presentano gli antigeni alle
cellule T CD4+, ha sempre fatto pensare che tali cellule fossero
le uniche della branca immune adattativa ad avere un ruolo nella
lesione celiaca. Occorre dire che una delle caratteristiche istologiche della mucosa intestinale del celiaco è la notevole infiltrazione
di cellule T CD8+, sia nell’epitelio che nella lamina propria in tutti i
diversi stadi della lesione. Alcuni anni fa, ci siamo chiesti se ci fosse qualche peptide della gliadina in grado di attivare direttamente
queste cellule e quindi di legarsi alle molecole HLA di Classe I,
che come è noto restringono la risposta immune CD8-mediata.
Abbiamo dimostrato che la A-gliadina contiene un corto peptide
22
Figura 2.
Risposta T adattativa alla gliadina nella mucosa intestinale del celiaco:
cellule T CD8+ e cellule Tr1 regolatorie.
La gliadina contiene corti peptidi in grado di attivare le cellule T CD8+
citotossiche della lamina propria. Il peptide della A-gliadina 123-132
viene processato dalle cellule epiteliali e presentato nel contesto delle
molecole HLA di Classe-I (A2) ai linfociti T CD8+. In seguito al riconoscimento di questo peptide le cellule T CD8+ inducono l’apoptosi degli
enterociti.
Nella mucosa intestinale di celiaci ci sono anche linfociti T regolatori
(Tr1) che, in seguito al contatto con la gliadina, producono IL-10 e TGFß ed inibiscono l’attivazione delle cellule T effettrici.
La malattia celiaca: la ricerca oggi e le prospettive future
Autoanticorpi
Gli anticorpi anti-tTG2 IgA, anche noti come anticorpi anti-endomisio (EMA), hanno un importante valore diagnostico nella malattia
celiaca (per un approfondimento vedere la review Limongelli et
al., 2006). Depositi di anticorpi IgA anti-tTG2 sono presenti nella
mucosa di soggetti a rischio genetico di celiachia ma con sierologia negativa. I depositi mucosali di questi autoanticorpi potrebbero
essere il segno istologico di una forma latente di celiachia e quindi
predittivi di un probabile sviluppo verso la celiachia conclamata
(Salmi et al., 2006). Rimane ancora da chiarire il ruolo giocato
da questi anticorpi nel causare il danno della mucosa celiaca. Le
IgA purificate dal siero di celiaci inibiscono la differenziazione di
cellule epiteliali T84 quando queste cellule vengono fatte crescere
su uno strato di fibroblasti IMR-90 o in presenza di TGFβ; simile
effetto si otteneva con un anticorpo monoclonale diretto verso la
tTG2. Rappresentando le colture T84-IMR90 un modello in vitro
dell’asse cripto-villo, questo studio suggerisce che gli anticorpi
anti-tTG2 interferiscono sul normale cross-talk tra cellule epiteliali
e fibroblasti nell’intestino (Halttunen et al., 1999). Del tutto recentemente è stato dimostrata la capacità di questi autoanticorpi di
causare il riarrangiamento della actina in linee di cellule epiteliali
e di indurre la proliferazione di enterociti in biopsie di intestino
celiaco coltivate in vitro, documentandosi così un loro ruolo diretto
nel rimodellamento della mucosa intestinale del celiaco (Barone
et al., 2007b).
Risposta innata
È oramai chiaro che la celiachia non è solo una malattia dell’immunità adattativa e dell’autoimmunità, ma anche dell’immunità
innata. Ci sono infatti peptidi della gliadina, per esempio il 31-43,
che danneggiano la mucosa del celiaco ma non sono riconosciuti da cellule T. Questi peptidi sono capaci di agire sulla mucosa
del celiaco come danger signal, analogamente a quanto si verifica nei tessuti in risposta ad agenti infettivi. Già agli inizi degli
anni ’80 era stato osservato, infatti, che la gliadina è in grado di
provocare alterazioni morfologiche di linee cellulari tumorali, di
tessuti in sviluppo e della mucosa intestinale del celiaco. In particolare, il digesto peptico-triptico di gliadina (PT-gliadina) provoca
l’agglutinazione delle cellule di mieloma K562 (Auricchio et al.,
1984), ed inibisce la normale differenziazione delle cellule epiteliali dell’intestino fetale di ratto, fenomeni che non si verificano
con le prolamine estratte dai cereali non tossici, quali mais e riso
(Auricchio et al., 1982). Inoltre, come riportato precedentemente,
profonde alterazioni strutturali e segni di risposta immune sono
riscontrati anche nella mucosa atrofica del celiaco incubata in
vitro con i peptidi della A-gliadina (De Ritis et al., 1988) e nella
mucosa in remissione coltivata con il 31-43 (Maiuri et al., 1995).
Queste prime osservazioni hanno trovato conferma in studi successivi in vivo: danni della mucosa del piccolo intestino di celiaci
in remissione venivano osservati dopo somministrazione per via
orale del peptide 31-43 (Marsh et al., 1995) e del 31-49 (Sturgess et al., 1994). Solo negli ultimi 3 anni, grazie ad approfondite
analisi immunoistochimiche eseguite sia sulla mucosa del celiaco
atrofico che in remissione, dopo challenge in vitro con peptidi
della gliadina, si è andato via via definendo l’importante ruolo
dell’immunità innata nella celiachia. In seguito alla stimolazione
con il 31-43 si ha la rapida attivazione di molti marcatori della immunità innata, tra cui la ciclossigenasi COX2, il CD83 (marcatore
di maturazione delle cellule dendritiche) e il CD25, nonché l’atti-
vazione della P38 MAP chinasi e l’apoptosi delle cellule epiteliali
(Maiuri et al., 2003). Inoltre, è stato osservato che il mediatore
chiave di questa rapida risposta immune è l’IL-15, un fattore di
crescita cruciale per i linfociti sia della branca innata che adattativa. Prodotta dall’enterocita del celiaco in seguito al contatto
con il peptide 31-43, l’IL-15 induce l’espressione autocrina del
MICA e dell’HLA-E sugli enterociti, e del NKG2D/CD94 sui linfociti
CD8+ citotossici intraepiteliali. L’interazione tra il MICA e l’NKG2D
e tra HLA-E e il CD94 trasforma i linfociti T CD8+ intraepiteliali in
natural killer, con conseguente rapida lisi delle cellule epiteliali.
È importante sottolineare che questi fenomeni sono indipendenti
dall’attivazione del TCR e non ristretti da molecole HLA (Hue et al.,
2004; Meresse et al., 2004).
Riflessi sulla clinica
La recente dimostrazione che la gliadina attiva sia una risposta immune adattativa che innata suggerisce fortemente l’ipotesi che la
celiachia conclamata si sviluppi solo se si verificano ambedue i processi (Jabri e Sollid, 2006) e che vi possano essere intolleranze al
glutine “parziali” che vedono coinvolte solo una delle due branche e
con espressione clinica diversa dalla celiachia classica. D’altra parte
gli studi sulla utilizzabilità dei cereali nella dieta del celiaco debbono
considerare non solo la presenza dei peptidi immunogeni ma anche
quella dei peptidi tossici.
Si apre pertanto un nuovo ed interessante scenario della clinica dell’intolleranza al glutine:
• intolleranza al glutine completa (= celiachia) se sono coinvolti
entrambi i pathway dell’immunità adattativa ed innata;
• intolleranza al glutine che coinvolge solo il ramo dell’immunità innata e che si manifesta anche in soggetti DQ2 e DQ8 negativi;
• utilizzo nella dieta del celiaco (o nella prevenzione della malattia)
di grani e cereali non (o poco) tossici (privi o poveri sia dei peptidi immunogenici adattativi che innati).
Quali le basi molecolari dell’attivazione
dell’immunità innata
Non è noto quali siano le basi molecolari del danno da 31-43 dell’enterocita del celiaco e della iperproduzione di IL-15, che sembra
essere un punto centrale nella risposta precoce al glutine dell’intestino del celiaco.
Proprio studiando questo problema ci siamo imbattuti in una nuova
proprietà di alcuni peptidi della gliadina ed in particolare del 31-43
(Barone et al., 2007a): questo peptide è un fattore di crescita per
varie linee cellulari e per l’enterocita del celiaco, con una azione
EGF simile, in quanto attiva i recettori a tirosina-chinasi, e tra questi, in primo luogo, il recettore per l’EGF. Il peptide infatti ritarda
la inattivazione intracellulare dello EGFR, interferendo con la sua
endocitosi.
L’EGFR attivato induce vari effetti metabolici e soprattutto aumento
della proliferazione degli enterociti con rimodellamento della mucosa intestinale: la persistente proliferazione cellulare indurrebbe la
ipertrofia delle cripte ed inibirebbe la maturazione e la differenziazione degli enterociti, con perdita della normale struttura dei villi.
Inoltre il 31-43 e la conseguente attivazione dello EGFR porta ad
aumento di IL-15.
Resta da spiegare la maggiore suscettibilità del celiaco a queste
attività biologiche di alcuni peptidi della gliadina, in particolare del
peptide 31-43. La nostra ipotesi di lavoro è che nel celiaco esista un
23
C. Gianfrani, S. Auricchio
Figura 3.
Ruolo della risposta innata nel danno della mucosa intestinale del celiaco.
La gliadina attraverso il 31-43 (o 31-49) attiva le cellule dell’immunità innata, sia a livello dell’epitelio che della lamina propria. In seguito al contatto con il 31-43, gli enterociti producono IL-15 ed esprimono il MICA e HLA-E sulla superficie cellulare; allo stesso tempo, i linfociti intraepiteliali
(IEL) esprimono il CD94 e l’NKG2D. In seguito all’interazione tra NKG2D-MICA e CD94-HLA-E, i IEL si attivano e provocano la lisi delle cellule
epiteliali bersaglio. Il 31-43 attiva le cellule dendritiche della lamina propria e ne induce la maturazione (espressione del CD83 e Cox2); inoltre, si
comporta come fattore di crescita delle cellule epiteliali (EGF like), in quanto attiva il recettore dell’EGF (EGFR) e ritarda il trafficking delle vescicole
di endocitosi.
difetto di base, non ancora identificato, della endocitosi (o di qualche
altra correlata via metabolica), che rende le cellule del celiaco più
sensibile all’azione del 31-43.
E per concludere, tre considerazioni di ordine generale.
• Oggi si incomincia a capire perché, di tante proteine alimentari,
solo le prolamine di alcuni cereali sono capaci di provocare la
celiachia in soggetti geneticamente predisposti. Come abbiamo
visto infatti le prolamine pur essendo di struttura aminoacidica relativamente semplice, fatta in gran parte da glutamina e
prolina contengono peptidi diversi che danneggiano l’intestino
del soggetto geneticamente predisposto con meccanismi molteplici, mimando talvolta l’azione di batteri e virus. Restano da
individuare i polimorfismi genetici in causa e da validare i vari
meccanismi di danno.
• Da un punto di vista più generale, è particolarmente interessante
che una proteina alimentare di ampio consumo, come il glutine,
sia capace di interagire attraverso i suoi peptidi (per esempio
31-43) con il metabolismo intestinale (Bernardo et al., 2007)
24
andando ad interferire con una via metabolica molto importante, quale quella della endocitosi, che regola molteplici, funzioni
cellulari e la proliferazione stessa delle cellule. Gli alimenti non
sono solo nutrienti: possono indurre anche risposte complesse
da parte dei tessuti.
• Negli anni ’60, quando prima in Europa e poi in America, si
sviluppò la gastroenterologia pediatrica, l’enterocita veniva
studiato come unità digestiva-assorbitiva dei nutrienti e le intolleranze alimentari su base genetica che venivano individuate erano dovute a difetti congeniti o acquisiti di questa funzione
(basti pensare ai difetti di disaccaridasi, di enterochinasi e ai
difetti del trasporto di monosaccaridi ed aminoacidi). Le ricerche odierne sulla celiachia dimostrano che la cellula epiteliale
intestinale viene studiata anche come sensore del contenuto
intestinale, come cellula immunocompetente, e come un insieme di sistemi molto complessi di regolazione, che le tecniche
di biologia cellulare e molecolare di immunologia, di genomica
e proteomica permettono oggi di indagare a livello sempre più
sofisticato.
La malattia celiaca: la ricerca oggi e le prospettive future
Box di orientamento
Cosa sapevamo negli anni ’70
La celiachia è un’intolleranza permanente al glutine del grano e alle analoghe prolamine dell’orzo e della segale. Queste proteine provocano nel celiaco
un’enteropatia, caratterizzata da infiammazione della mucosa intestinale, atrofia dei villi ed iperplasia delle cripte e conseguenti disturbi nell’assorbimento di nutrienti.
Cosa sappiamo oggi
Conosciamo il repertorio dei peptidi del glutine in grado di stimolare una risposta T CD4+ adattativa ed il ruolo giocato, in questo processo, dalle molecole HLA. Ne è derivata la possibilità di calcolare il rischio di ammalare nei soggetti predisposti. Sappiamo: che fanno parte della risposta T adattativa
al glutine del celiaco anche cellule T CD4+ regolatorie e cellule T CD8 citotossiche; che la malattia celiaca è una malattia autoimmune, diagnosticabile
per l’aumento nel siero degli anticorpi anti-tTG2; sappiamo che la celiachia è anche una malattia dell’immunità innata e che peptidi delle gliadine,
non riconosciuti da cellule T, mimano alcuni effetti, sui tessuti, di batteri e di virus. Sappiamo che è possibile digerire con enzimi proteolitici batterici o
vegetali i peptidi lesivi per il celiaco.
Cosa ci aspettiamo
Che in un prossimo futuro sia possibile concedere un pasto con glutine ad un celiaco senza danneggiarlo, digerendo con enzimi proteolitici gli epitopi
tossici; prevenire la celiachia in soggetti a rischio; utilizzare per l’alimentazione umana grani meno tossici o farine di grano trattate in modo tale da
renderle meno tossiche; restituire con vaccini o tramite espansione di cellule specifiche T regolatorie, la tolleranza al glutine al celiaco; realizzare un
modello animale di celiachia; individuare forme incomplete di intolleranza al glutine, coinvolgenti solo la branca adattativa o quella innata della risposta
immune.
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Corrispondenza
prof. Salvatore Auricchio, Dipartimento di Pediatria, Università di Napoli “Federico II”, via S. Pansini 5, 80131 Napoli • E-mail: [email protected]
26
Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 27-35
Trattamento con ormone della
crescita: come, quando e perché
Sergio Bernasconi, Cecilia Volta
Clinica Pediatrica, Dipartimento dell’Età Evolutiva, Università di Parma
Riassunto
Le indicazioni attualmente riconosciute per la terapia con Growth Hormone in età pediatrica non sono
univoche in tutti i paesi. Nella maggior parte dei casi lo si utilizza nei pazienti affetti da deficit di Growth
Hormone, sindrome di Turner, insufficienza renale cronica, sindrome di Prader-Willi, mentre meno uniforme è l’utilizzazione in caso di bambini nati piccoli per l’età gestazionale o con bassa statura idiopatica (short normal). Ancor più limitato è l’impiego dell’ormone nell’acondroplasia.
Vari studi sono stati inoltre intrapresi per comprendere l’utilità di tale trattamento in differenti condizioni di patologia quali, per esempio, le malattie infiammatorie croniche intestinali, l’artrite reumatoide giovanile, la fibrosi cistica. Scopo di questo lavoro è fornire una revisione critica, sulla base dalla
letteratura più recente e di una personale esperienza, delle nostre attuali conoscenze nei principali
settori.
Summary
The recommendations presently acknowledged for the use of Growth Hormone therapy in children vary
from country to country.
In most cases growth hormone is used in the management of patients affected by Growth Hormone
Deficiency, Turner Syndrome, Chronic Renal Failure, and Prader-Willi Syndrome.
Its use is less frequently recommended in Small for Gestational Age and Idiopathic Short Stature (“short
normal”), and even more limited in children affected by achondroplasia.
Moreover numerous studies have been carried out in the attempt to comprehend the efficacy of this
treatment in various other conditions, such as Inflammatory Bowel Diseases, Juvenile Rheumatoid
Arthritis, and Cystic Fibrosis.
The aim of this paper is to provide a critical review of the present knowledge on the use of this
treatment in different fields, based both on the latest findings in literature and on our personal
experience.
Introduzione e metodologie
Con questa revisione si desidera fornire un aggiornamento sulle attuali conoscenze relative all’utilizzo della terapia con Growth
Hormone (GH) in età evolutiva, sulla base dei dati presenti in letteratura.
Le fonti bibliografiche sono state ricavate da Medline (attraverso
il motore di ricerca Pubmed), e dalla Cochrane Library, utilizzando
parole chiave attinenti alle specifiche patologie trattabili con GH e
prendendo come punto di riferimento le Consensus Guidelines più
recentemente pubblicate.
Cenni storici
Nell’uso terapeutico del GH si possono riconoscere alcuni periodi
ben distinguibili: i primi tentativi pionieristici sono stati effettuati con forme estrattive da ipofisi bovine, ma tale utilizzazione
è stata rapidamente abbandonata, poiché fu possibile chiarire
che l’effetto biologico dell’ormone è specie-specifico. Successivamente la standardizzazione di un processo estrattivo da ipofisi
di cadavere permise l’utilizzazione di GH umano, dalla fine degli
Sergio Bernasconi è nato a Brescia
il 12 Novembre 1943. Si è formato
come pediatra alla scuola di Parma
(Prof. Giovannelli) e come endocrinologo a quella di Zurigo (Prof. Prader).
Attualmente è Professore Ordinario
e Direttore della Clinica Pediatrica e
del Dipartimento dell’Età Evolutiva
dell’Università di Parma. È stato Presidente della Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica
e membro del Council dell’European
Society for Pediatric Endocrinology.
Con i suoi collaboratori ha pubblicato
libri, capitoli di libri e oltre 250 lavori
peer reviewed soprattutto nel settore
dell’endocrinologia pediatrica e della
genetica clinica. Recentemente è stato nominato Editor in Chief dell’Italian
Journal of Pediatrics. Sposato con due
figli ama i viaggi soprattutto in Asia ed
Africa ed è un bibliofilo onnivoro.
anni ’60 sino al 1985, per lo più in pazienti ipopituitarici. I risultati ottenuti in quel periodo non si possono considerare ottimali per
vari motivi: scarsa disponibilità del farmaco, con conseguente
uso di dosi poi rivelatesi basse, somministrazioni non quotidiane
e/o con schemi intermittenti, variabile biodisponibilità dei vari
preparati e/o dei lotti dello stesso preparato. Grumbach et al.
(1998) hanno riportato altezze finali di pazienti con deficit ipofisario multiplo, trattati con ormone estrattivo nel 1973, pari a
circa -2,4 Deviazioni Standard (DS).
Per questi motivi, ma soprattutto per la dimostrazione che alcuni metodi estrattivi non erano in grado di assicurare la non trasmissibilità di prioni, responsabili di insorgenza della malattia di
Creutzfeldt-Jakob (soprattutto in Francia vi fu una vera e propria
epidemia), vennero accelerate le ricerche sulla possibilità di ottenere l’ormone con la tecnica del DNA ricombinante (rGH) e tale
ormone venne immesso sul mercato nel 1985. I risultati in seguito
riportati si riferiscono quindi ad oltre un ventennio di esperienza
con tale preparazione.
27
S. Bernasconi, C. Volta
Tabella I.
Altezza finale dei pazienti con GHD, trattati con GH.
Autore
Anno
N. pazienti
Età media inizio
terapia (anni)
Dose media rhGH
(mg/kg/sett)
Altezza finale
(score della DS)
(SDS)
Guadagno staturale
(SDS)
Werter
2003
293
8.6
0,15-0,16
-1,0 ± 1,1 M
-1,4 ± 1,2 F
+ 2,0
Mauras
2000
92
n.d.
Standard: 0,3
Elevata: 0,7
-1,4 ± 1,1
-1,2 ± 1,1
Cutfield
1999
369
9,8
0,16
-1,5
Blenthen
1997
121
11,3
0,4
-0,7 ± 1,3 M
-0,7 ± 1,1 F
Werter GA, et al. JPEM 2003; Mauras N, et al. JCEM 2000; Cutfield W, et al. Acta Ped 1999; Blenthen SL, et al. JCEM 1997. M = maschi; F = femmine
Indicazioni terapeutiche approvate in almeno una
nazione
Deficit di GH (GHD)
Gli obiettivi che ci si pone con l’utilizzazione del GH sono molteplici,
ma quello fondamentale è il raggiungimento di una statura definitiva
all’interno del range di normalità e quanto più possibile in linea con
il target genetico.
La terapia con GH permette il raggiungimento di un’altezza finale
compresa tra -1,4 e -0,7 DS (Tab. I).
Le dosi terapeutiche più utilizzate sono comprese tra 0,17 e 0,35
mg/kg/sett (Juul et al., 2002); la somministrazione giornaliera è sicuramente più efficace rispetto alla suddivisione in tre dosi settimanali
usata in passato, per la maggiore aderenza alla fisiologica secrezione del GH e per la migliore biodisponibilità in termini di maggiore
Area sotto la curva (AUC) e Concentrazione massima (Cmax) del farmaco. Le somministrazioni serali favoriscono il raggiungimento del
fisiologico picco di GH durante la notte; nell’uso parenterale, la via di
somministrazione più efficace è quella sottocutanea, che permette
un raggiungimento del picco a distanza di 4-6 ore dall’iniezione.
I risultati migliori in termine di statura finale si ottengono quando la
terapia è iniziata precocemente (entro il 5° anno di vita) (Bernasconi
et al., 2000) e continuata ininterrottamente fino al completamento
dell’accrescimento; altri fattori che incidono, positivamente o negativamente, sull’altezza finale sono sintetizzati nella Tabella II.
Ancora discusso è lo schema terapeutico da utilizzare durante il pe-
riodo dello sviluppo puberale. La maggior parte degli Autori mantiene la stessa dose terapeutica utilizzata in prepubertà, adeguandola
al modificarsi del peso o della superficie corporea e/o ai valori di
Insulin Growth Factor-1 (IGF-1).
Altri AA, invece, propongono di aumentare le dosi di GH (fino a 2,4
mg/kg/sett) allo scopo di mimare quanto avviene fisiologicamente
durante la fase di massima crescita puberale.
Discusso è anche il tempo di induzione della pubertà (con estro-progestinici, gonadotropine o testosterone, in base al sesso) nei pazienti
con deficit ipofisari multipli, anche se l’orientamento di base è quello
di indurla il più tardi possibile (per esempio, 13 anni di età ossea nel
maschio).
Oltre che in termini di statura finale l’efficacia terapeutica del GH
viene valutata su numerosi altri parametri (qualità della vita, composizione corporea, assetto lipidico, forza e capacità muscolare, dimensioni e funzionalità cardiaca, ecc.) che non è possibile analizzare in dettaglio in questa sede e per cui si rimanda ai lavori specifici.
Un accenno particolare meritano però i parametri “picco di massa
ossea” (PBM) e normale struttura ossea finale. È infatti noto che
i pazienti GHD lasciati senza appropriato trattamento sviluppano
un’osteopenia (Drake et al., 2003) che migliora con la terapia sostitutiva. Il raggiungimento del PBM e della normalità della struttura
ossea dovrebbe essere pertanto un obiettivo primario e ciò potrebbe
comportare la continuazione della terapia con GH, se necessario,
oltre il raggiungimento dell’altezza definitiva.
Una continuazione della terapia dopo il raggiungimento della statura
Tabella II.
Fattori influenti sulla terapia con GH.
Favoriscono l’efficacia
Incidono sulla mancata risposta alla terapia
Età inferiore a 5 anni alla diagnosi
Scarsa compliance del paziente
Dose di GH
Preparazioni o conservazione del GH improprie
Peso alla nascita
Tecnica iniettiva errata
Eziologia del GHD
Contemporanea somministrazione di glucocorticoidi
Ipotiroidismo latente
Nutrizione inadeguata
Malattie intercorrenti
Anticorpi neutralizzanti il GH
Pregressa irradiazione spinale
Fattori psicosociali
28
Trattamento con ormone della crescita: come, quando e perché
finale deve poi essere discussa più in generale, perché negli ultimi
anni è stato chiaramente dimostrato che il deficit di GH può determinare un interessamento negativo di vari organi ed apparati nel
paziente adulto, dimostratisi reversibili con la terapia.
Esula dagli scopi di questo lavoro approfondire questo aspetto; ci
limiteremo a sottolineare che le attuali linee guida suggeriscono una
rivalutazione della secrezione del GH per vedere se, con la crescita
e il raggiungimento dell’età adulta, l’ipofisi abbia raggiunto una normale riserva di GH. Tale situazione si può verificare più facilmente in
soggetti con un deficit parziale e ipofisi morfologicamente normale.
Se il deficit viene confermato, esistono attualmente diverse strategie
d’azione (Savage et al., 2004):
• continuare a tutti la terapia dopo una breve sospensione;
• continuare la terapia solo in quei pazienti che presentano maggiori svantaggi, in termini di qualità di vita, dopo la sospensione
del trattamento;
• continuare la terapia per alcuni anni dopo il completamento della crescita per facilitare lo sviluppo del PBM per poi sospendere
il trattamento ed eventualmente rivalutare in seguito lo status
del paziente.
Il monitoraggio eseguito negli anni, a livello mondiale, su migliaia di
pazienti, ci permette di affermare che la terapia è sostanzialmente
sicura anche se la possibilità di alcuni effetti secondari va attentamente monitorata.
È noto, per esempio, che tale terapia può evidenziare un sottostante
ipotiroidismo misconosciuto o indurre insulino-resistenza, facilitando, in soggetti predisposti, l’evoluzione verso un diabete mellito di
tipo 2 (Drake et al., 2001).
In particolare devono poi essere attentamente seguiti i pazienti che
abbiano subito un precedente trattamento per neoplasia cerebrale,
anche se in questi soggetti non è stato dimostrato un maggiore rischio di recidiva o di “secondo tumore” in conseguenza della terapia
con GH.
Sempre nell’ambito del teorico rischio oncogeno vari AA suggeriscono di monitorare i livelli di IGF-1 e di mantenerli nel range di normalità, in quanto nella popolazione adulta è stata osservata una correlazione positiva tra livelli persistentemente elevati di IGF-1 e cancro
della mammella, della prostata e del colon (Ong et al., 2005).
Molti altri possibili effetti collaterali, che inizialmente erano stati ipotizzati come correlati alla terapia, hanno in effetti una prevalenza
nella popolazione dei pazienti trattati non dissimile da quella rilevata
nella popolazione generale. Ne sono esempi l’epifisiolisi della testa
femorale, le apnee nel sonno, le leucemie acute.
Sono stati inoltre descritti casi di ginecomastia, osteocondrite giovanile, edema e sindrome del tunnel carpale, per quanto non sia stata
chiarita la relazione causale di questi ultimi con il GHD.
Infine una segnalazione a parte meritano la scoliosi, di cui non viene
segnalata un’aumentata incidenza nei pazienti in terapia con GH,
ma un’eventuale più rapida progressione (Clayton et al., 2000) e lo
pseudotumor cerebri, una forma di ipertensione endocranica benigna da edema cerebrale legato all’effetto sodio-ritentivo e di fluidi
da parte del GH; tale forma è reversibile con l’interruzione della terapia e non ricompare necessariamente, qualora la terapia venga
ripresa dopo un congruo intervallo di tempo.
Sindrome di Turner
La Sindrome di Turner (ST), descritta da Henry Turner nel 1938, si
manifesta approssimativamente in 1 su 2.500 neonate e comprende, oltre alla bassa statura, uno spettro variabile di anomalie fisiche
e funzionali causate dalla parziale o completa inattivazione del cromosoma X.
Contribuiscono a determinare la bassa statura il ritardo di crescita
intrauterino (peso e lunghezza alla nascita di circa 1 DS al di sotto
della media delle neonate sane), la riduzione della velocità di crescita durante l’infanzia ed il mancato spurt puberale.
L’altezza media finale delle pazienti italiane non trattate è di 142,7
cm (Bernasconi et al., 1994).
Il meccanismo alla base del difetto di crescita in questa sindrome
non è ancora chiaro. Secondo alcuni AA la secrezione di GH non
sembra essere alterata in queste pazienti, mentre altri hanno evidenziato, come noi, alterazioni minori dell’asse GH-IGF-1-IGFBP-3
(Ghizzoni et al., 1990) che non permettono comunque di considerare
queste pazienti come GHD.
Il deficit di crescita sembra infatti essere soprattutto riferibile all’aploinsufficienza di una copia del gene SHOX localizzato nella regione pseudoautosomale del braccio corto del cromosoma X (Rao
et al., 1997), anche se altri geni possono avere un’influenza. Ciò è
dimostrato, per esempio, dalla relazione esistente tra altezza delle
pazienti e loro target genetico, che presuppone l’azione di geni non
collegati al cromosoma X.
Tra i numerosi studi pubblicati negli ultimi anni, una recente review
della Cochrane ne ha selezionato quattro (Tab. III), soprattutto in
base alla metodologia utilizzata: confronto tra pazienti trattati e non
trattati (o trattati con placebo), scelti in modo randomizzato (Cave
et al., 2003).
Complessivamente le pazienti trattate con GH hanno mostrato un
guadagno staturale di 5-8 cm per un periodo di trattamento della
Tabella III.
Principali studi sull’impiego del GH nelle Sindrome di Turner.
Autore
N. di
pazienti
Durata terapia
(anni)
Dose GH
mg/kg/sett
Risultati
Rosenfeld
1998
70
2
0,37
Miglioramento statura finale, con solo GH o con
GH in associazione con oxandrolone
Chernausek
2000
60
6
0,37
Miglioramento statura finale
Quigley
2002
99
5,5
0,27 o 0,36
Stephure
2005
61
11,7
0,3
Miglioramento dose-dipendente della statura finale
Miglioramento della statura finale (pari a 7,2 cm)
Rosenfeld, et al. J Pediatrics 1998; Chernausek, et al. JCEM 2000; Quiegley, et al. JCEM 2002; Stephure, JCEM 2005.
29
S. Bernasconi, C. Volta
durata di 5,5-7,6 anni e ciò permette di affermare che attualmente
una statura finale di 150 cm è un traguardo raggiungibile per la
maggioranza delle pazienti.
Da tali studi emerge, inoltre, che il guadagno staturale risulta essere
positivamente influenzato da variabili quali la precoce età di inizio
della terapia, la durata del trattamento fino alla saldatura epifisaria ed il dosaggio dell’ormone GH. Per quanto riguarda quest’ultimo
aspetto in Tabella III sono riportati gli schemi terapeutici utilizzati dai
vari AA. La dose di 0,375 mg/kg/sett. è anche quella raccomandata
dalla American Association of Clinical Endocrinologists, risulta essere circa il doppio rispetto a quella utilizzata nelle condizioni di GHD
ed ha essenzialmente l’obiettivo di portare il GH a livelli sovra-fisiologici per contrastare l’eventuale insensibilità all’ormone.
Ciò comporta una particolare attenzione sui possibili effetti secondari indesiderati che possono essere, in parte, dose-dipendenti (vedi
capitolo GHD) soprattutto perché le pazienti con ST sono già di per
sé stesse predisposte ad un maggior rischio di diabete mellito. Non
sembra invece necessario abbinare al GH uno steroide di sintesi ad
azione anabolica quale l’oxandrolone, se non in casi selezionati.
Infine, anche se non vi è un accordo definitivo, vi è una tendenza a
non ritardare eccessivamente l’induzione della pubertà (con estroprogestinici), spesso necessaria in queste pazienti affette da insufficienza ovarica, soprattutto per motivi psico-sociali.
Nella nostra pratica iniziamo l’induzione tra i 12 e i 13 anni di età
ossea.
Insufficienza renale cronica (IRC)
Il deficit accrescitivo è una caratteristica molto frequente nei bambini con insufficienza renale cronica (IRC), specie nei suoi stadi più
avanzati, quelli cioè in cui l’indicazione alla dialisi o al trapianto di
reni è assoluta o molto prossima. Infatti, in uno studio, l’altezza finale media in pazienti che hanno iniziato la dialisi prima dei 15 anni di
età, risultava essere inferiore a 2 DS rispetto al valore medio della
popolazione adulta.
Per questo motivo la terapia con GH è utilizzata in questi pazienti da
oltre 10 anni e i risultati di questi studi sono stati analizzati in una
recente review della Cochrane Library (Vimalachandra et al., 2006)
e da una Consensus Conference (Mahan et al., 2006).
In sintesi il GH si è dimostrato in grado, in tutti gli studi, di ridurre il
deficit accrescitivo incrementando la SDS dell’altezza specie nel primo anno di terapia e nei pazienti più giovani, aumentando la velocità
di crescita e non modificando la velocità di maturazione ossea.
I dati relativi all’altezza finale sono ancora scarsi, ma è stato riportato un incremento medio di 5-6 cm circa nei pazienti trattati rispetto
ai non trattati. Inoltre, sono limitati i dati relativi alla mineralizzazione
ossea e all’aumento del peso corporeo, che comunque paiono migliorati.
La dose consigliata, pari a 0,25 mg/kg/sett., si è dimostrata superiore in termini di efficacia alla dose inizialmente utilizzata di 0,12 mg/
kg/sett. Resta aperta la questione della durata della terapia (fino al
termine della crescita di recupero o fino alla saldatura delle epifisi?)
e della necessità o meno di aumentare la dose in corso di pubertà.
Per quanto riguarda gli effetti collaterali non sono riportate differenze significative nell’incidenza di effetti legati al rGH nei pazienti trattati e non trattati; in particolare la terapia non sembra incidere sul
deterioramento della funzione renale, né sulla percentuale di rigetto
nei soggetti trapiantati.
Attualmente il rGH è approvato per la terapia dell’IRC negli USA, in
Europa, in Giappone e in Australia; nella pratica, tuttavia, la percentuale di bambini con IRC è ancora molto bassa in tutto il mondo
occidentale, anche se una maggior diffusione di questo trattamento
30
Tabella IV.
Segni e sintomi caratterizzanti la sindrome di Prader-Willi.
Ipotonia neonatale e del lattante
Ritardo nello sviluppo
Deficit mentale
Anomalie comportamentali
Obesità ad inizio precoce
Iperfagia
Scarsa massa magra
Ipogonadismo (deficit ipotalamico di gonadotropine)
Scoliosi
Facies caratteristica (faccia stretta, occhi a mandorla, labbro superiore
sottile)
Bassa statura (~ 2 DS al di sotto della media della popolazione normale)
sarebbe auspicabile soprattutto per migliorare la qualità della vita di
questi pazienti.
Sindrome di Prader-Willi (PWS)
La PWS, descritta per la prima volta nel 1956 da Prader, Labhart e
Willi, è una malattia genetica i cui segni e sintomi più significativi
sono riassunti nella Tabella IV.
La sindrome è dovuta ad una mancata espressione di geni paterni
situati nel cromosoma 15q11-q13 (Tab. V).
Nella maggior parte di questi pazienti è stato documentato un deficit
dell’asse GH-IGF1 e ciò costituisce il razionale per l’utilizzazione di
tale terapia.
Vari studi hanno dimostrato che il trattamento con rGH:
influenza positivamente la composizione corporea aumentando la
percentuale di massa magra e diminuendo quella di massa grassa;
ha effetti benefici sul comportamento, sulla attività fisica e sulla funzionalità respiratoria.
L’efficacia della terapia sulla statura sembra dimostrata, anche se
la casistica non è particolarmente numerosa, dai dati recentemente
pubblicati da Angulo et al. (2007) che hanno potuto valutare l’altezza
finale in un gruppo di 21 pazienti trattati da un’età di circa 8 anni,
paragonandola a quella spontaneamente raggiunta da 39 pazienti.
I risultati più significativi sono riassunti nella Tabella VI.
Negli ultimi anni si è aperta un’ampia discussione sugli eventuali
effetti secondari indesiderati che la terapia con rGH può comportare nei pazienti con PWS che, già in base allo loro storia naturale,
sono a maggior rischio di sviluppare varie complicanze (diabete
mellito e in genere le complicanze riconducibili alla grave obesità). Sulla base delle evidenze attualmente disponibili, in gran parte
tratte da banche dati internazionali (Craig et al., 2006), si può affermare che:
• la percentuale degli effetti secondari minori non è dissimile da
quella osservata nei pazienti GHD (vedi capitolo precedente);
Tabella V.
Meccanismi genetici responsabili della sindrome.
Delezione paterna di 15q11-q13
70% dei pazienti
Disomia uniparentale materna
22%
Errori di imprinting
2-5%
Translocazione cromosomica paterna
< 1%
Trattamento con ormone della crescita: come, quando e perché
Tabella VI.
Caratteristiche dei pazienti e del gruppo controllo dopo aver raggiunto la statura finale.
Caratteristica
Pazienti trattati
Gruppo controllo
Altezza iniziale (media ± SDS)
-1,9 ± 1.6
-1,9 ± 1,3
n.s.
Altezza finale (media ± SDS)
-0,3 ± 1,1
-3,1 ± 1,0
< 0,0001
Altezza finale nelle femmine (cm)
158 ± 4,0
144 ± 6,0
0,004
Altezza finale nei maschi (cm)
171 ± 8,0
154 ± 9,0
0,0003
BMI (media ± SDS)
1,7 ± 1,6
4,1 ± 1,0
< 0,0001
Dose rGH (media ± SD)
p
0,25 ± 0,06 mg/kg/sett
• l’evento secondario maggiormente riferito è la scoliosi, ma la
percentuale dei pazienti con PWS che presenta tale anomalia
strutturale durante la terapia è inferiore a quanto segnalato nei
pazienti di pari età non trattati;
• la percentuale di pazienti che sviluppa diabete di tipo 2 durante
il trattamento è nettamente inferiore rispetto alla prevalenza segnalata nei pazienti adulti non trattati;
• non vi sono sufficienti evidenze che confermino una stretta correlazione tra terapia con rGH e morti improvvise segnalate in
alcuni casi di PWS in terapia.
Comunque, tutti i pazienti, in particolare quelli con una storia di
russamento e/o di apnee notturne e di disturbi respiratori e, più in
generale, di ipoventilazione, dovrebbero eseguire un’accurata valutazione sia dal punto di vista broncopneumologico (inclusa una
polisonnografia), sia otorinolaringoiatrico (ipertrofia adenoidea e
tonsillare), prima di iniziare la terapia stessa.
mento, in quanto è stato dimostrato che l’effetto terapeutico del rGH
a lungo termine è meno dose-dipendente (Clayton et al., 2007).
I risultati migliori, in termini di promozione di risposta accrescitiva e
di raggiungimento dell’altezza finale, sono ottenuti quando la terapia viene intrapresa almeno due anni prima dell’inizio dello sviluppo
puberale, preferibilmente verso i 4-6 anni di età.
L’interruzione è raccomandata quando la velocità di crescita risulta
inferiore a 2 cm/anno, dopo lo spurt puberale, o l’età ossea è superiore o uguale a 14 anni nelle femmine e a 16 anni nei maschi. Bambini con deficit di crescita marcato rispetto al proprio target familiare
mostrano una migliore risposta al trattamento.
Nessuna differenza di risposta alla terapia è stata riscontrata tra nati
SGA con o senza GHD; tuttavia è stato dimostrato che tra i non-GHD,
quei soggetti con picchi di GH notturni molto elevati, presentano una
risposta peggiore, suggerendo una possibile resistenza al GH o alle
IGF-1 (Ong et al., 2005).
Una comune variante genetica del recettore del GH (GHR) sembra
inoltre responsabile di variazioni della sensibilità alla terapia con GH
ricombinante, determinandone il grado di risposta. In particolare,
bambini SGA portatori di una delezione dell’intero esone 3 del gene
del GHR mostrano un’accelerazione della crescita, indotta dalla terapia, circa 2 volte superiore rispetto a quelli con l’isoforma completa
(Tauber et al., 2007).
La bassa statura non è il solo problema che interessa i nati SGA;
questa condizione è spesso associata a scarsa capacità cognitiva
soprattutto nella matematica e nella comprensione di testi scritti,
a maggiori disturbi emozionali e di comportamento, nonché ad un
disturbo di deficit dell’attenzione e ad iperattività. La terapia con rGH
sembra migliorare il QI di questi bambini (van Pareren et al., 2004).
In base a tutti i dati sopraelencati sia la FDA (Food and Drug Administration) sia l’EMEA (European Agency for the Evaluation of Medicinal Products) hanno elaborato indicazioni ufficiali alla terapia con
rGH nei nati SGA con bassa statura pur con qualche dissonanza (Tab.
VII). In Italia, in base all’ultima nota AIFA tale indicazione è recepita,
ma non ancora ammessa alla rimborsabilità del farmaco.
Small for gestational age (SGA)
L’essere nati SGA, cioè con un peso e/o un lunghezza alla nascita inferiore ad almeno due DS rispetto alla media per l’età gestazionale,
rappresenta una frequente causa di bassa statura.
La maggior parte di questi neonati va incontro ad uno spontaneo
recupero accrescitivo durante i primi 2-3 anni di vita, mentre un 1015% di essi mantiene un deficit staturale durante l’età evolutiva che
permane anche in età adulta.
In quest’ultimo sottogruppo numerosi studi hanno dimostrato l’efficacia della terapia con rGH.
Le dosi comunemente utilizzate sono maggiori rispetto a quelle usate nel GHD e possono variare da 2,45 a 4,9 mg/kg/sett; il guadagno
medio in altezza dopo 3 anni di terapia con tali dosaggi varia da
1,2 a 2,0 DS. Dopo la normalizzazione iniziale, la maggior parte di
questo guadagno si mantiene fino al raggiungimento della statura
adulta.
Attualmente si consiglia di utilizzare dosaggi elevati nei primi anni
di terapia, per poi passare a dosaggi inferiori nella fase di manteniTabella VII.
Impiego di GH in bambini SGA con bassa statura.
Età inizio terapia
Altezza SDS inizio terapia (DS)
Velocità di crescita prima della terapia
Riferimento al target genetico (TG)
Dose GH (mg/kg/sett)
Indicazioni FDA (2001)
Indicazioni EMEA (2003)
2
4
Non determinata
- 2,5 DS
Mancata normalizzazione
< 0 DS per età
Non determinato
Altezza SDS >1 DS inferiore al TG
4,90
2,45
da Clayton PE et al., JCEM 2007, mod.
31
S. Bernasconi, C. Volta
Anche nel caso degli SGA, come per le altre categorie di bassa statura ammesse al trattamento, gli effetti collaterali della terapia non
sono risultati significativi.
Particolare attenzione è stata posta sulla possibile insorgenza di insulino-resistenza ed iperinsulinemia, in quanto i bambini nati SGA
presentano un maggior rischio di sviluppare spontaneamente una
sindrome metabolica, anche se tale rischio sembra essere maggiore
tra i nati SGA che vanno incontro a spontaneo recupero della crescita, e quindi non candidati alla terapia con rGH.
Durante il trattamento, questi bambini, pur mostrando normali livelli
di glucosio a digiuno e di HbA1c, possono sviluppare iperinsulinemia e insulino-resistenza, sebbene tali modifiche sembrino essere
in gran parte reversibili dopo l’interruzione del trattamento. Per tali
motivi, si raccomanda una routinaria valutazione dei livelli di glucosio e di insulina a digiuno e postprandiali, in particolare in soggetti
con altri fattori di rischio per diabete tipo 2, come la storia familiare,
l’appartenenza ad una particolare etnia, l’obesità (Ong et al., 2005).
I bambini SGA possono presentare più frequentemente dei nati proporzionati per l’età gestazionale pubertà precoce, adrenarca ed età
ossea avanzata, tutti fattori che influenzano negativamente la prognosi finale di crescita.
È stato ipotizzato che la rapida progressione degli stadi puberali possa dipendere dagli elevati livelli di insulina presenti in questi soggetti, ma ulteriori studi saranno necessari per chiarirne la patogenesi.
Tali osservazioni avevano destato preoccupazioni sulla possibilità
che la terapia con rGH potesse promuovere un’anticipazione dello
sviluppo puberale, ma è stato dimostrato che essa non ha nessuna
influenza sull’età di inizio e sulla progressione degli stadi puberali ed
inoltre nessuna differenza significativa è stata riscontrata per quel
che riguarda la durata della pubertà e il guadagno staturale. Infine
i livelli di deidroepiandrosterone-solfato (DHEA-S) e l’incidenza di
adrenarca in bambine nate SGA sono risultati del tutto comparabili
a quelli della popolazione generale e, dopo un anno di terapia con
rGH, i livelli di DHEA-S presentano un aumento del tutto equiparabile
a quello di soggetti non trattati.
Bassa statura idiopatica/short normal
L’indicazione più recente all’uso del rGH negli USA è rappresentata
dai cosiddetti short normal definiti in base ad alcuni criteri di minima: taglia normale alla nascita in rapporto all’età gestazionale,
normali proporzioni corporee, assenza di deficit ormonali, assenza
di malattie croniche organiche o psichiatriche o di gravi alterazioni
emotivo-psicologiche, normale nutrizione, velocità di crescita basso-normale.
Si è calcolato che negli Stati Uniti oltre 410.000 bambini possano
rientrare in tali criteri e che per ogni 100 bambini trattati per GHD ve
ne possono essere 500 trattabili perché short normal.
Ovviamente, al di là di ogni considerazione medica o etica, la stessa
ampiezza numerica di questo fenomeno ha attivato una profonda
discussione tra fautori e contrari a questa terapia.
Coloro che sostengono l’utilità della terapia sottolineano come essa
sia in grado di modificare positivamente la statura finale e come ciò
possa determinare, soprattutto nei pazienti con grave deficit staturale iniziale, un miglioramento anche delle condizioni psicologiche.
Inoltre la categoria degli short normal è estremamente eterogenea e
l’approfondirsi delle nostre conoscenze fisiopatologiche ci dimostra
che in essa possono rientrare forme di patologia fino a poco tempo
fa misconosciute. Circa il 25% dei bambini short normal presenta
infatti un deficit primitivo di IGF-1 in presenza di una normale secrezione di GH, dovuto ad alterazioni della cascata di eventi post-recettoriali e/o alla secrezione di forme varianti di GH.
32
Una percentuale del 2,4% degli short normal potrebbe avere una
mutazione del gene SHOX (Rappold et al., 2002) come si ritrova nella
sindrome di Leri-Weill di cui anche il nostro gruppo ha studiato vari
nuclei familiari (Falcinelli et al., 2002).
D’altra parte esistono argomentazioni che invitano ad essere molto
cauti nell’impiego del GH nelle categorie di pazienti non GHD.
Si sottolinea il concetto che non esistono studi a lungo termine che
garantiscano l’innocuità di questa terapia in una popolazione così
ampia.
Il collegamento tra bassa statura e capacità di adattamento psicosociale non è evidenziato in molte ricerche e soprattutto non è dimostrato che in questi soggetti un guadagno di 4-7 cm nella statura
finale comporti un vantaggio funzionale. Anche il rischio di frustrazione che può insorgere in pazienti trattati per anni e che non hanno
raggiunto una statura considerata soddisfacente non deve essere
dimenticato (Allen, 2004).
L’uso del rGH nelle basse stature potrebbe inoltre dare un ulteriore
spinta al fenomeno definito dagli AA anglosassoni come heightism,
la valorizzazione cioè di per se stessa della statura sul piano sociale. È una tendenza gia evidente nell’esperienza generale e tutti
noi conosciamo la pressione esercitata da varie famiglie per una
terapia che migliori la bassa statura, considerata di per sé essere
un aspetto negativo e socialmente controproducente. Tra l’altro ciò
contrasta con vari studi epidemiologici che indicano una più elevata
morbilità cardiovascolare negli individui di alta statura (Samaras et
al., 2003).
Non vanno dimenticate le problematiche di politica sanitaria e più in
generale economica riconducibili ad un prodotto ancora costoso.
In sintesi, le nostre conoscenze non ci permettono di dare una risposta conclusiva ai tanti problemi che abbiamo rapidamente sottolineato. Pensiamo che vi sia la necessità da un lato di migliorare i
nostri strumenti diagnostici, prognostici e di follow-up e dall’altro di
ampliare la discussione al di fuori del campo strettamente specialistico, in modo anche da fornire alla famiglia un’informazione che sia
ampia, corretta e approfondita.
In altri termini, saremmo estremamente cauti e selettivi nel consigliare una terapia farmacologica al di là delle situazioni di reale
deficit di GH e terremmo comunque presente che alcuni elementi
clinico-auxologici possono aiutarci nella selezione dei pazienti. In
particolare, sembrano meglio rispondere alla terapia quei bambini
di bassa statura con una velocità di crescita pre-terapia bassa, un
ritardo nella maturazione ossea, un più basso livello di IGF-1, una
dimensione ridotta ipofisaria alla RNM e con una maggiore velocità
di crescita nei primi 6-12 mesi di terapia.
Acondroplasia (ACH)
L’acondroplasia è una displasia scheletrica dovuta a mutazioni puntiformi a carico del dominio transmembrana del gene del recettore 3
del fattore di crescita dei fibroblasti (FGFR3).
L’ACH è caratterizzata da nanismo disarmonico, macrocefalia con
fronte prominente ed ipoplasia emifaciale. L’altezza media finale,
nella popolazione caucasica, si colloca tra 112 e 136 cm (femmine)
e tra 118 e 145 cm (maschi), valori che corrispondono a 6-7 DS al
di sotto della media.
La correzione chirurgica degli arti è sempre stata il gold standard
per incrementare l’altezza e migliorare le proporzioni corporee, ma
tale procedura è invasiva, può richiedere prolungate ospedalizzazioni e una ferma motivazione da parte del paziente ed inoltre, nonostante i progressi tecnici compiuti negli ultimi anni, non è scevra da
complicanze anche gravi, quali infezioni post-chirurgiche, fratture o
deviazioni dell’asse delle ossa.
Trattamento con ormone della crescita: come, quando e perché
Per questo motivo si è deciso di sperimentare in questi pazienti
una terapia con rGH che è accettata dal sistema sanitario nazionale
giapponese. Le dosi utilizzate variano da 0,231 a 0,469 mg/kg/sett.
L’esperienza clinica fin qui raccolta è scarsa, ma in base ai pochi
studi reperibili, sembra che la terapia sia in grado di aumentare la
velocità di crescita e soprattutto l’altezza definitiva (1,2-2,0 DS),
mentre non vi sarebbero modificazioni sostanziali nelle proporzioni
corporee (Hertel et al., 2005).
Non vengono segnalati effetti indesiderati significativi a parte, in
alcuni pazienti, un’accentuazione del varismo che necessita di successiva correzione chirurgica.
In conclusione i dati attualmente a nostra disposizione sono incoraggianti ma insufficienti a proporre tale terapia al di fuori di ben precisi
protocolli sperimentali.
Utilizzazione sperimentale del rGH
In letteratura si ritrovano numerosi studi in cui la terapia con rGH viene
usata in modo sperimentale per aumentare la velocità di crescita e la
statura finale in varie sindromi genetiche (per esempio la Noonan o più
recentemente il nanismo MuLiBrEy – muscle-liver-brain-eye) oppure
per sfruttare l’azione anabolica dell’ormone (per esempio le ustioni o
gli stati gravemente catabolici in analogia all’indicazione nei pazienti
AIDS adulti con grave forma denutritiva). Una revisione critica di tali
risultati esula dalle finalità che ci siamo poste in questa rassegna. Ci
limiteremo ad analizzare alcuni dati sulle forme infiammatorie croniche di cui ci siamo, in tempi recenti, direttamente interessati.
Malattie infiammatorie croniche
Nel corso di alcune patologie croniche, quali Malattie Infiammatorie
Croniche Intestinali, Artrite Reumatoide Giovanile e Fibrosi Cistica,
spesso si realizzano gravi forme di ritardo accrescitivo staturo-ponderale e di sviluppo puberale.
L’etiopatogenesi di tale ritardo è sicuramente polifattoriale: malnutrizione, terapie farmacologiche interferenti, interessamento di
organi ed apparati che agiscono direttamente sulla statura quale
scheletro ed articolazioni, ecc. Un ruolo importante viene comunque
svolto dalla flogosi cronica, mediata da citochine pro-infiammatorie
(in particolare le interleuchine 1 e 6), che, a loro volta, possono esercitare, come dimostrato da nostri studi in vivo e in vitro, un’azione
modulatoria sull’asse IGF1-IGFBP3 (Street et al., 2006).
La conoscenza di questi meccanismi può fornire quindi l’indicazione
per l’attuazione di una terapia con rGH in alcune delle patologie infiammatorie croniche più comuni.
I risultati attualmente presenti in letteratura (Tab. VIII) sono comunque
ancora sperimentali, di tipo preliminare, non generalizzabili, ottenuti
su casistiche non particolarmente numerose e non sempre univoci;
inoltre negli studi presi in esame viene principalmente considerato,
come indice di successo terapeutico, il parametro della velocità di
crescita, mentre non esistono dati sicuri sulla statura finale; infine
non risulta sempre chiaro quali effetti si possano realizzare sull’andamento della malattia a breve ed a lungo termine.
Nelle Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali, ed in particolare
nel Morbo di Crohn, i risultati in termini di incremento della velocità
di crescita in corso di terapia con rGH sono discordanti.
Migliori i risultati ottenuti nell’Artrite Reumatoide Giovanile in cui
il trattamento ha portato a significativi incrementi della velocità di
crescita, con concomitante aumento dei livelli sierici di IGF-1 ed
IGFBP-3 e possibili effetti positivi anche in termini di composizione
corporea e metabolismo osseo.
Infine gli studi effettuati su pazienti con Fibrosi Cistica, hanno dimostrato effetti positivi della terapia sia in termini di parametri auxologici (peso, altezza, BMI), sia per quanto concerne alcuni parametri
clinici, come ad esempio la funzionalità respiratoria.
Uso del rGH in combinazione con altri farmaci e prospettive
future
La terapia con rGH ha ormai superato i 20 anni ma le sue possibilità
di impiego non sembrano esaurite. Esistono già oggi in Letteratura vari studi, che attendono di essere confermati, su casistiche più
Tabella VIII.
Risultati degli ultimi studi in merito a terapia con GH in patologie croniche.
Studi
Numero
complessivo
di pazienti
Range di durata
del trattamento
con GH
Range di dosaggio
mg/kg/sett.
MICI
(3)
17 bambini
1-2 anni
0,35
ARG
(5)
96 bambini
6 mesi-6,7 anni
0,25-0,46
FC
(3)
13 adolescenti
124 bambini
prepuberi
1-2 anni
0,30
Per 2 dei 3 studi:
# velocità di crescita
# IGF1 ed IGFBP3
# massa magra
Avanzamento dell’età ossea
Per 1 studio: nessuna evidenza di # della velocità di crescita
Miglioramento della densità ossea
# velocità di crescita
# livelli plasmatici di IGF-1 e IGFBP-3
# del peso, altezza, velocità di crescita in altezza e in peso,
massa muscolare, contenuto minerale delle ossa
# dei valori assoluti di funzione respiratoria e i del numero
di ricoveri.
i TNF-α e del catabolismo proteico
Normalizzazione della comparsa della pubertà con adeguata
progressione degli stadi puberali
MICI = malattie infiammatorie croniche intestinali: Henker. Eur J Pediatr 1996; Mauras et al. Metabolism 2002; Calenda et al. Inflamm Bowel Dis 2005.
ARG = artrite reumatoide giovanile: Bechtold et al. JCEM 2004, 2005, 2007; Saha et al. J Reumatology 2004; Simon et al. JCEM 2007.
FC = fibrosi cistica: Hardin et al. Clin Endocrinology 2005; Clin Endocrinol Metab 2006; Vanderwell et al. Pediatr Endocrinol Metab 2006.
33
S. Bernasconi, C. Volta
ampie o con l’impiego di gruppi di controllo randomizzati, in cui il
rGH è usato in combinazione con altri farmaci. Ne è un esempio la
proposta associazione di GnRH analoghi e GH (Volta et al., 2006) in
bambine con pubertà precoce e bassa velocità di crescita in terapia
con il solo analogo in cui il guadagno staturale può arrivare, secondo
alcuni AA, anche a 9 cm (Toumba et al., 2007).
Questa terapia combinata è in fase di sperimentazione anche in
alcune sottopopolazioni di sindromi surreno-genitali, in particolare
quelle a diagnosi tardiva, nelle basse stature idiopatiche e in alcune
sottopopolazioni di GHD.
È poi molto probabile che si assista in futuro ad un allargamento
dell’impiego del rGH a nuove indicazioni, molte delle quali già attualmente in fase di studio sperimentale, come accennato nel capitolo
precedente.
Anche rimanendo nell’ambito delle attuali indicazioni, numerose ricerche sono in corso per ottimizzare la risposta terapeutica. È infatti
esperienza comune che in ogni popolazione di pazienti si nota una
notevole eterogeneità di risposta alla terapia in termini di crescita,
che la farmacogenomica ha iniziato a studiare allo scopo di individualizzare sempre più lo schema terapeutico (Clayton, 2007).
Vi è inoltre da considerare che, in termini staturali, una buona o una
mediocre risposta la si giudica in base all’altezza finale raggiunta.
Ciò presuppone una terapia prolungata per anni che, in una certa
percentuale di pazienti, può rivelarsi pressoché inutile. Per questo
motivo sono stati proposti vari modelli matematici di predizione
della risposta finale sulla base di dati pre-terapia e di parametri
clinico-auxo-laboratoristici monitorati nel primo anno di terapia
(Ranke et al., 2007).
Infine continua la ricerca sia di forme alternative di somministrazione dell’ormone, in particolare con l’uso di formulazioni long-acting
(Kemp et al., 2004) allo scopo, da un lato, di migliorare la compliance dei pazienti e dall’altro di avvicinarsi ad una fluttuazione ematica
dei livelli la più vicina possibile a quella fisiologica.
Ringraziamenti
Si ringraziano i colleghi Silvia Cesari, Giulia Cremonini, Marilena
Garrubba, Lisa Melandri, Maddalena Petraroli, Rosa Vitale e Matteo
Zanzucchi per il prezioso aiuto fornito nella ricerca bibliografica e
nell’editing del lavoro.
Box di orientamento
Cosa sapevamo negli anni ’70
• Indicazioni: GHD.
• Dosi nei GHD: incostanti e in base alla disponibilità del farmaco.
• Modalità di somministrazione: intramuscolo 3 volte/sett.
• Tipo di GH: GH estrattivo.
• Altezza finale nei GHD: pochi dati ed eterogenei.
• Quando iniziare la terapia: secondo disponibilità del farmaco.
Cosa sappiamo oggi
• Indicazioni: GHD, Sindrome di Turner, Small for Gestational Age, Short normal, Sindrome Prader Willi, Insufficienza renale cronica.
• Dosi nei GHD: 0,17-0,35 mg/kg/sett
• Modalità di somministrazione: sottocutanea 6-7 volte/sett.
• Tipo di GH: GH ricombinante umano.
• Altezza finale nei GHD: -1,5/-0,7 DS.
• Quando iniziare la terapia: precocemente (4-5 anni?).
Problemi aperti e prospettive future
• Nuove indicazioni.
• Quando sospendere la terapia.
• Modelli matematici di previsione della risposta terapeutica a lungo termine.
• Associazione con altri farmaci.
• Ottimizzazione della terapia su base individuale.
• Nuove preparazioni farmacologiche (differenti vie di somministrazione, long acting).
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Corrispondenza
prof. Sergio Bernasconi, Clinica Pediatrica, Dipartimento dell’Età Evolutiva, Università di Parma, via Gramsci 14, 43100 Parma • E-mail: [email protected]
35
Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 36-45
Le β-thalassemie
Antonio Cao
Istituto di Neurogenetica e Neurofarmacologia, Consiglio Nazionale delle Ricerche
(CNR), Cagliari
Riassunto
In questi ultimi 30 anni si sono verificati progressi consistenti nella conoscenza e nel trattamento delle βthalassemie. A partire dagli anni ’70 si sono potute definire le sue basi molecolari, chiarire almeno in parte
la correlazioni genotipo-fenotipo, e identificare geni modificatori del fenotipo. Sotto il profilo terapeutico si
sono ottimizzati i programmi trasfusionali e la terapia ferrochelante con Desferrioxamina che hanno condotto ad un consistente aumento della sopravvivenza. Sono stati scoperti due chelanti orali il Deferiprone
e il Deferasirox. Il Deferiprone è risultato più efficace della Desferrioxamina nel prevenire l’accumulo di
ferro nel miocardio. Il trapianto di cellule emopoietiche staminali allogeniche da donatore familiare HLA
compatibile ha portato in casi selezionati alla guarigione della β-thalassemia. Gli studi sulla attivazione
della produzione di HbF sono risultati deludenti. La terapia genica con vettori lentivirali in modelli murini ha
portato a risultati interessanti e promettenti. La consultazione genetica associata alla diagnosi prenatale
ha determinato nei paesi sviluppati una consistente riduzione della incidenza della β-thalassemia.
Summary
In the last 30 years a marked progress has been made in the genetics, molecular pathology, counselling
and clinical management of the β-thalassemias. In the early seventy, the molecular pathology of the
β-thalassemias has been defined and a marked progress has been realised in the field of phenotypegenotype correlations and in discovery of modifying genes. Regular transfusional program associated
with iron chelation by Desferrioxamina led to a consistent increase in life expectancy. Two orally effective iron chelators L1 and Deferasirox has been discovered and L1 resulted more efficacious than
Desferrioxamina in preventing cardiac iron accumulation. In patients without complications stem cell
transplantation from HLA identical siblings led to cure in a consistent percentage. Studies aimed to
boost the HbF produced disappointing results. In murine models, consistent progress have been made
in gene therapy with lentiviral vectors. Genetics counselling associated with prenatal diagnosis led in
developed countries, in which β-thalassemia is common to a dramatic decrease of its incidence.
Modalità della revisione
Sono stati considerati gli articoli e le review principali pubblicati negli ultimi cinque anni
Introduzione
Le β-thalassemie hanno attratto il mio interesse di medico e di ricercatore all’inizio degli anni ’70, quando tornai nella mia città natale, Cagliari, dopo un lungo soggiorno nell’Italia Continentale. In quel momento
compresi infatti che le β-thalassemie in Sardegna costituivano un importante problema di salute pubblica per la loro frequenza (1 neonato
malato ogni 250 nati vivi ed 1 portatore sano ogni 8 persone) e per il
loro impatto sul sistema sanitario e sulla popolazione come è illustrato
nella Figura 1 che rappresenta una corsia della Clinica pediatrica di
Cagliari ove venivano allora assistiti i pazienti con thalassemia.
In questi ultimi 30 anni si sono verificati progressi notevoli nelle
nostre conoscenze sulle basi molecolari e sulla patogenesi delle
β-thalassemie nonché notevoli avanzamenti nella terapia e nella
prevenzione.
Distribuzione geografica
Le β-thalassemie sono una tra le più frequenti malattie mendeliane
monogeniche nel mondo. Particolare elevata frequenza si riscontra
36
Antonio Cao, nato a Cagliari il 4 Maggio 1929. È stato Direttore di una delle Cliniche Pediatriche di Cagliari dal
1976 al 1999 e dell’Istituto CNR di
Neurogenetica e Neurofarmacologia
della stessa città dal 1992 al 2007.
Attualmente Professore Emerito di Pediatria all’Università di Cagliari. Autore
di circa 400 lavori scientifici pubblicati su riviste internazionali. Ha avuto numerosi riconoscimenti nazionali
e internazionali tra cui: Allan Award,
Marta Philipson Award e Premio Maria Vilma e Bianca Querci. Co-direttore
di Prospettive in Pediatria dal 1984 e
corresponsabile della relativa rubrica
Frontiere in Biologia fin dalla sua creazione.
I suoi principali contributi scientifici
riguardano l’Ematologia specie le Talassemie e la Genetica delle Malattie
Monogeniche e Complesse. È sposato ed ha tre figli e sei nipoti. Ama la
musica classica, il cinema e pratica
l’atletica leggera.
in tutte le regioni a pregressa o attuale endemia malarica (per vantaggio dell’eterozigote vis a vis l’infezione da Plasmodium falciparum). Tuttavia le correnti migratorie hanno portato le β-thalassemie
in ogni parte del mondo.
Clinica
Le β-thalassemie sono dovute a riduzione (β+) o assenza (β°) di
produzione delle catene β dell’emoglobina (tetramero composto da
due catene globiniche β e due catene globiniche α). Delle β-thalassemie, si distinguono tre quadri clinici ed ematologici di gravità crescente: il portatore sano, clinicamente asintomatico risultante dallo
stato eterozigote per la β-thalassemia; la thalassemia intermedia,
un’anemia microcitica di gravità variabile, molto eterogenea geneticamente, definita clinicamente dalla non necessità di trasfusioni per
la sopravvivenza, ed infine la thalassemia major, una grave anemia
incompatibile con la vita in assenza di trasfusioni regolari (Tab. I).
La gravità clinica delle β-thalassemie è legata all’entità dello sbilanciamento tra la sintesi delle catene α-globiniche e delle catene non
α-globiniche (comprendenti oltre le β catene, le catene γ proprie
dell’Hb fetale; α2γ2). In conseguenza della riduzione/assenza delle catene β, le catene α, non assemblate in tetrameri, precipitano
danneggiando con meccanismo ossidativo la membrana cellulare e
provocando così eritropoiesi inefficace (rassegna sintetica in Rund
Le b-thalassemie
Figura 1.
Ospedale di giornata della Clinica Pediatrica II di Cagliari dedicato
all’assistenza ai Thalassemici negli anni ’70.
e Rachmilewitz, 2005; Cao e Galanello, 2005; Higgs et al., 2001;
Olivieri e Weatherall, 2001) (Fig. 2).
Nelle Tabelle II e III vengono riportate le caratteristiche ematologiche
ed i tipi di emoglobina presenti nelle diverse sindromi talassemiche
Dopo la diagnosi di β-thalassemia omozigote (Tabb. I, II e III) occorre distinguere il bambino che presumibilmente svilupperà la forma
grave trasfusione-dipendente di thalassemia major da quello che
andrà incontro ad una forma attenuata (thalassemia intermedia).
Questa distinzione è fondamentale perché solamente il bambino
affetto da thalassemia major ha necessità di iniziare un regolare
programma trasfusionale (rassegna sintetica in Olivieri e Weatherall,
2001; Cao e Galanello, 2005). In favore della diagnosi di thalassemia
major stanno la presentazione precoce prima dei due anni di vita,
con anemia grave (< 7 g/dl) e difetto di crescita. Un contributo utile
può anche derivare dall’esame del genotipo (vedi oltre). In seguito
alla diagnosi di thalassemia major viene iniziato un trattamento trasfusionale regolare continuativo, disegnato in modo tale da produrre
valori di Hb minimi pre-trasfusionali di 95-105 g/l. Con questo trattamento, a condizione di stretta aderenza alla terapia ferro-chelante
per evitare l’accumulo di ferro (in gran parte legato alle trasfusioni e
minimamente all’iperassorbimento di ferro per l’eritropiesi inefficace), l’accrescimento e lo sviluppo sono normali fino all’età di 10 anni
Le complicazioni correlate a questo accumulo di ferro sono il difetto
di crescita e di maturazione sessuale conseguenti a danno di diversi
organi similmente a quanto si verifica nell’emocromatosi ereditaria
(HFE). Gli organi più colpiti sono il cuore (miocardiopatia dilatativa), il
fegato (fibrosi e cirrosi) e le ghiandole endocrine (diabete da difetto e
resistenza all’insulina, ipotiroidismo, ipoparatiroidismo e ipogonadi-
Figura 2.
Lo sbilanciamento della sintesi globinica e la produzione delle catene β-globiniche nelle diverse sindromi talassemiche.
Appare evidente come la sintesi di β-globina diminuisce e lo sbilanciamento tra catene α e β-γ aumenta con la gravità della sindrome
(portatore ➝ thalassemia intermedia ➝ thalassemia major).
smo ipogonadotropo). Studi recenti hanno analizzato i rapporti nella
thalassemia tra l’attività eritropoietica, l’accumulo di ferro ed i livelli
di epcidina, un ormone epatico che regola l’omeostasi del ferro inibendo l’assorbimento di ferro intestinale ed il riciclaggio del ferro dei
macrofagi. In linea di massima la produzione di epcidina aumenta in
presenza di accumulo di ferro ed è inibita dalla attività eritropoietica.
Altri fattori controllanti la sua sintesi sono l’ipossia (effetto inibitore)
e l’infiammazione (effetto attivatore). In accordo, nella thalassemia
major la riduzione dell’attività eritropoietica e l’accumulo di ferro
secondariamente alle trasfusioni determinano un aumento relativo
dei livelli di epcidina che riduce l’assorbimento intestinale del ferro e
la liberazione del ferro dai macrofagi (contribuendo così all’aumento
della ferritina serica). Nella thalassemia intermedia, invece, prevale
l’aumento della attività eritropoietica che determina difetto di epcidina con relativo iperassorbimento di ferro e deplezione del ferro
macrofagico (Fig. 3) (Rivella et al., 2007; Origa et al., 2007; Gardenghi et al., 2007). Studi recenti indicherebbero che la inibizione della
sintesi di epcidina potrebbe essere legata ad un aumento nel siero
del Growth Differentiation Factor (GDF15), un membro della famiglia
dei trasforming growth factors β (Babitt et al., 2006) iniziatori dell’espansione eritroide.
Altre complicanze sono costituite dall’ipersplenismo (per lo più
secondariamente ad un programma trasfusionale difettoso), la cirrosi (da accumulo di ferro ed epatite cronica), le trombosi venose
(specie dopo splenectomia ed in soggetti non ben trasfusi, dovute
ad anomalie della membrana eritrocitaria ed in minimo grado a
Tabella I.
Fenotipo della β-thalassemia.
Categoria
Genotipo
Clinica
Portatore sano
Eterozigote
Asintomatico
Thalassemia intermedia
Omozigote*
Anemia microcitica
Splenomegalia
Non necessita trasfusione
Thalassemia major
Omozigote
Anemia microcitica
Splenomegalia
Necessita trasfusioni
* Talvolta eterozigote, come nella forma dominante e nel doppio eterozigote β-thalassemia/gene α-triplicato (vedi paragrafo su correlazione genotipofenotipo).
37
A. Cao
Tabella II.
Indici ematologici nelle sindromi talassemiche.
Indici
Normali
Maschi
Femmine
Malati
(Thalassemia major)
Portatori
(Thalassemia minor)
(MCV fl)
89,1 ± 5,01
87,6 ± 5,5
50-70
<79
(MCH pg)
30,9 ± 1,9
30,2 ± 2,1
12-20
<27
(Hb g/dL)
15,9 ± 1,0
14,0 ± 0,9
<7
Maschi: 11,5-15,3
Femmine: 9,1-14
Da Cao e Galanello, 2005.
Tabella III.
Tipi di Hb nelle sindromi Talassemiche (dopo 12 mesi di età).
Tipo Hb
Normali
Malati
Portatori
Omozigoti β°-thalassemici
Omozigoti β+-thalassemici*
HbA
96%-98%
0
10%-30%
92%-95%
HbF
< 1%
95%-98%
70%-90%
0,5%-4%
HbA2
< 3%
Normale – Subnormale – Aumentata
> 3,5%
* e eterozigoti composti β°/β Thalassemici
+
Figura 3.
Diagramma schematico sul ruolo della emojuvelina (HJV) ed epcidina nel controllo del metabolismo del ferro.
HJV interagisce con il ligando bone morphogenetic protein (BMP) e con i recettori BMP tipo I e tipo II (R-I, R-II) per generare un segnale
complesso. I R-II aggiungono radicali PO4 agli R-I che a loro volta aggiungono PO4 a Smad 1, Smad 5 e Smad 8 attivandoli (R-Smad). R-Smad
fosforilato forma un complesso col mediatore comune Smad 4 (Co-Smad). Il complesso Smad (R-Smad P- Co-Smad-P) trasloca nel nucleo
ove aumenta la trascrizione di hepcidina. Nella β-thalassemia intermedia, l’espansione dei precursori eritroidi determina un aumento di
GDF15, un membro della famiglia dei Transforming Growth-β (TGF-β) che antagonizza la via dei BMP, con conseguente repressione dell’espressione di epcidina. Mutazioni di HJV ed epcidina producono forme di emocromatosi giovanile.
ipercoagulabilità per alti livelli di fattori procoagulanti e bassi livelli di inibitori (rassegna sintetica in Eldor e Rachmilewitz, 2002),
l’osteoporosi (di origine multifattoriale: ipogenitalismo, diabete,
38
ipotiroidismo, ipoparatiroidismo, ematopoiesi inefficace, difetto
GH e IGF1) e l’ipertensione polmonare (probabilmente secondaria
all’emolisi cronica) (rassegna sintetica in Rund e Rachmilewitz,
Le b-thalassemie
2005; Cao e Galanello, 2005). Attualmente più raramente si osservano le infezioni secondarie a trasfusione quali l’infezione da HIV,
le epatiti B e C le infezioni da CMV e da HTLV e la malaria. Del pari
meno frequenti rispetto al passato le infezioni batteriche secondarie alla splenectomia (Pneumococco, Haemophilus influentiae,
batteri gram-negativi). Vengono segnalate infezioni da Stafilococco aureus correlate alla iniezione sottocutanea di Desferrioxamina.
Occasionalmente, per la prolungata sopravvivenza viene descritto
il carcinoma epatocellulare dovuto ad infezione virale cronica ed
all’accumulo di ferro. Attualmente la sopravvivenza degli individui
trattati appropriatamente con le trasfusioni e la terapia ferro-chelante (vedi oltre) si estende oltre la 3° decade. La causa di morte
principale (71%) è la miocardiopatia dilatativa secondaria all’emocromatosi trasfusionale (Borgna-Pignatti et al., 2006). L’entità dell’accumulo di ferro, cruciale ai fini di monitorizzare la terapia ferro-chelante viene effettuata con la determinazione della ferritina
(indice infedele poiché i suoi livelli plasmatici aumentano aspecificatamente per il danno epatico), la Risonanza Magnetica Nucleare
(MRI) e la biosuscettometria magnetica (Squid). L’analisi ideale è
la biopsia del fegato, che non è attualmente usata, poiché invasiva
e poiché è stato dimostrato che in presenza di fibrosi epatica la
distribuzione del ferro nel fegato e irregolare con conseguenti falsi
positivi e negativi (Rassegna sintetica in Cao e Galanello, 2005).
Il quadro clinico della thalassemia intermedia consiste in anemia di
moderata gravità subittero, epato-splenomegalia, calcolosi biliare,
ulcere malleolari, sviluppo di masse iperplastiche di midollo osseo
(con relativi effetti compressivi ad esempio sul midollo spinale),
comparsa di osteoporosi, tendenza trombotica (per la composizione lipidica abnorme della membrana del globulo rosso) (rassegna
sintetica in Borgna-Pignatti, 2007; Cao e Galanello 2005; Olivieri e
Weatherall, 2001). Per definizione le trasfusioni non sono necessarie
oppure lo sono solo occasionalmente. Le complicanze legate all’accumulo di ferro sono simili a quelle della thalassemia major, ma si
sviluppano più tardivamente.
Genetica molecolare
Lo studio molecolare delle β-thalassemie cominciò negli anni ’70. Io
fui molto fortunato per trovarmi al posto giusto nel momento giusto
per partecipare personalmente a questa meravigliosa avventura che
condusse alla definizione molecolare di questo gruppo di malattie, a
stabilire la loro eterogeneità genotipica, a chiarire, almeno in parte,
le correlazioni tra genotipo e fenotipo, ed ad aprire la ricerca per una
terapia genica definitiva (rassegna sintetica in Higgs et al., 2001). In
quel periodo, infatti, i progressi della genetica molecolare consentirono al nostro gruppo di definire molecolarmente le β, α, δ-thalas-
semie in Sardegna ed in molte regioni Italiane (Rosatelli et al., 1992).
Il gene β-globinico mappa nel braccio corto del cromosoma 11 (Fig.
4) assieme ad altri geni β-globinici simili, tra cui i geni Gγ e Aγ, che
codificano per le catene γ dell’HbF ed il gene δ, che codifica per
le catene δ-globiniche che assieme alle catene α formano la HbA2
(α2δ2), la specie di Hb che, con il suo aumento, consente la precisa
identificazione del portatore di β-thalassemia. La trascrizione del
gene β-globinico è regolata dal promotore situato nella posizione 5’
al gene che contiene sequenze fondamentali per questo processo:
TATA, CAAT e CACCC box e da un elemento con funzione regolatrice
ed enhancer localizzato 50kb a monte e denominato Locus Control
Region (LCR). La trascrizione del gene dipende da diverse proteine
(fattori trascrizionali) tra cui il più importante è il Fattore Eritroide
Kruppel-Simile, denominato EKLF (nome derivato dai geni omeotici
della Drosophila) che si lega alle sequenze CACCC specie prossimali attivando la trascrizione del gene β-globinico. La disattivazione
knockout del gene che codifica EKLF nel topo determina lo sviluppo
di un quadro clinico β-thalassemico-simile (rassegna sintetica in
Higgs et al., 2001; Cao e Galanello, 2005).
Le β-thalassemie sono eterogenee molecolarmente risultando da più
di 200 mutazioni diverse per lo più costituite da lesioni puntiformi e
più di rado da grandi delezioni. Le lesioni puntiformi comprendono singole sostituzioni nucleotidiche o delezioni/inserzioni di oligonucleotidi
che esercitano effetti negativi sulla trascrizione, sulla traduzione del
gene o sulla stabilità della proteina relativa. Nella Tabella IV riportiamo le mutazioni β-thalassemiche lievi e silenti più frequenti in Italia.
Nonostante l’elevata eterogeneità della β-thalassemia, in ogni regione predominano per lo più un numero limitato di lesioni molecolari
(da 3 a 5). In Sardegna, a causa dell’isolamento genetico millenario,
è presente una mutazione prevalente (non senso CAG-TAG al codone
39) che è responsabile del 95% circa dei casi (Fig. 5 e Tab. IV). Più di
rado le β-thalassemie sono dovute a delezione limitate intrageniche
o a delezioni più estese che coinvolgono in modo variabile anche i
geni δ, Gγ e Aγ (β-thalassemie complesse, comprendenti le δβ- e le
γδβ-thalassemie). Eccezionalmente sono in giuoco le delezioni della
LCR che silenziano, pur lasciandoli strutturalmente intatti, tutti i geni
β-globinici. Le delezioni della LCR del gruppo dei geni β-globinici
costituiscono il primo esempio di difetto funzionale di un gene per
alterazione di sequenze lontane con funzione regolatrice. Esistono
infine rarissime forme di β-thalassemia con gene β-globinico intatto,
il cui meccanismo molecolare, non ancora definito, probabilmente
risiede in un difetto di fattori trascrizionali. In due casi, il difetto di
funzione del gene β è risultato associato allo xeroderma pigmentoso
e alla tricotiodistrofia (a causa di una lesione molecolare del gene per
il fattore generale di trascrizione TFIIH), o alla trombocitopenia (per
lesione molecolare del fattore codificato dal cromosoma X, GATA 1
Figura 4.
Rappresentazione schematica dei geni β-globinici e del locus control region (LCR) sul braccio corto del cromosomico 11.
39
A. Cao
Figura 5.
Distribuzione delle β-thalassemie in Italia.
Ogni colore rappresenta una mutazione diversa.
un fattore trascrizionale specifico della serie eritroide e piastrinica)
(Viprakasit et al., 2001; Freson et al., 2001).
In base all’effetto sulla produzione di RNA messaggero e relativa
globina, le mutazioni si dividono in gravi, medie, silenti (Tab. IV).
L’analisi mutazionale del gene β-globinico si basa sull’uso combinato di tecniche per identificare sia le mutazioni puntiformi (metodologie di microarray PCR-basate) (Gemignani et al., 2002), che quelle
delezionali (MPLA = multiple ligation-dependent probe amplification). La diagnosi molecolare della β-thalassemia è necessaria per
identificare l’allele mutato nelle coppie a rischio ai fini della diagnosi
prenatale ed è utile per differenziare le β-thalassemia major dalla
forma intermedia attraverso la caratterizzazione della gravità del difetto (mutazioni silenti, lievi e gravi).
Correlazione genotipo-fenotipo
Le correlazioni genotipo-fenotipo verranno analizzate sia negli omozigoti che negli eterozigoti (Tab. V) (vedi rassegne sintetiche: Cao et al., 1994;
Rund e Rachmilewitz, 2005; Cao e Galanello, 2005). Negli omozigoti un
fenotipo attenuato è determinato da ogni fattore ereditario capace di ri-
durre lo sbilanciamento tra la produzione di catene globiniche α e catene
globiniche non α (β + γ), mentre negli eterozigoti un fenotipo intermedio
è il risultato di un aggravamento del modesto sbilanciamento tra produzione di catene globiniche α e non α tipico dell’eterozigote semplice.
Nel caso degli omozigoti, il fattore più importante nel condizionare un fenotipo intermedio (thalassemia intermedia) è la omozigosi o eterozigoti
composta per mutazioni lievi o silenti. L’eterozigote composto per mutazioni lievi/silenti e mutazioni gravi ha invece un fenotipo estremamente
variabile. Un secondo fattore è la cotrasmissione con l’omozigosi per la
β-thalassemia di α-thalassemia che riducendo le catene α-globiniche
in eccesso, limita conseguentemente anche lo sbilanciamento α/β + γ,
il maggior determinante della patogenesi. L’effetto della cotrasmissione
della α-thalassemia è tuttavia così variabile, si da non consentire il suo
uso ai fini prognostici. Il terzo fattore capace di migliorare il fenotipo è
la cotrasmissione di determinanti genetici che causano una persistenza
della sintesi della HbF Hereditary Persistence of Fetal Hb (HPFH) nella
vita adulta in modo tale da compensare il difetto di HbA (α2β2). Questi
fattori sono di diverso tipo:
a) delezioni del promoter β e δβ-thalassemie per riduzione della
competizione tra il promoter del gene β e quello dei geni Gγ Aγ
per il LCR;
b) cotrasmissione di mutazioni puntiformi riguardanti il promotore
del gene Aγ o Gγ. La più frequente di queste mutazioni è una
singola sostituzione C-T alla posizione -158 5’ rispetto al gene
Gγ (Gγ-158 C→T). Questa mutazione è in linkage disequilibrium
con le mutazioni del gene β-globinico, β IVS II-I (G → A), frameshift 8 (-AA) e frameshift 6 (-A). Questa associazione spiega
il carattere lieve di queste mutazioni nonostante il fenotipo di
β°-thalassemia;
c) cotrasmissione di HPFH eterocellulare (a differenza delle precedenti che sono pancellulari) che mappano al di fuori del gruppo
dei geni β-globinici in tre loci: Xq22.2-Xq22.3, 8q e 6q22.3, q23.3.
Solo il gene (i) responsabile del tratto mappante in 6q sono stati
probabilmente definiti: HBS1L (appartenente alla famiglia delle
GTPasi) e cMyB, un gene che determina un blocco della differenziazione eritroide terminale (un suo difetto provocherebbe un
aumento della proporzione di progenitori eritroidi che entrano precocemente in differenziazione terminale che hanno pertanto un
programma attivo di produzione di HbF (Jiang et al., 2006; Thein et
al., 2007). Di recente tramite uno studio di associazione genomica
in soggetti sani abbiamo osservato una associazione significativa
(< p1035) tra i livelli di HbF ed un polimorfismo C/T nell’introne del
gene BCL11A, un fattore di trascrizione del tipo zinc-finger. L’allele C risulterebbe associato ad alti livelli di HbF. Abbiamo quindi
genotipizzato per questo polimorfismo due gruppi di pazienti con
β-talassemia (omozigoti per l’allele β°-39), uno affetto da forma
Tabella IV.
Mutazioni β-thalassemiche lievi e silenti più frequenti in Italia.
Sede mutazioni
Lievi
Silenti*
Trascrizionali del CACCC box prossimale
-87 C>G
-101 C>T
-92 C>T
Del “sito consenso” per il processamento
del RNA messaggero
IVS1-6 T>C
Degli introni
Delle sequenze codificanti
IVS2-844 C>G
cd6-A**
* Si chiamano silenti perché l’eterozigote per queste mutazioni mostra indici ematologici e livelli di HbA2 normali ed è individuabile solamente per un lieve
sbilanciamento della sintesi globinica (α/β+γ).
** Mutazione β° lieve per linkage in cis con la mutazione –158 Gγ (vedi testo)
40
Le b-thalassemie
Tabella V.
Cause di β-thalassemia intermedia.
In omozigoti (o eterozigoti composti) per β-thalassemia
• Mutazioni lievi o silenti
• Cotrasmissione di α-thalassemia (delezione di uno o due geni
α-globinici)
• Cotrasmissione di HPFH
– legate alla cluster β (pancellulare)
- legata alla mutazione per se (δβ-thalassemia)
- mutazioni del promoter Aγ, Gγ
– non legate alla cluster β (eterocellulare)
- crom 2
- crom 6
- crom 8
- crom X
In eterozigoti per β-thalassemia
• Mutazioni causa di Hb iperinstabile (forma dominante di β-thalassemia)
• Doppio eterozigote con gene ααα o αααα (in omozigosi o eterozigosi)
• Associata a delezione somatica in trans della cluster β-globinica
grave (talassemia major) e l’altro con forma attenuata (talassemia
intermedia) ed abbiamo trovato un significativo aumento dell’allele C nei pazienti con talassemia intermedia. BCL11A è pertanto
un fattore modificatore in senso migliorativo del fenotipo della βtalassemia (Uda et al., 2008).
Diversi altri fattori genetici non globinici possono modificare il fenotipo della β-thalassemia. Tra questi il più conosciuto è la mutazione
che causa la sindrome di Gilbert: [(TA)7 anziché (TA)6 nel TATA box
del promoter del gene codificante per la difosfoglucuronil-transferasi]
(UGT1A) che, in combinazione con la thalassemia major o intermedia,
o con il semplice stato di portatore, attraverso un difetto di glucuronilconiugazione della bilirubina determina un aumento della frequenza e
della gravità dell’ittero a bilirubina indiretta e della conseguente colelitiasi (Galanello et al., 2001; Cao e Galanello, 2005). Meno definiti gli
effetti modificatori della cotrasmissione del gene che codifica per la
HFE e di geni coinvolti nel metabolismo dell’osso.
I portatori di β-thalassemia anziché essere asintomatici possono
mostrare il fenotipo della thalassemia intermedia nelle seguenti
condizioni (rassegna sintetica in Rund e Rachmilewitz, 2005; Cao
e Galanello, 2005):
• eterozigoti per mutazioni che producono una globina altamente
instabile che precipita nella membrana del globulo rosso assieme alle catene α prima di formare il tetrametro Hb;
• doppi eterozigoti per una tipica eterozigosi per β-thalassemia
ed il gene α triplicato. Soggetti con questo genotipo associato a
ridotta espressione del gene che codifica per una proteina stabilizzante le catene α-globiniche libere (α-hemoglobin stabilizing
protein – AHSP) hanno un fenotipo più grave rispetto ai semplici
doppi eterozigoti (Lai et al., 2006);
• eccezionalmente portatori di β-thalassemia possono mostrare il fenotipo della thalassemia intermedia in seguito a inattivazione del gene
β-globinico in trans per delezione somatica (Galanello et al., 2004).
Consultazione genetica
Le β-thalassemie vengono trasmesse come carattere recessivo autosomico. L’individuazione di un caso di thalassemia major o inter-
Figura 6.
Riduzione della incidenza di omozigoti per la β-thalassemia in Sardegna.
Sulle ordinate numero dei nati con β-thalassemia omozigote per
anno.
Previsti = numero dei nati con β-thalassemia omozigote previsti in
base alla frequenza dei portatori;
Osservati = valori realmente osservati.
media induce ad eseguire la consultazione genetica della coppia e
ad una estesa analisi familiare allo scopo di individuare i portatori
sani del gene (Cao et al., 1997; Cao et al., 1998; Cao et al., 2002;
Cao e Galanello 2002).
Nella consultazione genetica vengono discusse le differenti opzioni
possibili tra cui astenersi dalla procreazione, adozione, fecondazione eterologa e diagnosi prenatale (Kan et al., 1975; Rosatelli et al.,
1985) (attraverso analisi degli amniociti o dei villi coriali) o preimpianto e preconcezionale (Kanawakis et al., 2002) (le ultime due non
disponibili per legge in Italia).
In popolazioni ad alto rischio come Sardegna, Sicilia, area del delta
padano, sono operativi programmi di screening degli adulti in età
prematrimoniale, in alcuni casi associati a screening degli adolescenti. Questi programmi si sono rivelati estremamente efficaci, da
un lato per disseminare le informazioni sulla β-thalassemia, indispensabili per una procreazione informata e dall’altro lato nel ridurre, in gran parte, attraverso la diagnosi prenatale l’incidenza della
malattia. In Sardegna ad esempio, l’incidenza dell’omozigote si è
ridotta da 1:250 nati vivi ad 1:4.000 (Cao et al., 1997; Cao et al.,
2002; Cao e Galanello 2002) (Fig. 6).
Alternative, rispetto a quelle menzionate per l’identificazione del feto
malato, come l’analisi degli eritroblasti fetali nel sangue materno e
lo studio del DNA-RNA fetale nel plasma materno (Dhallan et al.,
2007; Cheung et al., 1996) non sono ancora disponibili o sono associate a possibilità di errori.
Terapia
Terapia tradizionale
La terapia trasfusionale, già citata, viene associata a terapia ferrochelante. Nonostante lo sviluppo recente di diversi chelanti del ferro,
somministrabili per via orale e pertanto più accettati dal paziente, il
farmaco di scelta rimane la Desferrioxamina B (DFO), un chelante
esadentato. La terapia con DFO viene per lo più iniziata dopo 10-12
trasfusioni tramite infusione sottocutanea (per 12 ore circa) con una
pompa portatile. L’infusione viene effettuata ogni giorno per 5 giorni
41
A. Cao
alla settimana alla dose di 20-30 mg/kg che vengono portati a 40
mg dopo 5-6 anni ed a 50 mg quando l’accrescimento sia stato
completato. Le dosi oltre che dall’età dipendono anche dall’accumulo di ferro come documentato dai livelli di ferritina serica. Se la
terapia riesce a realizzare livelli di ferro nel fegato < 7 mg/g di peso
secco si verifica una consistente riduzione sia della morbilità che
della mortalità. Esperimenti di Fase Ib con DFO coniugato con amido
aprono le possibilità di un eventuale somministrazione settimanale
per la sua prolungata permanenza in circolo. Durante la terapia con
DFO viene somministrato acido ascorbico (100-150 mg/d) che potenzia l’effetto della DFO. Effetti collaterali della DFO sono: sordità
neurosensoriale, difetto di crescita, insufficienza renale, polmonite
interstiziale ed aumento della suscettibilità a talune infezioni (Yersinia enterocolitis, Klebsiella pneumoniae ed Escherichia coli). Il
maggior problema, tuttavia, è costituito dalla aderenza alla terapia.
La terapia con DFO viene monitorizzata valutando i livelli di ferritina, l’accumulo di ferro negli organi, quantificato tramite risonanza
magnetica nucleare (MRI) e/o biosuscettibilità magnetica. La MRI è
stata introdotta recentemente e consente di misurare il sovraccarico
di ferro sia nel fegato che nel cuore valutando il parametro T2* che
misura l’effetto sui protoni dell’accumulo di ferro ed è strettamente
correlato coi valori della frazione di eiezione del ventricolo sinistro.
La biosuscettibilità magnetica permette di misurare solo il ferro epatico ed è disponibile in un limitato numero di centri. Dopo molte
e protratte controversie internazionali è stato finalmente registrato
almeno in Europa il Deferiprone (L1), un chelante, bidentato, somministrabile per via orale alla dose di 75-100 mg/kg/die. L’effetto di
L1 sull’accumulo di ferro epatico è tuttavia variabile, ma per lo più di
uguale entità a quello prodotto da DFO. L1 ha diversi e gravi effetti
collaterali (neutropenia, agranulocitosi, artropatia e sintomi gastrointestinali) che rendono necessario un monitoraggio continuativo e lo
rendono farmaco di seconda scelta rispetto a DFO (Cohen et al.,
2003). La possibilità proposta che L1 possa determinare/aggravare
la fibrosi epatica è stata di recente esclusa (Wanless et al., 2002). Di
recente è stata notata netta superiorità nella cardioprotezione (miglioramento reperto MRI e minor probabilità di sviluppare malattia
cardiaca) di L1 rispetto a DFO (Borgna-Pignatti et al., 2006). Questi
rilievi hanno portato ad introdurre schemi di terapia combinata con
DFO e L1 (Wu et al., 2004; Neufeld, 2006). Nel complesso L1 appare
un farmaco pressoché equivalente a DFO ma più efficace rispetto a
DFO sull’accumulo di ferro cardiaco. Di recente è stato introdotto in
clinica un altro chelante tridentato attivo per os e denominato Deferasirox (alla dose di 10-30 mg/kg/die) che ha mostrato ottima efficacia e buona tolleranza. Gli effetti collaterali modesti consistono in
disordini gastrointestinali, rash cutanei e aumento della creatinina.
Studi di fase IV e post-marketing consentiranno di stabilire il ruolo di
questo nuovo chelante (rassegna sintetica in Maggio, 2007).
Il trattamento delle complicanze cardiache e delle alterazioni endocrinologiche, delle trombosi, e della ipertensione polmonare è
sintomatico ma richiede una implementazione e ottimizzazione della terapia chelante e trasfusionale. Per l’osteoporosi è necessario
inoltre stimolare l’attività fisica, somministrare calcio e vitamina D. I
bifosfonati sembrerebbe diano buoni risultati.
Nella thalassemia intermedia la terapia si fonda sulla splenectomia
e sulla supplementazione con acido folico. Le eventuali masse di
tessuto eritropoietico extramidollari vengono trattate con trasfusioni,
intensiva radioterapia e/o idrossiurea (secondo gli schemi in uso per
l’anemia falciforme) che determina un aumento dei livelli di HbF. Col
tempo si sviluppa anche in tale forma accumulo di ferro. Quando la
ferritina supera i 300 µg/L si inizia una terapia chelante individualizzata. Le complicanze (ulcere malleolari, trombosi venose, osteopo-
42
Tabella VI.
Raccomandazioni per lo studio longitudinale dei pazienti con thalassemia major.
Mensile
Esame clinico
Quadrimestrale
Ferritina serica
Semestrale
Funzione epatica
Annuale
Crescita
Pubertà
Esame audiologico
Esame oculistico
Apparato cardiovascolare
Organi endocrini
Ecografia epato-biliare
Determinazione α-fetoproteina
Densitometria ossea
rosi, osteopenia, ipertensione polmonare, calcolosi biliare) vengono
trattate in modo sintomatico (vedi per dettagli la recente rassegna
di Borgna-Pignatti, 2007). I pazienti con thalassemia sia intermedia
che major devono essere presi in carico e seguiti in modo appropriato da centri specializzati nel settore (Tab. VI).
Trapianto di midollo osseo
Al momento attuale l’unica terapia alternativa che consente di ottenere la guarigione è il trapianto di midollo osseo allogenico da
donatore familiare HLA-compatibile. In bambini senza fattori di rischio (epatomegalia, fibrosi epatica, accumulo di ferro) la sopravvivenza libera da malattia è maggiore del 90% (Gaziev e Lucarelli,
2003) (Fig. 7). La sopravvivenza si riduce al 60% in presenza di
tutti e tre i fattori di rischio su menzionati. La mortalità è legata
a infezioni con germi opportunisti e malattia acuta del trapianto
contro l’ospite (GVH). La forma cronica di GVH è di gravità variabile
e si verifica nel 5-8% dei casi. Il problema cruciale nel trapianto
di midollo è la valutazione accurata assieme al paziente e ai familiari dei pro e contro di questa terapia. Il trapianto di midollo da
donatore HLA identico non familiare è stato eseguito in un numero
limitato di individui. I risultati sembrerebbero discreti, certamente
inferiori a quelli ottenuti con trapianto da familiare HLA identico,
ma devono essere confermati su più larga scala (La Nasa et al.,
2006). Critica è la ricerca della HLA compatibilità incluso il locus
DPB1. Il trapianto di cellule staminali cordonali (che è associato a
basso rischio di GVH) da donatore correlato eseguito in pochi casi
ha dato buoni risultati. Un problema critico per gli adulti è il ridotto
numero di cellule staminali.
Terapie alternative molecolari
Le terapie alternative molecolari consistono nella riattivazione della
produzione di HbF e nella terapia genica (vedi rassegna di Quek e
Thein, 2007 e di Rund e Rachemiletz, 2005) (Fig. 8).
Le b-thalassemie
A
B
C
Figura 7.
Stima della sopravvivenza di pazienti con thalassemia major trapiantati da donatori familiari HLA identici (Kaplan-Meyer estimate).
A: Sopravvivenza libera da malattia in 61 pazienti talassemici (età
1-15 anni) dopo trapianto di midollo da donatore familiare.
B: Sopravvivenza libera da malattia in 39 pazienti talassemici (età
16-45 anni) dopo trapianto di midollo da donatore familiare.
C: Sopravvivenza libera da malattia in 21 pazienti talassemici (età
2-35 anni) dopo trapianto di midollo da donatore non familiare.
La riattivazione della produzione di HbF si da compensare il difetto di
HbA con mezzi farmacologici è stata ed è tuttora oggetto di intensi
studi. Tra i farmaci utilizzati ricordiamo, i butirrati, diversi composti
ad essi analoghi e numerosi acidi grassi a catena corta che agiscono
attraverso la inibizione della istone-deacetilasi specifica, mantenendo così uno stato di acetilazione del promoter dei geni Gγ e Aγ ed in
questo modo incrementando la produzione di catene γ. Un secondo
gruppo di farmaci (azacitadina e decitabina) è rappresentato dagli
inibitori della metiltransferasi specifica che determina ipometilazione dei promotori dei geni codificanti le catene γ e quindi promuova
la loro trascrizione. Il terzo gruppo (idrossicarbamide) (HU) è costituito da farmaci che accelerano la differenziazione prematura dei
precursori eritroidi che hanno attivo un programma di sintesi della
HbF ed in tal modo determinano un aumento di questa Hb. Successi
relativi con l’uso di HU sono stati ottenuti in pazienti con thalassemia
intermedia che hanno il polimorfismo C→T in posizione -158 Gγ che
facilita la produzione di HbF. Infine, sono stati fatti anche dei tentativi con eritropoietina, inappropriatamente ridotta nei pazienti con
thalassemia major, che stimola la proliferazione eritroide e riduce
l’apoptosi. Queste terapie sperimentali non hanno mai determinato
effetti sulla Hb tali da essere considerati per l’applicazione clinica.
Gli studi di terapia genica sono iniziati dopo alcuni anni dal clonaggio del
gene β-globinico. Sono stati fatti esperimenti di addizione genica (gene
β- oppure γ-globinico) tramite transfezione di cellule staminali con vettori basati su retrovirus e su virus adeno-associati e tentativi di sostituire
sempre in cellule staminali le sequenze del gene mutato con sequenze normali attraverso la ricombinazione omologa stimolata da specifici
costrutti. I tentativi di addizione genica sono del tutto falliti a causa di
transfezione di un numero modesto di cellule staminali e produzione di
una insufficiente e transitoria quantità di catene β o γ-globiniche. Del
pari l’uso della ricombinazione omologa si è rivelata inefficiente, a causa
del numero scarso di cellule corrette. Di recente, tuttavia, in un modello
murino di anemia falciforme è stato ottenuta in percentuale sufficien-
Figura 8.
Differente approccio di terapia genica nella β-thalassemia.
Transfezione di un gene β-normale in una cellula staminale emopoietica
con integrazione a caso nel genoma; reinfusione della cellula corretta.
Ricombinazione omologa tra un gene mutato normale ed il gene affetto
in cellule staminali. Stimolazione della sintesi di Hb fetale con farmaci o
fattori di trascrizione ad esempio EKLF ingenerizzato.
te la correzione del difetto delle cellule staminali con ricombinazione
omologa. La successiva reinfusione delle cellule corrette nell’animale ha
determinato un netto miglioramento dell’anemia (Chang et al., 2007).
Risultati promettenti sono stati di recente ottenuti in modelli murini di thalassemia major e intermedia con l’uso di vettori lentivirali
(derivati dall’HIV che hanno il vantaggio di poter essere trasfettati
in cellule non in mitosi), contenenti il gene β-globinico con tutte le
sequenze con funzione regolatrice inclusa la LCR e talvolta anche
sequenze cosiddette isolanti per evitare il silenziamento del gene
da parte della eterocromatina fiancheggiante (Rivella et al., 2003).
In questi esperimenti è stata realizzata una produzione di HbA in
quantità pari a circa il 30%, che potrebbe essere sufficiente per trasformare una thalassemia major in intermedia. Studi preclinici con
questi vettori sono in corso o stanno per essere programmati. Di
recente un importante progresso nel campo delle cellule staminali
è stato realizzato producendo una cellula pluripotente paziente e
malattia specifica molto simile ad una cellula staminale embrionale
transfettando via retrovirus geni codificanti per 4 fattori di trascrizione Oct3/4, Sox2, c-Myc e Klf4, fibroblasti cutanei murini o umani
(induced pluripotent stem = iPS) (Takahashi et al., 2007).
Alcuni mesi fa il gruppo di Rudolf Jaenisch ha applicato queste
conoscenze alla correzione cellulare-genica di un modello murino
di anemia falciforme. L’esperimento può essere così sintetizzato:
preparazione di cellule iPS dal topo malato; correzione del difetto
tramite ricombinazione omologa con un costrutto contenente il gene
selvaggio (ottenibile con relativa facilità in cellule staminali); produzione con appropriati fattori trascrizionali di cellule staminali emopoietiche, trapianto di queste cellule nel topo malato e ottenimento
della guarigione (Hanna et al., 2007).
Prospettive future
Le più importanti prospettive per il futuro riguardano i seguenti
aspetti:
a) definizione dei fattori che regolano la produzione di HbF e relativa possibilità di utilizzare queste conoscenze per la sua attivazione in via farmacologica;
b) miglioramento del trapianto di cellule staminali attraverso progressi
43
A. Cao
nella tipizzazione, nel controllo della GVH e della infezione da CMV;
c) sviluppo ed applicazione clinica della terapia genica;
d) introduzione in terapia di nuove molecole ferro-chelanti attive
per os.
In riferimento alla attivazione di HbF gli studi di associazione genomica (GWS) dovrebbero consentire di identificare nuovi geni che
controllano la produzione di catene γ. La stimolazione di questi nuovi
geni e di alcuni di quelli già conosciuti responsabili di HPFH eterocellulare come HBS1L potranno portare a risultati migliori rispetto a
quelli deludenti fino ad ora ottenuti con questo approccio.
Per quanto riguarda il trapianto di cellule staminali, una prospettiva di un
certo interesse è quella di ottenere una chimera di cellule staminali trapiantate e di cellule selvagge attraverso una riduzione dell’intensità della terapia mieloablativa che sembrerebbe capace di rendere il paziente
trasfusione-indipendente. La terapia genica, attraverso l’ottimizzazione
dei costrutti lentivirali o tramite l’implementazione della ricombinazione
omologa potrebbe finalmente raggiungere l’applicazione clinica.
Altri tentativi di terapia genica di un certo interesse si fondano sul
silenziamento di geni α-globinici attraverso la RNA interferenza (produzione di α-thalassemia che come è noto migliora il fenotipo della
β-thalassemia), sulla repressione del gene β-globinico mutato endogeno con mRNA antisenso o con la RNA interferenza associata alla
introduzione di un gene normale con vettori lentivirali e sull’uso di
Zn-finger endonucleasi che potrebbero correggere il difetto del gene
mutato sfruttando i sistemi di riparazione del DNA. Un più modesto
interesse hanno i tentativi di potenziare la produzione di AHSP e così
ridurre l’eccesso di catene α-libere e lo sviluppo di agonisti della epcidina per limitare l’accumulo di ferro nella thalassemia intermedia.
Di grande rilevanza sociale è peraltro la possibilità che i moderni
sistemi di diagnostica, prevenzione e terapia possano essere introdotti nei paesi in via di sviluppo nei quali la limitazione delle risorse
economiche preclude al momento attuale tali possibilità.
Box di orientamento
Cosa sapevamo sulla β-thalassemia negli anni ’70
• Presente solo nei paesi con o pregressa endemia malarica.
• Esordio con quadro clinico caratteristico: anemia, epato-splenomegalia, modificazioni ossee.
• Anemia di tipo microcitico con pattern Hb caratterizzato da assenza o ridotta HbA e presenza di HbF.
• Causa: difettosa o assente sintesi delle catene β-globiniche.
• Non esistenza di terapie efficaci. Le trasfusioni vengono effettuate solo in presenza di anemia grave.
Cosa sappiamo oggi sulle β-thalassemie
• La migrazione ha disseminato la malattia in tutto il mondo.
• I geni globinici sono stati clonati, la patologia molecolare è stata definita, si sono realizzati progressi nella correlazione genotipo-fenotipo, sono stati
individuati geni modificatori tra cui alcuni determinanti la produzione di HbF.
• La terapia trasfusionale programmata associata alla terapia chelante con DFO ha determinato la scomparsa del quadro clinico tipico ed un prolungamento della sopravvivenza.
• Sono stati identificati chelanti orali del ferro (L1 e Deferasirox).
• In casi selezionati il trapianto di midollo allogenico ha determinato la guarigione.
• Si sono realizzati progressi nella terapia genica e cellulare con vettori lentivirali in modelli murini.
Cosa ci aspettiamo nei prossimi anni
• Identificazione con lo studio di associazione genomico di nuovi tratti regolanti l’HbF.
• Identificazione, tramite screening di librerie di farmaci, di prodotti stimolanti la produzione di HbF e relativa applicazione clinica.
• Progressi nel trapianto di midollo con terapia non mieloablativa.
• Scoperta di nuovi chelanti del ferro.
• Applicazione clinica di terapia genica additiva con vettori lentivirali.
• Sviluppo della terapia genica e cellulare basata su ricombinazione omologa o con trasformazione delle sequenze mutate del gene β-globinico in
sequenze normali tramite Zn-finger endonucleasi.
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Descrizione di varianti geniche in 6q23 influenzanti i livelli di Hb fetale.
Uda M, Galanello R, Sanna S, et al. Genomic-wide association study shows
BCL11A associated with persistent fetal hemoglobin and amelioration of the
phenotype of β-thalassemia. PNAS 2008;125:1620-5.
Viprakasit V, Gibbons RJ, Broughton BC, et al. Mutations in the general transcription factor TFIIH result in beta-thalassaemia in individuals with trichothiodystrophy. Hum Mol Genet 2001;10:2797-802.
* Descrizione di un caso di thalassemia associato a tricotiodistrofia e dovuto a
mutazione del fattore di trascrizione generali TFIIII.
Wanless IR, Sweeney G, Dhillon AP, et al. Lack of progressive hepatic fibrosis
during long-term therapy with deferiprone in subjects with transfusion-dependent beta-thalassemia. Blood 2002;100:1566-9.
Dimostrazione che il deferiprone non causa fibrosi epatica.
Corrispondenza
prof. Antonio Cao, Istituto di Neurogenetica e Neurofarmacologia, Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), via Jenner s/n, 09121 Cagliari • Tel. +39
070 503341 • Fax +39 070 6095524 • E-mail: [email protected]
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Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 46-51
Trauma cranico minore
Liviana Da Dalt, Barbara Andreola
Dipartimento di Pediatria, Università di Padova
Riassunto
Il trauma cranico è uno dei più comuni eventi accidentali dell’età pediatrica. La maggior parte dei
bambini giungono all’osservazione con trauma cranico minore il cui quadro clinico per lo più si risolve
spontaneamente, anche se una piccola percentuale di essi può sviluppare una lesione intracranica.
Obiettivo della condotta medica è pertanto individuare rapidamente i bambini con lesione, razionalizzando il ricorso alla diagnostica per immagini nei bambini in cui tale rischio è molto basso.
La letteratura relativa all’approccio al bambino con trauma cranico minore è molto controversa e non vi
è accordo su quali siano i parametri clinici che, da soli o in associazione, meglio predicono la presenza
di lesione, specialmente nei più piccoli.
Per molti anni gli studi condotti a tale proposito sono stati retrospettivi, caratterizzati da piccole casistiche, ed hanno raggiunto risultati spesso discordanti. Più recentemente una metanalisi e una serie di
studi prospettici caratterizzati da casistiche particolarmente numerose hanno concluso che nel bambino
con trauma cranico minore presenza di frattura, perdita di coscienza, amnesia, GCS < 15, convulsione
sono i principali predittori di lesione intracranica; controverso è invece ancora la predittività di sintomi
molto comuni quali il vomito e la cefalea.
Infine nella letteratura degli ultimi anni sta emergendo con sempre maggiore evidenza l’esigenza, nella gestione del trauma cranico, di avere a disposizione dei marcatori biochimici sierologici di danno
cerebrale che affianchino e completino le informazioni fornite dalla valutazione clinica e dalle indagini
neuroradiologiche. L’attenzione si è concentrata in particolar modo su tre mediatori: la proteina S-100B,
la enolasi neurono-specifica e la proteina basica della mielina, pur con risultati non ancora conclusivi.
Liviana Da Dalt è nata a Vittorio
Veneto (TV) il 23 Dicembre 1952. È
Professore Associato di Pediatria dell’Università di Padova e Responsabile
dei Reparti Pronto Soccorso Pediatrico – Pediatria d’Urgenza del Dipartimento di Pediatria di Padova. Nello
stesso Dipartimento copre il ruolo di
Coordinatore delle Attività Didattiche.
I suoi ambiti principali di interesse
sono l’urgenza pediatrica e la formazione post-laurea. È Co-direttore
di Prospettive in Pediatria dal 2005.
È sposata, ha una figlia di 19 anni.
Ama le buone letture, la musica e il
cinema.
Summary
Head trauma occurs commonly in childhood. Most head injury in children is mild and not associated
with brain injury or long-term sequelae. However, a small number of children who appear to be at low
risk may have an intracranial injury.
The goal of evaluation of children with mild head trauma is to identify those with traumatic brain injury
(TBI) and prevent deterioration and secondary injury, while limiting unnecessary radiographic procedures. Imaging, usually with computed tomography (CT), is highly sensitive for identifying brain injury
requiring acute intervention.
However, clinical predictors for intracranial injury are often not specific, particularly in young children.
Many studied have been performed to attempt identification of clinical features, such as symptoms or
signs related to head injury, which might predict intracranial injury in children. For many years most
were small, retrospective series with very controversial results. Recently, a meta-analysis and a series
of large prospective studies produced increasing evidence that the presence of skull fracture, loss of
consciousness, amnesia, GCS < 15, seizures are the main predictors of intracranial injury, whereas the
predicting values of vomiting and headache is still controversial.
More recently, researchers and clinicians have focused on specific markers of brain cell damage to
improve the diagnosis and monitoring of neurological insults: serum S-100B protein, Neuron-Specific
Enolase, Myelin-Basic Protein.
Il trauma cranico continua ad essere un problema di salute importante nell’età evolutiva e, nonostante le numerose strategie messe
a punto per ridurne l’incidenza, esso tuttora costituisce una delle
più comuni cause di accesso al Pronto Soccorso e la prima causa di
morte e di disabilità dopo il primo anno di vita.
Di fatto, nella maggior parte dei numerosi bambini che nella realtà
del nostro Paese vengono portati all’osservazione dopo un trauma
cranico (si stima 300.000 per anno), il trauma si risolve senza conseguenze; è stato calcolato infatti che complessivamente solo 5
bambini ogni 1000 sviluppano una lesione intracranica, con valori
più elevati (19,2/1000) nella fascia di età superiore a10 anni, in relazione alle dinamiche più severe degli eventi accidentali in questa
fascia di età (Da Dalt et al., 2006).
46
Tale basso rischio di lesione è conseguenza del fatto che in oltre il
90% dei casi la presentazione clinica all’arrivo in Pronto Soccorso
è quella di un trauma cranico minore. Tale definizione si applica ai
bambini che, alla prima valutazione obiettiva, presentano: normale stato di coscienza, assenza di anomalie neurologiche o di segni
neurologici focali, assenza di evidenti segni clinici di frattura della
base o di frattura complicata della volta, e che possono aver presentato o meno, nel periodo immediatamente successivo al trauma,
perdita di coscienza o letargia transitorie, o vomito o cefalea o breve
convulsione (AAP, 1999). Identificare rapidamente, tra questi molti
bambini, quelli veramente a rischio di lesione costituisce la sfida più
importante per il medico che accoglie il bambino in Pronto Soccorso;
è questa la ragione per cui la gran parte della letteratura relativa al
Trauma cranico minore
trauma cranico minore è rivolta ad individuare i parametri clinici più
predittivi di danno intracranico, nonché a capire l’utilità degli esami
strumentali nel percorso decisionale.
Che cosa si sapeva
Negli anni ’70 l’attenzione della ricerca clinica era prevalentemente
tesa a valutare il significato della presenza di frattura, e quindi il
ruolo della radiografia del cranio nel predire una lesione intracranica. Ne derivò una letteratura molto ricca di lavori ma molto controversa nei risultati; se da un lato infatti la presenza di frattura indica
che una forza significativa è stata applicata alla volta cranica, e ciò
aumenta la probabilità di lesione, di fatto molti Autori dimostrarono come molte fratture non si associno a lesione e d’altro canto
come lesioni intracraniche avvengano in assenza di frattura. Ci si
è andati quindi progressivamente spostando da una situazione in
cui la radiografia del cranio era esame routinario nell’approccio al
bambino con trauma cranico minore ad una in cui a tale esame
veniva riservato un ruolo molto limitato, privilegiando invece molto
l’osservazione clinica.
Alla fine degli anni ’70 la TAC cerebrale ha cambiato l’approccio al
bambino con trauma cranico e tale esame è tuttora considerato il
gold standard, in urgenza, per la diagnosi di lesione intracranica
di natura traumatica. La TAC cerebrale non è però proponibile su
larga scala considerati i costi ed i possibili effetti negativi legati
all’esposizione radiante, a cui il bambino è più sensibile rispetto
all’adulto (Brenner et al., 2002), nonché alla frequente necessità
di sedazione. L’individuazione di predittori clinici di lesione, sulla
base dei quali selezionare i bambini da sottoporre a TAC cerebrale,
è diventata pertanto oggetto di numerosi studi, ma fino ai primi
anni del nuovo millennio questi sono stati prevalentemente osservazionali e retrospettivi, con risultati contrastanti e con scarse
evidenze forti sulle quali basare precise raccomandazioni per la
pratica clinica. Una revisione sul tema è stata oggetto di un nostro
lavoro pubblicato in Prospettive in Pediatria nel 2003 (Da Dalt et
al., 2003)
Modalità della revisione
Per il presente lavoro la ricerca bibliografica principale è stata condotta in banche dati di linee guida (SIGN, CMA infobase, National
Guidelines Clearinghouse, New Zeland Guidelines Group), in database generici (Tripdatabase), in PubMed consultando la banca dati
Medline. Le stringhe di ricerca utilizzate sono state: 1) “Craniocerebral trauma” (MESH); 2) “Minor head trauma” (Text) OR “Mild Head
trauma” (Text) OR “Minor Head injury” (Text) OR “Mild Head injury”
(Text). Sono stati applicati limiti inerenti l’età della popolazione (all
child: 0-18 years), la data di pubblicazione degli articoli (publication
date from 2003 to 2008), la lingua (English language). Fra i “publication types” si è riusciti ad individuare, molto di più rispetto al
passato, lavori con buoni livelli di evidenza quali review sistematiche, metanalisi, trial randomizzati controllati, studi osservazionali
prospettici con grandissima numerosità del campione studiato.
Una ricerca aggiuntiva ha riguardato i marcatori biochimici di danno
tissutale nel trauma cranico; la stringa di ricerca utilizzata è stata la
seguente: “S-100B” OR “S-100b protein” OR “S100 beta” OR “NSE”
OR “Neuron Specific Enolase” OR “Myelin Basic Protein, AND “Head
Trauma” OR “Head Injury” OR “Craniocerebral Trauma”, selezionando i limiti sopra riportati. Gli articoli relativi all’età pediatrica sono
essenzialmente risultato di studi osservazionali.
Le conoscenze degli ultimi anni
L’anno 2004 segna un momento importante nella storia della letteratura relativa al trauma cranico. Per la prima volta infatti viene
pubblicato un lavoro di metanalisi teso a valutare i predittori di lesione intracranica a partire da una letteratura molto controversa, fatta
di oltre 2000 studi di cui solo 16 includibili perché metodologicamente corretti. Le conclusioni degli Autori sono che dei più comuni
segni e sintomi che un bambino può presentare dopo un trauma,
solo la perdita di coscienza, il Glasgow Coma Scale < 15, i segni
neurologici focali, la frattura della volta sono predittori dello sviluppo
di lesione, con una significatività ai limiti evidenziata anche per le
convulsioni (Dunning et al., 2004). Nessuna associazione significativa viene invece evidenziata tra lesione intracranica e presenza di
cefalea o vomito, sintomi peraltro molto frequenti dopo un trauma
cranico minore ma la cui predittività sullo sviluppo di lesione, per
lo meno come sintomi isolati, rimane di fatto ancora controversa. E
relativamente al vomito meritano menzione i lavori che dimostrano
come tale sintomo sembri correlato non tanto alla presenza di lesione quanto ad una predisposizione del bambino a vomitare, espressa
come storia personale e familiare di disturbi ciclici (cinetosi, vomito
ciclico, cefalea) (Da Dalt et al., 2007; Jan et al., 1997),
Ancora, a partire dal 2003, è stata pubblicata una serie di lavori,
tutti prospettici e con casistiche molto ampie (elemento questo fondamentale per studiare un evento molto poco frequente come la
lesione intracranica), volti a valutare la predittività sullo sviluppo di
lesione non di singoli dati clinici ma di una combinazione di essi, al
fine di mettere a punto strumenti di valutazione e decisionali il più
possibile sensibili. Sfortunatamente questi studi sono tra di loro difficilmente comparabili per i diversi criteri di inclusione e di essi alcuni
includono anche bambini con trauma cranico maggiore. I risultati più
significativi sono riassunti in Tabella I (Palchack et al., 2003; Oman
et al., 2006; Dunning et al., 2006).
Lo studio di Paltchack (Paltchack et al., 2003), è uno studio prospettico osservazionale, pubblicato pochi mesi prima della metanalisi
di Dunning, che valuta 2043 bambini (età inferiore ai 18 anni) con
trauma cranico minore, di cui 1271 sottoposti a TAC cerebrale, tutti
seguiti con follow-up per escludere lesioni tardive, 98 con lesione
intracranica. I predittori più forti risultano essere la depressione dello
stato di coscienza, i segni neurologici focali, l’ematoma dello scalpo
in bambini < 2 anni di età, la perdita di coscienza, le convulsioni; in
minor misura la cefalea ed il vomito. La presenza di almeno uno di
tali segni clinici identifica il 99% dei bambini con lesione intracranica (95% CI 94%-100%) ed il 100% di quelli con lesione intracranica
che richiede intervento (95% CI 97%-100%). La loro assenza, d’altro
canto, permette invece di identificare i bambini a basso rischio.
Il lavoro condotto da Oman (Oman et al., 2006) analizza una coorte
di 1066 bambini di età inferiore ai 18 anni, di cui 309 della fascia 03 anni, ricavata da uno studio prospettico multicentrico osservazionale (National Emergency X-Radiography Utilization Study II: NEXUS
II) che ha coinvolto 13.728 pazienti adulti con trauma cranico, tutti
sottoposti a TAC cerebrale. Lo scopo degli Autori è di valutare, per
l’età pediatrica, l’accuratezza di un “decision instrument” composto da sette variabili: deficit neurologici, alterato livello di coscienza,
comportamenti anomali, vomito persistente, segni di frattura complicata, ematoma dello scalpo, difetti della coagulazione. La sensibilità di tale strumento risulta ottimale, pari al 98.6% nella popolazione
pediatrica generale, e ben al 100% nella fascia di età 0-3 anni; la
specificità, ovviamente, risulta particolarmente bassa, rispettivamente pari al 15,1% ed al 5,3%.
Lo studio multicentrico prospettico condotto da Dunning nel 2006,
47
L. Da Dalt, B. Andreola
Tabella I.
Modelli clinici predittivi di lesione intracranica (adattata da Schnadower et al., 2007).
Autore
Dimensioni
campione (N)
Criteri inclusione
Outcomes
Modelli clinici predittivi
Sensibilità
Specificità
Oman, 2006
138/1666
(Outcome/N)
Bambini <18 aa.
con TC minore che
abbiano eseguito
TAC cerebrale
Lesioni intracraniche clinicamente rilevanti (non
incluse tutte le lesioni
evidenziate alla TC)
Frattura cranica, alterazione stato di coscienza, deficit neurologico, vomito persistente, ematoma
dello scalpo, comportamento
anomalo, coagulopatia
98,6%
(95-99,8%)
15%
(13-17%)
Palchak, 2003
N = 2043
1271 eseguono
TAC cerebrale
Bambini <18 aa. - Lesione intracranica che
con TC minore
richiede intervento d’urgenza (105/2043 pz.)
- Qualsiasi lesione intracranica alla TC (98/1271 pz.)
Frattura cranica, alterazione stato di coscienza, vomito, ematoma dello scalpo in bambini < 2
aa., cefalea
100%
(97-100%)
99%
(94-100%)
43%
(41-45%)
26%
(23-28%)
Dunning, 2006
281/22.272
(Outcome/N)
Bambini < 16 aa. Lesioni intracraniche clicon TC di qualsiasi nicamente significative
severità
(decesso, necessità di
intervento neurochirurgico, anormalità alla TC);
solo 766 pz (3,3%) eseguono TC
Perdita di coscienza, sonnolenza,
vomito, convulsione, depressione dello stato di coscienza, segni neurologici, segni di frattura
complessa, edema dello scalpo
nel bambino < 1 anno, sospetto
maltrattamento, dinamica di impatto ad alta energia
98,6%
(96-99,6%)
87%
(86,587,4%)
studio CHALICE, (Dunning et al., 2006),è il più ampio relativo alla
sola popolazione pediatrica, con l’inclusione di ben 22.772 bambini
visti in 10 diversi Pronto Soccorsi, di età 0-16 anni, 281 (1,2%) con
anomalie alla TAC cerebrale, 137 sottoposti ad intervento chirurgico
e 15 deceduti. Il modello predittivo è basato sulla presenza di almeno uno fra i seguenti segni: perdita di coscienza, sonnolenza, vomito,
convulsione, depressione dello stato di coscienza, segni neurologici,
segni di frattura complessa, edema dello scalpo nel bambino < 1
anno, sospetto maltrattamento, dinamica di impatto ad alta energia.
Tale modello presenta una sensibilità pari al 98% nel predire lesioni
clinicamente significative, mentre la specificità risulta pari all’87%.
Anche la Pediatria d’Urgenza italiana ha fornito un contributo su
questo tema conducendo uno studio prospettico osservazionale
multicentrico (Padova, Trieste, Udine, Modena, Firenze) che ha coinvolto 3806 bambini di età inferiore ai 14 anni, 22 (0,6%) con lesione
intracranica (Da Dalt et al., 2006). I predittori di lesione intracranica
sono risultati sostanzialmente in linea con la restante letteratura:
depressione dello stato di coscienza, segni neurologici focali, segni
di frattura cranica, perdita di coscienza, convulsioni. Dividendo però
i bambini in 5 gruppi arbitrari, ma definiti sulla base delle più comuni
presentazioni cliniche, è risultato che il rischio di lesione aumenta con l’intensificarsi della sintomatologia: tale rischio risulta pari
all’1% se vi sono stati perdita di coscienza, sonnolenza, amnesia,
cefalea molto intensa prolungata, al 3% se vi sono segni di frattura,
al 20% se vi sono segni neurologici focali, alterazione persistente
dello stato di coscienza, segni di frattura della base. Nessuna lesione
è stata però evidenziata nei bambini che presentavano come unico
sintomo il vomito o la cefalea, ma anche un’istantanea perdita di
coscienza (spesso più assimilabile ad un fatto sincopale che a un
vero disturbo neurologico) o una brevissima convulsione.
Ciò in linea con altri due studi recenti nei quali la predittività sullo
sviluppo di lesione intracranica di una perdita di coscienza breve e
di convulsioni immediate viene molto ridimensionata (Palchak et al.,
2004; Holmes et al., 2004), a dimostrazione di quanto complessa sia
ancora la letteratura su questo tema.
Come già detto, il confronto dei diversi lavori risulta difficoltoso per
i diversi parametri clinici considerati e per i diversi criteri di inclu-
48
sione dei pazienti utilizzati, alcuni comprendenti anche bambini con
traumi severi. Inoltre, come gli stessi ed altri Autori dichiarano, tutti
questi modelli necessitano ancora di validazione (Schnadower et al.,
2008). Ciononostante, da un tentativo di sintesi dei dati disponibili,
emerge come sempre più consistenti siano le evidenze che indicano
che segni neurologici focali (peraltro, per definizione, sempre assenti quando il trauma viene definito minore), alterazione dello stato
di coscienza, segni di frattura, in particolare ematoma dello scalpo
nei bambini di età inferiore ai 2 anni, perdita di coscienza/amnesia
convulsioni, sono i predittori più importanti di lesione e sono quindi
da considerarsi indicazioni all’esecuzione di una TAC cerebrale in
urgenza.
Ma una scelta alternativa per i bambini in cui vi è l’indicazione alla
TAC cerebrale può essere quella di allungare i tempi di osservazione
sino a 24-48 ore dal trauma, rimandando l’esecuzione dell’esame
neuroradiologico solo in caso di un peggioramento clinico, con netto risparmio quindi nell’esposizione radiante. A questo proposito va
però ricordato che non esistono al momento in letteratura, per l’età
pediatrica, studi definitivi che comparino efficacia ed efficienza di
questi due diversi comportamenti clinici. L’unico studio di comparazione sino ad ora pubblicato, condotto in maniera prospettica randomizzata (TAC precoce e dimissione in caso di negatività vs ricovero
per osservazione) su un campione di 2602 pazienti di età superiore
a 6 anni con trauma cranico minore ha dato risultati sovrapponibili
misurati come esito a tre mesi (guarigione, eventuali complicanze) e
soddisfazione dei pazienti, e con una riduzione dei costi per l’utilizzo
della TAC rispetto al ricovero (Geijerstam et al., 2006; Norlund et al.,
2006).
Tali lavori sono stati oggetto di due editoriali pubblicati sul BMJ
(Marcovitch, 2006) e sul Journal of Paediatrics (Garton., 2007), le
cui conclusioni, assolutamente condivisibili, sono che i risultati non
sono al momento estendibili all’età pediatrica perché la casistica
comprendeva solo bambini di età > 6 anni, e soprattutto perché tra
le variabili di outcome non è stato incluso l’impatto radiante, molto
più importante per l’età evolutiva rispetto all’adulto.
Vale ancora pertanto ciò che da molti anni la maggior parte delle
linee guida sottolinea e cioè che, di fronte al singolo bambino, ogni
Trauma cranico minore
medico sarà chiamato a scegliere l’atteggiamento più appropriato
in rapporto alla specifica situazione clinica e alle risorse disponibili
(Schutzmann et al., 2001).
Prospettive future: i marcatori biochimici
Il dosaggio di mediatori biochimici come marcatori di danno d’organo viene da molto tempo utilizzato nella pratica clinica, basti pansare
alla troponina I e al CPK-MB per l’identificazione del danno miocardico o alle transaminasi per il danno epatico. Questo purtroppo non
è ancora possibile per il Sistema Nervoso Centrale, ragionevolmente
perchè la sua struttura complessa comprende compagini cellulari
profondamente diverse tra loro e che rispondono, quindi, con modalità molto differenti per entità e tipo all’azione di agenti lesivi e
perchè la presenza della barriera emato-encefalica, proprio per le
sue funzioni, limita la quantità e la tipologia dei mediatori biochimici
che, una volta rilasciati dal sistema nervoso centrale possono raggiungere il torrente ematico (Berger et al., 2006).
D’altra parte l’analisi della letteratura dimostra come, negli ultimi
anni, stia emergendo con sempre maggiore evidenza l’esigenza,
nella gestione del trauma cranico, di avere a disposizione dei marcatori che affianchino e completino le informazioni fornite dalla valutazione clinica e dalle indagini neuroradiologiche.
La ricerca di marcatori che possano fornire questo tipo di informazioni è iniziata fino dalla fine degli anni ’70 (Thomas et al., 1978), e
nel corso degli anni successivi si è concentrata in particolar modo
su tre mediatori: la proteina S-100b, la Enolasi Neurono-Specifica
(Neuron-Specific Enolase, NSE) e la Proteina Basica della Mielina
(Myelin-Basic Protein, MBP). Queste tre proteine si differenziano
per le caratteristiche biochimiche, per la loro cinetica plasmatica
e per il fatto di essere espresse in diverse componenti del sistema
nervoso centrale, e quindi di rappresentare, con la loro comparsa
in circolo, la presenza di lesioni a carico delle diverse strutture
cerebrali (Tab. II).
La enolasi neurono-specifica (NSE) è un enzima glicolitico di 78 kDa
che è espresso dai neuroni e la cui funzione sembra essere quella
di favorire l’afflusso di ioni cloro durante la fase di attivazione neuronale. Essa ha il significato di esprimere direttamente il danno a
carico delle cellule funzionali del sistema nervoso centrale, cioè dei
neuroni.
Numerosi studi negli adulti hanno fornito risultati contrastanti rispetto alla associazione dei livelli plasmatici di NSE dopo trauma cranico
e il Glasgow Coma Score (GCS) iniziale, la presenza di lesioni intracraniche dimostrabili alla TAC e l’outcome neurologico. Ciò è stato
attribuito alla sensibilità non ottimale di questo marcatore dovuta
alla sua lunga emivita plasmatica che ostacola la valutazione dell’entità del danno cerebrale iniziale per l’effetto confondente legato
all’insorgenza di lesioni secondarie. Inoltre, il suo dosaggio può es-
sere sovrastimato in caso di emolisi del campione (Ingebrigsten et
al., 2002).
La proteina S-100b fa parte di un gruppo di circa 20 proteine a basso peso molecolare (9-13 kDa) con sequenza aminoacidica omologa
che legano il calcio. È codificata da un gene presente sul cromosoma 21 e svolge funzioni sia intracellulari, di trasduzione di segnali
e di regolazione della morfologia cellulare, sia extracellulari, di neuroprotezione a basse concentrazioni e di mediazione dell’apoptosi
neuronale ad alte concentrazioni. Essa è espressa elettivamente dagli astrociti, e per questo è considerata un marker di lesione a carico
della glia (Korfias et al., 2006).
Negli studi dell’adulto, i livelli plasmatici della proteina S-100b, che
aumentano rapidamente dopo trauma cranico, sono risultati associati, nel trauma cranico minore, alla presenza di lesioni intracraniche rilevate con metodiche neuroradiologiche e alla insorgenza
di sintomi post-concussione e, nel caso di trauma cranico severo,
alla severità del trauma, allo stato di coscienza iniziale (GCS), alla
presenza e all’estensione neuroradiologica della lesione intracranica (volume della contusione, presenza di ematoma sottodurale,
presenza di emorragia subaracnoidea), all’outcome neurologico a
6 mesi e alla mortalità. Livelli plasmatici elevati della proteina sono
stati evidenziati anche in corso di altre patologie a carico del sistema nervoso centrale (infezioni, neoplasie, sclerosi multipla …), negli
affetti da sindrome di Down e in presenza di traumi extracerebrali
severe, soprattutto addominali e toracici (Korfias, 2006).
La Proteina Basica della Mielina è una proteina di 18 kDa espressa
dagli oligodendrociti ed è una delle due più abbondanti proteine della mielina del sistema nervoso centrale. La sua caratteristica principale come marcatore è quella di essere rilasciata più tardivamente
rispetto agli altri due e di rimanere dosabile in circolo per un periodo
più lungo, fino a due settimane, consentendo così l’individuazione di
lesioni intracraniche a maggiore distanza di tempo dal trauma come,
ad esempio, nel caso di emorragie sottodurali subacute o croniche
in bambini paucisinomatici (Berger et al., 2006).
Nell’adulto, livelli plasmatici più elevati di MBP sono risultati associati ad un peggior outcome neurologico dopo trauma cranico severo (Ingebrigsten et al., 2002).
In età pediatrica lo studio di questi marcatori in relazione al trauma
cranico è stato eseguito in studi di tipo trasversale o prospettico. I
due studi più numerosi sono quelli di Berger del 2005 (Berger et al.,
2005) e di Spinella (Spinella et al., 2003).
Nel suo studio del 2005, Berger e coll. hanno dosato i livelli plasmatici di tutti 3 i marcatori in un gruppo numeroso (100) di bambini con
trauma cranico accidentale o provocato di diversa severità, stabilita
in base alla compromissione dello stato di coscienza all’ingresso, e
li hanno confrontati con quelli di 64 bambini senza trauma cranico.
I dosaggi plasmatici iniziali di S-100B e di NSE sono risultati significativamente maggiori nei bambini con trauma cranico rispetto ai
Tabella II.
I principali marcatori biochimici nel trauma cranico (adattata da Berger et al., 2006).
Marcatori biochimici
Sedi di espressione
Tempo di comparsa in circolo
dopo trauma cranico
Emivita plasmatica
NSE
Neuroni, sistema neuroendocrino
periferico, piastrine, globuli rossi
6 ore
24 ore
S-100b
Astrociti, midollo osseo, adipociti,
condrociti, miociti
immediato
60-120 minuti
MBP
Mielina (oligodendroglia)
48-72 ore
12 ore
49
L. Da Dalt, B. Andreola
controlli, anche se non sono state dimostrate associazioni con il Glasgow Coma Score iniziale. I livelli plasmatici di picco della MSB sono
risultati più elevati solo nei bambini con emorragie intracraniche. Il
risultato più interessante di questo studio è che esso apre la prospettiva sulla possibilità di identificare, combinando i tre marcatori,
i bambini con trauma cranico provocato, anche in assenza di dati
anamnestici. Infatti, combinando i valori cut-off di NSE e S-100B
(pari a 11,36 e 0,017 ng/ml rispettivamente, area sotto la curva di
0,87 con 80% sensibilità e 73% specificità) con il valore di picco
della proteina basica della mielina, sarebbe stato possibile identificare l’86% dei bambini con trauma cranico provocato.
Lo studio di Spinella (Spinella et al., 2003) invece ha voluto valutare,
in bambini con trauma cranico e lesioni intracraniche documentate
alla TAC o alla RMN, la correlazione tra i livelli plasmatici di proteina
S-100B e l’outcome neurologico (valutato mediante il punteggio Pediatric Cerebral Performance Score) alla dimissione e a distanza di 6
mesi. Nei 27 bambini reclutati, livelli maggiori di S-100B nelle prime
12 ore dopo il trauma sono risultati significativamente associati a un
punteggi peggiori nella valutazione neurologica alla dimissione e a
distanza di 6 mesi (per quest’ultimo, S-100B 4,2 µg /L vs. 0,77 µg
/L, p < 0,001). Inoltre, valori maggiori o uguali a 2 µg/L sono risultati
predittivi di outcome neurologico sfavorevole con una sensibilità del
86% e una specificità del 95%.
Tale correlazione dei livelli di S-100B con la prognosi neurologica
a lungo termine è stata confermata in un successivo studio della Berger (Berger et al., 2006), eseguito su bambini con trauma
cranico severo non accidentale e ipossia severa, in cui, tra l’altro,
sono stati riportati anche i risultati dei primi dosaggi urinari della
proteina. La associazione con gli esiti neurologici non ha invece
trovato conferma in un recente studio italiano su bambini con
trauma cranico di diversa entità; tali risultati, però, sono in parte
limitati dalla scarsa numerosità del campione e dalla assenza di un
gruppo di controllo (Piazza et al., 2007).
In definitiva, l’impiego di marcatori biochimici nella valutazione del
trauma cranico in età pediatrica è ancora oggetto di studio, ma appare una prospettiva promettente, in base alle evidenze disponibili,
in particolar modo in quanto metodica non invasiva di screening potenzialmente in grado di identificare bambini con trauma cranico
da maltrattamento, bambini con lesioni intracraniche e con diverso
rischio di esiti neurologici a distanza. Verosimilmente, la strada verso un più efficace utilizzo di marcatori biochimici nel trauma cranico
passerà attraverso l’approfondimento dello studio del dosaggio contemporaneo di più marcatori con diverse caratteristiche, il confronto
con le metodiche neuroradiologiche, ancora poco indagato in età
pediatrica, e la validazione dei risultati in gruppi indipendenti di pazienti.
Box di orientamento
Cosa sapevamo negli anni ’70
• Controversie sul ruolo dei segni e sintomi nel predire lo sviluppo di lesione intracranica.
• Elevato utilizzo della radiografia del cranio.
Cosa sappiamo oggi
• Evidenze sempre più consistenti indicano che, nel trauma cranico minore, alterazione dello stato di coscienza, segni di frattura, in particolare ematoma dello scalpo nei bambini di età inferiore ai 2 anni, perdita di coscienza/amnesia convulsioni, sono i predittori più importanti di lesione e sono
quindi da considerarsi indicazioni all’esecuzione di una TAC cerebrale in urgenza e/o alla prolungata osservazione clinica.
Cosa ci aspettiamo nei prossimi anni
• Disporre di marcatori biochimici di danno tissutale che completino le informazioni fornite dalla valutazione clinica nel predire la presenza di danno
intracranico e la sua gravità.
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50
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8
9
** 10
** l’importanza della storia personale e della familiarità per cefalea e disturbi
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Trauma cranico minore
11
12
*
13
14
15
16
17
18
*
18
bambini valutati in 10 diversi Pronto Soccorsi per trauma cranico di ogni severità.
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Corrispondenza
prof.ssa Liviana Da Dalt, Dipartimento di Pediatria “Salus Pueri”, Università di Padova, via Giustiniani 3, 35128 Padova • E-mail: [email protected]
51
Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 52-58
L’artrite idiopatica giovanile
Alberto Martini
Pediatria II, Istituto “G. Gaslini”, Dipartimento di Pediatria, Università di Genova
Riassunto
Artrite idiopatica giovanile è un termine che comprende un eterogeneo gruppo di artriti croniche di
eziologia sconosciuta e con esordio prima dei 16 anni di vita. Alcune di queste artriti sono tipiche del
bambino o sono di osservazione rara nell’adulto. La prognosi è migliorata considerevolmente negli
ultimi anni. Il progresso più importante è stato l’introduzione in terapia degli agenti biologici per i
pazienti resistenti al methotrexate. I progressi futuri saranno legati ad una migliore comprensione dei
meccanismi patogenetici delle singole forme e ad un miglioramento nelle conoscenze del processo
infiammatorio con individuazione di nuovi bersagli terapeutici.
Summary
Juvenile idiopathic arthritis is a term which gather together a heterogeneous group of arthritides of unknown aetiology with onset before 16 years of age. Some of these arthritides are typical of childhood or
are observed only rarely in adult age. The prognosis has improved considerably in the recent years. The
most important new development has been the introduction of biologic medications for the treatment
of patients who are resistant to methotrexate. Further insights will be related to a better understanding
of the pathogenesis of the various subsets as well as of the mechanisms of the inflammatory process
with the identification of new therapeutic targets.
L’artrite idiopatica giovanile (AIG) (Ravelli e Martini, 2007) non costituisce una malattia ma una diagnosi di esclusione che si applica
a tutte le artriti persistenti e di causa sconosciuta che insorgono in
età pediatrica (Tab. I). Comprende perciò un eterogeneo gruppo di
artriti croniche che, in assenza di conoscenze eziopatogenetiche,
si è cercato negli anni di classificare sulla base di criteri clinici nel
tentativo di identificare singole entità che potessero rappresentare
malattie differenti. Le vari forme di artrite cronica del bambino così
definite si sono rivelate assai differenti, per tipo e/o frequenza, da
quelle osservate nell’adulto.
L’eziopatogenesi
L’eziologia delle varie forme di AIG, come quella delle altre malattie reumatiche croniche, è ignota. Si ritiene che l’artrite cronica sia
secondaria ad un’abnorme reazione immunitaria che riconosce
un’eziologia multifattoriale, è cioè legata sia a fattori ambientali che
a fattori genetici (Thomson e Donn, 2002). I risultati di uno studio
di genome-wide scan (Thompson et al., 2004) hanno fornito dati
in favore dell’ipotesi che la predisposizione genetica sia il risultato
Tabella I.
Criteri diagnostici dell’artrite idiopatica giovanile.
Viene definita come artrite cronica giovanile ogni artrite che:
• Insorga prima dei 16 anni
• Duri per più di sei settimane*
• Non sia riconducibile ad alcuna altra malattia nota
* Il periodo di 6 settimane è ritenuto sufficiente per escludere le artriti di
origine virale che generalmente si risolvono spontaneamente entro poche
settimane dall’esordio.
52
Alberto Martini è nato a Piacenza il 17
Dicembre 1948. Fino al 2001 all’Università di Pavia è attualmente Ordinario di Pediatria a Genova e Direttore
della Pediatria II dell’IRCCS G. Gaslini.
È autore di oltre 250 lavori su riviste
internazionali dedicati alle malattie
reumatiche del bambino. Ha fondato e
dirige PRINTO (“Pediatric Rheumatology International Trial Organization”),
vasta rete internazionale il cui scopo
è identificare nuove terapie per le malattie reumatiche infantili.
Sposato con due figlie. Ama in particolare la storia e la storia dell’arte.
dell’influenza contemporanea di diversi tipi di geni (multigenica) ciascuno dei quali fornisce un modesto contributo.
Molte delle malattie comprese sotto il termine di AIG sono chiaramente entità tra loro differenti ed è quindi probabile che anche la
sottostante eziopatogenesi sia differente. Tuttavia, tutte sono caratterizzate da un processo infiammatorio cronico che si svolge all’interno dell’articolazione e che coinvolge la membrana sinoviale.
La membrana sinoviale, che è normalmente formata da un sottile
strato di cellule, va incontro, analogamente a quanto avviene nell’AR dell’adulto, ad un’importante ipertrofia fino a trasformarsi in
una struttura villosa (villi sinoviali) che protrude nello spazio articolare. Gli strati sinoviali si moltiplicano ed il tessuto sottostante è
sede di una neovascolarizzazione e di una massiccia infiltrazione
da parte di cellule infiammatorie (linfociti, macrofagi, plasmacellule ecc.) con conseguente importante produzione di molecole proinfiammatorie – TNF, interleuchina-1 (IL-1), interleuchina-6 (IL-6)
ecc. – ed attivazione di attività enzimatiche che, con il tempo,
possono produrre l’erosione della cartilagine articolare e dell’osso
sottocondrale. L’inibizione selettiva delle citochine pro-infiammatorie ha rappresentato il maggiore progresso degli ultimi anni nel
trattamento dell’AIG.
La classificazione
Il primo tentativo di classificare questa eterogenea patologia risale
agli anni ’70 dello scorso secolo, quando furono stabiliti per la prima
volta i criteri diagnostici. Furono allora elaborate due differenti classificazioni, una in uso negli Stati Uniti ed una in Europa. La presenza
di queste due classificazioni, che, simili in molti aspetti, differivano
per altri, creò per anni una certa confusione che ha reso necessaria,
più di recente, l’elaborazione di una unica, comune classificazione
(Petty et al., 2004) che è quella riportata nella Tabella II. In questa
L’artrite idiopatica giovanile
Tabella II.
Classificazione dell’artrite idiopatica giovanile.
Forma clinica
%
F/M
Età d’esordio
preferenziale
Sistemica
15
F=M
Tutte
Oligoarticolare
45
F>>>M
< 5 anni
Poliarticolare FR-positiva
3
F>>>M
> 8 anni
Poliarticolare FR-negativa
12
F>M
Tutte
Artrite associata ad entesite
7
M>>F
> 8 anni
Artrite psoriasica
3
F>M
< 5 anni
Artrite indifferenziata
15
F = femmine; M = maschi; FR = fattore reumatoide
classificazione il termine artrite idiopatica giovanile ha sostituito
il termine artrite reumatoide giovanile (usato nella classificazione
americana) e quello di artrite cronica giovanile (impiegato nella classificazione europea).
Anche quest’ultima classificazione mantiene i limiti di tutte le classificazioni che si basano su criteri clinici e che sono prive di supporti
eziopatogenetici. Anche se richiede ancora validazione e consenso
e, come vedremo, è sicuramente migliorabile in alcuni aspetti (Martini, 2003), costituisce un utile strumento per la ricerca scientifica
internazionale e rappresenta la base per futuri affinamenti nell’attesa che il chiarimento dell’eziopatogenesi delle varie malattie possa
permettere una classificazione più appropriata.
Le forme cliniche
Artrite sistemica
È definita dalla presenza, accanto all’artrite, sia di una febbre quotidiana e persistente che di uno o più dei sintomi seguenti: rash,
epatomegalia o splenomegalia, linfoadenomegalia generalizzata,
sierositi. L’AIG sistemica è una malattia caratteristica del bambino ed è di osservazione occasionale nell’adulto dove è conosciuta
come malattia di Still dell’adulto.
Si tratta con molta verosimiglianza di una condizione eterogenea
come suggerito dalla stessa variabile evoluzione della malattia.
Mentre infatti in alcuni pazienti l’artrite è modesta e recede generalmente con il recedere della sintomatologia sistemica, in altri
l’interessamento articolare domina il quadro clinico mentre la sintomatologia sistemica tende spesso ad attenuarsi fino a scomparire. La potenziale eterogeneità dell’artrite sistemica è stata di
recente ulteriormente avvalorata da sostanziali differenze tra i pazienti nella risposta terapeutica ad Anakinra, un inibitore di IL-1
(vedi oltre).
La AIG sistemica si differenzia dalle altre forme di AIG non solo per
la sintomatologia sistemica ma anche per alcuni peculiari aspetti
biologici.
Come dimostrato nel corso degli anni ’90 (De Benedetti e Martini,
2005), interleuchina-6 (IL-6) sembra avere un ruolo centrale nella
patogenesi della malattia, ipotesi avvalorata di recente dagli ottimi
risultati ottenuti in un trial controllato con un anticorpo monoclonale
(Tociluzumab) diretto contro il recettore di IL-6 (vedi oltre).
Inoltre, circa il 5-8% dei pazienti sviluppa una complicanza molto grave ritenuta secondaria ad un improvviso e importante rilascio di citochine pro-infiammatorie. Questo quadro, denominato
“sindrome da attivazione macrofagica” (Ravelli et al., 2005), si
caratterizza per la comparsa di una febbre continua (non quindi
intermittente), una diatesi emorragica a tipo coagulazione intravascolare disseminata, un marcato aumento delle transaminasi,
di altri enzimi e della ferritinemia, una pancitopenia con marcata
neutropenia e manifestazioni neurologiche. Questa complicanza,
che è una forma di linfoistiocitosi emofagocitica, si può osservare
occasionalmente anche in altre malattie reumatiche sistemiche
(come il lupus eritematoso sistemico o la malattia di Kawasaki).
Le ragioni per cui si manifesti con così elevata frequenza nella AIG
sistemica non sono note. Sembra che, come per le altre forme di
linfoistiocitosi emofagocitica, sia in gioco un difetto di linfocitotossicità, che è stato evidenziato nelle sole fasi acute della malattia
(Gromm, 2004), mentre le ricerche di una base genetica non hanno
fino ad ora dato risultati positivi.
Oligoartrite
È definita dall’interessamento di 4 o meno articolazioni nel corso
dei primi sei mesi di malattia in assenza di criteri che permettano di
fare diagnosi di artrite psoriasica o di artrite associata ad entesite,
altre due forme di AIG che, come vedremo, danno un interessamento
prevalentemente oligoarticolare.
La maggior parte dei pazienti che appartengono a questa categoria presentano delle caratteristiche cliniche ben definite che probabilmente identificano la forma di AIG meglio caratterizzata e più
omogenea. Queste caratteristiche sono: una artrite asimmetrica che
interessa prevalentemente le grandi articolazioni, un’insorgenza
precoce (entro i 6 anni di vita), una marcata maggiore frequenza
nel sesso femminile, la frequente positività degli anticorpi anti-nucleo (ANA) ed un elevato rischio di sviluppare una iridociclite cronica.
Il fatto che questo gruppo di pazienti rappresenti un’entità clinica
omogenea è anche testimoniato dalla presenza di un’associazione
con alcuni alleli dell’HLA (in particolare HLA-DRB1*08). Questa forma di AIG è tipica del bambino e non si osserva nell’adulto.
In alcuni pazienti con AIG oligoarticolare l’artrite rimane confinata a
4 o meno articolazioni lungo tutto il decorso della malattia (oligoartrite persistente) mentre in altri si estende, dopo i primi sei mesi
di malattia, ad interessare 5 o più articolazioni (oligoartrite estesa).
Sebbene la classificazione ILAR distingua questi due gruppi di pazienti nell’ipotesi che possano rappresentare entità cliniche diverse
è verosimile che in realtà rappresentino la stessa malattia e che
la differenza sia solo nella gravità cioè nell’estensione dell’interessamento articolare. Infatti, i pazienti ANA-positivi che appartengono a queste due categorie hanno caratteristiche molto omogenee
per quanto attiene a tutti gli altri aspetti della malattia (asimmetria
53
A. Martini
dell’artrite, precoce età di esordio, prevalenza del sesso femminile,
incidenza dell’iridociclite cronica, associazioni HLA) (Ravelli et al.,
2005).
La prognosi è generalmente buona. Nelle forme con oligoartrite persistente la malattia spesso con il tempo si spegne senza lasciare,
se correttamente trattata, reliquati articolari importanti. Nelle forme
con oligoartrite estesa vi è un maggior rischio di esiti a distanza.
Il fatto che la stessa malattia possa avere evoluzioni di severità differente fornisce un utile modello per lo studio dei fattori che influenzano non la patogenesi ma la gravità della malattia. Alcune ricerche
hanno per esempio osservato nel liquido sinoviale un rapporto tra
linfociti T regolatori e linfociti T attivati più elevato nei pazienti con
oligoartrite persistente rispetto a quelli con oligoartrite estesa (Ruprecht et al., 2005). Inoltre è stato ipotizzato che nei pazienti con
oligoartrite la risposta immune nei confronti di alcuni epitopi delle
heat shock proteins possa contribuire ad indurre la remissione della
malattia (Kamphuis, 2005).
Una iridociclite cronica (mono- o bilaterale) si osserva in circa il 30%
dei casi e, se non trattata, può causare conseguenze assai gravi fino
alla perdita della vista (Rosenberg, 2002). È una complicanza assai
insidiosa perché, a differenza di quanto avviene nell’iridocilite acuta
che si può osservare nell’artrite associata ad entesite, è praticamente asintomatica. Può comparire contemporaneamente all’artrite, più
spesso la segue (anche a distanza di anni) e solo raramente la precede. Se non trattata può causare esiti importanti che comprendono
sinechie, cataratta, cheratopatia a bandelletta e glaucoma. Viceversa se trattata in fase precoce risponde spesso bene alla terapia. È
perciò essenziale poter fare una diagnosi precoce che si raggiunge
sottoponendo i pazienti periodicamente (ogni 3 mesi ma anche molto più spesso se vi è già stato un episodio di iridociclite) ad un esame
con lampada a fessura. Poiché la positività degli ANA rappresenta
un importante fattore di rischio per lo sviluppo di iridociclite è imperativo sottoporre ad esame con lampada a fessura tutti i pazienti
con AIG ANA-positivi, anche quelli che presentano altre forme di AIG,
come l’artrite psoriasica o l’artrite poliarticolare (vedi oltre).
Poliartrite fattore reumatoide positiva
Caratterizzata dall’interessamento di 5 o più articolazioni e dalla
presenza di titoli costanti ed elevati di FR, è l’equivalente, in età
pediatrica, dell’artrite reumatoide FR-positiva dell’adulto a cui è
sovrapponibile sia sotto il profilo clinico che di laboratorio. Mentre
nell’adulto questa malattia rappresenta circa il 70% di tutte le forme di artrite reumatoide nel bambino è di osservazione rara (circa
il 3% delle AIG). Si osserva soprattutto nelle adolescenti ed è rara
prima degli 8 anni. L’AIG poliarticolare FR-positiva ha una prognosi
articolare severa nella maggioranza dei casi ed è caratterizzata dalla precoce comparsa di erosioni ossee inizialmente osservabili sui
radiogrammi soprattutto delle mani e dei piedi.
Poliartrite fattore reumatoide negativa
Comprende i pazienti con artrite poliarticolare in cui il FR è assente.
È probabilmente la più eterogenea di tutte le forme di AIG. Nel suo
ambito si possono riconoscere due principali quadri clinici.
Il primo è rappresentato da una malattia che è identica all’artrite
oligoarticolare con la sola differenza di una più rapida estensione
dell’interessamento articolare nei primi sei mesi di malattia. Questa
forma infatti è caratterizzata, come l’artrite oligoarticolare, da un’artrite asimmetrica, un’insorgenza precoce (prima dei 6 anni), una
prevalenza nel sesso femminile, la positività degli ANA, un rischio
elevato di sviluppare un’iridociclite cronica (Ravelli et al., 2005), oltre ad essere associata con gli stessi antigeni HLA. I pazienti con
54
questa forma devono essere sottoposti allo stesso regime di diagnosi precoce dell’iridociclite come i pazienti con oligoartrite.
Il secondo è caratterizzato da un’artrite simmetrica che interessa
sia le grandi che le piccole articolazioni, che insorge in genere in
età scolare ed è ANA-negativa. Il quadro clinico assomiglia a quanto si osserva nelle poliartriti FR negative dell’adulto. L’evoluzione è
variabile.
Artrite associata ad entesite
Nell’ambito della patologia reumatica dell’adulto le spondiloartropatie sono un gruppo di affezioni caratterizzate dall’interessamento
dello scheletro assiale (colonna vertebrale ed articolazioni sacroiliache) che colpiscono in prevalenza soggetti HLA-B27 positivi. Presentano tuttavia anche una serie di altre manifestazioni che comprendono un’artrite oligoarticolare asimmetrica prevalentemente a
carico degli arti inferiori, un’entesite ed un’uveite acuta. Queste seconde manifestazioni sono proprio quelle che caratterizzano l’artrite
associata ad entesite che rappresenta pertanto, nel bambino, una
forma di spondiloartropatia (Burgos-Vargas, 2002). Alcuni pazienti
con artrite associata ad entesite con il tempo possono sviluppare
un interessamento delle sacroiliache (e quindi sviluppare una franca
spondiloartrite) senza però che sia possibile identificare precocemente i soggetti a rischio.
L’artrite associata ad entesite, a differenza di altre forme di AIG, interessa prevalentemente i maschi in età scolare ed è di rara osservazione prima dei 6 anni di vita. Come per le altre forme di spondiloartropatia, la maggioranza dei pazienti è HLA-B27 positiva.
La presenza di entesite è il sintomo caratterizzante e quindi di grande importanza per la diagnosi. Le entesiti sono un processo infiammatorio a carico delle entesi che costituiscono i punti di inserzione
dei tendini, dei legamenti e delle capsule sulla superficie dell’osso.
Si manifestano soprattutto con dolori localizzati alla superficie posteriore o inferiore del calcagno (inserzione rispettivamente del tendine di Achille e della fascia plantare), alle teste dei metatarsi, alla
tuberosità tibiale o alla superficie inferiore della rotula.
L’artrite è generalmente pauciarticolare, asimmetrica e prevalentemente localizzata agli arti inferiori. Mentre nelle altre forme di AIG
è molto raro l’interessamento dell’anca nelle fasi di esordio della
malattia, l’artrite associata con entesite esordisce sovente con ricorrenti episodi di coxite. A livello delle mani o dei piedi si può osservare
una dattilite (dito a salsicciotto), infiammazione di un singolo dito
dovuta alla presenza sia di un’artrite che di una tenosinovite.
Un’iridociclite acuta può comparire in una minoranza di malati; si
manifesta con insorgenza improvvisa di rossore, fotofobia e dolore
intenso. L’anamnesi familiare è spesso positiva per una qualche forma di spondiloartropatia.
L’interessamento assiale, che configura allora una diagnosi di spondilite anchilosante giovanile, non è frequente nel bambino e consiste
sostanzialmente nella presenza di una sacroileite. La sacroileite è
usualmente bilaterale e si manifesta inizialmente con dolore e rigidità lombare al mattino a riposo. Il sospetto verrà confermato dal
dolore evocato dalle manovre specifiche che mobilizzano l’articolazione sacro-iliaca e dalla risonanza magnetica.
Artrite psoriasica
Secondo la classificazione ILAR, l’artrite psoriasica è definita dalla
contemporanea presenza di artrite e di psoriasi. In assenza di psoriasi la diagnosi può essere posta in presenza di un’artrite associata
a due delle seguenti caratteristiche: 1) storia familiare di psoriasi in
uno dei parenti di primo grado; 2) presenza di dattilite (dito a salsicciotto); 3) presenza di nail pitting, fossette ungueali che rappresen-
L’artrite idiopatica giovanile
tano un segno dell’onico-displasia psoriasica. Sempre secondo i criteri ILAR vengono esclusi i pazienti che presentano le caratteristiche
dell’artrite associata ad entesite.
Il concetto di artrite psoriasica è ancora discusso. Non è infatti chiaro
se l’associazione sia fortuita (nell’adulto sia l’artrite che la psoriasi
sono frequenti), se semplicemente la presenza di psoriasi influenzi
la frequenza e/o il fenotipo di una forma definita di artrite (senza
configurare un’entità clinica specifica) o se viceversa rappresenti
un’artrite con caratteristiche peculiari e quindi nosograficamente
indipendente. Nell’adulto vi è un discreto consenso nel ritenere l’artrite psoriasica una forma di spondiloartropatia poiché le caratteristiche cliniche dell’artrite che si associa alla psoriasi sono prevalentemente quelle di una spondiloartropatia. Nel bambino l’analisi delle
caratteristiche dei pazienti che presentavano contemporaneamente
artrite e psoriasi ha fatto individuare due gruppi principali di pazienti.
Uno, come nell’adulto, con le caratteristiche di una spondiloartropatia (presenza di entesite) ed un altro con le stesse caratteristiche
dell’oligoartrite (precoce età d’esordio, ANA-positività, artrite asimmetrica, prevalenza del sesso femminile, rischio di iridociclite cronica) con la sola differenza di una maggiore incidenza di dattilite e con
una maggiore tendenza all’estensione dell’artrite.
I pazienti che rispondono ai criteri ILAR, in cui, come detto, le spondiloartropatie sono per definizione escluse, hanno questo secondo
fenotipo clinico il che fa pensare che l’artrite psoriasica così definita
non costituisca un’entità a sé stante ma sia rappresentata da pazienti con oligoartrite in cui la presenza di psoriasi al massimo causa
minori modificazioni del fenotipo clinico (Martini, 2003).
I pazienti ANA-positivi devono essere sottoposti, come quelli con oligoartrite, a controlli trimestrali con lampada a fessura per la precoce
individuazione dell’iridociclite.
sono state accettate e fatte proprie dagli enti regolatori sia americani che europei (Giannini et al., 1997). Un progresso enorme rispetto
agli anni precedenti quando i farmaci impiegati nell’AR dell’adulto
venivano usati off label aggiustando ad occhio le dosi e senza alcuna
rigorosa valutazione della loro sicurezza ed efficacia.
Anche se non conosciamo l’eziologia delle singole forme di AIG e
quindi non possediamo farmaci che siano in grado di guarirle, possiamo molto più efficacemente che in passato contrastare l’infiammazione che la malattia produce e quindi prevenire il danno articolare.
L’AIG raggruppa malattie tra loro differenti e quindi anche le necessità terapeutiche possono essere differenti. Tuttavia, si possono distinguere una terapia di primo approccio ed una terapia di secondo
livello che viene attuata quando i risultati ottenuti con la precedente
non sono ritenuti sufficienti. Non disponiamo infatti di elementi affidabili, clinici o di laboratorio, in grado di identificare all’inizio della
malattia quei pazienti che avranno un decorso mite da quelli che
avranno un’evoluzione più aggressiva. È necessario monitorare con
attenzione il decorso della malattia con periodiche valutazioni cliniche e, laddove indicato, con successivi radiogrammi delle articolazioni coinvolte per identificare precocemente l’eventuale comparsa
di una riduzione della cartilagine articolare o di erosioni ossee (Ravelli et al., 2007).
La terapia riabilitativa è un altro cardine della terapia dell’AIG ed
ha lo scopo di mantenere una buona funzionalità dell’articolazione prevenendo l’atrofia muscolare, le retrazioni dei tessuti molli e
l’insorgenza eventuale di disassamenti e deformazioni. Il nuoto e la
bicicletta sono attività consigliate perché rinforzano la muscolatura
in assenza di traumi meccanici.
Artrite indifferenziata
Non rappresenta un sottogruppo ma un contenitore in cui per il momento vengono messi tutti i casi che non soddisfano i criteri per una
delle categorie o che ne soddisfano più di uno. La relativamente alta
percentuale di pazienti (10-20%) che finiscono in questa categoria
rappresenta uno dei limiti dell’attuale classificazione.
FANS e infiltrazioni intrarticolari
La terapia
L’approccio terapeutico all’AIG è cambiato radicalmente negli ultimi anni grazie alla scoperta di nuovi potenti farmaci ma anche alla
possibilità di potere finalmente effettuare anche nei bambini con
AIG studi clinici controllati che valutino la sicurezza e l’efficacia dei
nuovi farmaci. Punto di partenza di questa autentica rivoluzione è
stata la promulgazione, alla fine del secolo appena trascorso, da
parte dell’FDA e più recentemente dell’EMEA della cosiddetta “regola pediatrica” secondo la quale un’industria che intenda registrare
un nuovo farmaco deve fornire dati sulla sicurezza e sull’efficacia
di questo farmaco anche nel bambino qualora nel bambino esista
una malattia analoga a quella per cui viene chiesta la registrazione nell’adulto. Questa regola vale ovviamente per tutte le patologie
pediatriche ma ha avuto un particolare, immediato impatto nell’AIG,
poiché pochi anni prima era stato creato PRINTO (Ruperto & Martini,
2004), una rete che raduna i centri di reumatologia pediatrica di più
di 50 diversi paesi e che rende quindi possibile raccogliere, in un
breve spazio di tempo, quale quello richiesto negli studi clinici controllati, un adeguato numero di pazienti che presentino indicazione
al nuovo trattamento. Inoltre PRINTO si è fatto carico di elaborare e
validare misure standardizzate con cui valutare l’efficacia dei farmaci in varie malattie reumatiche del bambino tra cui l’AIG; misure che
Il trattamento iniziale si basa sull’utilizzo dei farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS) e di infiltrazioni intrarticolari con triamcinolone esacetonide.
I FANS sono farmaci sintomatici dotati di azione anti-infiammatoria,
analgesica ed antipiretica. Il loro effetto principale è legato all’inibizione della ciclossigenasi (COX) e, di conseguenza, della sintesi
delle prostaglandine. Un’esperienza consistente nel bambino esiste
solo per pochi (naprossene, ibuprofene, indometacina) dei numerosi
FANS disponibili nell’adulto. L’aspirina, anche se altrettanto efficace,
è oggi usata molto meno per la sua minore maneggevolezza (necessità di monitorare la salicilemia, maggiore epatotossicità, rischio
di sindrome di Reye). I FANS sono in genere ben tollerati, gli effetti
collaterali (tossicità epatica, intolleranza gastrica, nefrite interstiziale
ecc.) sono meno frequenti che nell’adulto. Vanno assunti a stomaco
pieno.
Gli inibitori specifici della COX-2 (la ciclossigenasi indotta principalmente in corso di processi infiammatori) sono di raro impiego e
indicazione in pediatria.
L’effetto terapeutico dei FANS sull’infiammazione articolare nell’AIG
non è immediato ma lento e progressivo nel corso delle prime settimane di terapia.
Un aspetto assai importante della prevenzione delle deformità articolari è l’impiego di infiltrazioni intrarticolari con triamcinolone
esacetonide. Quando un’articolazione è infiammata tende ad essere
mantenuta in una posizione di semiflessione che è definita “antalgica” e che, se mantenuta per lungo tempo, è spesso responsabile dell’insorgenza di una deformità articolare che, per esempio,
nel caso della contrattura in flessione del ginocchio, consiste in una
deviazione in valgo. Di conseguenza, di fronte ad una contrattura
55
A. Martini
articolare è necessario interrompere il circolo vizioso che porta alla
deformità e questo si ottiene attraverso una artrocentesi con iniezione intrarticolare di triamcinolone esacetonide, un preparato cortisonico a lento rilascio. L’effetto è spesso spettacolare e, nonostante
non sia curativo, può durare anche a lungo. Sfortunatamente questo
farmaco non è più, da molti anni, in commercio in Italia per cui è
necessario procurarselo all’estero tramite la farmacia dell’ospedale.
Il preparato in commercio nel nostro Paese è il triamcinolone acetonide che è ugualmente efficace ma ha un effetto di durata decisamente inferiore.
Terapie di secondo livello
Se la malattia non è ben controllata dalla terapia con FANS ed infiltrazioni intrarticolari occorre introdurre altre terapie. Si tratta nella
grande maggioranza di casi di AIG ad esordio o ad evoluzione poliarticolare e di AIG sistemiche. In questo caso il farmaco di prima scelta
è rappresentato dal methotrexate.
Methotrexate
Il methotrexate è un analogo strutturale dell’acido folico che lega
e inattiva la diidrofolatoreduttasi interferendo così con la sintesi di
componenti essenziali del DNA. Uno studio controllato ne ha dimostrato l’efficacia alla dose di 10 mg/m2 una volta alla settimana per
via orale o intramuscolare (Giannini et al., 1992). Uno studio successivo ha stabilito che il massimo dell’effetto si raggiunge con 15
mg/m2/settimana e che dosi superiori non sono associate ad un risultato terapeutico migliore (Ruperto et al., 2004). Un miglioramento
significativo si osserva in circa il 70% dei pazienti trattati.
Il farmaco è in genere ben tollerato e gli effetti collaterali non sono
particolarmente frequenti. I più comuni sono incremento delle transaminasi e sintomi gastrointestinali (nausea, anoressia, stomatite).
Farmaci biologici
Tumor necrosis factor (TNF), interleuchina(IL)-1 e IL-6 sono le principali citochine proinfiammatorie. L’inibizione del TNF in particolare
si è dimostrata particolarmente efficace nella terapia dell’artrite sia
dell’adulto che del bambino.
Esistono attualmente in commercio tre inibitori del TNF. Due sono
degli anticorpi monoclonali: Infliximab che è un anticorpo umanizzato (cioè con una componente di origine murina) e Adalimumab
che è invece interamente umano. Etanercept, il terzo inibitore, è una
molecola ricombinante in cui la porzione costante di un’immunoglobulina è associata a due molecole di un recettore del TNF. I recettori
del TNF, dopo avere interagito con il TNF circolante, trasmettono il
segnale proinfiammatorio alla cellula. Svolgono però anche un ruolo antinfiammatorio quando la porzione extracellulare del recettore
viene rilasciata in circolo ove lega il TNF impedendogli di interagire
con il recettore di membrana. È questa attività di inibizione in circolo
del TNF che viene sfruttata nell’Etanercept.
Gli inibitori del TNF si sono rivelati assai efficaci nel trattamento dell’AIG. Attualmente Etanercept è l’unico registrato in pediatria (Lovell
et al., 2000). Studi controllati hanno mostrato l’efficacia nell’AIG anche dei due anticorpi monoclonali (Ruperto et al., 2007; Lovell et
al., 2008).
La tolleranza degli inibitori del TNF si è rivelata buona con una bassa
incidenza di infezioni, che rappresentavano all’inizio l’effetto collaterale più temuto. Particolare attenzione va tuttavia posta alla possibile
riaccensione di un’infezione tubercolare per cui tutti i soggetti che
devono intraprendere una terapia con inibitori del TNF devono sottoporsi ad un’intradermoreazione di Mantoux.
56
Gli inibitori del TNF sono un’eccellente terapia per tutte le varie
forme di AIG che non rispondono adeguatamente al MTX. Le percentuali di miglioramento sono elevate, si osservano in un numero
assai consistente di pazienti e, non infrequentemente, la terapia è
in grado di indurre una remissione della malattia. I primi dati sembrano anche mostrare una maggiore efficacia degli inibitori del TNF
quando somministrati in associazione con il MTX, come già peraltro
dimostrato nell’AR dell’adulto.
Numerosi studi hanno peraltro mostrato che gli inibitori del TNF sono
meno efficaci nell’AIG sistemica (Quartier, 2003). Ciò non è molto
sorprendente perché la forma sistemica si differenzia consistentemente dalle altre sia sotto l’aspetto clinico che di laboratorio. Studi
precedenti avevano in effetti ipotizzato che IL-6, piuttosto che TNF,
fosse la citochina maggiormente coinvolta nella patogenesi della AIG
sistemica (De Benedetti e Martini, 2005). Questa ipotesi ha di recente trovato conferma in uno studio controllato che ha impiegato un
anticorpo monoclonale (Tocilizumab) diretto contro il recettore di IL6 (Yokota et al., 2008). Sempre nella forma sistemica di AIG risultati
molto incoraggianti sono anche stati ottenuti con l’inibizione di IL-1
ottenuta con l’impiego di Anakinra, una forma ricombinante di una
molecola naturale, l’antagonista recettoriale di IL-1 che si lega al recettore di IL-1 con un’affinità molto maggiore rispetto ad IL-1 senza
essere in grado di indurre attivazione cellulare (Pascual, 2005). Alcuni pazienti con AIG sistemica rispondono in maniera spettacolare
ad Anakinra mentre in altri l’effetto è molto più modesto (Gattorno et
al., 2008) il che fa pensare che i primi costituiscano un’entità clinica
differente con una patogenesi a sé stante che presenta molte somiglianze con un gruppo di malattie definite “autoinfiammatorie” e
dovute a mutazione in geni che codificano per proteine che svolgono
un ruolo regolatorio nel processo infiammatorio. È perciò possibile
che i futuri studi controllati che saranno eseguiti sia per Tocilizumab che per Anakinra (o altri, più potenti inibitori di IL-1) potranno
rappresentare non solo importanti progressi terapeutici ma anche
uno strumento utile per comprendere l’eterogeneità clinica dell’AIG
sistemica individuando forme patogeneticamente distinte.
Altre terapie
Le segnalazioni sull’efficacia di altri farmaci (salazopirina, ciclosporina ecc.) sono prevalentemente aneddotiche. Aneddotica è anche la
descrizione dell’efficacia della talidomide nella forma sistemica. Uno
studio controllato ha mostrato l’efficacia nell’AIG della leflunomide
(Silverman, 2005) ma l’esperienza con questo farmaco nel bambino
è molto scarsa.
Più di recente uno studio controllato con un inibitore dell’attivazione
linfocitaria (Abatacept) ha fornito risultati positivi che porteranno nel
prossimo futuro alla registrazione di questo nuovo farmaco per la
terapia dell’AIG (Ruperto et al., 2008).
La terapia della sindrome da attivazione macrofagica, efficace nella grande maggioranza dei casi, consiste nella somministrazione di
prednisone a dosi piene e refratte e ciclosporina (3-5 mg/kg/die).
Il trattamento della iridociclite cronica, il cui successo dipende
molto dalla precocità della diagnosi, si limita usualmente ad una
terapia topica che associa steroidi e midriatici. Nei casi che non
rispondono si ricorre agli steroidi per via sistemica. Nei casi ancora
resistenti, sono stati impiegati vari farmaci (methotrexate, ciclosporina e ciclofosfamide) ma non vi sono studi controllati che ne
abbiano comprovato l’efficacia. Più di recente buoni risultati sono
stati riportati con l’uso dell’Infliximab, anticorpo monoclonale contro il TNF.
Gli steroidi hanno una potente azione antinfiammatoria ed immunodepressiva ma i loro effetti collaterali ed il fatto che non sono in
L’artrite idiopatica giovanile
grado di modificare la storia naturale dell’AIG ne limitano fortemente
l’impiego. Vengono principalmente usati nelle forme sistemiche sia
per trattare i casi che non rispondono, come frequentemente accade, alla sola terapia con FANS che per la terapia delle complicanze
(“sindrome da attivazione macrofagica”, miocardite, pericarditi importanti ecc.). Basse dosi di cortisone possono anche trovare impiego come farmaco-ponte per controllare dolore e rigidità articolare
nell’attesa dell’effetto dei farmaci di secondo livello.
Ritardo di crescita e osteoporosi generalizzata si osservano oggi
più di rado, poiché le nuove terapie hanno portato ad una riduzione
nell’uso degli steroidi e ad un miglior controllo dell’infiammazione.
Anche se alcuni studi in passato avevano mostrato un discreto
beneficio dell’impiego dell’ormone della crescita nel ritardo di crescita in corso di AIG non esistono oggi indicazioni al suo impiego.
Anche l’indicazione all’uso dei bisfosfonati per il trattamento dei
casi più severi di osteoporosi resta gravato dalla mancata conoscenza degli effetti a lungo termine di questi farmaci sullo scheletro in crescita.
Modalità della revisione
Sono state cercate in medline i termini “juvenile idiopathic arthritis”,
juvenile chronic arthritis” e “juvenile arthritis”. Sono state selezionate principalmente le pubblicazioni degli ultimi 5 anni ma non sono
state escluse alcune rilevanti pubblicazioni di anni precedenti
Box di orientamento
Anche se ancora non conosciamo che cosa la determini, l’AIG molto è cambiata rispetto a 30 anni fa. Allora era ancora opinione diffusa che l’AIG fosse
un’unica malattia, simile alla AR dell’adulto, e che i particolari aspetti che si osservavano nel bambino fossero dovuti all’insorgenza della malattia in
età pediatrica. Oggi è ben chiaro che sotto il termine di AIG sono comprese varie malattie, alcune delle quali non esistono nell’adulto o sono di rara
osservazione. La classificazione è peraltro in continua evoluzione e si avvale dei progressi che nascono sia dall’osservazione clinica che dagli studi
sulla patogenesi.
I maggiori cambiamenti hanno riguardato la terapia. Nessuno dei farmaci in uso negli anni ’70, con l’eccezione dei FANS e del cortisone, è ancora
impiegato. Molte delle deformità un tempo causate dal persistere di una contrattura articolare sono oggi prevenute grazie all’impiego delle iniezioni
intra-articolari di triamcinolone esacetonide. I pazienti che non rispondono adeguatamente ad un trattamento con FANS e infiltrazioni intrarticolari vengono oggi trattati con methotrexate e, in caso di insufficiente risposta, con antagonisti del TNF. La situazione è diversa per la forma sistemica nella cui
terapia stanno assumendo un ruolo sempre più importante i farmaci anti-IL-1 e anti-IL-6. Nel complesso le nuove terapie hanno cambiato in maniera
radicale le prognosi dell’AIG.
Infine, mentre negli anni ’70 si impiegavano nell’AIG gli stessi farmaci in uso nell’AR dell’adulto (aggiustandone semplicemente la dose secondo il
peso) senza che si potessero raccogliere notizie attendibili sulla loro sicurezza ed efficacia, oggi, grazie alle norme emanate dalla FDA e, più di recente,
dall’EMEA ed all’esistenza di grandi reti di sperimentazione clinica, ogni nuovo farmaco introdotto sul mercato per la AR dell’adulto viene anche testato
in studi controllati nell’AIG.
Negli anni a venire è verosimile attendersi un’evoluzione verso una nuova classificazione dell’AIG basata su criteri eziopatogenetici ed un ulteriore
miglioramento nelle conoscenze del processo infiammatorio con conseguente individuazione di nuovi bersagli terapeutici.
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A. Martini
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** Il lavoro che ha dimostrato l’efficacia di Tocilizumab nell’artrite idiopatica
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Corrispondenza
prof. Alberto Martini, Pediatria II, Istituto “G. Gaslini”, Dipartimento di Pediatria, Università di Genova, largo Gaslini 5, 16147 Genova • E-mail:
[email protected]
58
Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 59-72
Malformazioni congenite:
epidemiologia e prevenzione
Pierpaolo Mastroiacovo
Alessandra Lisi International Centre on Birth Defects, Roma
Riassunto
Le malformazioni congenite hanno un importante impatto sulla salute umana. La loro frequenza è del
3-6% (se considerate tutte quelle individuate durante la vita prenatale e postnatale fino a 7 anni di vita).
Sono la causa di circa 1 interruzione di gravidanza su 200 gravidanze altrimenti desiderate; di morte
entro i primi 5 anni di vita di circa 1 bambino su 200 (le MC sono responsabili di circa un terzo di tutte
le morti in questa fascia di età); di disabilità fisica e/o cognitiva. La ricerca epidemiologica, il cui scopo
primario è fornire risultati che possono essere applicati nel campo della prevenzione primaria, ha fatto
piccoli ma significativi progressi. Il più importante riguarda la scoperta che una quantità ottimale di
acido folico nel periodo peri-concezionale riduce il rischio dei difetti del tubo neurale e probabilmente
di altre malformazioni. Molte speranze vengono riposte nella ricerca delle interazioni geni-ambiente.
In attesa di soluzioni radicali (non ipotizzabili comunque a breve distanza) gli sforzi dei clinici e degli
operatori di sanità pubblica sono concentrati nel campo delle cure pre-concezionali. Ridurre il rischio di
alcune MC e di altri esiti avversi della riproduzione è oggi possibile e ineludibile. Non si può attendere
però l’inizio della gravidanza ma bisogna agire prima del concepimento, prima dell’inizio dello sviluppo
embrionale, e mettere in pratica in modo sistematico e diffuso a tutta la popolazione tutto ciò che oggi è
noto per prevenire le MC: stili di vita corretti, compresa la supplementazione con acido folico, controllo
attento delle malattie croniche, prevenzione di alcune malattie infettive, eliminazione di ogni sostanza
farmacologia o chimica che possa danneggiare l’embrione.
Summary
Congenital malformations (CM) have a significant impact on human health. Their frequency is 3-6% (considering all CM diagnosed during prenatal and postnatal life up to 7 years of age). Around 1 pregnancy
termination out of 200 pregnancies otherwise desired, 1 death out of 200 children up to 5 years (or 1/3
of all deaths in the first 5 years of age) and a number of physical and cognitive disabilities are due to
CM. The epidemiological research, whose priority aim is to give results that can be useful in the primary
prevention, has achieved few but significant results. The most important is the need of an optimal intake
of folic acid during the peri-conceptional period in order to reduce the risk of neural tube defects and
perhaps of other severe CM. Great hopes are pinned in the gene-interaction research. Waiting for more
radical solutions (whose achievements cannot be expected in the near future) the efforts of clinicians and
public health physicians are focused on the preconception care. Today it is possible to reduce the risk of
some CM and other adverse reproductive outcomes. We cannot wait the beginning of a pregnancy, we
must implement a number of actions to all women before conception, before the early embryo development: correct life styles, including optimal intake of folic acid, chronic diseases optimal control, prevention of some infectious diseases, avoidance of medications and chemicals harmful for the embryo.
Obiettivo
L’obiettivo di questo articolo è fornire un aggiornamento nel campo
dell’epidemiologia e della prevenzione primaria delle malformazioni congenite (MC). In questa revisione non verranno affrontati né i
problemi patogenetici né quelli di diagnosi (prenatale o postnatale)
o di trattamento. Non verranno neppure affrontate le problematiche
relative ai dismorfismi minori e alle sindromi malformative.
Strategia di ricerca
L’Autore di questo articolo si occupa intensamente dell’argomento da oltre 30 anni, non facendo affidamento sulle proprie capacità
mnemoniche o di archiviazione degli articoli rilevanti ha utilizzato
PubMed per (ri-)recuperare gli articoli più importanti, utilizzando
la stringa più sensibile (birth defects OR congenital abnormalities)
Pierpaolo Mastroiacovo è nato a Macchiagodena (IS) il 25 Giugno 1945,
cresciuto in Toscana. Direttore Clinica
Pediatrica Università Cattolica, Roma
(2000-2002). È stato uno dei promotori dell’epidemiologia delle malformazioni in Italia e della Evidence
Based Medicine in Pediatria. Dal 2002
Direttore dell’Alessandra Lisi International Centre on Birth Defects, Roma.
Autore di circa 300 pubblicazioni e
alcuni libri su sindromi malformative,
epidemiologia e prevenzione delle
malformazioni congenite. Co-direttore
di Prospettive in Pediatria dal 2000.
Tra i fondatori e past-president della
Società Italiana Malattie Genetiche
Pediatriche e Disabilità Congenite
(SIMGePeD). Felicemente sposato dal
1971, senza figli. Ama la musica classica, le buone letture, il cinema e il numero 7; gli piacerebbe essere esperto
di eno-gastronomia.
associata a specifiche parole chiave per ogni paragrafo o sottoparagrafo dell’articolo (es.: AND epilepsy AND pregnancy). Sono state
anche consultate le annate 2003-2007 di American Journal Epidemiology, American Journal Medical Genetics, Birth Defect Research,
Reproductive Toxicology, così come è stata analizzata la bibliografia
degli articoli reperiti e sono stati tenuti presenti i rapporti delle tre
principali organizzazioni che si occupano dell’argomento [ICBDSR
(International Clearinghouse for Birth Defect Surveillance and Research), EUROCAT (European Congenital Anomalies Surveillance)
e NBDPN (National Birth Defects Prevention Network)] e quelli dei
singoli registri ad esse afferenti.
Frequenza delle malformazioni congenite
Classicamente in medicina le misure di frequenza più informative
sono l’incidenza e la prevalenza nella popolazione di una specifica
59
P. Mastroiacovo
condizione. L’incidenza indica il numero di nuovi casi della condizione in esame che si verificano per unità di tempo e di popolazione a
rischio di quella specifica condizione, la prevalenza indica il numero
di casi esistenti in un definito momento temporale per unità di popolazione. Nel campo delle MC l’incidenza non viene correntemente
misurata, poiché dovrebbe tener conto di tutti gli zigoti concepiti e di
tutte le MC che si verificano dal momento del concepimento in poi
(Mason et al., 2005). Impresa alquanto complicata dato l’elevato numero di aborti spontanei e la difficoltà di una loro analisi sistematica.
Dobbiamo quindi accontentarci della “prevalenza tra i nati” (PN) definendo come “nati” anche i feti che sarebbero nati se la gravidanza
non fosse stata interrotta, proprio per una MC diagnosticata durante
la gravidanza 1 2.
Prevalenza tra i nati 3
Una valida misura della PN dovrebbe:
• essere definita in una popolazione non selezionata (es.: donne
residenti in una certa area, ovunque nati e non sulla popolazione
che afferisce ad una, più, o tutte le maternità ospedaliere di una
data area);
• includere tutti i nati e tutte le interruzioni di gravidanza dopo
diagnosi prenatale di una MC (IGDP);
includere soltanto le MC “gravi” (che richiedono un intervento medico o chirurgico);
• includere tutte le MC diagnosticate nei primi anni di vita (es.:
almeno entro il primo anno o meglio entro i 6-7 anni);
• raccogliere le informazioni da fonti multiple indipendenti;
• conteggiare sia le MC isolate che quelle associate tra loro in uno
stesso soggetto ma non dipendenti l’una dall’altra (in sequenza)
o appartenenti allo stesso organo (es.: assenza mani e piedi bilateralmente come un’unica MC e non quattro!) 4.
Il dato più valido oggi disponibile che soddisfa questi sei criteri è fornito dal Sistema di Sorveglianza delle MC dell’Australia Occidentale.
Il rapporto più recente (WABD, 2006) indica una PN del 6,5% (Tab. I).
L’analisi attenta dei dati tuttavia conferma che le MC più gravi (tutte comunque sottoposte a trattamento), in genere diagnosticate nei
primi giorni di vita, abbiano una PN del 2-3% come spesso stimato
in altre indagini e indicato in vari testi e revisioni. La Tabella I indica
anche (limitatamente ad alcune MC più comuni e meno influenzate
da variabilità di definizione ed accertamento) la PN osservata in 5
registri della Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in 5 registri Italiani. Si
può notare che i valori differiscono leggermente. Le differenze sono
imputabili più spesso a differenze di definizione ed accertamento,
o più raramente a reali differenze (discusse più dettagliatamente
in seguito). Il dato di fatto è che i valori di PN delle varie MC se non
contestualizzati hanno scarso significato e che la PN di tutte le MC
1
2
3
4
5
60
nel loro insieme varia ampiamente (2-6%) in rapporto a come e quali
MC vengono conteggiate.
Un problema annoso riguarda la frequenza delle malformazioni cardiache. Due sono i fattori critici che influenzano i risultati:
• l’età limite per la diagnosi, che influenza soprattutto la frequenza
delle forme più lievi;
• le modalità di conteggio dei difetti cardiaci multipli (conteggiati
tutti i difetti o più appropriatamente solo il principale, secondo
un criterio gerarchico).
Le due indagini attualmente più attendibili sono:
• l’indagine condotta tra il 1991 e il 2001 in un singolo centro di
cardiologia pediatrica, a Trondheim (Norvegia), su tutta la popolazione residente nell’area circostante, sottoposta ad accurata
indagine ecografica prenatale e ad un follow-up dei nati sistematico fino all’età di 6 anni (Tegnander et al., 2006);
• i dati del Registro della popolazione residente nell’area metropolitana di Atlanta (Georgia, USA), relativi agli anni più recenti
disponibili (1995-1997), basati sulle cardiopatie congenite diagnosticate tra i nati e le IGDP, con accertamento a fonti multiple
fino ad un anno di età (Botto et al., 2001).
In queste due indagini la frequenza di difetti cardiaci (conteggiati
secondo lo schema gerarchico) è risultata rispettivamente del 14,6
e del 9,0 per mille (Tab. II), con buona concordanza dei dati per quasi
tutte le cardiopatie gravi ma non per quelle lievi (es.: stenosi della
valvola aortica, difetti interventricolari ed interatriali), più frequenti
nell’indagine norvegese probabilmente per il più lungo follow-up
effettuato.
Prevalenza nella popolazione (PP) 5
La prevalenza nella popolazione (infantile, in specifiche classi di età,
o in quella generale) è stata raramente studiata. È noto che la prevalenza di una malattia nella popolazione dipende dalla mortalità
e dalla guarigione. Per alcune malformazioni, incompatibili con la
vita extra-uterina (es.: agenesia renale bilaterale) o che solitamente guariscono (es.: piede torto), la prevalenza tende a zero, quindi
non è molto informativa. Per altre condizioni croniche e con una
mortalità variabile sono necessarie indagini ad hoc (es.: sindrome
di Down, cardiopatie) per stabilire quanti bambini presentano la MC.
Due esempi di tali indagini sono:
• prevalenza di cardiopatie congenite in bambini (< 18 anni) e
adulti (> 18 anni) nell’anno 2000, condotta nel Quebec (Canada), risultata rispettivamente di 11,9 e 4,1 per mille (Marelli et
al., 2007);
• prevalenza di sindrome di Down in bambini (0-19 anni) nell’anno
2003, condotta nell’area metropolitana di Atlanta (Georgia, USA),
risultata dell’8,3 per 10.000 (Besser et al., 2007).
La prevalenza tra i nati (PN) viene calcolata dividendo il numero di “casi con MC” [nati vivi, nati morti e feti la cui gravidanza sia stata interrotta dopo diagnosi prenatale
(IGDP) di MC] per il numero totale dei soggetti esaminati (nati vivi, nati morti e IGDP) e moltiplicato per 1.000 o 10.000. Talvolta a denominatore vengono inclusi solo i nati
vivi o solo il totale dei nati. In questi ultimi due casi si tratta di un rapporto e non di una proporzione (poiché non tutti i casi di MC sono compresi a denominatore). La PN
non è mai un “tasso”, denominazione che deve essere riservata alle misure di incidenza, che includono anche il concetto di unità di tempo (tasso = rate = velocità).
Nella PN di solito non vengono conteggiate le MC osservate negli aborti spontanei poiché manca la sistematicità dell’osservazione di tali eventi e quindi della loro inclusione a denominatore. Qualora l’indagine preveda la valutazione sistematica degli aborti spontanei, almeno dopo una certa età gestazionale (es.: > 20 settimane), allora
è auspicabile inserire tali eventi sia a numeratore che a denominatore.
Gli studi sulla PN servono a indagare sui fattori di rischio. Più rigorosamente dovrebbe essere utilizzata l’incidenza, ma, come abbiamo detto, non è disponibile. Trattandosi
di un compromesso va ricordato che la PN è influenzata dall’abortività spontanea e quindi il rischio che viene ottenuto è composto dal rischio che si verifichi la MC e dal
rischio di mortalità dell’embrione.
La presenza di due o più MC in uno stesso soggetto pone un serio problema di conteggio delle malformazioni. Malformazioni gravi e indipendenti tra loro vanno conteggiate separatamente sia che la diagnosi finale sia una sindrome nota sia che la diagnosi finale rimanga semplicemente “malformazioni multiple ndd”. Le malformazioni
minori possono e devono essere registrate, ma non conteggiate. Una buona interpretazione della PN passa prioritariamente attraverso un’analisi di queste questioni
metodologiche.
Gli studi di prevalenza nella popolazione sono utili per pianificare servizi di assistenza.
Malformazioni congenite: epidemiologia e prevenzione
Tabella I.
Prevalenza tra i nati (PN) per 10.000 delle malformazioni congenite (MC) in Australia Occidentale, Stati Uniti, Regno Unito, EUROCAT e Italia.
Australia Occidentale
Stati Uniti
1995-1999 (1)
1999-2001 (2)
Gran Bretagna,
1991-1999 (3)
Eurocat
2000-2004 (4)
Italia
2001-2005 (5)
3.477.335
923.638
Totale nati esaminati
127.702
839.521
PN di casi con una o più MC
645,0
129,2
Malformazioni per apparato (6)
MC del sistema nervoso centrale
46,4
22,3
MC dell’apparato oculare
14,3
3,5
MC dell’orecchio
44,7
2,8
126,3
68,0
MC dell’apparato cardio-vascolare
MC dell’apparato respiratorio
14,4
5,3
Labio-palatoschisi
24,4
14,0
MC dell’apparato gastro-intestinale
68,0
13,6
MC dell’apparato uro-genitale (UG)
195,5
44,3
MC dell’apparato muscolo-scheletrico
182,9
8,0
MC dell’apparato cutaneo
55,4
----
Anomalie cromosomiche
42,8
33,7
815,1
218,9
• Lussazione congenita anca
73,5
5,3
• Criptorchidismo (trattato)
57,6
• Reflusso vescico-ureterale
50,6
• Ipospadia
35,9
12,0
• Idronefrosi
22,3
9,3
• Piede torto
19,8
7,2
Totale malformazioni
Malformazioni più frequenti (7)
• Trisomia 21
19,7
• Poli e sindattilia
18,1
13,7
19,5
19,2
15,1
• Stenosi ipertrofica del piloro
17,5
• Labio +/- palatoschisi
12,5
10,5
8,1
8,6
5,9
• Palatoschisi soltanto
11,9
6,4
4,3
5,5
4,4
• Ipo-agenesie arti
10,3
5,7
4,2
5,8
4,5
4,5
5,3
5,0
6,2
4,8
3,2
5,1
5,3
2,4
3,5
6,4
3,7
2,1
4,8
2,6
13,3
• Idrocefalo
9,7
• Sordità congenita
8,3
• Spina bifida
7,6
• Reni cistici
7,5
• Anencefalia
7,1
• Idrope non immunologica
0,7
• Appendici preauricolari
6,0
• Craniosinostosi
5,8
• Atresia/stenosi ano-rettale
5,7
• Microcefalia
5,5
• A/disgenesie renali
5,4
• Trisomia 18
5,1
2,4
4,4
4,2
2,5
• Ernia diaframmatica
4,3
2,9
2,8
2,6
2,4
• Gastroschisi
4,2
3,7
2,9
2,2
0,9
• Cataratta e difetti cristallino
3,8
• Sindrome di Turner
3,5
• Atresia esofagea
3,3
2,4
2,4
• A/microftalmia
3,2
2,1
4,1
1,1
2,9
2,8
2,0
1,2
2,2
2,2
2,4
1,0
(continua)
61
P. Mastroiacovo
(segue Tab. I)
Australia Occidentale
Stati Uniti
1995-1999 (1)
1999-2001 (2)
– Onfalocele
3,2
– A/microtia
3,1
– Atresie/stenosi intestinali
2,8
– Trisomia 13
1,7
– Megacolon congenito
1,6
– Atresia delle coane
1,3
– Encefalocele
1,3
2,1
1,3
Gran Bretagna,
1991-1999 (3)
Eurocat
2000-2004 (4)
Italia
2001-2005 (5)
2,5
2,9
1,8
1,5
0,6
1,7
1,8
1,7
1,2
1,1
(1) = WABD Report, 2006; (2) = CDC, 2006; (3) = Rankin et al., 2005; (4) = http://www.eurocat.ulster.ac.uk/pdf/EUROCAT-Annual-Report-2005-for-WHO.
pdf; (5) = ICBDSR Annual Report, 2006; (6) = La PN di MC per apparato o per singola tipologia indica il numero di malformazioni isolate o no presenti in
ogni soggetto. È dunque una misura diversa dalla PN di casi con una o più MC. La somma totale delle PN di MC è quindi superiore alla precedente; (7)
= Eccetto le cardiopatie, vedi Tabella II.
Tabella II.
Tasso di prevalenza tra i nati (PN) per 10.000 delle cardiopatie congenite in due recenti studi.
Tipo di malformazione (§)
Totale nati
Etero-atassie, TGV-sin
Atlanta (1)
Botto, 2001
Trondheim (2)
Tegnander, 2006
136.346
30.149
1,6
1,0
• Tetralogia di Fallot
4,7
2,4
• TGV-dx
2,4
4,8
• VD a doppia uscita
2,2
1,0
• Tronco arterioso comune
0,6
0,3
• in sindrome di Down
2,4
4,8
• non in sindrome di Down
1,0
3,4
Ritorno venoso polmonare anomalo
0,6
0,7
Anomalia di Ebstein
0,6
0,3
• Atresia della tricuspide
0,3
0,7
• Atresia della polmonare, con setto normale
0,6
• Stenosi-atresia della polmonare
5,9
7,8
• Stenosi delle arterie polmonari periferiche
7,0
1,7
• Ipoplasia del cuore sinistro
2,1
3,4
• Coartazione dell’aorta
3,5
4,1
• Ipoplasia/atresia dell’arco aortico
0,6
0,3
• Stenosi della valvola aortica
0,8
4,4
• Difetti del setto interventricolare
24,9
83,8
• Difetti del setto interatriale
10,0
19,0
Difetti tronco-conali
Difetti atrio-ventricolari
Difetti del cuore destro
Difetti del cuore sinistro
Difetti settali
Pervietà del dotto arterioso (PDA)
8,1
Altre
9,7
2,0
Totale difetti più gravi
23,2
27,2
Totale difetti meno gravi / lievi
67,0
118,8
Totale
90,2
146,0
Totale senza difetti settali e PDA
46,6
43,1
(§) = Classificazione gerarchica (Botto et al., 2001); (1) = accertamento fino ad 1 anno; (2) accertamento fino a 6 anni con un range tra 2 e 13 anni.
62
Malformazioni congenite: epidemiologia e prevenzione
In assenza di indagini dirette si possono produrre stime basate sulla
PN (variabile nel tempo) e sulla sopravvivenza (anch’essa variabile
nel tempo) come è stato fatto in Italia per la sindrome Down, ove è
stata stimata per l’anno 1999 una prevalenza dell’8,6 per 10.000
nei bambini (0-14 anni) e del 6,1 per 10.000 negli adulti (Mastroiacovo et al., 2004).
Variabilità della frequenza nelle varie popolazioni
Premesso che gli studi da analizzare devono essere di buona qualità
e che purtroppo riguardano un limitato numero di popolazioni, soprattutto quelle dei Paesi più sviluppati, si può concludere che reali
differenze macroscopiche sono evidenti solo per un limitato numero
di MC, qui di seguito presentate:
a) i difetti del tubo neurale presentano frequenze sensibilmente
più elevate in Cina del Nord, in particolare nella regione dello
Shanxi: 13,9 per mille (Li et al., 2006), in alcune regioni dell’India, ad esempio nel Balrampur (Uttar Pradesh): 6,6-8,2 per mille
(Cherian et al., 2005) e in Iran 2,9 per mille con punte di 3-4 per
mille in alcuni gruppi etnici (Golalipour et al., 2007). Tra i Paesi
più ricchi le differenze si sono attenuate: tra circa 80 registri con
dati validi per il quinquennio 2001-2005 solo quattro presentano
una PN di DTN superiore all’1,5 per mille: Galles (1,6); Tabriz in
Iran (1,7); Mainz in Germania (1,9) e Ucraina (2,2); tutti gli altri si
aggirano intorno all’1 per mille;
b) la labio-palatoschisi in Europa presenta una chiara correlazione
con la latitudine: più bassa in Italia e nella penisola Iberica (inferiore a 0,6 per mille) più elevata nell’Europa del Nord (1,0-1,6
per mille). Una PN superiore al 2 per mille è registrata in Giappone (2,0) e in Bolivia (2,1);
c) la palatoschisi presenta una PN inferiore a 0,5 per mille nell’Europa mediterranea e in Sud America e superiore all’1,0 per mille
in Australia Occidentale (1,2) e in Finlandia (1,4);
d) la gastroschisi presenta una bassa frequenza in Italia (inferiore
a 1 su 10.000) e più elevata nelle Regno Unito (Galles 5,7 per
10.000 nel 2000-2005), USA (es.: Utah e Texas 4-5 per 10.000),
Canada (intorno al 4 per 10.000) e Australia Occidentale: 3,7 per
10.000);
e) la sindrome di Down appare più frequente nelle popolazioni in
cui non è ammessa l’IGDP e in quelle con più elevata proporzione di donne che hanno parti oltre i 30-35 anni. Ad esempio nella
regione di Galway in Irlanda la PN è del 3,0 per mille (O’Nuallain
et al., 2007). Il rischio specifico alla nascita per età materna non
presenta tuttavia variazioni tra le varie popolazioni;
f) per tutte le altre MC le differenze osservate, lievi, si spiegano con
differenze metodologiche: definizioni, accertamento, analisi.
ad aborto spontaneo dopo il prelievo di villi coriali e un quarto dopo
amniocentesi (Fig. 1) (Savva et al., 2006): se non viene eseguita nessuna diagnosi prenatale si contano solo i nati, se venisse eseguita
a tutte le donne l’amniocentesi si avrebbe un incremento “falso”
di trisomia 21 del 25% poiché verrebbero contati anche i feti che
sarebbero andati incontro ad aborto spontaneo.
La PP diminuisce per tutte le MC in cui la gravidanza viene in una
qualche proporzione interrotta dopo diagnosi prenatale, mentre aumenta se aumenta la sopravvivenza dopo la nascita.
Ebbene, le variazioni temporali registrate negli ultimi decenni (nelle
popolazioni per le quali sono disponibili dati affidabili per più di 1020 anni) indicano che:
a) alcune MC diagnosticabili più accuratamente durante la gravidanza o nei primi anni di vita (es.: MC renali e cardiache) presentano un incremento, ma è chiaramente “falso”, attribuibile alla
diagnosi, migliore o più precoce;
b) alcune MC gravi, diagnosticabili durante la gravidanza, presentano un incremento della PN (come detto sopra) e un decremento nella PP laddove l’IGDP è consentita e praticata (es.: sindrome
di Down e difetti del tubo neurale);
c) la sindrome di Down (in misura minore la trisomia 13 e 18)
presenta incrementi o decrementi sia della PN che della PP
per effetto della maggiore o minore proporzione di donne che
hanno figli in età avanzata, ma la frequenza standardizzata per
età materna non cambia; la PP è variabilmente influenzata oltre
che dall’effetto età materna soprattutto dalla migliorata sopravvivenza (che determina un leggero aumento) e dalla maggiore
diffusione di IGDP (che determina un forte decremento); in Italia
si può stimare che l’intreccio dei vari fattori abbia prodotto negli
ultimi trent’anni una variazione di PP della sindrome di Down a 6
anni da 1,35 a 0,40 per mille 6;
d) l’ipospadia aveva presentato un incremento in alcune popolazioni negli anni ’60-’80 (Gran Bretagna, Norvegia, Svezia, Ungheria, Stati Uniti) (Paulozzi, 1999), il cui significato era rima-
Variabilità di frequenza nel tempo
Le variazioni di frequenza riguardano la PN e/o la PP.
La PN può risultare “falsamente” in aumento se migliorano le capacità diagnostiche (e questo è semplice da intuire) oppure se la
diagnosi prenatale si diffonde sempre più (e questo è più difficile
da intuire). In questo caso vengono infatti conteggiate anche le MC
che sarebbero potute andare incontro ad aborto spontaneo. Classico
è l’esempio per la Trisomia 21 in cui un terzo dei casi va incontro
6
Figura 1.
Abortività spontanea di feti con Trisomia 21 dopo diagnosi prenatale
con prelievo di villi coriali o amniocentesi.
Nel 1974 la PN era di 1,8 per mille, con una sopravvivenza a 5 anni del 75% la PP a 6 anni nel 1980 anni era di 1,35. Nel 2004 la PN risulta dell’1,74 per mille, e con una
sopravvivenza a 5 anni dell’85%, si può stimare una PP a 6 anni nel 2010 dello 0,4 per mille.
63
P. Mastroiacovo
sto oscuro. Più recentemente (anni 1980-2000) un incremento
attendibile è stato osservato soltanto nel registro dell’Australia
Occidentale (Nassar et al., 2007) con un incremento dal 2,8 per
mille nel 1980 al 4,3 per mille nel 2000 (l’incremento maggiore osservato per le ipospadie peniene e peno-scrotali da 0,34
a 0,63 per mille esclude un bias legato alla migliore registrazione di forme lievi). Non è stata fornita una buona spiegazione
di questo incremento e rimane il dubbio che alcuni incrementi
di quelli osservati negli anni passati siano reali. La spiegazione
più accreditata ed interessante per i possibili sviluppi futuri potrebbe essere quella legata ad un qualche deterioramento della
salute riproduttiva maschile (es.: maggiore diffusione ambientale dei pesticidi con effetto di endocrine disruptors (Fernandez
et al., 2007) oppure ad un maggior numero di nati da coppie
subfertili (trattate o no con farmaci o tecniche di riproduzione
assistita), che hanno un rischio maggiore di ipospadia e che
in proporzione sono oggi più numerosi che nel passato, anche
per una ridotta fertilità volontaria delle coppie normalmente
fertili (Kallen et al., 1986 e 1991);
e) i difetti del tubo neurale presentano in alcune popolazioni un
sicuro decremento “naturale” attribuibile molto probabilmente
a migliore alimentazione e migliori condizioni di vita e un chiaro
decremento, ulteriore, in Canada, Stati Uniti, Costarica, Cile, Sud
Africa “indotto” dalla fortificazione alimentare con acido folico
(Eichholzer et al., 2006; De Wals et al., 2007);
f) la gastroschisi presenta un incremento in molte popolazioni del
Nord Europa, Australia, Stati Uniti, ma non in Italia e Spagna (Mastroiacovo et al., 2006). La spiegazione dell’incremento è ancora
misteriosa con un’unica ipotesi ragionevole: l’insieme di fattori
che caratterizzano un diverso stile di vita (es.: scarsa alimentazione con tendenza alla magrezza, abitudine al fumo, uso di
sostanze stupefacenti, più partner sessuali, infezioni vaginali) di
un crescente numero di giovani donne (< 20-25 anni) (Draper et
al., 2007).
Impatto delle malformazioni congenite sulla salute
materna e infantile
L’impatto delle MC sulla salute è considerevole e può essere valutato attraverso vari indicatori: aborti spontanei, IGDP, mortalità,
basso peso neonatale, disabilità, costo economico, solo per citare
i più noti.
Tabella III.
Impatto delle malformazioni congenite sulle interruzioni di gravidanza
dopo diagnosi prenatale (IGDP).
Anno
IGDP
Rapporto
IGDP/
1.000 nati
Germania, Sassonia-Anhalt
2004
74
4,25
Italia, Toscana
2004
124
4,28
Svezia
2004
455
4,49
Italia, Campania
2004
288
4,73
Finlandia
2004
286
4,94
Australia, Victoria
2004
331
5,25
Francia, Centro-orientale
2004
569
5,38
Galles
2004
179
5,51
Repubblica Ceca
2004
598
6,15
Cuba
2004
772
6,35
Australia Occidentale
2005
180
6,69
Francia, Strasburgo
2004
91
6,79
Fonte: ICBDSR Annual Report 2006, Registri con dati più validi per valutare l’impatto delle malformazioni sulle IGDP.
Mortalità
Oggigiorno l’impatto delle MC sulla natimortalità, mortalità perinatale e mortalità neonatale è distorto dalle frequenti IGDP (Liu et al.,
2002; Davidson et al., 2005). Più utile quindi valutare globalmente
l’impatto delle MC sugli esiti infausti della gravidanza (IGDP + nati
morti + morti neonatali). Dati attendibili di questo tipo sono forniti
per ora solo da due Registri Australiani (Australia Occidentale e dello
stato Vittoria), che indicano che circa 8 gravidanze su mille hanno un
Tabella IV.
Percentuale di IGDP sul totale dei casi (nati + IGDP) in 5 regioni della
Gran Bretagna (Rankin et al., 2005) e in 3 regioni italiane* (ICBDSR,
2007).
Gran Bretagna
(1991-1999)
Italia
(2003-2004)
%
n
%
n
53
Aborti spontanei
Gli studi più recenti indicano che la stragrande maggioranza degli
aborti spontanei precoci sono attribuibili ad anomalie cromosomiche
(70-75%) o a gravi anomalie dello sviluppo, più spesso MC multiple
(Fritz et al., 2001; Philipp et al., 2003).
Anencefalia
89,4
483
89,8
Spina bifida
73,8
384
74,5
70
Idrocefalia
46,8
177
80,1
133
Ipoplasia ventricolo
sinistro
42,6
83
63,5
33
Frequenza IGDP
La frequenza delle IGPD può essere misurata come rapporto di
IGDP/per 1.000 nati. I dati disponibili in letteratura sono ancora parziali. Per avere un dato globale è necessario utilizzare le informazioni
fornite da alcuni registri (ICBDSR, 2007). Si può notare (Tab. III) che
in alcune nazioni tale rapporto raggiunge valori del 4-7 per mille.
Le malformazioni che contribuiscono maggiormente alle IGDP sono:
trisomia 21, difetti del tubo neurale e idrocefalia. Nella Tabella IV è
presentata la percentuale di IGDP sul totale dei casi per 12 malformazioni in Gran Bretagna e in Italia.
Atresia anorettale
30,5
460
31,9
23
Agenesia renale
bilaterale
67,6
73
39,7
27
Reni cistici
23,8
102
41,8
33
Ernia diaframmatica
29,0
69
31,7
20
Omfalocele
44,9
93
63,6
42
Trisomia 21
43,7
716
68,8
267
Trisomia 13
65,4
100
72,7
24
Trisomia 18
65,8
244
79,2
61
* = Emilia Romagna, Toscana e Campania; ICBDSR Annual Report 2006.
64
Malformazioni congenite: epidemiologia e prevenzione
Figura 2.
Tasso di mortalità 0-5 anni in Italia (1951-2002), e percentuale di morti per malformazioni congenite.
Fonte: http://www.who.int/whosis/mort/download/en/index.html
Tabella V.
Mortalità 0-5 anni in totale e per malformazioni congenite (MC). Percentuale di morti per MC sulla mortalità totale e percentuale di morti per
cardiopatie congenite sul totale delle morti per MC.
Paese
Triennio più
recente
disponibile
Mortalità 0-5 anni
(x 10.000)
Hong Kong
2002-2004
31,3
Singapore
2001-2003
34,9
Giappone
2002-2004
Finlandia
2002-2004
Svezia
Mortalità 0-5 anni
per MC (x 10.000)
% Morti per MC sul
totale morti 0-5 anni
% Morti per cardiopatie
sul totale morti per MC
8,3
26,5%
35,0%
9,4
26,8%
38,4%
40,0
12,9
32,3%
47,7%
40,0
10,9
27,4%
32,3%
2000-2002
41,1
12,8
31,2%
31,7%
Norvegia
2002-2004
44,5
12,6
28,2%
34,9%
Spagna
2002-2004
49,4
13,2
26,8%
46,2%
Germania
2002-2004
51,4
12,8
24,9%
39,3%
Francia
2001-2003
51,5
9,7
18,9%
43,3%
Grecia
2002-2004
52,1
18,9
36,3%
41,6%
Austria
2003-2005
52,6
13,5
25,7%
32,3%
Italia
2000-2002
53,1
15,1
28,5%
45,7%
Irlanda
2003-2005
55,1
19,6
35,7%
25,7%
Olanda
2002-2004
57,6
16,9
29,3%
29,9%
Australia
2001-2003
59,9
12,8
21,4%
28,9%
Portogallo
2001-2003
61,4
13,7
22,3%
42,8%
Israele
2001-2003
63,8
13,3
20,9%
35,2%
Malta
2001-2003
66,5
26,1
39,2%
25,8%
Nuova Zelanda
2001-2003
70,3
14,9
21,2%
28,0%
Stati Uniti
2000-2002
81,4
15,2
18,7%
31,7%
Inghilterra
2002-2004
92,5
19,3
20,9%
34,9%
Canada
2001-2003
94,1
21,2
22,5%
28,4%
65
P. Mastroiacovo
esito infausto entro i primi 28 giorni dopo il parto a causa di una MC
grave (1 su 125) 7. (WABD, 2006; VPDCU, 2004).
La mortalità infantile e più recentemente il tasso di mortalità 0-5
anni è un indicatore classico. Tuttavia va tenuto presente che i dati
disponibili non sono del tutto validi e forniscono la stima minima
poiché spesso nei certificati di morte non viene indicata la MC come
causa di morte (Copeland e Kirby, 2007) e che nei Paesi sviluppati
il tasso di mortalità infantile ed a 5 anni di vita è influenzato dal
numero di IGDP (Bourke et al., 2005) e quindi può risultare inferiore
al passato.
In Italia il tasso di mortalità 0-5 anni è diminuito costantemente dall’84
per mille nel 1951 fino al 5 per mille nel 2002 (Fig. 1). La proporzione
di morti per MC 8 è andata crescendo dal 5% al 28% poiché non vi è
stato un decremento parallelo nella mortalità specifica per MC. Oggigiorno, nonostante un decremento del tasso specifico per MC (da
4,0 a 1,5 per mille), dovuto anche ad un crescente numero di IGDP
(che hanno eliminato dal conteggio le MC più gravi, es.: anencefalia, agenesia renale, anomalie cromosomiche) più di un bambino su
4 muore entro i primi 5 anni di vita a causa di una MC, di cui quasi la
metà per una cardiopatia congenita. Nella Tabella V sono presentati i
dati di mortalità per MC in alcuni Paesi sviluppati; si può notare che in
Italia la mortalità specifica per MC non è tra le più basse ed è quindi
ragionevole auspicare un decremento nei prossimi anni.
Basso peso neonatale
Considerando che la frequenza di peso neonatale inferiore a 2.500
grammi è intorno al 5% e che la frequenza di MC gravi è 3,6 volte
più elevata nei nati con basso peso (circa 10% invece dell’usuale
3%) (Dolan et al., 2007), si può calcolare che la frazione di basso
peso attribuibile alle MC è del 7,2%. È questa la quota di decremento del basso peso neonatale se fossero prevenute tutte le MC.
Disabilità intellettive
Tre indagini svolte in Australia Occidentale (Petterson et al., 2007),
Stati Uniti, California (Jeliffe-Pawlowski et al., 2003) e Atlanta (Decouflé et al., 2001) consentono di stimare l’impatto delle MC sulle
disabilità intellettive. Le tre indagini forniscono rispettivamente valori
di frazione attribuibile alle MC del 15,7% (Atlanta), 26,5% (Australia
Occidentale), 33,5% (California), con differenze di stima attribuibili
principalmente alla definizione di disabilità intellettiva, ad esempio
in California sono stati valutati anche casi lievi e ad Atlanta anche
casi con paralisi cerebrali.
Costo economico
Il costo economico delle MC è stato valutato raramente; un’indicazione, che va presa con le dovute cautele per le differenze notevoli
nei sistemi socio-sanitari, è fornita da uno studio effettuato negli
Stati Uniti (CDC, 1995) (Tab. VI).
Fattori di rischio per le malformazioni congenite
Nel mondo, negli ultimi anni, sono stati condotti numerosi studi
per individuare i fattori di rischio (cause, concause o teratogeni,
che dir si voglia) per l’insorgenza di MC. Il tema più studiato è
stato il ruolo di un apporto non ottimale di acido folico (ed altre
7
8
66
Tabella VI.
Costo economico in dollari USA (valore 1992) di alcune malformazioni congenite (MMWR, 2005).
Costo per caso (§)
(migliaia di dollari)
% costi diretti
medici
Tronco arterioso comune
505
51,9%
Sindrome di Down
451
36,1%
Ventricolo unico
344
36,4%
Spina bifida
294
50,7%
Trasposizione dei grossi vasi
267
33,0%
Tetralogia di Fallot
262
52,5%
Ernia diaframmatica
250
17,3%
Ipo-agenesie arti inferiori
199
17,4%
Onfalocele
176
21,2%
Atresia dell’esofago
145
60,2%
Gastroschisi
108
50,5%
Labio e/o palatoschisi
101
16,8%
Ipo-agensie arti superiori
99
20,6%
Difetti ostruttivi vie urinarie
84
13,4%
(§) = Il costo totale comprende costi diretti e indiretti. Nota bene: non è
consigliabile l’estrapolazione di questi dati ad altre realtà.
vitamine del gruppo B) nell’insorgenza dei difetti del tubo neurale
(DTN – anencefalia e spina bifida), ma anche molto probabilmente
di cardiopatie, LPS, ipo-agenesie degli arti ed altre malformazioni.
A questo tema è dedicato un articolo di revisione su questa rivista
(Scala et al., in press). In questa sede è sufficiente ricordare che
un’associazione tra apporto non ottimale di acido folico (e altre
vitamine?) è un fattore di rischio chiaramente dimostrato per i
DTN, suggestivo per altre malformazioni e che la fortificazione o
la supplementazione con acido folico sono azioni efficaci per prevenzione dei DTN e probabilmente di altre malformazioni. La novità
più rilevante è che proprio di recente in Italia è stato approvato
dall’AIFA (Agenzia Italiana per il Farmaco) un trial randomizzato
per valutare l’efficacia di acido folico a 0,4 vs. 4 mg/die, per la
prevenzione delle MC nel loro insieme. Uno studio, questo, che ha
più valore di stimolare studi simili in tutto il mondo (meta-analisi
prospettica) che di dare risposte definitive data l’ampia dimensione campionaria necessaria.
Non sono mancati studi su vari farmaci, malattie o condizioni materne, agenti ambientali (macro-ambientali o ambienti di lavoro),
abitudini alimentari, alcol, fumo. I risultati, spesso negativi o non
conclusivi, non hanno fornito alcuna sostanziale novità in confronto
a quanto già noto (si veda ad esempio per i farmaci la recente pubblicazione curata dall’Autore di questo articolo per l’AIFA – AIFA,
2005) eccetto che per quanto riguarda la conferma abbastanza
definitiva del rischio aumentato di circa il 50% di schisi orali dopo
esposizione a corticosteroidi (Pradat et al., 2003; Carmichael et
al., 2007; Kallen e Otterblad Olausson, 2007) e l’ipotesi (fondata
anche su studi in animali di laboratorio) di un rischio aumentato
Questa cifra dovrebbe sorprendere chiunque abbia un minimo di dimestichezza con i tassi di mortalità perinatale e neonatale. Il dato fornito (8 esiti infausti per mille) è
calcolato in Australia ove esiste una prevalenza relativamente più elevata che in Italia (ad esempio) di DTN e comprende anche quelle gravidanze che vengono interrotte
ma che sarebbero andate incontro naturalmente ad aborto spontaneo. Il problema troverà migliore soluzione comparativa nel tempo e tra popolazioni quando verranno
sempre considerati tutti gli esiti infausti dopo la 12°-13° settimana, valutandone i motivi.
Sarebbe più appropriato dire: “associate a MC”, senza inferire su un nesso di causa-effetto.
Malformazioni congenite: epidemiologia e prevenzione
di spina bifida per esposizione a farmaci antiretrovirali (efavirenz,
zidovudina, delavirdina) (Watts, 2007).
Meritano un più ampio dettaglio per le recenti messe a punto: i farmaci anticonvulsivanti, le tecniche di procreazione assistita, l’obesità e le bevande alcoliche.
Anticonvulsivanti (Artama et al., 2005; Kini et al. 2005; Perucca,
2005, Meador et al., 2006; Tomson e Hiilesmaa, 2007)
L’epilessia in gravidanza ha una prevalenza intorno allo 0,5%. Di
per sé l’epilessia non è associata ad un rischio più elevato di MC.
L’uso di farmaci anticonvulsivanti di vecchia generazione (es.:
trimetadione, fenitoina, fenobarbital, valproato) soprattutto se in
politerapia comportano un aumento del rischio di MC gravi di 23 volte (6-10% vs. 2-3%). Il rischio risulta più elevato per varie
malformazioni, in particolare schisi orali, cardiopatie ed ipospadia.
Valproato e carbamazepina sono associati ad un rischio più elevato di spina bifida rispettivamente del 2-5% e dello 0,5-1%. Soltanto il valproato presenta un effetto dose (più elevato con dosaggi >
800-1.000 mg/die). In monoterapia il farmaco più teratogeno è il
valproato, il meno teratogeno il fenobarbital. Gli anticonvulsivanti
di vecchia generazione sono associati anche ad un rischio aumentato di aborto spontaneo, nati morti, ritardo di crescita intrauterino
e dimorfismi minori soprattutto a carico del volto. Questi ultimi,
comuni a tutti gli anticonvulsivanti, non predicono tuttavia uno sviluppo psico-motorio ritardato, la cui reale presenza, seppure modesta e limitata a specifiche aree di sviluppo, è ancora in dubbio.
Per quanto riguarda i nuovi farmaci anticonvulsivanti i più studiati
sono la lamotrigina e l’oxcarbazepina. Ambedue non sembrano associati a rischi più elevati anche se per la lamotrigina cominciano
a sorgere dubbi e al dosaggio elevato mostra rischi analoghi ai
farmaci di vecchia generazione.
Tecniche di procreazione assistita
Sono stati pubblicati numerosi studi e recentemente 6 revisioni sistematiche (Jackson et al., 2004; Kurinczuk et al., 2004; Rimm et
al.; 2004; Helmerhorst et al., 2004; Hansen et al., 2005; Lie et al.,
2005; Bower e Hansen, 2005) sull’esito delle gravidanze assistite da
specifiche tecnologie di riproduzione (ART).
Nel loro insieme queste revisioni indicano che i nati singoli hanno un rischio circa doppio di mortalità perinatale e di prematurità
e del 50% in più di essere piccoli per età gestazionale. I nati gemelli non presentano invece tali rischi aumentati, ma il problema
non ancora ben affrontato è quello del gruppo di controllo utilizzato
comunemente (tutti i gemelli, invece che soltanto gemelli dizigoti,
che rappresentano il 95% dei gemelli dopo ART e il 60% dei gemelli naturali, dato che i monozigoti hanno rischi più elevati). Per
quanto riguarda le MC le meta-analisi condotte indicano un rischio
aumentato del 30-40% senza differenze tra le varie tecniche utilizzate. Risultato del tutto simile a quello ottenuto in un solo studio
(successivo e non incluso nelle meta-analisi) svolto in Svezia (Kallen
et al., 2005) su un campione molto ampio (simile a quello ottenuto
nelle meta-analisi). Questo studio, data la dimensione del campione,
le caratteristiche metodologiche e la competenza nel campo delle
MC degli Autori è senza dubbio il più informativo e più istruttivo,
più delle meta-analisi. Le conclusioni di questo studio sono che i
nati dopo ART hanno effettivamente un rischio aumentato di MC,
del 42%, senza differenze tra le diverse tecniche, ma tale rischio è
attribuibile in gran parte alle caratteristiche materne in particolare
alla subfertilità, come più volte era stato ipotizzato, e forse anche
ad un più attento accertamento delle MC nel corso di gravidanze
assistite (bias di attenzione). Nell’ambito delle varie malformazioni
alcune mostrano rischi più elevati di altre: spina bifida, atresie del
tratto alimentare, VATER, atresia delle coane, ipospadia e sindromi
con difetto di imprinting; rischi tutti molto modesti sia dal punto di
vista personale che di sanità pubblica, ma non del tutto trascurabili
dal punto di vista della ricerca. Tali difetti infatti potrebbero trovare una spiegazione più che nelle tecniche di riproduzione assistita
nelle caratteristiche parentali di sub-fertilità che ancora rimangono
misteriose sul piano biologico.
Bevande alcoliche
È noto da tempo che l’abuso di bevande alcoliche durante la gravidanza può determinare una “serie di difetti associati all’alcol” (Fetal
alcohol spectrum disorders – FASD) (Wattendorf e Muenke, 2005).
L’abuso (oltre 5 drink al giorno, anche occasionale) può determinare
la manifestazione più grave, la sindrome feto-alcolica, caratterizzata
da dimorfismi facciali, deficit dell’accrescimento e dello sviluppo intellettivo e MC. Negli ultimi anni è stato definito che anche moderate
quantità di bevande alcoliche, corrispondenti a 1-2 drink al giorno
(ma la soglia di sicurezza non esiste!!!), possono rappresentare un
fattore di rischio anche per deficit di sviluppo intellettivo o anomalie
del comportamento senza alterazioni morfologiche (Peadon et al.,
2007). In Italia un’attenta indagine svolta nei Castelli Romani ha
recentemente indicato che la prevalenza tra bambini in età scolare dei difetti morfologici o funzionali (soprattutto difficoltà dell’apprendimento, iperattività e deficit di attenzione) associati all’uso di
bevande alcoliche (in media 9 drink a settimana contro 1,6 drink a
settimana nei controlli) è del 3,5% (Ceccanti et al., 2007; May et al.,
2006; Kodituwakku et al., 2006). Una prevalenza ben superiore a
quanto poteva essere immaginato o atteso da coloro che focalizzano
l’attenzione solo sulla sindrome feto-alcolica.
Gli studi sull’alcol dimostrano che per un’efficace epidemiologia e
prevenzione dei fattori di rischio prenatali non possiamo limitarci
ad analizzare solo i difetti strutturali più gravi ed evidenti, o quelli
morfologici più lievi, ma comprendere anche difetti congeniti funzionali. Ciò necessita studi su bambini più grandicelli, e quindi studi
di coorte a lunga scadenza. Tale riflessione non è limitabile all’alcol,
ma va estesa a molti altri e diversi fattori di rischio.
Obesità
Diversi studi hanno fornito una sufficiente evidenza che le donne obese (BMI > 30,0) hanno un rischio doppio di avere figli affetti da spina
bifida (Waller et al., 2007). L’obesità e in misura minore il sovrappeso
(BMI > 25,0 < 30,0) sono stati indicati come fattori di rischio per cardiopatie, omfalocele e difetti multipli. In alcuni studi con sufficiente
potenza anche labio-palatoschisi, atresia anorettale, ipospadia, ipoagenesie degli arti, ed ernia diaframmatica sono risultati associati all’obesità. Considerando la crescente frequenza del sovrappeso
e dell’obesità nei paesi sviluppati (es.: negli Stati Uniti il 51% delle
donne 20-39 anni risultano soprappeso) si comprende che questo
problema assume un’importanza rilevante per la sanità pubblica.
Sviluppi nella ricerca dei fattori di rischio
Lo sviluppo degli studi di biologia molecolare hanno consentito di
studiare non solo i geni che possono essere coinvolti nel determinismo di alcune MC (geni candidati) ma anche l’associazione tra
polimorfismi genici e malformazioni congenite (fattori di rischio genetici). I polimorfismi più studiati sono stati fino ad ora quelli dei geni
implicati nel metabolismo dell’acido folico, nel tentativo di trovare
una spiegazione all’effetto preventivo di questa vitamina. Il polimorfismo C677T, del gene MTHFR, è stato studiato in molte malforma-
67
P. Mastroiacovo
zioni (es.: spina bifida, labio-palatoschisi, cardiopatie, sindrome di
Down). L’osservazione più consistente è l’associazione con la spina
bifida, presente in varie popolazioni (Botto e Yang, 2000), compresa
quella italiana (de Franchis et al., 2002), quella più intrigante e ancora tutta da studiare e chiarire è quella con la Sindrome di Down
(Scala et al., 2006). Tali studi comunque cercano di stabilire se un
dato polimorfismo è fattore di rischio per una o più malformazioni e
sono di estrema utilità per comprendere la patogenesi. Ancora più
interessanti ed utili sono gli studi di interazione tra i polimorfismi genici ed alcuni agenti ambientali (interazione geni-ambiente) e quelli di interazione tra fattori ambientali (Botto et al., 2002). È questo
il campo più promettente di tutta la ricerca sulle MC. Al momento
attuale gli studi disponibili sono limitati (Zeiger et al., 2005; Carmichael et al., 2006) e le modalità di analisi ancora in discussione
(Weiss, 2007; Botto, 2007) ma il campo è in forte sviluppo e nel futuro potrebbe fornire alcune indicazioni utili per una prevenzione più
mirata, basata sulle caratteristiche genetiche delle persone. Come
avverrà per i trattamenti farmacologici.
La prevenzione delle malformazioni congenite
La prevenzione primaria delle MC dipende strettamente dalla ricerca di base ed epidemiologica sui fattori di rischio modificabili. Senza
l’identificazione del fattore di rischio modificabile (causa o concausa,
teratogeno maggiore o minore che dir si voglia) la riduzione della sua
frequenza è impossibile. La scoperta più recente ed utile alla prevenzione primaria è il carente apporto di acido folico. La speranza per il
futuro è realizzare gli idonei interventi preventivi in tutta la popolazione
e precisare alcuni interventi preventivi su base genetica individuale.
La prevenzione delle MC, ed ovviamente di altri esiti sfavorevoli della
riproduzione umana, può essere attuata principalmente nel periodo
pre-concezionale attraverso un accurato counseling che comprenda
tutte le informazioni ed azioni riassunte nella Tabella VII (Korenbrot et
al., 2002; Curtis et al., 2006; Allen et al., 2007; Lu, 2007).
Prospettive per il futuro
La ricerca sulle cause e sulla prevenzione delle MC è un campo di
studio relativamente giovane, entrato solo da qualche anno nella maturità. I circa 50 anni di attività sono stati caratterizzati da tre fasi:
• realizzazione di sistemi di sorveglianza per definire con precisione la frequenza delle varie malformazioni e valutarne l’andamento temporale per identificare precocemente eventuali incrementi o cluster;
• più o meno contemporaneamente hanno avuto inizio e si sono
sviluppati studi osservazionali (di coorte o caso-controllo) per
individuare eventuali fattori di rischio ambientali, con uno sviluppo importante, più di recente, di valutazione delle interazioni
geni-ambiente o tra fattori ambientali;
• più recentemente hanno potuto svilupparsi gli studi di implementazione dei risultati della ricerca nella pratica clinica e in
sanità pubblica e la conseguente valutazione dell’efficacia di
misure preventive implementate.
68
La prima fase di ricerca è stata attuata con successo (anche se
parziale) in quasi tutti i Paesi sviluppati (seppure in molte nazioni
solo in alcune aree), ma ancora molto, se non tutto, deve essere
realizzato nei Paesi in via di sviluppo. Anche nei Paesi sviluppati è opportuno che i sistemi di sorveglianza vengano affinati. È
indispensabile migliorare la definizione diagnostica dei “casi”,
evitare l’analisi di fenotipi simili morfologicamente ma eterogenei
dal punto di vista eziologico. Non è più sopportabile la valutazione delle varie malformazioni comunque si presentino (isolate, in
associazioni non chiare eziologicamente o sindromiche). È anche
necessaria una maggiore specificità di analisi: la valutazione dell’andamento temporale delle varie MC si è rivelato poco utile, se
non del tutto inutile, più opportuno analizzare alcuni fenotipi più
specifici (es.: spina bifida per sede e tipo, malformazioni multiple)
o le associazioni tra fattori di rischio e MC (es.: nel progetto MADRE
dell’ICBDSR vengono analizzate le associazioni farmaco nel primo
trimestre di gravidanza-malformazione). Altrettanto indispensabile
è valicare il confine della sorveglianza a scopi eziologici ed utilizzare i sistemi di sorveglianza per valutare nel tempo la frequenza
dei fattori di rischio noti e soprattutto la salute e la qualità di vita
dei nati con MC, nonché la qualità dei servizi socio-sanitari di assistenza e prevenzione. Il tutto realizzato in modo efficiente utilizzando le statistiche correnti delle molteplici fonti informative e le
tecniche di record linkage. I vari registri e sistemi di sorveglianza
hanno dimostrato l’inutilità delle indagini trasversali volte a definire con precisione la frequenza delle varie malformazioni, meglio
andare diritti al cuore del problema con sistemi di sorveglianza
moderni ad ampi obiettivi o con indagini eziologiche di coorte o
caso-controllo. Questa osservazione ci porta ad alcune considerazioni nel campo della ricerca eziologica vera e propria. In questo
campo il futuro ci porterà sicuramente alla realizzazione di studi
collaborativi. La rarità delle singole malformazioni, la necessità di
indagare su specifici fenotipi (es.: labioschisi isolate, e non genericamente tutte le schisi orali isolate o parte di sindromi note o
ignote) impone una ricerca collaborativa internazionale. Negli Stati
Uniti questo percorso è già iniziato da qualche anno (Yoon et al.,
2001) con uno studio caso-controllo di ampie dimensioni (su una
popolazione di circa mezzo milione di nati per anno) e con ampi
obiettivi (incluso lo studio dell’interazione geni-ambiente e tra fattori ambientali). Il salto di qualità potrà comunque essere fatto solo
attraverso una multidisciplinarietà tra competenze epidemiologiche tradizionali e competenze di epidemiologia genetica. È infatti
ormai irrinunciabile pianificare gli studi eziologici con un approccio
in grado di individuare le possibili interazioni geni-ambiente. Infine
è prevedibile che gli sviluppi del terzo settore di ricerca (implementazione e valutazione efficacia interventi preventivi) consentiranno di individuare le aree deboli in cui operare per migliorare il
trasferimento dei risultati della ricerca nella pratica clinica giornaliera e negli interventi di sanità pubblica. È questo forse il settore
che merita i maggiori sforzi, data la complessità delle barriere,
non solo sanitarie ma soprattutto psico-sociali, che si frappongono
nel trasferimento di conoscenze eziologiche in azioni preventive
efficaci per tutta la popolazione.
Malformazioni congenite: epidemiologia e prevenzione
Tabella VII.
Come prevenire le malformazioni congenite ed altri esiti sfavorevoli della riproduzione attraverso il counseling preconcezionale.
Ambito
Che cosa deve fare il medico
Obiettivo
Incoraggiamento alla programmazione della Aiutare la donna ad individuare la migliore stra- Evitare gravidanze indesiderate
gravidanza
tegia di controllo della fertilità e programmazione
della gravidanza
Promozione stili di vita
Prescrivere acido folico (0,4mg/die; 4 mg/die se Aumentare i livelli di folatemia e diminuire quelli
per il miglioramento o mantenimento di un buono rischi di MC più elevati)
di omocisteinemia in vista della gravidanza
stato di salute
Chiedere abitudini alimentari
Incoraggiare alimentazione ricca di frutta e verdura, povera di grassi
Calcolare l’indice di massa corporea (IMC)
Fornire informazioni per ottenere un IMC normale
prima del concepimento
Chiedere abitudine al fumo
Individuare insieme alla coppia la migliore strategia per smettere di fumare
Raccogliere informazioni su uso di bevande al- Informazione su astensione completa in previsiocoliche
ne e durante la gravidanza. Indirizzare a servizi di
aiuto specifici per ridurre, se uso eccessivo.
Raccogliere informazioni sull’uso di sostenze Indirizzare a servizi di aiuto specifici, se l’inforstupefacenti anche occasionalmente
mazione non è sufficientemente efficace.
Chiedere uso più o meno abituale di farmaci po- Fornire informazioni su quali farmaci vanno evitenzialmente teratogeni, in particolare retinoidi, tati in vista della gravidanza (es.: anticoagulanti
warfarina, anticonvulsivanti
cumarinici, retinoidi, abuso benzodiazepine, vitama A a dosi elevate)
Prevenzioni danni da malattie infettive
Prescrivere esami per anticorpi contro varicella, Vaccinazione rosolia, varicella, epatite B se surosolia, epatite B
scettibile
Prescrivere esami per anticorpi contro la toxo- Informare sullo stato anticorpale nel periodo preplasmosi
concezionale, fornire informazioni di prevenzione
primaria se suscettibile, informazione anticipata
sull’eventuale diagnosi e trattamento se sieroconversione in gravidanza
Prescrivere esami per anticorpi contro la CMV
Informare sullo stato anticorpale nel periodo preconcezionale e informazione anticipata sulle precauzioni per ridurre il rischio di infezione in gravidanza se suscettibile: lavaggio mani e precauzioni
per assistenti all’infanzia e personale sanitario
Informare sui rischi dell’influenza e dell’iperter- Eventuale vaccinazione per l’influenza, consigliamia (> 38°C)
re paracetamolo in caso di febbre elevata durante la gravidanza.
Valutazione del rischio di malattie a trasmissione Counseling, diagnosi ed eventuale trattamento
sessuale, compreso HIV e lue. Esecuzione del
Pap test
Identificazione rischi per malattie genetiche
Anamnesi familiare per malattie genetiche, comprende valutazione età materna e appartenenza
particolari gruppi etnici a rischio di malattie genetiche
Indirizzare alla consulenza genetica e all’acquisizione delle informazioni sulle opzioni riproduttive,
sugli esami da eseguire in gravidanza e sulla modalità di diagnosi prenatale
Valutazione rischio MEN: prescrizione emocromo, Valutare rischio MEN e prescivere test di Coomfattore Rh e gruppo sanguigno
bs indiretto se necessario; valutare emocromo
come screening di talassemia minor ed altre
emoglobinopatie e valutare opportunità elettroforesi Hb
Trattamento malattie croniche
Anamnesi personale con particolare riferimento Iniziare il trattamento più idoneo in vista della
a: diabete, epilessia, ipo/iper-tiroidismo, iper- gravidanza e programmarla quando il trattamentensione, malattie cardio-vascolari, asma, LES, to e il controllo della malattia sono ottimali
disturbi dell’umore, fenilchetonuria
Identificazione rischi psico-sociali
Identificare depressione, violenza domestica, Indirizzare a servizi di aiuto specifici
stress psico-sociali
Precauzioni per evitare inquinanti ambientali e Valutare con servizi specifici di medicina del la- Informare sui rischi legati agli ambienti di lavoro
lavorativi
voro i rischi per la coppia legati a sostanze chimi- con eventuale astensione sin dal periodo di piache, gas tossici e radiazioni
nificazione della gravidanza; informare su rischi
(anche se minimi) legati a solventi organici e pesticidi utilizzati in attività domestiche/hobby.
69
P. Mastroiacovo
Box di orientamento
Cosa sapevamo
• Anni 1962-1982
- Scoperta del più noto teratogeno: la talidomide.
- Individuazione di vari farmaci (es.: farmaci anticonvulsivanti) o condizioni materne (es.: diabete tipo 2) come fattore di rischio per
malformazioni congenite.
- Inizio attività di alcuni registri e prime stime della frequenza delle varie malformazioni in diverse popolazioni.
- Azioni preventive limitate alla rimozione della talidomide dal commercio libero e vaccinazione anti-rosolia con strategie sempre più efficaci (vaccinazione universale e non solo alle bambine).
- Prime osservazioni di Smithells et al. sulla possibilità di prevenire la ricorrenza dei DTN con vitamine. Prospettive in Pediatria pubblica un lavoro di Smithells dal titolo: “È possibile prevenire le malformazioni congenite?”.
• Anni 1983-2002
- Scoperta di altri fattori di rischio tra cui acido valproico, retinoidi e villocentesi precoce.
- Sviluppo studi caso-controllo e revisioni sistematiche per individuare nuovi fattori di rischio o precisarne la dimensione.
- Ampliamento obiettivi della ricerca sui fattori di rischio: non solo farmaci ed infezioni, ma vari fattori ambientali (poco produttiva)
e condizioni materne (più promettente, es.: obesità, ipertermia, sub-fertilità).
- Scoperti altri farmaci teratogeni in situazioni particolari (es.: misoprostol per provocare aborti, fluconazolo ad alte dosi).
- Attivati molti registri per precisare la frequenza delle MC nelle varie popolazioni e valutarne l’andamento nel tempo.
- Diffusione della diagnosi prenatale e maggiore attenzione rivolta alla prevalenza totale delle MC piuttosto che alla prevalenza tra i nati.
Cosa sappiamo oggi 2003-2007
• Dimostrata inequivocabilmente l’efficacia di una misura preventiva di sanità pubblica universalmente accettata: vaccinazione antirosolia (pur esistendo ancora lacune di efficacia in molte nazioni sviluppate come l’Italia).
• Dimostrata ma non accettata ovunque un’altra decisiva misura preventiva di sanità pubblica: supplementazione e/o fortificazione con acido folico di
alimenti comuni.
• Precisata la frequenza delle varie MC e la loro variabilità nel tempo e nelle popolazioni.
• La ricerca si è avviata sulla strada della valutazione delle interazioni tra geni e più decisivo nel campo della prevenzione della interazione tra geni e
fattori ambientali.
• Precisati i rischi associati all’obesità, all’alcol, alle terapie anti-epilettiche e alle tecniche di riproduzione assistita.
• Iniziata una significativa azione di promozione del counseling pre-concezionale come intervento più adatto ad integrare tutte le conoscenze fino ad
oggi acquisite per la prevenzione delle malformazioni e di altri esiti sfavorevoli della riproduzione umana.
Cosa ci attendiamo nel futuro
• Implementazione diffusa del counseling pre-concezionale con integrazione dei vari interventi preventivi.
• Sviluppo della ricerca sociale sui fattori determinanti i comportamenti a rischio e le barriere che impediscono un rapido trasferimento dalla ricerca
alle azioni preventive cliniche o di sanità pubblica.
• Sviluppo della ricerca delle interazioni geni-fattori ambientali e tra fattori ambientali.
• Maggiore impulso alla ricerca collaborativa per identificare nuovi fattori di rischio o precisare la dimensione di quelli noti.
• Ampliamento della sorveglianza da parte dei registri di malformazioni:
più precisa (es.: MC isolate; sottotipi di MC, MC multiple),
più specifica (es.: sorveglianza associazione MC-farmaci usati nel primo trimestre di gravidanza),
più ampia (es.: sorveglianza della qualità di vita delle persone con MC e della qualità dei servizi disponibili).
Bibliografia
AIFA, Agenzia Italiana del Farmaco. Farmaci e gravidanza. In: Mastroiacovo P, ed.
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della Salute, 2005.
*** Manuale di base e completo che affronta tutta la problematica dei farmaci in
gravidanza in rapporto al loro rischio teratogeno. Sviluppato con approccio “EBM”
contiene anche capitoli sui problemi di base di epidemiologia e di teratologia.
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Malformazioni congenite: epidemiologia e prevenzione
gli Stati Uniti. È un’utile indicazione in mancanza di dati più recenti e specifici.
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*** Uno degli studi più ampi condotti sull’ipospadia, affronta varie problematiche
e sebbene datato rimane uno degli studi più interessanti.
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*** Lo studio che per primo suggerisce la sub-fertilità come un fattore di rischio
per l’ipospadia. Essenziale per comprendere altri studi svolti sui fattori di rischio
di questa malformazione.
Källén B, Finnström O, Nygren KG, Olausson PO. In vitro fertilization (IVF) in Sweden: risk for congenital malformations after different IVF methods. Birth Defects
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** Studio “imperdibile” per chiunque voglia affrontare il quesito del rischio di
malformazioni nella riproduzione assistita.
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** Studio interessante non solo per il contenuto specifico ma soprattutto per la
metodologia di studio.
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* Articolo più recente che fornisce una buona spiegazione sull’uso dei termini
incidenza e prevalenza nel campo dei difetti congeniti.
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syndrome. A new challenge for society. London: Whurr, 2004.
** Utile messa a punto dell’epidemiologia della sindrome di Down con stima
della prevalenza nelle varie fasce di età, bambini, adolescenti e adulti in Italia.
Mastroiacovo P, Lisi A, Castilla EE. The incidence of gastroschisis: research urgently needs resources. BMJ 2006;332:423-4.
Scala I, Bortolus R, Mastroiacovo P. Acido folico nel periodo peri-concezionale:
come, quando, perché. Prospettive in Pediatria, in press.
*** Articolo “pratico” di messa a punto globale sugli effetti dell’acido folico sulla
riduzione del rischio dei difetti del tubo neurale e di altre malformazioni.
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** Studio esemplare per valutare l’andamento nel tempo della frequenza
dell’ipospadia, una malformazione non facile da studiare.
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Corrispondenza
prof. Pierpaolo Mastroiacovo, Alessandra Lisi International Centre on Birth Defects, via Carlo Mirabello 19, 00195 Roma • E-mail: [email protected]
72
Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 73-80
Vecchie e nuove immunodeficienze
Alessandro Plebani*, Luigi Daniele Notarangelo**
Clinica Pediatrica, Università di Brescia; **Children’s Hospital,
Harvard Medical School, Boston (USA)
*
Riassunto
Nel corso degli ultimi 15 anni, sono stati identificati circa 130 difetti genetici responsabili di immunodeficienza primitiva nell’uomo. Patologie che apparivano omogenee sotto il profilo immunologico sono
in realta’ spesso sottese da difetti genici diversi. Questa eterogeneita’ genetica si associa talvolta anche ad evoluzione clinica diversa, con importanti implicazioni prognostiche. Infine, studi recenti hanno
permesso di stabilire che patologie considerate tipicamente acquisite, come le malattie infettive, sono
talvolta dovute a difetti immunologici su base genetica.
Summary
In the last 15 years, nearly 130 genes have been identified, whose mutations cause primary immunodeficiencies in humans. Disorders that were thought to be immunologically homogeneous have been shown
to be caused by multiple gene defects, that may lead to variable clinical outcome. This has significant
prognostic implications. Finally, it has recently been shown that diseases that were typically considered
acquired, such as infectious diseases, may reflect genetically-determined immunological defects.
Obiettivi e metodologia della ricerca bibliografica
effettuata
Questo articolo di revisione si propone l’obiettivo di analizzare i più
recenti sviluppi nel campo dei difetti congeniti dell’immunità, con
particolare riferimento alla definizione fisiopatologia di tali malattie
e alla identificazione di nuovi difetti genetici. Verranno messe a confronto acquisizioni storiche con nuove scoperte, allo scopo di illustrare come la nostra stessa comprensione dei quadri morbosi debba necessariamente essere soggetta a continui ripensamenti critici.
Verranno anche illustrate alcune scoperte che potrebbero mettere in
dubbio persino la natura di quadri clinici per tradizione considerati
tipicamente acquisiti, come alcune forme acute di malattie infettive.
Infine, verranno discusse le implicazioni diagnostiche e terapeutiche
che queste acquisizioni comportano. Il lavoro si è basato su:
a) revisione sistematica della letteratura degli ultimi 5 anni, condotta utilizzando come motore di ricerca PubMed e le seguenti
parole-chiave:
1) primary immunodeficiency;
2) innate immunity;
3) adaptive immunity;
4) gene defects;
5) infectious disease.
b) personale esperienza di ricerca degli autori e consultazione di
altri esperti nazionali ed internazionali sulla materia.
Alessandro Plebani è nato a Chiuduno
(BG) il 27 Marzo 1951. Direttore della Clinica Pediatrica dell’Università di
Brescia e Direttore Scientifico del Centro di Medicina Molecolare “A. Nocivelli” (centro, fondato e sostenuto da una
famiglia bresciana, per lo studio dei
meccanismi patogenetici e lo sviluppo di strategie terapeutiche avanzate
delle immunodeficienze primitive). è
attualmente Coordinatore della rete
IPINET (Italian Primary Immunodeficiency Network). Autore di 200 lavori
scientifici pubblicati su riviste internazionali, i suoi studi hanno portato
alla identificazione dei difetti genetici
di diverse forme di immunodeficienze
primitive e contribuito a una migliore
comprensione dei meccanismi attraverso i quali l’organismo umano si difende dalle infezioni. è sposato ed ha
tre figlie. Ama la musica nei suoi vari
generi, la lettura e lo sport.
Introduzione
I notevoli progressi dell’immunologia cellulare e molecolare in questi ultimi anni hanno consentito di meglio identificare i meccanismi
patogenetici delle varie forme di immunodeficienze primitive. Questi
progressi hanno portato all’identificazione di forme nuove di immunodeficienza, mai descritte precedentemente, caratterizzate da una
maggiore suscettibilità a infezioni da singoli patogeni, ma anche hanno consentito di suddividere le forme classiche e note da tempo di
immunodeficienza, caratterizzate da un’aumentata suscettibilità a
molteplici microrganismi e da un profilo immunologico ben definito,
in malattie diverse, sulla base dei differenti difetti genetici coinvolti.
In altre parole, quelle che prima dell’era molecolare potevano essere
considerate un’unica forma di immunodeficienza primitiva sulla base
del profilo immunologico, in realtà con l’avvento dell’era molecolare si
sono dimostrate essere un insieme di malattie diverse caratterizzate
da quadri clinici a gravità differente. È il caso di dire che il vecchio diventa nuovo e questo cambiamento è legato allo sviluppo delle conoscenze dell’immunologia di base e della loro applicazione alla clinica.
Immunodeficienze da aumentata suscettibilità a
infezioni da patogeni multipli
Agammaglobulinemia
L’agammaglobulinemia è una immunodeficienza abbastanza datata:
è stata descritta per la prima volta da Odgeon Bruton nel 1952 in un
bambino di 7 anni che aveva presentato numerosi episodi infettivi,
73
A. Plebani, L.D. Notarangelo
in particolare sepsi, frequentemente sostenute dallo stesso patogeno
(Bruton, 1952). Questa osservazione ha spinto Bruton a ipotizzare che
il paziente non fosse in grado di produrre anticorpi nei confronti del
patogeno stesso, ipotesi confermata dalla dimostrazione che il paziente al tracciato elettroforetico (unica metodica disponibile a quel tempo
per evidenziare la presenza di anticorpi) mancava del picco γ. Da qui il
termine di agammaglobulinemia. In quel tempo non erano ancora stati
identificati i vari isotipi delle immunoglobuline sieriche.
Dopo la descrizione di questo paziente, numerosi altri casi analoghi
con lo stesso difetto immunologico sono stati riportati portando alla
identificazione, sulla base della modalità di trasmissione della malattia, di forme a trasmissione X recessiva e a trasmissione autosomica
recessiva. Nel frattempo i progressi dell’immunologia di base avevano
consentito di identificare, mediante l’impiego di reagenti specifici per
i linfociti B, le varie fasi della loro differenziazione a livello midollare:
dal precursore totipotente alla cellula pro-B, poi pre-B, quindi linfocito
B immaturo e infine B maturo che lascia il midollo ed entra in circolo.
L’impiego di questi reagenti ha consentito di dimostrare la completa
assenza dei linfociti B circolanti nei pazienti con agammaglobulinemia, a causa di un blocco precoce della differenziazione dei linfociti B.
Verso la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, il gene responsabile
della forma a trasmissione X recessiva è stato mappato in corrispondenza del cromosoma X e nel 1993 il difetto è stato identificato nel
gene che codifica per una proteina citoplasmatica con attività chinasica denominata, in onore di Bruton, Btk (Bruton tyrosine kinase) (Vetrie
et al., 1993). Questa proteina espressa principalmente nei linfociti della serie B è essenziale per trasdurre il segnale di differenziazione dalla
cellula pro-B a linfocito pre-B, da qui la condizione di agammaglobulinemia con assenza di linfociti B midollari e circolanti nei pazienti che
presentano mutazione di questo gene.
Figura 1.
Blocco della differenziazione dei linfociti B nell’agammaglobulinemia.
In questa immunodeficienza i linfociti circolanti sono assenti per un blocco
differenziativo a livello della cellula pro-B che non matura a pre-B. Nella
forma X-recessiva questo blocco maturativo è dovuto a mutazioni di BTK
che quindi non è in grado di trasferire al nucleo il messaggio differenziativo che gli viene trasmesso dal complesso del pre-BCR (B Cell Receptor)
espresso sulla superficie della cellula pro-B. In mancanza di BTK non
vengono trascritti i geni essenziali per il passaggio da pro-B a pre-B. La
forma autosomica recessiva riconosce come causa mutazione dei geni
che codificano per componenti del pre-BCR (catena μ, λ5, Igα, e Igβ).
Mutazioni di uno di questi geni impediscono la formazione del pre-BCR
che non viene espresso sulla superficie cellulare e quindi non trasmette a
BTK lo stimolo differenziativi che riceve dal microambiente.
74
Ma mutazioni del gene BTK non spiegavano le forme autosomiche
recessive di agammaglobulinemia che rappresentavano circa il 20%
dei casi. Nel frattempo, studi sul modello murino evidenziavano il
ruolo cruciale del pre-BCR nella differenziazione dei linfociti B (Meltchers et al., 2000). Il pre BCR è un complesso formato dalla catena
μ, la catena λ5, la Vpreβ, la Igα e la Igβ. Pertanto i geni che codificano per queste molecole sono stati considerati dei possibili geni
candidati della agammaglobulinemia a trasmissione autosomica
recessiva nell’uomo. Ed infatti, dal 1996 al 2007 è stato dimostrato
che mutazioni della catena μ, della λ5, della Igα e della Igβ, sono
responsabili di circa il 60% delle forme di agammaglobulinemia a
trasmissione autosomica recessiva (Yel L et al., 1996; Minegishi Y et
al., 1998; Minigishi Y et al., 1999; Ferrari et al., 2007a; Ferrari et al.,
2007b). In altre parole, al momento attuale il difetto genetico è noto
approssimativamente nel 90% delle forme di agammaglobulinemia
con assenza di linfociti B circolanti. Questi dati dimostrano come la
condizione di immunodeficienza caratterizzata da un punto di vista
immunologico da bassi livelli di immunoglobuline sieriche e da assenza di linfociti B circolanti, non sia in realtà un’unica malattia, ma
un insieme di malattie diverse dovute a mutazioni di geni differenti,
identificabili solo mediante sequenziamento genico (Fig. 1). Una vecchia forma di immunodeficienza è stata quindi scomposta in diverse
forme nuove. Potrebbe questo spiegare la diversa espressività clinica della forme diagnosticate solo sulla base del profilo immunologico? È probabile. Queste nuove conoscenze consentono di meglio
costruire la storia naturale dell’agammaglobulinemia e di definirne
i fattori prognostici. Da un punto di vista terapeutico il trattamento
rimane lo stesso per le varie forme.
L’ipogammaglobulinemia comune variabile
L’ ipogammaglobulinemia comune variabile (CVI) è una condizione di immunodeficienza primitiva caratterizzata da bassi livelli di
immunoglobuline sieriche con presenza di un numero pressocchè
normale di linfociti B, ma funzionalmente difettivi. La CVI è caratterizzata da una grande variabilità delle alterazioni immunologiche e
dell’espressività clinica, variabilità molto più vasta di quella osservata nell’agammaglobulinemia (Cunningham-Rundles e Bodian, 1999;
Quinti et al., 2007; Plebani, et al. 2002; Winkelstein et al., 2006). Infatti in quest’ultima il profilo immunologico è pressocchè costante in
tutti i pazienti: bassi livelli di immunoglobuline e assenza di linfociti
B circolanti con integrità del compartimento dei linfociti T. Al contrario nella CVI oltre a forme con difetti primitivi dei linfociti B, vi sono
forme in cui è possibile evidenziare un difetto del compartimento dei
linfociti T (alterazioni nelle varie sottopopolazioni, difetto nella produzione di interleuchine, difetto proliferativo, aumento dell’attività
soppressoria), a volte associato a leucopenia/linfopenia.
L’eterogeneità della CVI non si esprime solo a livello immunologico
ma anche a livello clinico. Oltre agli episodi infettivi, in questi pazienti sono relativamente frequenti manifestazioni di tipo autoimmune (piatrinopenia, vitiligine, artrite, anemia emolitica, malattie
infiammatorie intestinali), manifestazioni di tipo granulomatoso,
tumori. Queste complicanze sono molto più rare nei pazienti con
agammaglobulinemia. All’eterogeneità immunologica e clinica si
associa anche un’eterogeneità genetica: oltre a casi con presentazione sporadica (la maggior parte) vi sono forme familiari con trasmissione autosomico dominante o recessiva. Queste osservazioni
hanno rafforzato l’idea che anche la CVI fosse un insieme di malattie
differenti causate da difetti genetici diversi, con un diverso effetto
sull’omeostasi del sistema immune. Ed infatti in questi ultimi anni
sono stati identificati almeno tre geni che se mutati danno luogo
Vecchie e nuove immunodeficienze
al quadro clinico ed immunologico compatibile con la CVI. Si tratta
di mutazioni di ICOS (Inducile Co-Stimulator), TACI (Transmembrane
Activator and CAML Interactor) e CD19. Il gene ICOS che codifica
per una proteina che viene espressa sui linfociti T attivati; mutazioni
di questo gene danno luogo ad una forma di CVI a difetto primitivo
dei linfociti T (Grimbacher et al., 2003). ICOS è il recettore di ICOSL
(ICOS Ligand) una proteina espressa costitutivamente sui linfociti
B. L’interazione ICOS/ICOSL attiva i linfociti B che si differenziano
a plasmacellule secernenti immunoglobuline, mentre difetti di tale
interazione determinano una condizione di ipogammaglobulinemia.
Anche mutazioni del gene che codifica per TACI (Transmembrane
Activator and CAML Interactor), una proteina espressa sulla superficie dei linfociti B e che agisce da recettore per BAFF (B cell Activating Factor) e APRIL (A PRoliferation Inducing Factor) possono dar
luogo a una forma di ipogammaglobulinemia (Salzer et al., 2005).
L’interazione di TACI con BAFF e APRIL attiva una serie di processi
biochimici che sono cruciali per la “Class Switch Recombination”,
meccanismo mediante il quale vengono prodotti tutti gli isotipi delle
immunoglobuline. Una difettiva interazione tra TACI e BAFF/APRIL
per mutazione di TACI (finora non sono state identificate mutazioni
in BAFF o APRIL) comporta un difetto dei meccanismi dello switch
isotipico e quindi una condizione di ipogammaglbobulinemia. TACI
è una molecola espressa prevalentemente sui linfociti B quindi una
sua mutazione comporta un difetto primitivo dei linfociti B.
Anche la mutazione del gene che codifica per la molecola CD19 è
stato dimostrato essere un’altra causa di difetto primitivo dei linfociti
B e quindi di CVI (van Zelm et al., 2006). La molecola del CD19 è
costitutivamente espressa sui linfociti B e fa parte di un complesso
multiproteico il cui ruolo nella maturazione dei linfociti B a plasmacellule producenti immunoglobuline è cruciale. Mutazioni del gene che
codifica per la molecola del CD19 interferiscono con la formazione del
complesso e da qui la condizione di ipogammaglobulinemia.
A differenza dell’agammaglobulinemia dove le mutazioni dei geni identificati come causa di malattia si osservano in circa il 90% dei pazienti,
mutazioni dei geni finora identificati come causa di CVI si riscontrano
solo nel 5-10% dei pazienti; nella stragrande maggioranza dei pazienti
il difetto genetico rimane quindi ancora sconosciuto. I recenti tentativi
di classificare i pazienti affetti da CVI sulla base del gene difettivo, stanno fornendo una ragionevole spiegazione dell’eterogeneità clinica di
questi pazienti: le malattie autoimmuni sono più frequenti nei pazienti
con mutazioni di TACI. Questo è in accordo con i dati del modello murino, in cui topi knock-out per questo gene presentano una maggiore
incidenza di malattie autoimmuni (Seshasayee et al., 2003).
Nel complesso, quanto soprariportato conferma che anche per la CVI
vale quanto detto per l’agammaglobulinemia e che cioè lo stesso
fenotipo immunologico (bassi valori delle immunoglobuline sieriche
in presenza di un numero pressocchè normale di linfociti B) può essere dovuto a mutazioni di geni differenti (Fig. 2). Quindi una vecchia
forma di immunodeficienza può essere scomposta in diverse forme
nuove che consentono di meglio definirne la storia naturale, i fattori
prognostici e di sviluppare trattamenti più adeguati.
L’immunodeficienza con Iper IgM
L’immunodeficienza con Iper IgM (HIGM) è una forma di immunodeficienza primitiva caratterizzata da bassi livelli di IgG e IgA sierici e
livelli normali o elevati di IgM, in presenza di un numero normale di B
linfociti circolanti (Notarangelo et al., 1992). I primi casi riportati si riferivano a pazienti di sesso maschile, suggerendo una trasmissione
X recessiva della malattia (Notarangelo et.al., 1992). Il meccanismo
patogenetico di questa forma è rimasto elusivo fino al 1986 quando,
Figura 2.
Difetti genetici dell’ipogammaglobulinemia comune variabile (CVI).
Finora sono stati identificati tre geni (ICOS, TACI, CD19) che se mutati causano questa condizione di immunodeficienza. Ciascuno di
questi geni codifica per una proteina che è essenziale per consentire
la maturazione dei linfociti B a plasmacellule secernenti immunoglobuline. ICOS codifica per una proteina che è espressa sui linfociti
T, pertanto questa forma di CVI riconosce un difetto primitivo dei
linfociti T. Il suo ligando (ICOSL) è espresso dai linfociti B. Mutazioni
di TACI e di CD19, comportano un difetto maturativo dei linfociti B;
trattandosi di geni che codificano per molecole espresse costitutivamente sui linfociti B, queste due forme di CVI riconoscono come
causa un difetto primitivo dei linfociti B. TACI è il recettore di APRIL
e BAFF, due proteine prodotte dalle cellule dendritiche. Il loro legame
con TACI è cruciale per la maturazione dei linfociti B. La molecola del
CD19 è parte di un complesso multiproteico che regola l’attivazione
dei linfociti B.
75
A. Plebani, L.D. Notarangelo
in un brillante esperimento, Mayer dimostrò che le cellule B di questi
pazienti coltivate in presenza di cellule T isolate dalla cute di un
paziente con sindrome di Sezary, erano in grado di secernere livelli
normali di immunoglobuline sieriche (Mayer et al., 1986). Questo ha
portato a ipotizzare che il difetto primitivo fosse localizzato nei linfociti T, ipotesi che bene spiegava il quadro clinico di questi pazienti che presentavano, oltre ad una elevata suscettibilità a patogeni
capsulati, anche una maggiore suscettibilità a patogeni opportunisti
(Pneumocystis jiroveci, Cryptosporidium, Cytomegalovirus), tipica
dei difetti dell’immunità T.
Il profilo immunologico compatibile con la sindrome da Iper IgM è
stato successivamente osservato anche in pazienti di sesso femminile, suggerendo l’esistenza di forme a trasmissione autosomica
recessiva. Il quadro clinico dei pazienti con la forma autosomica recessiva della malattia presentava una minore gravità degli episodi
infettivi per minore incidenza di infezioni da patogeni opportunisti,
suggerendo che diversi meccanismi patogenetici caratterizzavano
la forma autosomica recessiva rispetto alla X-recessiva, probabilmente per un coinvolgimento di difetti genetici differenti.
Grazie ai progressi della biologia molecolare è stato possibile dimostrare nel 1993 che la forma X recessiva della malattia (HIGM1)
è dovuta a mutazioni del gene, localizzato sul cromosoma X, che
codifica per la molecola del CD40 ligando (CD40L), una proteina
che è espressa sui linfociti T attivati (Korthauer et al., 1993). Questa
proteina interagendo con il suo recettore, il CD40, espresso costitutivamente sui linfociti B, induce lo switch dalla produzione di IgM a
quella di IgG e IgA. Il difetto primitivo della HIGM1 è localizzato a livello dei linfociti T e questo spiega la maggiore suscettibilità di questi pazienti a patogeni opportunisti. Inoltre l’identificazione di questo
difetto genetico ha consentito di fornire una spiegazione razionale
all’esperimento di Mayer eseguito con le cellule T della sindrome di
Sezary: le cellule T di questa sindrome sono in uno stato di attivazione continua e pertanto esprimono costitutivamente la molecola
del CD40L. Questo è sufficiente per indurre le cellule B dei pazienti
affetti dalla forma X recessiva della malattia a differenziarsi in plasmacellule che secernono le immunoglobuline.
Il CD40 è il recettore del CD40L pertanto il gene che codifica per
questa molecola è stato considerato come un gene candidato per la
forma di Iper IgM a trasmissione autosomica recessiva. Studi condotti nel modello murino con lo scopo di identificare i meccanismi
molecolari della “class Switch recombination” hanno dimostrato
come durante il passaggio dalla produzione di IgM a quella di IgG e
IgA venivano espressi in modo significativo alcuni geni come AICDA
(Activation-Induced Cytidine Deaminase) (Muramatsu et al., 1999)
e UNG (Uracil-N-Glycosylase) (Rada et al., 2002), suggerendo che
entrambi questi geni potessero essere dei geni candidati della forma di IgM a trasmissione autosomica recessiva. Infatti dal 2000 al
2003 mutazioni di AICDA (HIGM2) (Revy et al., 2000), CD40 (HIGM3)
(Ferrari et al., 2001) e UNG (Imai et al., 2003) sono stati identificati
in pazienti affetti dalla forma autosomica recessiva di Iper IgM. Mutazioni di NEMO sono state identificate come la causa di una forma
di immunodeficienza con Iper IgM associata a displasia ectodermica
anidrotica (Doffinger et al., 2001). È interessante osservare come
i difetti genetici finora identificati come causa della immunodeficienza con Iper IgM, codifichino per delle proteine che entrano a far
parte del pathway biochimico attivato dall’interazione CD40/CD40L.
Vi è tuttora una aliquota relativamente ampia di pazienti con fenotipo
clinico ed immunologico compatibile con immunodeficienza da Iper
IgM per la quale il difetto genetico non è ancora stato identificato.
Anche la sindrome da Iper IgM (una vecchia forma di immunodeficienza) può essere scomposta sulla base del difetto genetico in varie
76
Figura 3.
Difetti molecolari dell’immunodeficienza con Iper IgM.
Questa immunodeficienza è caratterizzata da un difetto dello switch
isotipico: il linfocita B non è in grado di passare dalla produzione delle
IgM a quella delle IgG e IgA. Nello switch isotipico un ruolo essenziale viene svolto dall’interazione CD40L/CD40. Questa interazione è in
grado di attivare il complesso NEMO/IKKα/IKKβ. In condizioni normali,
questo complesso fosforila I-kB che viene degradato, liberando NF-kB il
quale migra nel nucleo e induce la trascrizione di geni come AID e UNG
che svolgono un ruolo importante nei meccanismi dello switch isotipico.
In figura sono indicati le proteine finora identificate che, se alterate, portano al fenotipo immunologico della immunodeficienza con Iper IgM.
forme (nuove forme di immunodeficienza) dovute a mutazioni di geni
differenti che sottendono meccanismi patogenetici differenti (Fig. 3).
Distinguere tra le varie forme non è importante ai fini di una migliore
definizione diagnostica, ma per meglio definire i fattori prognostici
e gli interventi terapeutici più adeguati. Infatti le HIGM1 e le HIGM3,
sono caratterizzate da un quadro clinico più severo per le quali il
trapianto di midollo è raccomandato, mentre le forme HIGM2 e UNG,
sono caratterizzate da un fenotipo clinico più lieve e non richiedono
trapianto di midollo osseo.
Nuove frontiere in infettivologia pediatrica:
immunodeficienze caratterizzate da suscettibilità
a specifici patogeni
A partire dal 1952, e fino alla fine degli anni ’90, le immunodeficienze primitive sono state considerate malattie rare caratterizzate da
distinti fenotipi immunologici, ciascuno dei quali definisce il tipo di
patogeni verso i quali esiste aumentata suscettibilità (ad esempio,
nei difetti anticorpali prevalgono le infezioni batteriche, nei difetti selettivi dell’immunità cellulo-mediata sono comuni le infezioni da virus
o da altri patogeni intracellulari, ecc.). La possibilità di differenziare le
forme “classiche” di immunodeficienza in base al fenotipo immunologico ha costituito la base per porre in atto nuove ed efficaci strategie terapeutiche volte a correggere le anomalie fenotipiche (Ochs et
al., 2007). In questo modo vanno interpretati la somministrazione di
immunoglobuline (per correggere i difetti anticorpali) (Bruton, 1952)
e il trapianto di cellule staminali ematopoietiche per curare i difetti
Vecchie e nuove immunodeficienze
Tabella I.
“Vecchie” e “nuove” immunodeficienze a confronto.
Caratteristiche generali
“Vecchie” (o classiche) immunodeficienze
“Nuove” immunodeficienze
Trasmissione
Trasmissione familiare
Più spesso, sporadiche
Evoluzione
Progressiva
Spesso, miglioramento spontaneo
Definizione fenotipica
Immunologica
Clinica
Suscettibilità infettiva
A molti patogeni
A pochi (spesso singoli) patogeni
Numero di episodi infettivi
Molti (infezioni ricorrenti)
Pochi (anche uno solo)
Gravità delle infezioni
Variabile
Spesso elevata
Penetranza clinica
Completa
Incompleta
combinati dell’immunità (Gatti et al, 1968). Un altro elemento comune alle forme “classiche” di immunodeficienza è costituito dal fatto
che – per ciascun difetto – vi è aumentata suscettibilità nei confronti
di diversi patogeni, pur nei limiti definiti dalla specificità del fenotipo
immunologico stesso. In tal modo, i pazienti affetti da immunodeficienza combinata presentano una suscettibilità generalizzata nei
confronti di qualsiasi infezione virale, e non di virus specifici. Fino
alla fine degli anni ’90, erano ben poche le eccezioni a tale regola;
un possibile esempio di tali eccezioni è rappresentato dalla sindrome
linfoproliferativa X-recessiva, per la quale era ben definita la suscettibilità nei confronti del virus di Epstein-Barr (Nichols et al., 2005).
Negli ultimi anni, tuttavia, lo scenario è radicalmente cambiato e
con esso anche la stessa definizione delle immunodeficienze primitive. Grazie soprattutto alle straordinarie scoperte del gruppo di
Jean Laurent Casanova a Parigi sono stati scoperti molti nuovi difetti
genetici a carico del sistema immunitario che per lo più non sono
definibili sulla base di comuni test immunologici, ma piuttosto sulla
base del fenotipo clinico sotteso: la suscettibilità a quadri infettivi
sostenuti da singoli patogeni o da pochi patogeni con caratteristiche
biologiche comuni (Marodi e Notarangelo, 2007). A questi quadri,
spesso legati a difetti dell’immunità innata (o all’interfaccia tra l’immunità innata e l’immunità adattiva) si fa spesso riferimento parlando di “nuove” immunodeficienze. Si tratta di un capitolo in effetti
del tutto nuovo, ancora appena agli albori: non a caso, in un recente
editoriale, Casanova provocatoriamente sostiene che l’intero gruppo
delle immunodeficienze deve essere considerato un campo ancora
nella sua infanzia (Casanova e Abel, 2007). A tale gruppo di malattie,
alle differenze con le forme classiche di immunodeficienza (Tab. I), ai
rapporti con l’infettivologia e a possibili nuove implicazioni di natura
diagnostica e terapeutica dedicheremo ora la nostra attenzione.
Immunodeficienze da aumentata suscettibilità a
infezioni da micobatteri
È noto da tempo che l’espressività clinica delle infezioni da micobatteri, ed in particolare da micobatterio tubercolare, è assai variabile.
Nonostante tale microrganismo sia responsabile di oltre 8 milioni
di nuovi casi e di quasi 2 milioni di morti ogni anno, nella maggior parte dei casi l’infezione ha un decorso più benigno, senza che
venga di fatto sviluppato un quadro di malattia. Per giustificare tale
variabilità fenotipica, sono spesso stati invocati fattori nutrizionali, la
coesistenza di altri stati morbosi, fattori di tipo ambientale (esposizione a fumo, ecc.). Negli ultimi anni, tuttavia, numerosi studi hanno
dimostrato l’importanza di fattori di tipo genetico (van de Vosse et
al., 2004; Britton et al., 2007). In realtà, un esempio drammatico di
come fattori genetici siano implicati nella suscettibilità alle infezio-
ni da micobatteri era stato offerto dal noto incidente di Lubecca,
occorso in Germania prima della seconda Guerra Mondiale, allorché 251 bambini vennero per errore sottoposti a vaccinazione non
con il bacillo di Calmette-Guérin, bensì con un ceppo virulento di
Mycobacterium tubercolosis. Settantasette di tali bambini morirono
entro l’anno, 127 svilupparono vari segni di infezione, mentre nessun sintomo fu riferito dagli altri 47. In condizioni ambientali simili,
quindi, vi era stata una detta differenza nella risposta biologica ad
un medesimo agente infettivo. Successivamente, anche gli studi di
Figura 4.
Risposta biologica ai micobatteri.
Una volta infettati da micobatteri, i macrofagi secernono interleuchina-12 (IL-12) che si lega al recettore specifico espresso dai linfociti T.
Questo segnale induce la produzione di interferone-γ (IFN-γ) da parte
dei linfociti T. L’IFN-γ si lega a sua volta al proprio recettore specifico,
espresso sulla membrana dei macrofagi, e determina l’attivazione di
vie di segnale intracellulari, che portano all’attivazione del fattore trascrizionale STAT-1, che consente l’induzione di geni che codificano per
meccanismi di citotossicità, con conseguente distruzione intracellulare
dei micobatteri contenuti nel fagosoma. Contemporaneamente, l’IFN-γ
determina anche la produzione di Tumor Necrosis Factor-α (TNF-α) che
potenzia la risposta infiammatoria e modula l’attività di altre molecole,
come N-RAMP1, coinvolte nella difesa contro i micobatteri. I macrofagi
possono essere attivati anche attraverso Toll-like receptors (TLR).
In Figura, sono anche rappresentati i difetti genetici della via IL-12/IFNγ finora scoperti nell’uomo: si tratta delle mutazioni a carico della subunità p40 della IL-12, della catena IL12Rβ1, delle due catene dell’IFN-γR
(IFN-γR1 e IFN-γR2) e di STAT1.
Da notare che la subunità p40 della IL-12 è anche condivisa dalla
IL-23.
77
A. Plebani, L.D. Notarangelo
Comstock, condotti su gemelli monozigoti o dizigoti, confermarono
una maggiore concordanza nello sviluppo di tubercolosi tra i primi
(Comstock, 1978), confermando in tal modo l’importanza dei fattori
genetici. Tuttavia, è stato solo negli ultimi anni, grazie ad una attenta valutazione di elementi epidemiologici e alla realizzazione di
importanti ricerche, che sono stati identificati numerosi difetti genetici responsabili di quadri di suscettibilità mendeliana alle infezioni
da micobatteri. In particolare, è stato dimostrato che mutazioni a
carico di diversi geni, che codificano per molecole funzionalmente
organizzate lungo l’asse IL-12/IL-23/IFN-γ/IFN-γR (Fig. 4) determinano suscettibilità ad infezioni ricorrenti e gravi da micobatteri
ambientali e, in alcuni casi, da Salmonella (Casanova e Abel, 2002;
Filipe-Santos et al., 2006; Quintana-Murci et al., 2007). Queste osservazioni non solo hanno rivoluzionato il nostro modo di “leggere”
le immunodeficienze primitive (evidenziando come difetti genetici
del sistema immunitario possano causare uno spettro molto ristretto
di infezioni), ma hanno anche posto in crisi alcuni dogmi dell’immunologia come disciplina di base. In particolare, uno degli assiomi
consolidati si basava sulla dicotomia funzionale tra linfociti TH1 e
linfociti TH2: secondo tale principio, ai primi verrebbe demandata la
difesa contro patogeni intracellulari, mentre i secondi interverrebbero nel controllo di reazioni anticorpo-mediate, in processi allergici e
nella difesa contro gli elminti. In realtà, come dimostrato dallo studio della suscettibilità mendeliana a infezioni da micobatteri atipici,
l’asse IL-12/IL-23/IFN-γ/IFN-γR (che rappresenta la “firma” delle
difese di tipo TH1), è ridondante nei meccanismi di difesa contro la
maggior parte dei patogeni intracellulari. Nello stesso tempo, la scoperta delle basi cellulari e molecolari della suscettbilità mendeliana
a micobatteriosi atipiche ha offerto nuove e più mirate prospettive di
intervento terapeutico, quali l’impiego di IFN-γ ricombinante nei difetti della IL-12 e del suo recettore, o il trapianto di cellule staminali
per i pazienti con mutazioni del recettore dell’IFN-γ. In questo senso,
si può ben dire che grazie a queste scoperte si è potuto scomporre
un quadro che appariva fenotipicamente relativamente omogeneo,
permettendo di predisporre terapie individualizzate, basate sulla definizione del difetto genetico.
Encefalite erpetica e immunodeficienza
Durante gli studi volti a caratterizzare le basi fisiopatologiche della
suscettibilità mendeliana a micobatteriose, furono identificati soggetti nella cui storia clinica, accanto a infezioni da micobatteri, si
evidenziava un’incidenza aumentata di encefaliti da Herpes Simplex
(Dupuis-Giros, 2003). In tali soggetti vennero identificate mutazioni a
carico del fattore trascrizionale STAT-1, implicato nella risposta biologica non solo all’IFN-γ (da qui il rischio di micobatteriosi), ma anche agli interferoni di tipo 1 (IFN-α/β) (Fig. 5). Proprio questa osservazione indusse il gruppo di Casanova a rivalutare – dapprima sotto
il profilo epidemiologico/genetico e quindi sul piano immunologico
e molecolare – il quadro dell’encefalite erpetica. L’Herpes Simplex
di tipo 1 (HSV-1) è un virus ubiquitario, che di regola causa quadri
di patologia acuta a risoluzione spontanea. L’infezione primaria da
HSV-1 determina di regola la gengivostomatite erpetica. Assai più
raramente, essa può causare encefalite erpetica, in soggetti per altri
versi apparentemente sani. Analizzando il Registro francese dei casi
di encefalite erpetica, Casanova notò che non raramente tale patologia si verificava in diversi soggetti della stessa famiglia; peraltro,
il fatto che solo alcuni dei familiari venissero colpiti rendeva improbabile l’ipotesi che differenze di virulenza dei ceppi virali giocassero un ruolo determinante. Attraverso studi di segregazione e sulla
base di osservazioni condotte da altri in modelli murini, il gruppo
78
Figura 5.
Risposta biologica all’Herpes Simplex-1 (HSV-1).
L’RNA a doppia elica dell’HSV-1 viene riconosciuto dal TLR3, espresso
nel erticolo endoplasmatico. Inoltre, anche altri TLR intracitoplasmatici,
come il TLR7,8 e 9, vengono attivati da prodotti di derivazione virale.
L’attivazione del TLR3 comporta, attrevrso l’intervento della molecola
UNC-93B e di Trif, di kinasi intracellulari (TBK1 e IKK-ε) che in ultima
analisi attivano complessi trascrizionali (IRF-3 e IRF-7). L’attivazione
dei TLR7,8 e 9, porta invece ad una via alternativa di attivazione che
comprende, oltre a UNC93B, la molecola MyD88 e la kinasi IRAK4.
Ciò porta ad attivazione del complesso trascrizionale NF-κB e di IRF-7.
Infine, i complessi IRF-3, IRF-7 e NF-κB sono implicati nella induzione
di interferoni di tipo 1 (IFN-α/β). Tali molecole agiscono legandosi a recettori specifici e inducendo, nelle cellule infettate dal virus, l’attivazione
delle kinasi JAK1 e TYK2, con conseguente attivazione del complesso
trascrizionale STAT1/2. Ciò porta, in ultima analisi, alla induzione di
meccanismi di apoptosi cellulare, con conseguente distruzione anche
del virus. Difetti a carico di UNC-93B e di TLR3 sono selettivamente
associati nell’uomo ad encefalite da HSV-1.
di Casanova dapprima identificò mutazioni a carico della molecola
endosomiale UNC-93B (Casrouge et al., 2006), e successivamente
nel Toll-like Receptor 3 (TLR3) (Zhang et al., 2007) nei soggetti con
encefalite erpetica. I TLR rappresentano i sensori di prodotti di derivazione microbica e sono quindi considerati un elemento essenziale
nell’innesco delle risposte dell’immunità innata (Beutler et al., 2006).
Il TLR3, assieme ai TLR7, TLR8 e TLR9, ha una localizzazione intracellulare, nel reticolo endoplasmatico e negli endosomi. UNC93B è
per l’appunto coinvolta proprio nella risposta a segnali di attivazione
via TLR3,7,8 e 9. Tra questi, il TLR3 lega RNA a doppia elica (dsRNA)
ed è quindi in grado di funzionare come un sensore dell’immunità
innata nei confronti di molti tipi di virus. Come si spiega allora che
difetti di TLR3 e di UNC93B conferiscano paradossalmente una aumentata suscettibilità solo nei confronti dell’HSV-1 e perché tale suscettibilità si esprime sotto forma di encefalite? Alla prima domanda
è possibile rispondere con l’osservazione che molti virus (ma non
l’HSV-1) sono in grado di innescare altre vie di attivazione dei TLR,
indipendenti da UNC93B; in particolare, un ruolo importante in queste vie alternative di attivazione viene svolto dalla molecola IRAK4,
una kinasi coinvolta nella trasduzione del segnale via TLR (Fig. 2).
La selettività di fenotipo clinico (encefalite erpetica) nei soggetti con
mutazioni di TLR3 si spiega invece col fatto che il TLR3 è espresso
sia nel sistema nervoso centrale (SNC) sia – al di fuori di esso – da
cellule dendritiche ed epiteliali; queste ultime, tuttavia, possiedono
anche altre vie, TLR3-indipendenti, per rispondere a dsRNA virale,
mentre a livello del SNC vi è assoluta dipendenza dal TLR per la
risposta a dsRNA. In questo modo, attraverso lo studio attento di un
fenotipo clinico (encefalite erpetica) si è potuto comprendere molto
Vecchie e nuove immunodeficienze
di più sulla biologia della risposta agli agenti virali e sui meccanismi
di ridondanza esistenti nell’immunità innata.
La scoperta di difetti di TLR3 e di UNC93B in pazienti con encefalite
erpetica non è stata importante solo sotto il profilo conoscitivo: la dimostrazione infatti che tali difetti comportano incapacità a produrre
IFNα/β ha offerto nuove prospettive di terapia, basate sulla somministrazione di IFN di tipo 1, nei pazienti affetti da questa grave manifestazione clinica. Tale approccio può essere utilizzato ancor prima
di sapere se il soggetto ha in effetti un difetto di TLR3 o di UNC93B e
ha già dato luogo a qualche significativo successo terapeutico.
Un altro esempio di immunodeficienza con selettiva
suscettibilità a patogeni: difetti di IRAK4 e infezioni
da piogeni
Un ulteriore esempio di come alcune forme di immunodeficienza primitiva possano comportare una selettiva suscettibilità a patogeni è
fornito dalla dimostrazione di deficit della kinasi IRAK4, coinvolta nella
risposta via TLR, in pazienti con storia clinica di infezioni invasive da
piogeni. Come già detto, IRAK4 è coinvolto nella risposta biologica di
diversi TLR; poiché ciascun TLR riconosce specifici prodotti di derivazione microbica (lipopolisaccaride, DNA, ds RNA, RNA a singola elica,
flagellina, ecc.), era logico supporre che difetti in molecole comuni
all’attivazione di diversi TLR dovessero comportare una suscettibilità
ad un ampio spettro di patogeni o, più verosimilmente, non fossero
legati ad aumentato rischio infettivo a causa di ridondanza nelle vie
di risposta biologica. I fatti hanno dimostrato che queste ipotesi non
erano corrette. Studiando una serie di pazienti la cui storia clinica era
contrassegnata da infezioni gravi da piogeni (specie da Streptococcus
pneumoniae) nei primi anni di vita, associate a segni del tutto modesti
(o persino assenti) di risposta infiammatoria, il gruppo di Casanova
ha stabilito che tale condizione dipende da mutazioni di IRAK4, trasmesse con modalità autosomico-recessiva (Picard et al., 2003; Ku
et al., 2007). Successivi studi in vitro hanno dimostrato come, nonostante il fatto che IRAK4 sia coinvolto nella risposta all’attivazione
di diversi TLR, i pazienti con deficit di IRAK4 mostrano una selettiva
incapacità di difesa nei confronti di uno spettro assai limitato di batteri,
rappresentati soprattutto da S. pneumoniae e da Staphylococcus aureus. Inoltre, lo studio attento della storia clinica di questi soggetti ha
dimostrato che le manifestazioni cliniche erano particolarmente gravi
(con esito spesso letale) nei primi anni di vita, ma con una progressiva
attenuazione del fenotipo clinico negli anni, verosimilmente a seguito
della maturazione di meccanismi di difesa dell’immunità adattiva.
Sono comuni le immunodeficienze primitive?
Implicazioni per la salute pubblica
Nell’insieme, la scoperta che difetti a carico di molecole del sistema
immunitario potessero dar luogo a quadri di selettiva suscettibilità a
patogeni, spesso contrassegnati da esordio acuto e fenotipo grave,
ha rivoluzionato l’idea che le malattie infettive siano da considerarsi per definizione patologie esclusivamente su base ambientale e
ha portato a valutare con che frequenza singoli eventi infettivi acuti
possano avere una base immunologica. In effetti, se – come ritenuto
da Casanova – “ciascun individuo è affetto da almeno una forma di
immunodeficienza primitiva” (Casanova e Abel, 2007), diventa importante valutare attentamente la presenza di difetti immunitari di
fronte ad ogni episodio infettivo di inusuale gravità. In realtà, studi
recenti sembrano dimostrare che, per quanto interessante, l’ipotesi
di Casanova non trova oggi un riscontro concreto.
Proprio facendo seguito alla scoperta dei difetti di IRAK4 in pazienti
con infezioni invasive da piogeni, Hirschfeld e coll. hanno analizzato
una ampia coorte di soggetti, che comprendeva 38 soggetti apparentemente sani (di età variabile tra 0 e 57 anni) e 50 bambini con
storia di infezione invasiva da pneumococco. Tutti questi soggetti
sono stati studiati per possibili anomalie dei TLR. In nessun caso,
sono stati dimostrati difetti (Hirschfeld et al., 2007). Non trova quindi
alcun fondamento l’ipotesi di sottoporre a screening per espressione
o funzione dei TLR soggetti altrimenti sani, all’atto della prima manifestazione grave di natura infettiva.
Nonostante ciò, gli studi di Casanova hanno davvero rappresentato
un capitolo nuovo nell’Immunologia e nella Infettivologia Clinica. È
verosimile che si tratti di una storia tuttora in evoluzione, di cui non
abbiamo visto che l’inizio.
Box di orientamento
Cosa sapevamo
La prima descrizione delle immunodeficienze primitive risale ai primi anni ’50. Si trattava di una descrizione clinica, basata su una elevata suscettibilità
alle infezioni e supportata dall’impiego di pochi, anzi pochissimi esami di laboratorio disponibili (emocromo, elettroforesi proteica, immunoelettroforesi) dal
momento che poco si conosceva sui meccanismi di difesa nei confronti delle infezioni. Con l’identificazione dei linfociti T e dei linfociti B e del loro ruolo
nei meccanismi di difesa e con la disponibilità di metodiche per la loro identificazione, si è passati da una diagnosi clinica ad una diagnosi immunologica,
classificando le immunodeficienze primitive in due categorie principali: immunodeficienze a prevalente difetto dell’immunità umorale o cellulare.
L’osservazione che pazienti con lo stesso fenotipo immunologico presentavano caratteristiche cliniche a gravità differenti ha indotto a ipotizzare che
differenti meccanismi patogenetici portassero allo stesso fenotipo immunologico.
Cosa sappiamo oggi
I progressi nella comprensione dei meccanismi molecolari attraverso i quali il sistema immunitario ci difende dalle infezioni, e lo sviluppo di metodologie di analisi genetica hanno consentito di identificare il difetto genetico di circa 100 tipi di immunodeficienze primitive. Questo significa che, immunodeficienze caratterizzate da uno stesso fenotipo immunologico, che quindi potevano fare pensare ad una singola malattia, in realtà, debbano essere
considerate come entità distinte sulla base del difetto genetico, ciascuna con fattori prognostici e trattamenti differenti.
In questi ultimi anni è emerso un dato che ha cambiato il concetto “classico” di immunodeficienza (suscettibilità a infezioni da più patogeni): l’identificazione di immunodeficienze caratterizzate da una suscettibilità a singoli patogeni (micobatteri, Herpes simplex, Streptococcus pneumoniae). Queste
immunodeficienze sono caratterizzate da difetti della via dei recettori “toll-like” e vengono definite con il termine di “nuove” immunodeficienze.
Cosa ci aspettiamo nel futuro.
Migliorare gli approcci terapeutici: l’identificazione del difetto genetico consente una più precisa classificazione delle immunodeficienze primitive, una
migliore definizione dei fattori prognostici e lo sviluppo di strategie terapeutiche più mirate ed efficaci. Identificare le basi molecolari di immunodeficienze classiche a patogenesi tutt’ora sconosciuta. Migliorare le conoscenze sui meccanismi difensivi mediati dalla via dei recettori “toll-like” per
identificare un numero sempre maggiore di “nuove” immunodeficienze e rispondere al quesito che tutt’ora non trova una soddisfacente risposta, del
perché alcuni soggetti hanno maggiore suscettibilità ad infezioni, magari minori, rispetto ad altri.
79
A. Plebani, L.D. Notarangelo
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Corrispondenza
prof. Alessandro Plebani, Clinica Pediatrica, Università di Brescia, p.le Spedali Civili 1, 25123 Brescia • E-mail: [email protected]
80
Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 81-88
Malattia renale cronica
e insufficienza renale
Sara Testa, Alberto Edefonti, Fabio Sereni
U.O.C. Nefrologia e Dialisi Pediatrica, Fondazione IRCCS Ospedale Maggiore
Policlinico, “Mangiagalli e Regina Elena”, Milano
Riassunto
Una trattazione puntuale e aggiornata dei principali attuali problemi concernenti l’insufficienza renale
cronica nell’infanzia, non può prescindere da considerare questo tema con una visione più ampia,
prendendo anche in considerazione pazienti con malattia renale cronica.
Partendo dalla ben nota teoria di Brenner sulla patogenesi della progressione dell’insufficienza renale
cronica, sono in questo articolo presi in particolare considerazione i fattori che, nell’infanzia, hanno una
particolare importanza nel condizionare la velocità di progressione dell’insufficienza renale. Solo nei pochi soggetti in cui tali fattori non siano presenti, la velocità di progressione appare ridotta e la funzione
renale rimane costante nel lungo termine.
La dieta ipoproteica, in passato ampiamente prescritta, non si è dimostrata efficace nel rallentare la
velocità di progressione del danno renale. Farmaci inibitori dell’enzima di conversione e bloccanti del
recettore dell’angiotensina si sono dimostrati efficaci nel rallentare la progressione della malattia renale
cronica nella nefropatia diabetica e nelle patologie glomerulari proteinuriche; nelle ipodisplasie renali,
prima causa di insufficienza renale cronica in età pediatrica, il loro impiego deve essere sottoposto ad
attenta analisi di efficacia, non essendo i benefici altrettanto certi.
Il trattamento chirurgico del reflusso vescico-ureterale, considerato un tempo indispensabile per prevenire il danno renale, ha dato gli stessi risultati della terapia conservativa in termini di danno renale
strutturale e di insufficienza renale terminale e presenta oggi indicazioni limitate. Nonostante il netto
miglioramento dei risultati del programma di dialisi/trapianto pediatrico rispetto agli esordi, rimangono
ancora molto elevate le percentuali di mortalità e morbilità nei giovani adulti che hanno iniziato il trattamento sostitutivo in età pediatrica. Questi dati indirizzano verso politiche di trapianto precoce, il cui
esito a lungo termine deve comunque essere ancora valutato.
Alberto Edefonti è nato a Marnate (Va)
il 1 Aprile 1947. Dal 1999 Direttore
Unità Operativa di Nefrologia e Dialisi
Pediatrica della Clinica Pediatrica De
Marchi, Milano. Ha introdotto innovative tecniche dialitiche per l’età pediatrica e nuove modalità di diagnosi
e trattamento della malnutrizione dei
bambini con insufficienza renale cronica. Molto impegnato in un organico
piano di assistenza ai bambini con
malattie renali del Nicaragua e di altre
nazioni del Centro America. Sposato
dal 1974, ha 2 figlie e 1 nipote. Si interessa di fotografia e arte moderna.
Summary
A detailed analysis of the main problems associated to chronic renal insufficiency in children has to
consider this topic from a wide point of view, including patients with chronic kidney disease.
Starting from the Brenner’s hypothesis on the pathogenesis of the progression of chronic renal failure,
in this paper we discuss the factors that, in childhood, play a major role in the determination of the
rate of progression of renal insufficiency. Only in patients who do not present these factors, the rate of
progression is slow and the renal function remains stable for a long period.
It has been demonstrated that the low-protein diet, widely prescribed in the past, failed to delay the
progression of the kidney damage. Angiotensin converting enzyme inhibitors and angiotensin receptor
blockers reduce the rate of progression of renal injury in the diabetic and in proteinuric glomerular diseases; on the contrary, the efficacy of these drugs in the hypodisplastic kidney, main cause of chronic
renal failure in children, has still to be proven and their prescription has to be carefully evaluated.
Surgical correction of vesicoureteral reflux, once considered essential to prevent the renal injury has the
same efficacy of the conservative treatment in the prevention of the structural renal damage and of the
end stage renal disease and nowadays has only few indications.
Notwithstanding the improvement in the dialysis/transplant program during the last years, the mortality
and the morbility of the young adults who started renal replacement therapy during childhood are still
high. This evidence encourages the use of the pre-emptive transplant, even if its long-term follow up
has still to be carefully studied.
L’insufficienza renale cronica rappresenta oggi nell’adulto un problema di salute pubblica, tanto da essere definita l’epidemia del terzo
millennio. Una parte del problema ha le sue radici nell’età pediatrica,
così che il pediatra può e deve svolgere un’azione importante ai fini
della prevenzione dell’insufficienza renale cronica.
Metodologia della revisione
Dovendo affrontare un argomento assai vasto, gli Autori hanno deciso di sviluppare questa revisione rispondendo ad alcune domande
ritenute fondamentali nell’evidenziare i problemi aperti nell’ambito
della diagnosi e terapia dell’insufficienza renale cronica (IRC). Queste domande sono quelle più comunemente poste dai pediatri quan-
81
S. Testa, A. Edefonti, F. Sereni
do si trovano di fronte ad un bambino con IR e rappresenteranno
quindi i capitoli di questa revisione.
La ricerca bibliografica nei vari capitoli è stata effettuata per la letteratura recente tramite il sito Internet PubMed e sugli scaffali delle
biblioteche, per quanto riguarda la letteratura inerente al passato.
Le parole chiave utilizzate nella ricerca su PubMed sono state le
seguenti: malattia renale cronica, insufficienza renale cronica, progressione, fattori di rischio, outcome a lungo termine.
appare oggi di estrema importanza, per arginare l’attuale epidemia
di malati renali adulti necessitanti dialisi e trapianto. L’attenzione del
medico dovrà quindi essere sempre più focalizzata sulla cura delle
salute che non su quella delle lesioni.
Nel corso di questa revisione abbiamo cercato di rispondere a quattro domande, non strettamente specialistiche, che riteniamo fondamentali per una buona comprensione dei problemi più attuali di
nefrologia pediatrica concernenti l’IRC.
Premessa
Prima domanda
Quando si parla di IRC e di malattia renale cronica (CKD) si è tentati
di pensare che questi due termini siano sinonimi; nulla invece appare
più diverso. Se andiamo infatti ad analizzare cosa gli Autori negli anni
’70 intendessero per IRC vediamo che il criterio fondamentale era la
riduzione del filtrato glomerulare (FG) sotto a 60 ml/min/1,73 m2 e che
venivano distinti 3 gradi di IRC:
il I, compreso tra valori di 55-60 e 20 ml/min/1,73 m2, era considerato una fase durante la quale il paziente andava monitorato nel
tempo ed eventualmente iniziati i primi trattamenti;
il II, tra 20 e 5 ml/min/1,73 m2, imponeva un’intensificazione delle
terapie per fronteggiare l’alterazione dell’equilibrio metabolico;
il III o IR terminale, al di sotto dei 5 ml/min/1,73 m2, in cui era necessario istituire una terapia sostitutiva (Broyer, 1983).
Passando ai giorni nostri il quadro si fa più complesso: nel 2002
la National Kidney Foundation ha pubblicato le nuove Linee Guida
per la definizione e stadiazione della CKD. Non a caso la terminologia viene cambiata da insufficienza renale cronica a malattia renale
cronica: per CKD si intende infatti, non solo una condizione caratterizzata da riduzione del FG, ma anche la sola presenza di anomalie
strutturali e funzionali del rene senza riduzione del FG. Per essere più
precisi, per definire una condizione di CKD deve essere soddisfatto
almeno uno dei seguenti due criteri: danno renale persistente da più
di 3 mesi definito come anormalità strutturale (alterazioni istologiche
e/o di imaging) o funzionale (alterazioni esami ematici e/o urinari)
del rene con o senza riduzione del FG; oppure FG inferiore a 60 ml/
min/1,73 m2 per più di 3 mesi con o senza danno renale. Entrano per
esempio in questa categoria tutti i bambini con riduzione del patrimonio nefronico. La stadiazione della CKD, più differenziata rispetto
al passato, è riportata nella Tabella I. (NKF, 2002).
Appare a questo punto evidente come, con la nuova definizione, si
comprenda all’interno della categoria di soggetti affetti da CKD un
numero notevolmente più alto di individui apparentemente sani, che
costituiscono la parte sommersa di quell’iceberg la cui parte emersa
è rappresentata dai pazienti con IRC conclamata. Riconoscere e trattare tempestivamente soggetti potenzialmente a rischio di progredire verso stadi terminali di compromissione della funzione renale,
La prima domanda è la seguente: l’IRC del bambino è sempre
progressiva? Quali fattori influenzano la progressione?
Già alla fine degli anni ’70 veniva proposta dal gruppo di Brenner
una teoria sulla progressione dell’IRC che ha costituito la base per lo
sviluppo delle attuali conoscenze. Attraverso studi si era dimostrato
che la riduzione della massa nefronica secondaria a diverse malattie
renali provocava nei nefroni residui un aumento del carico di lavoro,
che era responsabile dello sviluppo di ipertensione glomerulare, con
conseguente sclerosi progressiva e proteinuria, marker e poi essa
stessa fattore causale della progressione dell’IRC (Hostetter et al.,
1981). La Figura 1 riassume i meccanismi fisiopatologici che contribuiscono all’instaurarsi del circolo vizioso della progressione del
danno renale e l’interazione dei medesimi con i principali fattori di
rischio (Taal et al., 2006).
Focalizzando la nostra attenzione sulla progressività della malattia
renale in età pediatrica e sui fattori che la influenzano, sono stati evidenziati dalla letteratura in questi anni i seguenti cinque elementi.
Tabella I.
Stadiazione della CKD secondo la National Kidney Foundation (NKF).
Stadi della malattia renale cronica
Stadio
Descrizione
1
Danno renale con FG normale o #
≥ 90
2
Danno renale con lieve i del FG
60-89
3
Moderata i del FG
30-59
4
Severa i del FG
5
Insufficienza renale terminale
82
FG
(ml/min/1,73 m2)
15-29
< 15 (o dialisi)
Il ruolo della patologia renale primitiva
Era già stato notato in passato come, a seconda della malattia renale sottostante prevalentemente glomerulare o tubulare, la velocità
di progressione della insufficienza renale fosse differente (Broyer,
1983). Tale fenomeno è stato poi documentato in studi di popolazione giungendo all’identificazione di valori medi di caduta di FG
nettamente diversi a seconda della patologia primitiva: ad esempio,
le malattie glomerulari o il rene policistico di tipo adulto si associano
ad una velocità nettamente superiore di declino rispetto alle malattie
tubulointerstiziali, displasiche e malformative (NKF, 2002).
Il ruolo dell’età del bambino con IRC nel predire la velocità di
progressione del danno renale
Numerosi studi di popolazione hanno evidenziato che nell’adulto,
con il progredire dell’età, si assista ad una riduzione del FG anche
in soggetti senza patologia renale; ed ancora che nella malattia renale cronica l’età correla con una velocità di progressione del danno
renale sempre maggiore (Taal et al., 2006). In uno studio eseguito
su una popolazione di bambini con IRC facente parte del Registro
Italiano dell’IRC, ItalKid, si è osservato come l’accelerazione della
progressione del danno renale si verifichi precipuamente nel periodo
dello sviluppo puberale (Ardissino, dati non pubblicati).
Il rapporto tra i valori iniziali di filtrato glomerulare, dall’inizio
dell’osservazione e la velocità di decremento della funzione
renale
Un ulteriore fattore che influenza la progressione dell’IRC nell’infanzia sembra essere il valore di FG all’esordio della malattia renale.
Un’attenta analisi della curva della velocità di progressione divisa
per i diversi valori di filtrato consente di osservare che i bambini con
maggiore compromissione iniziale della funzione renale presentano una riduzione molto più rapida della sopravvivenza renale, rag-
Malattia renale cronica e insufficienza renale
Figura 1.
Schema dell’interazione tra fattori di rischio e meccanismi fisiopatologici che regolano la progressione del danno renale cronico.
giungendo le fasi terminali della malattia entro la seconda decade
di vita (Fig. 2) (Ardissino et al., 2003). Considerando solo i pazienti
con livelli di FG lievemente compromesso (CKD stadio 2), si osserva
come, anche all’interno di tale categoria, che ha ovviamente una
sopravvivenza renale più lunga, si possano individuare differenze di
velocità di declino in base ai livelli di FG di partenza: valori superiori
a 70 ml/min/1,73 m2 sembrerebbero essere correlati con una progressione pressoché nulla (Ardissino, dati non pubblicati).
Il ruolo patogenetico della proteinuria e dell’ipertensione
arteriosa
La proteinuria ha una duplice valenza all’interno del processo di progressione del danno renale: in primo luogo essa rappresenta il primo
segno evidente del danno renale esistente ed evolutivo; in secondo
luogo diventa essa stessa fattore di progressione del danno renale.
Figura 2.
Valori di filtrato glomerulare (FG) iniziali e sopravvivenza renale.
Si noti la maggior velocità di progressione dell’IRC nei bambini con
valori più bassi di FG all’esordio della malattia.
Diversi studi sia in coorti di soggetti sani (Iseki et al., 1996) che in
pazienti già affetti da patologia renale (Keane et al., 2006) hanno
infatti mostrato come la proteinuria costituisca di per sé fattore di
progressione del danno renale. Inoltre, tanto più alti sono i valori di
proteinuria all’esordio della malattia renale, tanto maggiore sarà la
velocità di progressione dell’IR: ciò è stato dimostrato sia in pazienti
adulti con CKD ad eziologia varia (prevalentemente malattie proteinuriche) (Peterson et al., 1995; GISEN, 1997; Lea et al., 2005), che in
età pediatrica, dove la patologia renale primitiva prevalente è quella
ipodisplasica con o senza uropatia malformativa, notoriamente scarsamente proteinurica (Ardissino et al., 2004) (Fig. 3). La pressione
arteriosa (PA) è nota da tempo essere un fattore indipendente di
progressione del danno renale. Ciò che è divenuto chiaro solo più
Figura 3.
Proteinuria e sopravvivenza renale in pazienti pediatrici con ipodisplasia
renale.
I soggetti con valori di proteinuria più elevati alla diagnosi, progrediscono più velocemente verso l’insufficienza renale grave.
83
S. Testa, A. Edefonti, F. Sereni
recentemente è che la pressione arteriosa non può essere considerata un fattore di rischio dicotomico, normotensione vs. ipertensione,
ma una variabile continua, in quanto ogni piccolo aumento dei valori
di PA, anche all’interno dei limiti di normalità, si associa ad un aumento del rischio di progressione. Questo concetto è stato verificato
in diversi studi prospettici randomizzati sia in età adulta (Taal et al.,
2006), che nei bambini (ESCAPE trial, dati non pubblicati) e implica
un diverso approccio al controllo della pressione arteriosa nel paziente con CKD: l’obiettivo terapeutico non deve più essere quello di
raggiungere i livelli soglia di normalità, bensì di ottenere valori di PA
più bassi del 90° percentile per età e sesso.
L’importanza della dotazione nefronica alla nascita
Un altro concetto abbastanza recente riguarda la dotazione nefronica individuale: mentre inizialmente si pensava che ogni rene fosse
costituito da un numero pressappoco costante (800.000) di glomeruli (Mounier et al., 1983), studi recenti hanno invece evidenziato
come tale numero abbia una variabilità interindividuale molto ampia
già nei soggetti sani ed inoltre sia strettamente correlato con il peso
alla nascita (Hughson et al., 2003). Tanto maggiore è il ritardo di
crescita intrauterino o la prematurità di per sé, tanto più basso sarà il
numero di nefroni alla nascita con conseguente aumento del rischio
di sviluppare malattia renale cronica ed ipertensione arteriosa in età
adulta. Nell’attuale pratica clinica pediatrica tale dato assume una
valenza importante dal momento che, grazie al notevole progresso
delle cure mediche, i neonati con basso peso (LBW) o estremamente
basso peso (VLBW) alla nascita che sopravvivono sono in numero
sempre maggiore. Per essi deve essere previsto un programma di
screening e di prevenzione dell’insorgenza e della progressione del
danno renale molto accurato, al fine di prevenire possibilmente l’incremento in età adulta di casi di CKD.
Una Cochrane Review del 2007 ha analizzato tutti gli studi controllati portati a termine in età pediatrica su dieta e IRC: su 62 studi
valutati solo 2 rispondevano ai criteri selezionati. In totale l’analisi
è stata condotta su 250 pazienti con CKD casualmente assegnati a
dieta normo- o ipoproteica. Entrambi gli studi concludevano che tra
i due gruppi di pazienti non esistevano differenze statisticamente
significative nella velocità di progressione dell’IR, nella proteinuria,
nella pressione arteriosa e negli indici di crescita e stato nutrizionale. Pertanto, la dieta ipoproteica in pazienti con malattia renale
cronica in età pediatrica non sembra rappresentare un provvedimento terapeutico efficace ai fini di rallentare la progressione della
IRC (Chaturvedi et al., 2007). Rimane peraltro ferma l’indicazione
alla dieta controllata progressivamente in apporti proteici, per limitare la tossicità uremica, man mano che il FG scende sotto i 50
ml/min/1,73 m2.
Farmaci inibitori dell’enzima di conversione (ACEi) e bloccanti
il recettore dell’ACE (ARB)
Già dalla fine degli anni ’80 e poi per tutti gli anni ’90 si è via via affermata l’utilità degli ACEi nel ridurre la progressione dell’IRC (Mann
et al., 1996). I primi studi sono stati condotti su pazienti diabetici, ma
successivamente l’efficacia di tali farmaci è stata verificata in tutti i
soggetti con IRC, a prescindere dall’eziologia (Maschio et al., 1996).
Si trattava comunque di soggetti adulti in cui è noto che la maggior
parte delle patologie renali primitive è di tipo altamente proteinurico.
Nel 1997 infine è stato pubblicato su Lancet un ampio studio randomizzato con controllo in placebo, condotto dal Gruppo Italiano di
Studi Epidemiologici in Nefrologia (GISEN, 1997) (Fig. 4) che, pur non
aggiungendo nuove informazioni, ha avuto una particolare risonanza
mediatica e creato eccessive speranze in tutti coloro che, affetti da
malattie renali croniche, credevano di poter evitare il programma
dialisi-trapianto.
Seconda domanda
Il secondo grande quesito cui cerchiamo di rispondere è il seguente: qual è l’efficacia in età pediatrica dei provvedimenti terapeutici che nell’adulto sono attualmente accettati come validi
per rallentare la progressione dell’insufficienza renale?
Dieta ipoproteica
Già negli anni ’70 e ’80, alcuni studi sperimentali avevano dimostrato che la dieta iperproteica era responsabile di iperfiltrazione a livello
glomerulare sia nel ratto che nell’uomo, causando una riduzione di
FG e una progressione del danno renale nei soggetti con malattia
renale pre-esistente (Nolen et al., 1972; Broyer, 1983; Bosch et al.,
1986). Sulla base di queste osservazioni, ma anche per la necessità di ridurre la tossicità uremica, era stato ipotizzato che una dieta
ipoproteica potesse ridurre la velocità di progressione dell’IRC. A
tale scopo furono disegnati svariati studi in soggetti adulti affetti da
IRC, che dimostravano la maggior efficacia di una dieta ipoproteica
stretta, nel ridurre la velocità di progressione della malattia, rispetto
ad una dieta normo-ipoproteica. Tale efficacia risultava più evidente con supplementazione di aminoacidi essenziali e chetoanaloghi
(Barsotti et al., 1981). Risultato analogo, anche se con una minor
evidenza statistica, venne poi ritrovato in un amplissimo studio sulla
dieta nei pazienti con CKD (Klahr et al., 1994).
Dopo questi riscontri positivi nei pazienti adulti, ci si è posti l’interrogativo se anche in età pediatrica potesse valere lo stesso principio, considerando peraltro che in soggetti in crescita una carenza di
proteine avrebbe potuto portare ad una riduzione del potenziale di
crescita.
84
Figura 4.
Riduzione del filtrato glomerulare (FG) nei soggetti trattati con ACEi o
placebo.
Si noti la sostanziale stabilità dei valori di FG nei soggetti trattati con
ACEi vs. i soggetti non trattati, nei quali il FG si riduce naturalmente.
Malattia renale cronica e insufficienza renale
Per quanto riguarda la popolazione pediatrica è stata ben dimostrata l’efficacia degli ACEi nel ridurre la proteinuria ed abbassare
la pressione arteriosa (Wuhl et al., 2004) ma, per quanto riguarda
l’effetto renoprotettivo con rallentamento della progressione verso
le fasi terminali dell’IRC, i dati a nostra disposizione sono ancora
poco concordanti. In alcuni studi si afferma l’effettiva riduzione della
velocità di progressione del declino della funzionalità renale (Ellis et
al., 2003; Yang et al., 2005) con l’utilizzo di questo tipo di farmaci,
in altri, invece, tale evidenza clinica non è comprovata (Fig. 5) (Ardissino et al., 2007). Una parte della differenza nell’esito di questi
studi potrebbe essere spiegata dal fatto che i lavori sugli adulti e
quelli pediatrici di Ellis e Yang sono stati effettuati in popolazioni
con nefropatie prevalentemente proteinuriche, mentre lo studio di
Ardissino et al., condotto sulla popolazione di soggetti con IRC in
età pediatrica iscritta nel Registro Italiano dell’IRC in età pediatrica
(ItalKid), si concentra sull’ipodisplasia renale associata o meno ad
uropatia malformativa (principale causa di IRC in età pediatrica), che
è una malattia non proteinurica.
In conclusione a distanza di circa 10 anni dal grande exploit mediatico degli ACEi vi è oggi maggior cautela nell’affermare che tali
farmaci, associati o meno agli ARB, possano sempre costituire
un’indicazione efficace al problema di rallentare la progressione
dell’insufficienza renale cronica nell’infanzia. Del resto ciò viene affermato anche nella realtà della nefrologia dell’adulto, dove importanti recenti meta-analisi hanno frenato gli entusiasmi (Casas et al.,
2005) e rimesso in discussione l’effetto renoprotettivo per sé di ACEi
e ARB. Nella realtà nefrologica pediatrica, l’indicazione più sicura
agli ACEi e ARB è rappresentata dalla CKD secondaria a nefropatie
glomerulari proteinuriche, specie se accompagnate da ipertensione.
Figura 5.
Velocità di caduta del FG prima e durante l’uso degli ACEi.
La velocità di progressione dell’insufficienza renale non è influenzata dall’introduzione in terapia dell’ACEi (da Ardissino et al., NDT 2007, mod.).
In altre patologie renali pediatriche con CKD, il loro utilizzo deve rispondere ad un’attenta indicazione di efficacia/sicurezza.
Terza domanda
Il terzo grande problema sul quale si è molto dibattuto riguarda
vantaggi e limiti di alcuni precoci interventi chirurgici correttivi
di malformazioni delle vie urinarie nel prevenire l’insufficienza
renale cronica. Due sono i principali temi controversi sui quali è
necessario discutere, e cioè l’opportunità di praticare interventi
“anti-reflusso” e il ruolo della chirurgia fetale per disostruire
molto precocemente le vie urinarie malformate.
Le malformazioni delle vie urinarie associate ad ipodiplasia renale
costituiscono la causa principale di insufficienza renale cronica in
età pediatrica, rappresentando circa il 45% di tutte le cause. All’interno delle malformazioni, la più frequente (55,7%) è il reflusso
vescico-ureterale (RVU), seguito dalle valvole dell’uretra posteriore
(VUP) (Fig. 6) (Ardissino et al., 2003).
Negli anni ’60 era stato ipotizzato che lo sviluppo dell’IRC nei
soggetti con RVU dipendesse dal reflusso stesso e dalle infezioni delle vie urinarie (IVU) ad esso associate, giungendo infine alla
definizione di nefropatia da reflusso. Come conseguenza terapeutica risultava indispensabile allora prevenire le IVU e correggere
chirurgicamente il RVU, al fine di ridurre il danno renale e quindi
prevenire l’IRC.
Più recentemente, invece, è stata avanzata la teoria che in realtà
i soggetti con RVU che manifestano CKD hanno anormalità renali
congenite (displasia), associate, ma non secondarie, al RVU. Di qui la
sottolineatura dell’importanza patogenetica dell’ipodisplasia renale
associata a uropatia malformativa e, secondariamente, la considerazione che la correzione del RVU non sia in grado di prevenire il
danno renale e dunque l’evoluzione verso l’IRC. A tali conclusioni
indirizzano i risultati di uno studio condotto sui soggetti arruolati
nell’ItalKid, che mostrano come l’età alla diagnosi dell’uropatia malformativa non influenzi minimamente la progressione dell’IRC, con
tutta probabilità perché il danno è congenitamente presente e non
secondario al RVU (Ardissino et al., 2004).
Un’ampia review del 2003 ha inoltre analizzato gli eventuali vantaggi del trattamento chirurgico del RVU associato alla profilassi antibiotica nei confronti della sola profilassi, considerando 7 studi per un
totale di 833 pazienti. Gli outcomes analizzati sono stati la frequenza
di IVU, il danno renale valutato con scintigrafia renale con DMSA,
Figura 6.
Tempistica della diagnosi di RVU e progressione dell’IRC.
La probabilità di sopravvivenza renale non è diversa tra coloro in cui
la presenza di RVU viene diagnosticata più precocemente riseptto a
diagnosi più tardiva (da Ardissino et al., J Urol 2004, mod.).
85
S. Testa, A. Edefonti, F. Sereni
il raggiungimento di insufficienza renale terminale e l’ipertensione
arteriosa. Per nessuno di tali parametri è stata evidenziata una differenza tra i due gruppi; in particolare, non è stato dimostrato che la
correzione chirurgica del RVU sia efficace nel ridurre la progressione
di un danno renale pre-esistente (Wheeler et al., 2003).
Si può quindi concludere che la correzione chirurgica del RVU non
influenza la progressione della CKD.
Esistono d’altro canto delle condizioni, quali frequenti pielonefriti
nonostante la profilassi antibiotica o scarsa compliance familiare, in
cui l’intervento chirurgico risulta indicato.
Per quanto riguarda la chirurgia fetale delle uropatie ostruttive, in
particolare delle valvole dell’uretra posteriore (VUP), un’attenta analisi retrospettiva dei risultati a lungo termine è stata effettuata da
Holmes in tutti i feti operati per VUP dal 1981 al 1999 (Holmes et
al., 2001). Su 40 pazienti valutati, 36 hanno eseguito intervento prenatale con importanti problematiche connesse: una mortalità fetale
del 43% secondaria a alterazioni dello sviluppo polmonare, infezioni
(corioamnioniti), rottura spontanea delle membrane e perdita di liquido amniotico. In ogni caso, nei soggetti sopravvissuti, l’intervento
non ha modificato la prognosi sfavorevole per la funzione renale e la
necessità di terapia sostitutiva (dialisi/trapianto). Si può quindi concludere che l’iniziale entusiasmo per questo tipo di procedura si sia
notevolmente ridotto e la chirurgia fetale debba essere confinata
a pochi e selezionati casi di malformazioni gravi che non abbiano
altrimenti chance di sopravvivenza.
Quarta domanda
L’ultimo grande tema che in questa sede è utile trattare concerne l’handicap psico-fisico che ancora oggi viene riscontrato
nei bambini con IRC che hanno dovuto sottostare a dialisi e
trapianto. È possibile effettuare una prevenzione? Quale ruolo
per il trapianto pre-emptive, cioè eseguito senza aver messo il
bambino in dialisi cronica con tutti i sacrifici che tale pratica
terapeutica comporta per il paziente (e l’eventuale costo per la
comunità)?
Nei primi anni dopo la nascita del programma di dialisi e trapianto
pediatrico (fine anni ’60) non era chiaro se tale trattamento sostitutivo garantiva una sufficiente qualità di vita dei bambini affetti da
insufficienza renale terminale (IRT). Dopo quasi 50 anni di pratica
clinica segnata da notevoli progressi terapeutici, farmacologici e
tecnologici, i risultati del programma dialisi-trapianto pediatrico appaiono ancora non del tutto soddisfacenti. In un pregevole articolo
di Groothoff del 2005 viene tracciato un chiaro “stato dell’arte” della
terapia sostitutiva nell’IRC in età pediatrica. Risulta subito evidente
come la mortalità complessiva dei bambini sottoposti a terapia sostitutiva sia 30 volte superiore a quella di soggetti sani di pari età.
Tra le cause di morte, la principale risulta essere la patologia cardiovascolare, che incide per il 35-50% dei casi, seguita dall’ipertensione maligna con complicazioni cerebrovascolari, dalle infezioni, dalle
86
neoplasie e infine dalla deliberata sospensione del trattamento. Per
quanto riguarda le morbilità, il primo posto è riservato nuovamente
alla patologia cardiovascolare: il 50% dei soggetti con IRT esordita
in età pediatrica, presenta all’età di 40 anni ipertrofia ventricolare
sinistra e calcificazioni vascolari che possono essere responsabili
di morte. Altra rilevante morbilità associata è rappresentata dalla
malattia metabolica ossea che affligge circa il 30% dei pazienti.
L’incidenza delle neoplasie appare 10 volte superiore rispetto alla
popolazione sana età-correlata; tra i tumori più frequenti i linfomi
non-Hodgkin e i tumori della cute. Questo aumento dell’incidenza di
neoplasie, insieme alle infezioni severe, costituisce uno dei problemi
principali della terapia immunosoppressiva del trapianto renale.
Oltre alle complicazioni fisiche, non vanno sottovalutate le conseguenze psicosociali della malattia renale cronica terminale e della
terapia sostitutiva. Numerosi studi hanno evidenziato come le capacità cognitive e di apprendimento (soprattutto memoria, capacità
di lettura e scrittura, abilità matematica e capacità di attenzione)
dei bambini dializzati siano significativamente ridotte rispetto alla
popolazione sana di controllo. Questo riscontro sembrava essere
correlato alla durata della dialisi. In realtà ulteriori studi hanno dimostrato che la compromissione neurologica risulta presente anche nei
soggetti trapiantati precocemente.
Il riscontro positivo dello studio di Groothoff è rappresentato da una
percezione della propria salute più ottimistica nei soggetti con inizio
in età pediatrica di terapia sostitutiva se paragonati a soggetti in
cui la dialisi è stata iniziata in età adulta. Ciò consente ai primi di
integrarsi più facilmente nel tessuto sociale, con una significativa
differenza in positivo del numero di soggetti inseriti in un contesto
lavorativo.
Per contrastare le numerose comorbidità derivanti da una più o meno
lunga permanenza in dialisi cronica del bambino con IRT, l’attenzione
si è concentrata recentemente sull’opportunità di estendere la pratica del trapianto precoce senza mettere il bambino in trattamento
dialitico cronico (pre-emptive), pratica oggi largamente utilizzata in
alcuni Paesi del Nord Europa. Questa tecnica ha mostrato numerosi
vantaggi sulla sopravvivenza, associati però ad un’importante quota
di morbilità a lungo termine rispetto ai bambini trattati con dialisi
cronica (McDonald, 2004).
In conclusione, ciò che oggi emerge da tutti gli studi sulla sopravvivenza a lungo termine dei pazienti con malattia renale terminale
esordita in età pediatrica è che negli ultimi 30 anni non si sono
registrati notevoli miglioramenti delle statistiche né di mortalità
e morbilità, né di handicap psico-fisico-sociale (McDonald et al.,
2004; Groothoff et al., 2002). Ciò impone che nel prossimo futuro
ci si focalizzi maggiormente sulla prevenzione della malattia cardiovascolare, del danno osseo, delle infezioni severe, delle neoplasie e della compromissione delle capacità cognitive ed insieme si
lavori per migliorare il passaggio del soggetto adolescente malato
alla vita adulta la cosiddetta “transition terapeutica”, cercando di
favorire in tutti i modi la sua integrazione nella società (Groothoff,
2005).
Malattia renale cronica e insufficienza renale
Box di orientamento
Definizione IRC e CKD
• In questi ultimi anni si è riconosciuto che sono meritevoli di controlli ed eventuale terapia, non soltanto i soggetti con IRC definita come riduzione
del FG sotto a 90 ml/min/1,73 m2, ma anche i pazienti con alterazioni della struttura e/o della funzione renale che presentino ancora un FG > 90 ml/
min/1,73 m2 (CKD stadio 1). Anche la definizione degli stadi dell’IRC (CKD stadio 2-5) è stata meglio diversificata rispetto al passato con l’indicazione
dei controlli necessari per ogni stadio. Grazie all’utilizzo di questa nuova definizione si è ampliata la popolazione ritenuta meritevole di follow-up e
sono migliorate le possibilità di prevenzione.
Fattori di progressione dell’IRC ed ineluttabilità dell’evoluzione ad IRT
• L’ipotesi di Brenner, risalente alla fine degli anni ’70, secondo cui la progressione dell’IRC dipende dall’iperlavoro dei nefroni residui ad ogni malattia
con perdita nefronica, è stata pienamente confermata nel trentennio successivo. Sono riconosciuti oggi diversi fattori in grado di accelerare nell’infanzia la velocità di progressione dell’IRC, quali la patologia renale primitiva di tipo glomerulare, l’età puberale, i ridotti valori di FG all’esordio, valori
elevati di proteinuria, la presenza di ipertensione arteriosa e il ridotto patrimonio nefronico alla nascita. Si può quindi ammettere che una minoranza
di casi, che non presentino tali fattori negativi, possano mantenere per molti anni livelli stabili di funzionalità renale.
Efficacia dei provvedimenti terapeutici per la prevenzione della progressione dell’IRC
• La dieta ipoproteica prescritta nel passato per ridurre l’iperlavoro renale sulla base dell’ipotesi di Brenner, non si è dimostrata efficace nel rallentare
la velocità di progressione dell’IRC nell’infanzia. Gli ACEi e gli ARB, che intervengono bloccando i meccanismi di formazione dell’angiotensina II,
mediatore di danno renale, si sono dimostrati efficaci nelle nefropatie diabetica e glomerulare proteinurica, mentre il loro utilizzo nelle ipodisplasie
renali, che costituiscono una parte considerevole delle cause di IRC in età pediatrica, deve essere sottoposto ad attenta valutazione del rapporto
rischi/benefici.
Ruolo della chirurgia del RVU e della chirurgia fetale nella prevenzione del danno renale
• Si è invertita in questi ultimi anni la tendenza ad operare frequentemente bambini con RVU allo scopo di ridurre il danno renale. Si è infatti dimostrato
che non vi è differenza tra i casi operati e quelli non operati nella percentuale di sviluppo di danno parenchimale (evidenziato in scintigrafia renale) o
di raggiungimento di insufficienza renale terminale. Dopo le iniziali e forse eccessive speranze che interventi di derivazione dell’ostruzione urinaria
sul feto potessero impedire, in un numero significativo di casi, la progressione del danno renale post-natale, attualmente la chirurgia fetale ha un
ruolo molto limitato, riservato a singoli casi con precise indicazioni strumentali o laboratoristiche.
Prevenzione dell’handicap psico-fisico nei bambini in trattamento sostitutivo con dialisi o trapianto renale
• Non vi è dubbio che rispetto agli anni ’70, quando la stessa attuazione di un programma dialisi/trapianto pediatrico era in discussione, oggi sulla
base dei risultati di riabilitazione raggiunti, tale indicazione non venga posta in discussione. Tuttavia è stata sottolineata da studi di registro, un’importante mortalità e morbilità, soprattutto cardiovascolare, nei giovani adulti in dialisi o trapiantati che abbiano iniziato il trattamento sostitutivo in età
pediatrica. Questo apre la strada a politiche di trapianto renale precoce, anche evitando l’inizio del trattamento dialitico. Tale programma necessita
comunque di essere ancora sottoposto a valutazione definitiva.
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** Review molto interessante che riassume tutta la teoria della progressione, i
fattori predisponesti e il tentativo di identificazione di un punteggio per individuare i soggetti maggiormente a rischio di progressione verso IRT.
The GISEN Group (Gruppo Italiano di Studi Epidemiologici in Nefrologia). Randomised placebo-controlled trial of effect of ramipril on decline in glomerular
filtration rate and risk of terminal renal failure in proteinuric, non-diabetic nephropathy. Lancet 1997;349:1857-63.
* Studio che conferma dati già precedentemente dimostrati sull’efficacia degli
ACEi nelle nefropatie proteinuriche, ma con una estrema rilevanza mediatica.
Wheeler D, Vimalachandra D, Hodson EM, et al. Antibiotics and surgery for vesicoureteric reflux: a meta-analysis of randomised controlled trials. Arch Dis Child
2003;88:688-94.
** Meta-analisi degli studi controllati sull’efficacia dell’intervento chirurgico per
la correzione del RVU nella prevenzione del danno renale cronico.
Wühl E, Mehls O, Schaefer F, ESCAPE Trial Group. Antihypertensive and antiproteinuric efficacy of ramipril in children with chronic renal failure. Kidney Int
2004;66:768-76.
** Studio randomizzato multicentrico europeo su un’ampia coorte di soggetti
pediatrici sottoposti a trattamento con ACEi con follow-up a lungo termine.
Yang Y, Ohta K, Shimizu M, et al. Treatment with low-dose angiotensin-converting enzyme inhibitor (ACEI) plus angiotensin II receptor blocker (ARB) in pediatric
patients with IgA nephropathy. Clin Nephrol 2005;64:35-40.
Corrispondenza
prof. Alberto Edefonti, U.O.C. Nefrologia e Dialisi Pediatrica, Fondazione IRCCS Ospedale Maggiore Policlinico “Mangiagalli e Regina Elena”, via Commenda 9, 20122 Milano • Tel. +39 02 55032883 • Fax +39 02 55032451 • E-mail: [email protected]
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Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 89-95
Paralisi cerebrali infantili
Luigi Titomanlio, Ennio Del Giudice
Dipartimento di Pediatria, Università “Federico II”, Napoli
Riassunto
La Paralisi Cerebrale Infantile è definita come un disturbo non progressivo, ma non invariabile, della
postura o del movimento causato da un’anomalia cerebrale, già rilevabile fin dalle fasi precoci dello
sviluppo. La forma più classica, la diplegia spastica, fu identificata nel XIX sec. L’incidenza attuale, su
scala mondiale, è all’incirca del 2 per 1.000 nati vivi. Rappresenta in assoluto la causa più comune
di disabilità pediatrica nei paesi occidentali. Non costituisce di per sé una malattia in quanto tale, ma
rappresenta piuttosto un insieme di sintomi e di disabilità, che non riconoscono nella maggior parte dei
casi un’eziologia chiaramente definita.
In ragione delle differenze nelle cause, nel quadro clinico e nella prognosi è utile che la Paralisi Cerebrale Infantile venga suddivisa in differenti entità nosografiche sulla base del quadro clinico. Il quadro è
spesso complicato da disturbi neurologici quali crisi convulsive e disfunzione cognitiva, oltre che sensoriali, sotto forma di deficit visivo o uditivo. Esistono peraltro disturbi associati di pertinenza extraneurologica, come ad esempio i problemi gastrointestinali e nutrizionali inclusa la disfunzione oro-motoria.
Attualmente si assiste ad una revisione della terminologia e della classificazione della Paralisi Cerebrale
Infantile, che permette di gestire meglio i pazienti affetti e consente di adottare precocemente le terapie
neuroabilitative e farmacologiche disponibili.
Summary
Cerebral palsy may be defined as a non-progressive but not unchanging disorder of posture or movement
caused by an abnormality of the brain, first evident from the stage of rapid brain development. Spastic
diplegia was firstly identified in the XIX century. Cerebral palsy has a worldwide incidence of approximately
2 per 1,000 live births. As applied to Cerebral palsy, etiology is the initiating or inciting cause which operates through pathophysiological mechanisms, either individually or as part of a causal sequence, to produce the clinical manifestations of Cerebral palsy. The differences in cause, clinical picture, and prognosis
require that Cerebral palsy be subdivided into various entities based on the clinical picture. Associated
neurological/perceptual disabilities such as hearing and vision impairment, seizures, cognitive dysfunction, as well as extraneurogical complaints such as gastrointestinal and nutritional problems including
oral-motor functions frequently complicate the clinical picture. Notwithstanding the widely accepted terminology, concerns have arisen about the limitation of the current concept of Cerebral palsy, to revise its
definition and classification. The ultimate goal is to improve patients care.
Modalità della revisione
I lavori considerati per la stesura di questo articolo sono stati selezionati cercando in Medline con le parole chiave “Cerebral Palsy” limitato
a “Ages: Children, 0 to 18 years” e “Languages: English” dal 1977 al
2007. Sono risultati 6.687 articoli, di cui 739 revisioni della letteratura.
Sono stati anche inclusi articoli pubblicati in un periodo precedente
o paragrafi di libri conosciuti dagli Autori.
Luigi Titomanlio è nato a Napoli il 5 Dicembre 1972, laureatosi in Medicina e
Chirurgia nel 1997 a Napoli, Università
Federico II, dove in seguito ha ottenuto la Specializzazione in Pediatria nel
2002 e il Dottorato di Ricerca in Riproduzione, Sviluppo e Accrescimento
dell’Uomo nel 2007. Attualmente è
Chef de Clinique all’Ospedale Robert
Debré di Parigi, Francia - Università
Paris VII e membro della Direzione di
Prospettive in Pediatria. I suoi campi
specifici di interesse sono la Neuropediatria e la Pediatria d’Urgenza. Sposato senza figli. Ama lo sport, i viaggi,
la cucina internazionale e la pittura
moderna.
profonditi individuarono altre cause. Da allora, l’asfissia neonatale
è considerata solo uno dei fattori eziologici della PCI (Moster et al.,
2001; Nelson e Ellenberg 1986).
Il trattamento si basava principalmente sulla rieducazione motoria,
sino ai primi anni ’80.
Stato attuale delle conoscenze
Il passato della Paralisi Cerebrale Infantile
Definizione
La Paralisi Cerebrale Infantile (PCI) fu descritta per la prima volta da
William Little nel 1862, e fu quindi chiamata morbo di Little negli
anni successivi. Era descritta come una malattia che appariva clinicamente entro l’anno di vita, e che comprometteva il successivo
sviluppo psicomotorio. La malattia non migliorava col tempo, e la
sintomatologia clinica restava piuttosto stabile. Lo stesso Little ipotizzò che la causa della diplegia spastica fosse una mancanza di
ossigeno al momento del parto (Fig. 1).
Fino al 1980, l’asfissia perinatale era considerata l’unico fattore
responsabile di PCI, finché studi clinici e di ricerca di base più ap-
La PCI è una patologia non progressiva della postura e del movimento, causata da un danno acuto al SNC in fase di sviluppo. Le disabilità motorie osservate riflettono anatomicamente l’area cerebrale
colpita. Se il coinvolgimento è massivo, altre disabilità non motorie
possono associarsi, come ad esempio dei deficit cognitivi. È definita
anche, in termini più pratici, come un’encefalopatia statica a presentazione tardiva. L’incidenza su scala mondiale è di 1,5-2 casi per
1.000 nascite ed è costante negli ultimi decenni malgrado un netto
miglioramento della gestione clinica dei neonati, siano essi a termine o pretermine (Clark e Hankins, 2003; Gibson et al., 2003).
89
L. Titomanlio, E. Del Giudice
Figura 1.
Paziente di 5 anni con diplegia spastica (m. Di Little).
Classificazione
La classificazione di uso più semplice per il pediatra individua il sottotipo di PCI sulla base del deficit motorio predominante (spastica, ipotonica, atetosica, distonica e atassica) e sulla topografia (monoplegia,
diplegia, triplegia, emiplegia o quadriplegia). Una classificazione ancor
più semplificata distingue le PCI piramidali (spastiche) e quelle extrapiramidali (non spastiche) (Batshaw, 2002; Kuban e Leviton, 1994;
Pueyo et al., 2003; Sanger et al., 2003; Taft, 1995) (Tab. II).
La PCI spastica rappresenta il 70% circa di casi di PCI, con un coinvolgimento delle funzioni superiori nel 30% (Taft, 1995) ed è il risultato di un danno ai fasci corticospinali (Fig. 2).
La PCI non spastica è causata da un danno ai nuclei della base o
al cervelletto. La forma discinetica è divisa ulteriormente nei sottotipi atetoide e distonica (Blair e Stanley, 1985; Dormans e Pellegrino,
1998; Rosembaum, 2003) e rappresenta il 15% circa dei casi di PCI.
Il 5% dei casi è ad espressione atassica (Sanger et al., 2003). Clinicamente si osservano incoordinazione ed anomalie del controllo
posturale.
È anche possibile osservare diversi tipi di PCI nello stesso paziente,
a seconda delle aree cerebrali coinvolte (Kuban e Leviton, 1994).
Attualmente la storia naturale della PCI è ben conosciuta. Ciò permette di prevedere con buona approssimazione anche la prognosi
neuromotoria e cognitiva del paziente (Tab. I). Sono state sviluppate
altre scale prognostiche per il bambino con PCI (Gorter et al., 2004).
Il Gross Motor Function Classification System (GMFCS) è un sistema
di classificazione usato soprattutto per la ricerca e l’epidemiologia.
Il vantaggio per il clinico è la possibilità di avere una prognosi piuttosto precisa delle capacità motorie a medio e lungo termine. È stato sviluppato in origine per misurare la severità del deficit motorio
(Palisano et al., 1997) e si basa su 5 livelli di compromissione (Tab.
II). I bambini nello stadio 1 possono fare le stesse attività dei loro
coetanei, anche se con difficoltà nella velocità di esecuzione, equilibrio o coordinazione. I bambini classificati nello stadio 5 hanno delle
difficoltà importanti nel controllo della testa e del tronco e nell’esecuzione dei movimenti volontari. Inoltre, se il GMFCS è illustrato correttamente alle famiglie, può servire da guida per comprendere le
capacità attuali del bambino e pianificare insieme gli obiettivi futuri
da raggiungere. La prudenza nel fornire una prognosi è indispensabile, poiché il GMFCS non considera gli eventuali deficit in comorbidità, ad esempio i deficit visivi. Un’altra classificazione comunemen-
Tabella I.
Sottotipi clinici di PCI.
Tipo
Sottotipo
Prognosi
Spastica
Diplegia: 30%-40%
30% presenteranno deficit cognitivi; 80%-90% potranno camminare
50% per prematurità
autonomamente o con supporto. Indipendenza nella cura personale e
controllo sfinteriale di solito acquisiti.
Emiplegia: 20%-30%
> 60% hanno una intelligenza normale e potranno camminare con o senza
associata a ictus,
supporto prima dei 3 anni. Possibili difficoltà nell’abbigliarsi,
malformazioni, emorragia
indipendenza per la cura personale. Controllo sfinteriale acquisito.
intraventricolare unilaterale
Quadriplegia: 10%-15%
50% potranno arrivare ad una minima deambulazione assistita, 25%
associata ad asfissia severa;
saranno impossibilitati alla marcia.
leucomalacia severa nei
Rischio del 50% di sviluppare epilessia, ritardo mentale, sordità,
pretermine
deficit visivo. Problemi nella comunicazione e nella continenza sfinteriale.
Monoplegia/triplegia
Disabilità variabile a seconda dell’arto colpito e della severità
Non
Discinetica: alterazione dei
Disartria comune, 50% circa hanno intelligenza normale. 50%
spastica
nuclei della base
avranno una acquisizione della marcia più o meno autonoma.
Sottotipi: atetosica o distonica
Di solito disturbi oromotori. Problemi nella coordinazione dei movimenti.
Atassica: alterazione cerebellare
Atassia nei pazienti che acquisiscono la marcia.
90
Paralisi cerebrali infantili
Tabella II.
Stadi del GMCSF per bambini dai 6 ai 12 anni (da Palisano 1997,
mod.).
Stadio
Descrizione
I
Marcia senza difficoltà; limitazione nell’esecuzione di gesti
motori più complessi
II
Marcia senza necessità di ausili ortopedici; limitazione nella
marcia all’esterno dell’abitazione
III
Marcia con necessità di ausili ortopedici; limitazioni nella marcia all’esterno dell’abitazione
IV
Mobilità limitata; necessità di trasporto assistito all’esterno
dell’abitazione
V
Mobilità estremamente limitata
Figura 2.
Leucomalacia periventricolare. RMN cerebrale, T2-weighted, coronale
che mostra un ipersegnale della materia bianca periventricolare profonda (frecce), una ventricolomegalia importante ed un’atrofia del corpo
calloso secondarie alla perdita neuronale.
te usata nella pratica neuropediatrica è quella proposta dal gruppo
“Surveillance of Cerebral Palsy in Europe” (2000) che considera il
sottotipo e la topografia del deficit motorio. Sebbene uno studio longitudinale multicentrico, l’Ontario Motor Growth study (Gorter et al.,
2004), concluda che la classificazione per tipo e topografia del deficit sia utile nella clinica ma non aggiunga elementi supplementari
per la prognosi rispetto al GMFCS, lo stesso gruppo “Surveillance
of Cerebral Palsy in Europe” ha recentemente dimostrato come la
presenza di comorbidità (ad es. l’epilessia) possa invece incidere
significativamente sulla prognosi (Beckung et al., 2008).
Diagnosi
La diagnosi di PCI è principalmente clinica. L’anamnesi, soprattutto
centrata sul periodo pre-perinatale, permette spesso di porre il sospetto diagnostico. I segni clinici che appaiono più tardivamente sono
il ritardo nell’acquisizione delle normali tappe di sviluppo psicomotorio, la persistenza dei riflessi arcaici, delle reazioni posturali anormali
ed altre anomalie all’esame neurologico. Nella diagnosi differenziale
si dovranno considerare alcune malattie metaboliche ereditarie (argininemia, sindrome HHH, glutaricoaciduria tipo 1) e delle sindromi genetiche neurodegenerative lentamente progressive (sindrome di Rett,
sindrome di Pelizaeus-Merzbacher), che possono avere un’espressione clinica iniziale simile ad una PCI (Krigger, 2006).
Meccanismi fisiopatologici della PCI
Il meccanismi fisiopatologico più comune a tutti i tipi di PCI è l’ipossia/ischemia.
Data la complessità dello sviluppo cerebrale fetale, uno stesso danno o un’anomalia di sviluppo può condurre a quadri clinici postnatali
differenti.
Come esempio, ed in linea generale, un danno acuto vascolare prima
delle 20 settimane conduce ad un deficit di migrazione neuronale, tra
le 26 e le 34 settimane può causare una leucomalacia periventricolare, tra le 34 e le 40 settimane risulta in un danno corticale focale.
L’immaturità del cervello e la fragilità dell’irrorazione arteriosa cerebrale fetale spiega perché la prematurità sia un fattore di rischio
importante per la PCI. Soprattutto tra le 26 e le 34 settimane di età
gestazionale, la materia bianca periventricolare che circonda i ventricoli laterali è estremamente sensibile agli insulti ischemico/ipossici. Infatti l’apporto arterioso è di tipo terminale, cioè al confine tra
la arteriole striatali e quelle talamiche. Queste aree cerebrali contengono le fibre responsabili del controllo motorio e del tono degli arti
inferiori. Un danno risulta quindi nella diplegia spastica (m. di Little).
Quando i danni si estendono alle fibre sottocorticali, coinvolgendo
quindi il centro semiovale e la corona rad iata, si osserva clinicamente un coinvolgimento anche degli arti superiori.
A termine di gestazione, quando la circolazione arteriosa si avvicina a
quella adulta, gli insulti ischemici si localizzano soprattutto nella regione dell’arteria cerebrale media, e risultano in un’emiplegia spastica.
In caso di ipoperfusione, che colpisce in questo caso simultaneamente le zone terminali di tutte le arterie cerebrali, si osserva una
quadriplegia spastica.
Se sono coinvolti i vasi che irrorano i nuclei della base ne risulta
una PCI discinetica. Quest’ultima era associata, soprattutto alcuni
decenni or sono, ad una encefalopatia acuta da iperbilirubinemia
(kernicterus) (Watchko, 2006).
Sono stati finora identificati molteplici fattori di rischio, che possono intervenire nell’epoca prenatale, perinatale o postnatale (Tab. III).
In circa il 10-30% dei casi non è possibile identificare un’eziologia
certa (Bax et al., 2006; Rosembaum, 2003; Taft, 1999). I fattori più
frequentemente ritrovati sono le infezioni intrauterine, le anomalie
congenite di sviluppo del SNC, l’asfissia e la nascita pretermine (Moster et al., 2001; Naeye et al., 1989).
La causa più comune nei nati pretermine è il coinvolgimento della
materia bianca cerebrale periventricolare, che conduce alla leucomalacia periventricolare (Fig. 1). Difatti, le fibre motrici cortico-spinali sono particolarmente sensibili agli insulti che intervengono tra
le 24 e le 32 settimane di gestazione (Naeye et al., 1989). Il danno
leucomalacico periventricolare è altamente predittivo di PCI, che si
manifesta nell’80% circa dei pazienti (Perlman et al., 1996).
La prematurità è in continuo aumento nei Paesi occidentali industrializzati e sempre più neonati nascono ad età gestazionali basse
o molto basse. Di pari passo, si registra un aumento nella prevalenza
della PCI nei neonati molto prematuri. In questi casi, alla suscettibilità
del cervello in fase di sviluppo si aggiungono le anomalie legate alla
prematurità, quali ad esempio la broncodisplasia ed il trattamento
con cortisonici, che possono influenzare negativamente i meccanismi responsabili del controllo neuronale (Msall, 2006). In effetti a
91
L. Titomanlio, E. Del Giudice
Tabella III.
Principali fattori di rischio associati a PCI (dati tratti da Gibson et al., 2003).
Prenatali
Perinatali
Postnatali
Ipossia
Prematurità < 32 SG or < 2500 g
Asfissia
Plurigemellarità
Asfissia
Convulsioni < 48 h di vita
Infezioni intrauterine
Infezioni perinatali
Ictus cerebrale
Malformazioni cerebrali
Uso del forcipe
Iperbilirubinemia
Malattie genetiche
Meningite/Sepsi
Malattie metaboliche
Distress respiratorio
Trombofilia
Leucomalacia periventricolare
Esposizione a tossici
Emorragia intraventricolare
livello cellulare, ed anche in caso di ipossia/ischemia, è soprattutto
la produzioni di un eccesso di radicali liberi e l’attivazione della cascata eccitotossica a danneggiare la materia bianca. La tossicità da
citochine è anche messa in causa ed è principalmente in causa per
il danno legato alle infezioni materno-fetali (Folkerth, 2006). Il meccanismo comune finale è l’apoptosi degli oligodendrociti prematuri, che non arriveranno dunque a mielinizzare correttamente i fasci
corticospinali. La suscettibilità di questo sottotipo oligodendrocitario
è spiegata da un deficit in superossido dismutasi (che impedisce la
tossicità da radicali liberi). Altri meccanismi fisiopatologici, quali il
danno da riperfusione, il deficit energetico mitocondriale, l’attivazione della microglia, la produzione di IL2 e IL6 in loco, oltre che l’attivazione dei recettori per il glutammato di tipo NMDA intervengono
contemporaneamente o in modo ritardato (Perlman, 2006).
Altro fattore di rischio è la gemellarità. Comunque, sia per i parti singoli che per i parti gemellari, il fattore più importante resta la nascita
pretermine. La prevalenza di PCI per i parti gemellari è più alta rispetto
Figura 3.
PCI spastica, tetraplegica, conseguente ad anossia perinatale severa.
Si associa microcefalia (conseguente a perdita neuronale importante).
Notare la caratteristica posizione degli arti superiori in flessione forzata;
sono presenti retrazioni tendinee severe.
92
ai parti singoli solo per le età gestazionali superiori alle 35 settimane
e per un peso alla nascita superiore ai 2.500 g (Bonellie et al., 2005).
Invece, la PCI è più frequente nei parti singoli di neonati con età gestazionale inferiore alle 35 settimane. L’analisi univariata per quintili
(peso alla nascita/età gestazionale) dimostra che il rischio maggiore
per i gemelli di sviluppare una PCI non è solo dovuto al peso (inferiore)
e alla nascita (più prematura) nei parti gemellari e che pertanto un
parto gemellare è di per sé un fattore di rischio. Il dato più significativo
del lavoro citato, cha raccoglie i dati del registro scozzese sulle PCI, è
che il tipo di PCI è differente: i gemelli presentano nel 64,9% una PCI
spastica bilaterale, rispetto al 48,5% per i neonati singoli. Ne consegue che l’eziologia della PCI è probabilmente differente.
In assenza di ipossia/ischemia e prematurità, si dovrà considerare
nella diagnosi eziologica differenziale la possibilità di una patologia
infettiva (es. citomegalovirus), metabolica, genetica o neurodegenerativa. In quest’ultimo caso, la diagnosi di PCI va rivista, essendo la
PCI per definizione un’encefalopatia non evolutiva.
Per quel che riguarda le patologie genetiche, in un’elegante analisi
matematica dei dati del registro svedese per i bambini nati tra il
1959 e 1970, Costeff (2004) ha stimato che il 40% (pari al 35% di
tutti i casi) dei casi di PCI di quella comunità eziologicamente non
diagnosticati (48% di quelli nati a termine e 24% di quelli nati prematuri) erano dovuti ad un’anomalia genetica. Alcuni possibili geni
candidati per la PCI sono stati già proposti nella letteratura: UBE3A,
ANKRD15 e Trak1.
Molfetta et al. (2004) hanno descritto una mutazione frameshift del
gene UBE3A in due primi cugini che presentavano un fenotipo discordante e che avevano ereditato la stessa mutazione dalle madri
asintomatiche. Il probando aveva le caratteristiche tipiche della Sindrome di Angelman (AS) mentre sua cugina aveva ricevuto diagnosi
di PCI, caratterizzata da ipertono ai quattro arti e ipotonia del tronco. Sebbene mutazioni del gene UBE3A siano state essenzialmente
identificate negli individui affetti da AS (Matsuura et al., 1997), la
famiglia descritta nel lavoro di Molfetta et al. suggerisce che il gene
UBE3A potrebbe avere un ruolo anche nella PCI.
Un lavoro recente di Lerer et al. (2005) ha identificato il gene
ANKRD15 (ankyrin repeat domain 15) come possibile gene candidato, analizzando una famiglia Israeliana di origine marocchina in cui
nove bambini avevano una PCI congenita, caratterizzata da quadriplegia e ritardo mentale.
L’ipertonia è una delle caratteristiche costitutive della PCI spastica.
Gilbert et al. hanno recentemente descritto dei topi con mutazioni
del gene “ipertonico” (hyrt) che presentavano come elemento essenziale del quadro clinico una grave ipertonia (Gilbert et al., 2006).
I topi mutanti avevano livelli molto più bassi di recettori per l’acido
Paralisi cerebrali infantili
gamma-aminobutirrico di tipo A, GABA(A), nel SNC, in particolare a
livello dei motoneuroni inferiori, rispetto al ceppo wild-type: è quindi
probabile che l’ipertono dei mutanti potesse essere in rapporto con
un deficit di inibizione dei motoneuroni mediato dal GABA. Inoltre,
i topi mutanti avevano una delezione di 20 nucleotidi nell’ultimo
esone del gene Trak1, implicato nel trafficking cellulare recettoriale,
inclusi quindi i recettori GABA(A). Il gene Trak1 potrebbe essere un
possibile gene candidato per la PCI, proprio in ragione del suo ruolo
di regolatore dei recettori GABA(A).
Anche anomalie cromosomiche sono state associate a PCI e potrebbero permettere l’identificazione di nuovi geni candidati. McHale et
al. (1999) hanno effettuato uno studio di linkage su tutto il genoma
in otto famiglie, mediante 290 markers polimorfici, dimostrando che
una porzione di PCI spastiche autosomiche recessive mappano sul
cromosoma 2q24-25. Lo stesso gruppo ha evidenziato linkage sul
cromosoma 9p12-q12 in un complesso pedigree di consanguinei
asiatici affetti da PC atassica (McHale et al., 2000).
Terapia
Non esiste attualmente una terapia specifica per la PCI. Estremamente
importante è diagnosticare la patologia, e successivamente sorvegliare
le possibile complicanze per intervenire quando necessario. La Società
Americana di Neurologia (Ashwal et al., 2004) suggerisce di sorvegliare
attentamente dal punto di vista cognitivo, oculistico, uditivo, ortofonico
e oromotorio i pazienti con diagnosi di PCI, per poter intervenire precocemente. Una terapia neuroabilitativa in centri specializzati è importante, per consentire il raggiungimento di un livello di autonomia il più
elevato possibile in età adulta. In effetti, le limitazioni motorie (deambulazione, alimentazione, scrittura) sono in primo piano, soprattutto per la
PCI spastica che è la forma più frequente. Attualmente sono disponibili
diverse opzioni terapeutiche per la spasticità, dal metodo Bobath, alla
fisioterapia classica, all’utilizzo di ortesi per sfruttare al meglio le potenzialità dell’arto affetto (in caso di emiplegia o monoplegia), sino ad
arrivare alla terapia farmacologica o alla neurochirurgia.
Il metodo Bobath, che è molto diffuso e che si basa sul controllo
attraverso manipolazioni specifiche del tono muscolare, dei riflessi,
delle sensazioni e delle posture anormali per diminuire la spasticità
non sembra sia utile a lungo termine per prevenire le contratture o
migliorare la funzionalità motoria (Butler et al., 2001). Per quanto riguarda la fisioterapia classica, l’allungamento muscolare (stretching)
passivo è una delle metodiche più diffuse, praticato spesso anche
dai genitori dei pazienti. Una recente revisione della letteratura non
ha permesso di concludere sull’utilità del metodo, soprattutto per la
scarsità di trial clinici randomizzati (Pin et al., 2006). Il rinforzo progressivo dei muscoli deficitari attraverso programmi plurisettimanali,
è benefico per migliorare le capacità alla marcia negli adulti (Andersson et al., 2003), ma per i bambini con PCI sono ancora pochi i dati
disponibili in letteratura (Dodd et al., 2002). È probabilmente utile la
terapia motoria che obbliga il bambino ad utilizzare l’arto affetto da
un’emiparesi per velocizzare il recupero funzionale e la riorganizzazione corticale (Taub et al., 2004; Sutcliffe et al., 2007). Il metodo si
basa sulla immobilizzazione dell’arto sano per obbligare il paziente
ad usare l’arto affetto durante le sessioni di fisioterapia. Delle sessioni giornaliere per una durata totale di 3 settimane migliorano le
capacità motorie dell’arto affetto e la qualità di vita del paziente, con
risultati che si mantengono stabili per almeno 6 mesi. Tuttavia, i dati
finora presenti in letteratura non permettono di concludere sull’effettiva efficacia di questo trattamento, soprattutto per la scarsità di studi
clinici randomizzati e controllati (Hoare et al., 2007).
La terapia farmacologica è diretta in primo luogo alla prevenzione
delle complicanze della spasticità (quali retrazioni tendinee), ed è poi
specificamente diretta ai segni clinici associati.
Se la spasticità è focale, la terapia locale con iniezioni di tossina
botulinica è efficace, anche se solo transitoriamente. Sebbene riduca la spasticità, i risultati sono discordanti tra vari studi (Backer et
al., 2002; Reddinhough et al., 2002; Koman et al., 2000; Bjornson
et al., 2007; Willis et al., 2007), l’effetto dura 3-6 mesi ed il costo è
notevole. In pratica, sembra ragionevole proporne l’uso ai bambini
con spasticità focale, che interferisca in modo significativo con il loro
sviluppo motorio (Wood, 2006).
In caso di spasticità diffusa, la terapia orale con diversi farmaci è
disponibile, anche se gli effetti secondari importanti (sedazione) ne
limitano usualmente l’impiego a dosi efficaci. I farmaci usati più di
frequente sono le benzodiazepine, il baclofene ed il dantrolene (Tab.
IV). Uno studio retrospettivo recente ha segnalato una riduzione della spasticità nel 76% dei bambini trattati con modafinil, effetto già
riportato in diversi studi anteriori (Hurst et al., 2006).
Per quel che riguarda i casi più severi, il baclofene può essere impiegato per via intratecale (De Lissovoy et al., 2007; Jones et al., 2007).
Il vantaggio è di controllare la spasticità con basse dosi di farmaco,
inserendo una pompa ad infusione continua a livello di D11-D12, per
combattere la diplegia spastica. Sebbene la funzione motoria migliori
significativamente (Krach et al., 2005), la somministrazione continua
per via intratecale ha lo svantaggio di abbassare la soglia epilettogena
(e quindi di favorire l’apparizione di crisi convulsive) (Buonaguro et al.,
2005), può provocare una sindrome da dipendenza (tachicardia, agitazione, allucinazioni alla sospensione del trattamento) ed anche favorire
l’aggravazione di una scoliosi preesistente (Sansone et al., 2006).
Altra alternativa terapeutica è la rizotomia selettiva dorsale, vale a dire
una resezione delle radici dei gangli dorsali L4-S1, attuata tramite intervento neurochirurgico sotto controllo elettromiografico. Purtroppo
le evidenze scientifiche a favore dell’impiego di questa metodica per
dei vantaggi a lungo termine sono scarse (McLaughlin et al., 2002).
Un follow-up ortopedico periodico è necessario, al fine di sorvegliare
scoliosi e dislocazioni d’anca, e poter intervenire con tenotomie o allungamenti tendinei in casi di spasticità importante (Terjesen et al., 2005).
La gestione attuale del paziente con PCI è multidisciplinare: è necessaria una sorveglianza dal punto di vista nutrizionale (in caso di di-
Tabella IV.
Farmaci comunemente impiegati per la spasticità (da Edgar 2003, mod.).
Molecola
Dose iniziale
Dose massima
Diazepam
0,05 mg/kg/dose, per 2-4/die
0,8 mg/kg/die
Baclofene
< 2 anni: 2,5 mg per 3/die
< 2 anni: 20 mg/die
2-7 anni: 5 mg per 3/die
2-7 anni: 40 mg/die
> 7 anni 5 mg per 3/die
> 7 anni 60 mg/die
0,5 mg/kg/dose per 2/die
3 mg/kg/dose
Dantrolene
93
L. Titomanlio, E. Del Giudice
sturbi della deglutizione, reflusso gastroesofageo, costipazione, e per
sorvegliare lo stato nutrizionale), pneumologico (rischio di aspirazioni,
infezioni respiratorie frequenti), ortopedico ed ovviamente neuropediatrico per la molteplicità dei sintomi neurologici che possono associarsi (convulsioni, disturbi del movimento ecc.) (Jones et al., 2007).
Prospettive future
Dal punto di vista diagnostico, si spera poter trovare un’eziologia
nella quasi totalità dei casi di PCI. Il miglioramento delle tecniche di
neuroimaging e l’individuazione di nuovi geni candidati oltre quelli
già conosciuti (Matsuura et al., 1997; Lerer et al., 2005; Gilbert et
al., 2006) dovrebbero permettere di raggiungere questo obiettivo.
Inoltre, gli studi genetici attualmente in corso sono anche volti ad
identificare fattori predisponenti la nascita pretermine e quindi indirettamente favorenti una PCI. A partire dal 2000 sono stati esaminati
diversi geni per valutare la loro possibile associazione con la nascita
pretermine, ed in particolare il recettore β-adrenergico, i geni correlati a trombofilia e quelli correlati al sistema immunitario (Giarratano,
2006). Nelson et al. (2005) per primi hanno condotto uno studio su
alcuni polimorfismi genetici quali possibili fattori di suscettibilità alla
PCI arrivando alla conclusione che fosse senz’altro utile un ulteriore
approfondimento del problema. Lo stesso gruppo di studio, in una
popolazione di neonati pretermine senza una successiva diagnosi
di PCI, ha confermato che varianti genetiche del recettore β-adrenergico e della sintasi dell’ossido nitrico iNOS sono associate con
la prematurità (Gibson et al., 2007). I bambini nati pretermine e con
diagnosi di PCI avevano invece una maggiore prevalenza di polimorfismi nel gene della sintasi dell’ossido nitrico endoteliale (eNOS, p
< 0,05) e dell’inibitore dell’attivatore del plasminogeno di tipo 2 (p
< 0,05). Questi dati vanno certamente confermati, ma trovare che
un certo assetto genetico conferisce una predisposizione a nascere
prematuramente e/o a sviluppare una PCI e una disabilità neuroevolutiva minore riveste particolare importanza, in quanto l’evoluzione
neurologica della PCI, come già descritto, è spesso complicato da
un’alta prevalenza di deficit cognitivi spesso molto lievi e difficilmente identificabili dal pediatra. L’associazione di questi deficit,
quali disprassie, disfunzioni esecutive e compromissioni cognitive
porta ad un profitto scolastico mediocre. Studi cognitivi recenti negli
scolari che sono degli ex-neonati estremamente prematuri ritrovano
un’alta prevalenza di deficit percettivi, dell’attenzione, visuospaziali
e motori (Marlow et al., 2007), che devono dunque essere prontamente identificati e presi in carico.
Notevoli sono i progressi scientifici per quel che riguarda la neuroprotezione, cioè l’uso di farmaci o di manovre fisiche (es. l’ipotermia
controllata) per prevenire o ridurre il danno neuronale (Sfaello et al.,
2005; Perlman, 2006; Long e Brandon, 2007; Tanaka et al., 2007;
Wang et al., 2007). Trial clinici sono attualmente in corso e dovrebbero apportare delle evidenze scientifiche in tempi brevi. L’impiego
di terapie innovative quali la terapia con cellule staminali neuronali,
efficace in diversi modelli animali, sarà probabilmente un’opzione
supplementare per i pazienti con PCI (Vawda et al., 2007).
La speranza è soprattutto che a breve la gestione ed il follow-up
di questa encefalopatia non evolutiva sia migliorata, attraverso una
gestione multidisciplinare dei diversi aspetti clinici, e attraverso una
diagnosi neuropsicologica più precisa dei deficit cognitivi associati
ai problemi motori. Una diagnosi precoce ed accurata permetterà di
orientare i pazienti verso specifici protocolli di rieducazione e favorirà un’autonomia in età adulta. Ovviamente, ci si auspica che strutture dedicate saranno presenti sul territorio in numero adeguato.
Box di orientamento
Cosa sapevamo negli anni ’70
• La PCI è un’encefalopatia non evolutiva legata all’asfissia perinatale.
• Il trattamento si fonda sulla rieducazione neuromotoria.
Cosa sappiamo oggi
• I fattori eziologici della PCI sono molteplici, anche monogenici.
• I meccanismi molecolari che conducono al danno cerebrale sono svariati.
• La presa in carico precoce e multidisciplinare del paziente è fondamentale per garantire una vita autonoma.
Cosa ci aspettiamo nei prossimi anni
• Diagnosi eziologica per una vasta maggioranza dei pazienti.
• Migliore comprensione dei meccanismi del danno cellulare per una neuroprotezione più efficace.
• L’applicazione della terapia con cellule staminali, efficace nei modelli animali, anche all’uomo.
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* Articolo di revisione della letteratura sulla PCI con particolare enfasi sulla diagnostica e la terapia.
Corrispondenza
dott. Luigi Titomanlio, Emergency Department INSERM U676, Robert Debré University Hospital,48 Bld Sérurier, 75019 Paris (F) • Tel. +33 01 40034005
• Fax +33 01 40034774 • E-mail: [email protected]
95
Gennaio-Giugno 2008 • Vol. 38 • N. 149-150 • Pp. 96-101
Dove va la Pediatria
Armido Rubino
Dipartimento di Pediatria, Università “Federico II”, Napoli
Riassunto
Sono riassunte le linee di tendenza in atto nella Pediatria internazionale e in particolare in quella italiana
relativamente: al rapporto fra la Pediatria generale e le subspecialità pediatriche; al significato di azioni
concertate, reti, lavoro in équipe; alla formazione pediatrica specialistica; la formazione continua; ai
luoghi e ai modelli delle cure; ai contenuti delle cure pediatriche.
Luci e ombre, per i vari aspetti sono ricordate con particolare riferimento alla realtà italiana.
Vengono poi espresse alcune preoccupazioni e relativi auspici di obiettivi da perseguire e azioni da condurre nel prossimo futuro, relativamente: alla ricerca scientifica di interesse pediatrico; alla formazione dei
giovani alla ricerca scientifica; al rapporto fra ricerca e assistenza; alla Pediatria fra cultura tecnico-scientifica e cultura umanistica; al rapporto fra Pediatria e comunicazione; alla necessità di una rinnovata alleanza tra pediatri e famiglie unitamente a una nuova corresponsabilità fra Pediatria e aziende sanitarie.
Summary
Some current trends of paediatrics in the international community and particularly in the Italian one
are summarized, in regard to: the relation between general paediatrics and subspecialties; the value
of concerted actions, networks, equipe work; the postgraduate paediatric education; the continuous
paediatric education; organization and contents of health care in paediatrics. Lights and shadows are
underlined, referring particularly to the Italian conditions.
A number of worries and thoughts about aims and possible actions to be taken in the near future are
expressed referring to: the paediatric scientific research; the scientific paediatric training; the relation
between research and health care; some problems in combining the scientific culture with the human sciences in paediatric education and health care; the importance of the modern communication technology
for paediatrics; the call of a new alliance among paediatricians, children and families and a new co-responsibility behaviour in the relation with the managerial settlement of the health care organization.
In un tempo caratterizzato da grande velocità nei cambiamenti scrivere di futuro può essere
molto imprudente. Vorrei partire da qualche riflessione sulle linee di tendenza osservabili
oggi, riferendomi alla Pediatria dei paesi scientificamente più avanzati e quale è internazionalmente definita (American Academy of Paediatrics, 1988). È peraltro evidente che tali linee
di tendenza non hanno ovunque pari velocità o identici connotati e sono segnate da luci e
ombre in diversa misura nei diversi paesi. Concentrerò perciò le riflessioni prevalentemente
sulla situazione italiana.
Rivolgendo poi lo sguardo al futuro, nel quale ovviamente le suddette linee di tendenza si
proiettano, più che predire ciò che, almeno per me, è imprevedibile, tenterò di cogliere alcuni
elementi di preoccupazione rispetto ai quali cercherò di prospettare quelle che mi appaiono
auspicabili obiettivi e linee di azione per la Pediatria italiana.
Le tendenze in atto. Le luci e le ombre
Pediatria generale e specialistica
L’esplosivo progresso scientifico della seconda metà del Novecento e dei primi anni di questo
secolo ha portato a un elevato numero di quelle che chiamiamo “sub-specialità pediatriche”.
In Italia il curriculum della Suola di Specializzazione in Pediatria definita nei primi anni Novanta comprendeva tredici “indirizzi sub-specialistici”. Oggi, al di là delle parole (al termine
“indirizzo” si sostituiscono i “curricula differenziati” o gli specifici contenuti nel “supplemento
al diploma di specializzazione”) il numero tende progressivamente ad aumentare, secondo
una evoluzione inarrestabile che ha in sé il segno positivo dell’incessante accumularsi di
nuove conoscenze e competenze, ma ha anche il rischio di un eccesso di frammentazione
con conseguente separatezza interna e indebolimento dell’approccio globale nelle cure all’individuo in età evolutiva (Burgio et al., 1978; Rubino, 1999; Saggese, 2005; Saggese, 2006;
Sereni, 1976).
96
Armido Rubino è nato a Vallo della Lucania (SA) il 3 Giugno 1937. Ha
vissuto da protagonista le vicende
della Pediatria italiana degli ultimi
cinquant’anni: componente del primo
comitato di redazione di Prospettive in
Pediatria; uno dei fondatori dell’Associazione Culturale Pediatri; Direttore
per tre anni della Rivista Italiana di
Pediatria; Presidente della Società
Italiana di Pediatria; tra i fondatori
della “ESPGHAN”; promotore del primo Dipartimento di Pediatria in Italia
e dell’attuale assetto della Scuola di
Specializzazione in Pediatria in Europa
e in Italia. È stato Preside di Facoltà
di Medicina, Presidente del Comitato
per i Progetti di Ricerca di Interesse
Nazionale, Presidente del Centro Studi
del Ministero della Sanità, Presidente
della Commissione Infanzia del Ministero della Sanità che promosse il
primo progetto obiettivo materno-infantile in Italia, Presidente della Unione delle Società Europee di Pediatria,
e principale artefice della sua recente
trasformazione in European Paediatric
Association. Attualmente è Ordinario
di Pediatria all’Università Federico II
di Napoli, Presidente del Collegio dei
Professori Universitari di Pediatria;
rappresenta la Regione Europea nello
Standing Committee della International Paediatric Association; tra i fondatori e Coordinatore della Società Italiana di Ricerca Pediatrica. È sposato
e ha una figlia. Nel poco tempo libero
ama dedicarsi alla saggistica varia,
arte, qualche viaggio, il Cilento (a sud
di Eboli dove “si fermò Cristo”; ma lui
dice: “Cristo veniva da sud”).
Dove va la pediatria
Guardando al panorama internazionale ci sono oggi almeno 20 ambiti
sub-specialistici della Pediatria. Questa evoluzione ha prodotto una
crisi nella cultura e nella pratica di Pediatria generale che tende addirittura a scomparire in alcuni paesi. La crisi è più evidente nei paesi
in cui l’assistenza di base all’infanzia e all’adolescenza è affidata al
medico di medicina generale, con il pediatra subentrante in seconda
battuta (Katz et al., 2002). Da questo punto di vista l’Italia può vantare una condizione nettamente positiva: l’istituto del “pediatra di libera scelta”, quale operatore generalista responsabile dell’approccio
globale alla protezione della salute in età evolutiva e degli interventi
diagnostici e terapeutici nell’ambito delle cure primarie, costituisce un
importante strumento per il mantenimento di una cultura pediatrica
di tipo generale. Non a caso nel nostro Paese la Pediatria è definita
“generale e specialistica” e il più gran numero di nuovi pediatri è destinato appunto a un’attività di Pediatria generale nel sistema della
Pediatria di famiglia (Johnston, 1981; Rivkees, 2007 Saggese, 2005).
Le azioni concertate, le reti, le équipe
Alla complessità della Pediatria nelle sue diverse tipologie subspecialistiche corrisponde la moderna organizzazione delle cure
pediatriche nella articolazione in assistenza primaria (in Italia praticata dalla Pediatria di famiglia e dai servizi territoriali), secondaria
e terziaria (praticate negli ambiti ospedaliero e universitario). Dalla
vecchia medicina basata su un rapporto uno a uno medico-paziente
(che per la Pediatria è da sempre rapporto coinvolgente i genitori)
si è passati alla moderna logica delle reti: reti pediatriche generalistiche di assistenza primaria; reti integrate dei servizi territoriali;
reti cliniche generalistiche e specialistiche; reti socio-sanitarie; rete
ospedaliera; reti cliniche specialistiche e dei centri specialistici; ecc.
(Betke et al., 2006). Alle reti stabilmente organizzate si aggiungono
le “azioni concertate” su specifici programmi con specifici obiettivi.
Al tempo stesso il diritto della persona in età evolutiva a continuità,
globalità, longitudinalità e accessibilità delle cure impone la costituzione di gruppi di operatori che, tra loro interagendo, garantiscono
tale diritto in ogni campo dell’assistenza a partire dalle cure primarie. Si tratta di assicurare a tutti, attraverso le “reti” ed i “percorsi”,
sia le cure più moderne sia la salvaguardia di un fondamentale bisogno dell’individuo in età evolutiva: avere un pediatra di riferimento,
in un rapporto di reciproca conoscenza e fiducia.
Da tutto ciò deriva la moderna esigenza di lavorare con spirito di
squadra: l’esigenza cioè di praticare con successo, negli ambiti formativi come nella pratica assistenziale, la relazione dei pediatri tra
loro e tra pediatri e gli altri professionisti coinvolti nelle cure (Burgio
et al., 2007; Katz et al., 2002).
La formazione specialistica
La formazione specialistica prevede, in Italia come in Europa e in USA,
un triennio di formazione pediatrica di base, seguito da bienni differenziati per la Pediatria generale ovvero per ciascuna delle diverse subspecialità pediatriche (Fig. 1) (Federico et al., 2007; Saggese, 2005).
Tuttavia non mancano ombre nella realtà del nostro Paese (Federico et
al., 2005; Rubino, 1999; Sereni et al., 1998): 1) persistono difetti generali nel sistema universitario che hanno recentemente condotto ad un
tentativo di “riforma” non del tutto appropriato rischiando di allontanare
la formazione pediatrica dal modello europeo; 2) il numero di nuovi
specialisti è insufficiente a garantire i fabbisogni. Stato e Regioni, che
hanno il compito di programmare annualmente la numerosità dei nuovi
specialisti da formare, si muovono, da questo punto di vista, con improvvisazione e sostanziale arbitrio. Da circa quindici anni manca una
seria analisi dei fabbisogni effettivi quale premessa della programmazione; 3) la lentezza delle procedure attuative, a livello Stato e Regioni,
rispetto a norme di legge, unitamente a qualche resistenza e inerzia all’interno della stessa comunità pediatrica, fa sì che si sia ancora lontani
dalla piena realizzazione di un fondamentale principio generalmente
applicato a livello internazionale: che la formazione specialistica, diretta
e guidata dalle Università, debba avvenire nei luoghi e contesti in cui
vengono svolte le attività per le quali gli allievi vengono formati e debba coinvolgere ampiamente gli operatori responsabili di tali attività. Mi
riferisco cioè alla necessità di prevedere adeguata frequenza in centri
universitari ma anche ospedalieri e extraospedalieri; 4) si tarda tuttora
a mettere in campo un adeguato sistema di valutazione delle attività
formative, da tutti auspicato a parole ma da pochi attuato. Sotto questo
aspetto precise indicazioni europee restano disattese.
Malgrado tutto ciò, credo si possa affermare che il modello italiano
della formazione specialistica in Pediatria mantiene una buona qualità complessiva. Ha particolare importanza l’essere riusciti a mantenere l’intero panorama delle subspecialità pediatriche all’interno di
una comune cultura pediatrica nei suoi principi, metodi, valori.
La formazione continua
È in atto una forte accelerazione nei cambiamenti riguardo a: il progresso scientifico e tecnologico; le caratteristiche demografiche con
riferimento all’infanzia e all’adolescenza; la (le) cultura (e) della popolazione di riferimento; i bisogni di salute; le attese e le esigenze delle
famiglie; le condizioni organizzative della medicina e della sanità con
riferimento alla Pediatria; la mobilità nel lavoro; le condizioni sociali e
economiche influenzanti le cure sanitarie. Questa crescente accelerazione mal si accorda con i tempi della formazione pre-laurea e specialistica in Pediatria e pone perciò la formazione continua al centro
dell’intero processo formativo. In passato i contenuti della formazione
pre-laurea e specialistica erano più di oggi vicini ai contenuti del successivo lavoro. Il futuro sempre più vedrà invece una formazione prelaurea e specialistica finalizzata soprattutto a conferire adattabilità ai
cambiamenti nel sapere, nel saper fare, nel saper essere. Sempre più
la formazione continua servirà a saldare l’inevitabile gap tra la precedente formazione e il lavoro. Sempre più sarà centrale la necessità
di una nuova formazione quando si troverà o si cambierà il lavoro. E
sempre più si attenuerà il cosiddetto “valore legale del titolo di studio”
mentre crescerà il valore certificativo delle attività di formazione continua ai fini dell’esercizio professionale (Fig. 1).
La formazione pediatrica in genere e la formazione continua in particolare dovranno perciò affinare la capacità di promuovere più qualità nel
lavoro, conferire più “appropriatezza” alle competenze tenendo conto
degli aspetti scientifici, relazionali e anche economici; collegare cioè la
formazione continua al miglioramento continuo della qualità nel lavoro.
Sempre più e meglio i protagonisti della formazione continua in Pediatria dovranno essere attenti ai bisogni di salute regolando su di essi
quelli formativi e didattici nei campi delle abilità e competenze intellettive, gestuali, di comunicazione interpersonale. Occorrerà l’impiego di
metodi basati su: piccoli gruppi; interattività; scelta di supporti didattici
pertinenti e logici rispetto agli obiettivi; approccio per problemi (problem
based learning, self directed learning); utilizzazione degli stessi discenti
come co-docenti; il confronto fra pari e coinvolgimento dei partecipanti.
Sempre più la formazione in generale e quella continua in particolare
impiegheranno l’informatica e le moderne tecniche di simulazione. Un
ritardo della Pediatria italiana nell’acquisire e praticare tali tecniche
provocherebbe cali nella qualità della formazione e quindi del lavoro
generando o accentuando differenze rispetto a altri paesi.
Sempre più la formazione sarà anche “formazione a distanza”. Perciò è necessario che i docenti sappiano essere autorevoli protagonisti nella individuazione e attuazione di contenuti e metodi atti a
conferire qualità alla formazione a distanza.
97
A. Rubino
lutiva richiedono particolari caratteristiche che tengano conto delle
esigenze psicologiche connesse all’età e che vengono generalmente definite con il termine “umanizzazione”. Particolare importanza
hanno, in questo ambito, le condizioni che consentano presenza e
partecipazione da parte dei genitori.
Coniugare alta tecnologia e umanizzazione dell’assistenza costituisce una delle fondamentali sfide della moderna organizzazione dei
luoghi destinati alle cure a neonati, bambini, adolescenti. Sotto questo aspetto, in Italia, accanto a numerosi eccellenti esempi, persistono forti ritardi. È necessario un forte impegno sia in termini di risorse
e interventi strutturali, sia in termini di atteggiamenti e operatività da
parte di pediatri e altri professionisti operanti nel sistema delle cure
all’età evolutiva.
Figura 1.
Rapporti fra formazione e lavoro.
Dal tempo degli “eventi” si passerà ad una routine fatta di formazione intrecciata al lavoro. È augurabile che i Governi (internazionali, nazionali e locali) definiscano e aggiornino norme adeguate alle
esigenze della formazione continua superando, per quanto riguarda
l’Italia, forti ritardi oggi persistenti. Ed è indispensabile che norme e
programmi abbiano forte credibilità anche sul terreno della indipendenza rispetto agli erogatori di risorse, pubblici o privati (Chambers,
2000; Federico et al., 2007; Miles, 2007; Rubino, 1999).
I luoghi e i modelli delle cure
È ormai acquisito, nei principi come nella pratica, che la Pediatria
è prevalentemente attuata in modelli ambulatoriali. Nel campo dell’assistenza primaria l’attività del pediatra è di regola ambulatoriale
e eccezionalmente domiciliare. Ma anche nell’ambito delle cure secondarie e terziarie sempre più prevale l’attività di tipo ambulatoriale ovvero un’attività di day hospital inteso come ricovero limitato a
un certo numero di ore all’interno della giornata (Katz et al., 2002;
Mangione-Smith et al., 2007; Schor, 2007; Starfield, 1973). I ricoveri
protratti oltre le dodici ore dovrebbero, di regola, essere limitati ai
casi in cui è indispensabile, per la natura dei problemi, una osservazione continua in ambito ospedaliero. Ne deriva che il ricovero
ospedaliero (che può essere per cure generali ovvero in centri di alta
specializzazione) sempre più richiede strutture tecnologicamente
raffinate (unità di terapia intensiva neonatale, unità di terapia intensiva pediatrica, unità “sterili” ecc.).
Al tempo stesso i luoghi destinati alle cure a soggetti in età evo-
98
I contenuti delle cure
L’evoluzione delle conoscenze biomediche ha profondamente trasformato il modo di fare Pediatria. I progressi della biologia cellulare
e molecolare, della genetica e dell’immunologia, della diagnostica
per immagini e strumentale (per citarne solo alcuni tra i più rilevanti)
hanno trasformato la pratica pediatrica. L’informatica ha a sua volta
fortemente influenzato sia l’organizzazione dei servizi, sia i modi del
rapportarsi dei pediatri fra loro e con altri professionisti, nonché il
modo di lavorare del singolo pediatra (Bellanti, 1980; Cao, 1989;
Court, 1980; Freed et al., 2007; Johnston, 1981; Kretchmer, 1977).
Ma accanto ai cambiamenti determinati dal progresso scientifico e
tecnologico, forti trasformazioni hanno interessato i bisogni di salute della popolazione in età evolutiva. Al diminuire della patologia
acuta per numerosità e gravità si accompagna il crescente numero
di problemi cronici, sia per il continuo raffinamento delle possibilità
diagnostiche sia in conseguenza degli stessi progressi terapeutici.
Continui sono anche i miglioramenti in termini di qualità di vita nelle
patologie croniche.
Negli ultimi decenni sempre più rilevanti e frequenti sono divenuti i
problemi della salute mentale, con la conseguente esigenza di un forte
impegno in questo campo sotto l’aspetto preventivo e educativo oltre
che diagnostico e terapeutico. Gli straordinari progressi in ambito neonatologico con la conseguente sopravvivenza di neonati di peso molto
basso hanno aperto i problemi connessi al follow-up e alla qualità di vita
di tali soggetti. Sul versante opposto dell’età evolutiva, gli adolescenti
sempre più, nel moderno “villaggio globale”, sono a rischio di disagi,
devianze, patologie conclamate più o meno gravi nella sfera psicologica e comportamentale (Burgio et al., 2007; Wise, 2007). Alla generale consapevolezza della importanza di tali problematiche non ancora
si accompagnano adeguate risposte. I ritardi riguardano la società e la
politica nel suo complesso, ma riguardano anche la stessa comunità dei
pediatri, che da un lato rivendica una specifica competenza nel campo
degli adolescenti, ma dall’altro, malgrado l’eccellente attività di alcuni
gruppi, tarda a mettere in campo tutto il necessario impegno, sia nella
formazione specialistica e continua sia nelle pratiche assistenziali.
Il futuro fra auspici e preoccupazioni
La ricerca scientifica
Ricerca scientifica, formazione e assistenza sanitaria sono attività
strettamente collegate. In larga misura si tratta addirittura di un’unica attività avente tre distinte finalità. In generale le tre attività sono
strettamente interdipendenti nel senso che la qualità di ciascuna
fortemente influenza quella delle altre due. È ovvio che in biomedicina la produzione delle nuove conoscenze (ricerca scientifica)
precede la trasmissione delle stesse e l’applicazione alle cure. La
Dove va la pediatria
Pediatria ovviamente non fa eccezione. Perciò guardare al futuro
della Pediatria richiede anzitutto una riflessione sullo stato di salute
della ricerca pediatrica e sulle sue prospettive.
Nei passati decenni e anche attualmente e prevedibilmente in futuro, sempre nuove conoscenze e metodi sono offerti alla ricerca
scientifica pediatrica, provenendo dalla biologia cellulare e molecolare, dalla genetica, dalle ricerche biomediche di base in generale,
dalla diagnostica per immagini, dai presidi diagnostici e terapeutici,
dalla epidemiologia, dalla immunologia ecc.
Questa nuova ricchezza, che pur tanto ha prodotto in termini di riduzione della mortalità e miglioramento della qualità di vita in età evolutiva, ha tuttavia in sé un rischio e pone un problema che tocca la stessa
identità della ricerca pediatrica. Il crescente valore di nuove tecnologie
preventive, diagnostiche e terapeutiche rischia di trasformare il pediatra clinico in semplice registratore di risultati prodotti da altri. Analoga evoluzione è in atto nella stessa ricerca scientifica (Boat, 2007;
Rivkees et al., 2007; Schor, 2007; Wise, 2007). Ad esempio Thomas
Boat documenta che nei dipartimenti pediatrici degli USA sempre di
più e sempre più frequentemente la ricerca è condotta da investigatori
non pediatri e sempre di più la ricerca di interesse pediatrico ha luogo
in strutture che pediatriche non sono. Complessivamente negli Stati
Uniti la ricerca finanziata dall’NIH tende a concentrarsi in un basso
numero di dipartimenti pediatrici (nel 2005 in USA il 30% del finanziamento complessivo diretto a ricercatori pediatri era concentrato in soli
4 dipartimenti mentre il 75% era concentrato in 30) (Boat, 2007). Nella comunità pediatrica internazionale si moltiplicano perciò gli appelli
per un maggiore e rinnovato impegno a favore della ricerca pediatrica,
intesa quale ricerca svolta dai pediatri in quanto i cultori più autentici
della salute dell’individuo durante la crescita e lo sviluppo.
Nel nostro Paese la crisi è forse più sentita a causa delle ben note
insufficienze generali di impegno e attenzione che il Paese dedica alla
ricerca scientifica e al sistema universitario, con la conseguente crisi
generale che colpisce appunto il sistema della ricerca e dell’Università.
Si aggiunge il diffuso difetto nazionale della scarsa corrispondenza fra
parole e fatti per cui alla declamazione, con toni spesso retorici, della
“importanza dell’infanzia”, sovente non segue un adeguato impegno
per il sostegno alla ricerca scientifica di interesse pediatrico.
Uno sforzo straordinario della comunità pediatrica italiana impegnata nella ricerca appare necessario lungo alcune linee (Box riassuntivo). Anzitutto è auspicabile promuovere una stagione di forti
interazioni e scambi con altre discipline cliniche e di base. I confini
fra il settore scientifico-disciplinare “Pediatria generale e specialistica” (per usare il linguaggio universitario) e quelli di altre e diverse
discipline cliniche e di base dovrebbero tendere ad aprire ampie vie
di comunicazione. Occorre affinare la capacità di coniugare il valore
della specificità pediatrica con quello dell’apertura a scambi e collaborazioni nella più ampia comunità biomedica. È appena il caso
di aggiungere che l’auspicio alla collaborazione fra diversi gruppi e
istituzioni è ancora più importante ed essenziale se riferito ai gruppi
sub-specialistici all’interno della stessa comunità pediatrica.
In secondo luogo è auspicabile un salto quantitativo e qualitativo nella
formazione alla ricerca pediatrica promuovendo e utilizzando al meglio
risorse e strumenti che il Paese pone a disposizione per la formazione; occorre cioè fare più formazione alla ricerca in ambito pediatrico,
sviluppare più competenze riguardo, ad esempio, alla capacità di disegnare, condurre e analizzare studi valutativi di strumenti preventivi o
diagnostici, di indicatori prognostici, di efficacia/sicurezza terapeutica,
nonché capacità critica nel fare revisioni della letteratura. Fatte salve le
ovvie differenze, appare opportuno migliorare tale tipo di competenza
sia nella formazione specifica alla ricerca (dottorati di ricerca, master,
bienni sub-specialistici di indirizzo, mobilità in qualificati centri) sia nel-
la stessa formazione specialistica. In effetti è un buon clinico moderno
chi ha sviluppato la capacità di comprendere i fondamenti della ricerca
scientifica per costruire poi, su tale base, un’attività prevalentemente
di ricerca ovvero prevalentemente pratica con la connessa prerogativa
di saper criticamente valutare i risultati delle ricerche legate alle applicazioni cliniche. In sostanza: occorrerebbe fare di più per promuovere
l’acquisizione del metodo scientifico (Kelch, 1989). Aggiungo che una
forte azione sulla formazione di giovani alla ricerca scientifica non può
essere disgiunta da un’azione di promozione delle possibilità di inserimento nel lavoro in un sistema credibile, che sappia offrire da un lato
concrete possibilità e dall’altro metodi corretti e trasparenti. Ciò significa
che occorre anche porre attenzione a che ci sia una certa congruità fra
il numero di giovani che vengono specificamente formati alla ricerca
scientifica e le possibilità effettive di inserimento nel sistema complessivo della ricerca pubblica e privata, in una moderna visione di mobilità
almeno sull’intero territorio nazionale.
Inoltre occorrerebbe che nella formazione alla ricerca scientifica
maggiore attenzione fosse data allo sviluppo di competenze per
l’accesso a programmi e finanziamenti nonché per lo svolgimento di
funzioni di coordinamento all’interno di gruppi di ricerca complessi
e/o multi-disciplinari (aspetto non secondario al fine di evitare che
l’apertura alle collaborazioni lasci poi troppo spesso il pediatra confinato in ruoli subalterni).
Infine non va dimenticato che la formazione alla ricerca è strettamente legata alla partecipazione alla comunità scientifica internazionale, con tutto ciò che ne consegue in termini di conoscenza
dell’inglese, padronanza delle tecnologie di comunicazione attinenti
alla ricerca scientifica, mobilità internazionale per giovani e meno
giovani, familiarità con la letteratura scientifica internazionale, ecc.
Non va sottovalutata la necessità che nelle macroscelte sui temi della
ricerca i diversi soggetti in campo, e tra questi la stessa comunità
scientifica pediatrica, sappiano scegliere obiettivi che tengano conto
dei prevalenti bisogni nella popolazione di età evolutiva in una società
che cambia. Ricordo alcuni punti: la traslazione di nuove conoscenze,
concetti e strumenti in nuove possibilità diagnostiche e terapeutiche
per l’età evolutiva; i trattamenti farmacologici personalizzati; la Pediatria predittiva; le malattie croniche; la valutazione della qualità e della
sicurezza delle cure sanitarie; i problemi della salute mentale e della
Pediatria dello sviluppo e del comportamento; i problemi vecchi e nuovi dell’età adolescenziale; gli effetti dei moderni stili di vita sull’individuo durante lo sviluppo e la crescita; la sopravvivenza e la qualità di
vita dei nati di peso molto basso; la valutazione della qualità delle cure
in Pediatria ambulatoriale; gli effetti dei cambiamenti demografici sui
contenuti della Pediatria. (Boat, 2007; Burgio et al., 2007; Cao, 1989;
Freed et al., 2007; Mangione-Smith et al., 2007; Miles, 2007; Rivkees
et al., 2007; Schor, 2007; Wise, 2007).
Il rapporto fra ricerca scientifica e assistenza
Il collegamento fra ricerca scientifica, formazione e attività clinica, con
la forte interdipendenza tra i tre ambiti dal punto di vista della qualità, è
concetto valido se riferito alla comunità nel suo complesso, in particolare alla comunità pediatrica di un Paese, o di una istituzione universitaria,
ospedaliera, territoriale. Ma nel nostro Paese il collegamento è stato a
lungo – e tuttora è – riferito anche alle singole persone, in particolare nel
sistema universitario. In tale ambito la inscindibilità delle tre funzioni da
parte dei singoli docenti viene rivendicata come un insuperabile paradigma. Credo si debba riflettere sui rischi di una concezione così rigida. Il
crescente fabbisogno di personale docente nelle Università per far fronte, nel presente e nella prospettiva del futuro, alle esigenze nella sfera
didattico-scientifica rischierebbe di essere insostenibile per il sistema
sanitario, sui piani sia finanziario che organizzativo, se detto paradigma
99
A. Rubino
della inscindibilità dovesse valere sempre e comunque. D’altro canto
le crescenti esigenze di sviluppo di una moderna ricerca scientifica di
interesse pediatrico non necessariamente richiedono, per ogni docente,
un impegno assistenziale diretto. Tale impegno, se inteso come obbligo,
può addirittura risultare nocivo a docenti pediatri in relazione alle specificità della loro attività didattico-scientifica. Credo perciò che la comunità
universitaria (poiché è evidente che non si tratta qui di questione soltanto pediatrica) debba riflettere sull’effettiva necessità che “il dogma della
inscindibilità” sia mantenuto, e se non sia invece opportuno introdurre
elementi di flessibilità. Ciò renderebbe possibile prevedere, all’interno
della “Pediatria generale e specialistica” quale è intesa in Italia, anche
la presenza di ricercatori non impegnati direttamente in attività cliniche
ma competenti e interessati ad attività di ricerca scientifica finalizzata
alla protezione della salute in età evolutiva.
La Pediatria fra “le due culture”
La crescente tecnologizzazione della medicina e la doverosa attenzione alla “medicina basata sull’evidenza” non devono indebolire la
consapevolezza che la medicina è non solo scienza ma piuttosto pratica basata su conoscenze scientifiche, in un sistema di relazione fra
persone, dentro il quale sistema c’è la speciale relazione fra pediatra
e persona in età evolutiva. Occorre evitare il rischio che si indebolisca
il concetto di medicina nel suo significato primario, cioè di risposta al
bisogno dell’individuo di chiedere aiuto nella sofferenza, nel dolore,
nel disagio, nell’ansia, per ricevere consolazione, consigli, risposte.
La risposta a questo bisogno deve restare alla base della medicina. Ma può restarvi solo se il medico, pur moderno cioè capace
di risposte basate su concetti scientifici modernamente acquisiti,
resta protagonista di una speciale relazione che è fatta di dialogo,
di comprensione, di spirito di servizio rispetto ai bisogni complessi
della persona, di capacità di informare ma anche di dialogare e di
dare risposte – le migliori possibili – a tutte le domande, incluse
quelle per le quali una risposta scientificamente intesa manca. Guai
se la Pediatria dovesse ridursi a rapporti tecnici o quasi burocratici,
magari mediante computer, e dovesse dimenticare che il pediatra è
veramente tale solo se è nella condizione di stabilire un’autentica
relazione con l’individuo in età evolutiva e i suoi familiari.
Empatia, dialogo, comunicazione, fiducia, rispetto della persona, rispetto della privacy, attenzione alla globalità dei problemi della persona che chiede l’aiuto del medico: queste cose non sono oggi abbastanza presenti nei contesti formativi e nell’esercizio della pratica.
Sovente la realtà è fatta quasi esclusivamente di indagini, prescrizioni,
linee guida, analisi di risultati scientifici e conseguenti applicazioni e
sempre meno di impegno per le buone relazioni interpersonali.
L’auspicio è che la Pediatria resti bene ancorata a ambedue le culture: quella tecnico-scientifica e quella umanistico-relazionale.
Pediatria e comunicazione
La rivoluzione in atto in materia di comunicazione ha profondamente
cambiato tutti gli aspetti del vivere e quindi, tra l’altro, la comunicazione scientifica, le modalità della didattica, la comunicazione fra pediatri
e fra pediatri e altri professionisti, le modalità di fare assistenza ecc.
Computer, internet, telefonini, fotografia, televisione, navigatori satellitari, tecnologie digitali sempre più sono alla portata di tutti.
I sistemi della ricerca, della formazione e dell’organizzazione sanitaria, i rapporti fra pediatri e con altri professionisti della sanità, i
rapporti fra pediatri, pazienti e famiglie, tra pediatri e pubblica opinione, sono profondamente influenzati dalle nuove tecniche. Restare
indietro in questo campo sarebbe grave.
Il concetto di sapere come diritto e come bene comune ha assunto dimensione e accessibilità straordinarie. Ma l’accesso alla co-
100
noscenza significa anche essere esposti alle opinioni più diverse,
donde una crescente necessità di sviluppo delle capacità critiche e
di possibilità di confronto tra opinioni diverse. E questo vale per tutti
i rapporti, da quelli di un paziente o del genitore del bambino che
accede a conoscenze sanitarie via internet fino a quelli dei rapporti
nella comunità scientifica per l’individuazione di ciò che è scientificamente evidente e per la definizione dei consensi. La connessione
è garantita a tutti ma occorre garantire anche la qualità dei contenuti
il che apre ai pediatri nuovi e grandi spazi di intervento nei campi
della ricerca, della formazione e dell’assistenza.
La Pediatria fa fatica a affrontare adeguatamente questi problemi. Occorre perciò un impegno nuovo e straordinario per adeguare le capacità del pediatra nella moderna comunicazione in tutte le sue espressioni:
dalla programmazione e svolgimento della ricerca scientifica, alle forme
di comunicazione dei risultati e fino alla divulgazione degli stessi per la
pubblica opinione; dalla organizzazione delle attività formative pre-laurea,
post-laurea, di formazione continua, di educazione sanitaria, alla comunicazione all’interno delle équipe sanitarie e nelle reti di servizi sanitari,
fino alla comunicazione pediatra-paziente-famiglia e a quella tra pediatri
e pubblica opinione. Il sistema formativo in Italia tarda ad adeguarsi a tutto
questo, si attarda ancora in sperimentazioni episodiche e non sostitutive
dei vecchi modelli con conseguenti ritardi rispetto alla velocità degli adeguamenti in altri paesi. Occorrerebbero significative riforme generali nel
sistema formativo e della comunicazione. Ma intanto è auspicabile che la
Pediatria si muova con programmi formativi coerenti addestrando:
a conoscere il linguaggio multimediale e saperlo convertire in comunicazione/informazione nell’ambito della didattica medica;
a sapere integrare i modelli tradizionali della didattica medica con
le nuove tecnologie di telecomunicazione, teledidattica e interconnessione;
a sapere effettuare cicli didattici in video conferenza e forum telematici di discussione, ecc.
Alleanza e corresponsabilità
Nel nostro Paese le profonde modifiche in atto nel rapporto fra medici
(pediatri inclusi), pazienti e aziende a seguito delle varie riforme del
sistema sanitario succedutesi hanno modificato lo stesso “status” del
medico spingendolo verso una condizione di speciale “dipendenza”.
Sotto alcuni aspetti il fenomeno è stato positivo nella misura in cui
ha ridimensionato la vecchia e superata figura paternalistica. Tuttavia
esso rischia di mettere in crisi lo speciale rapporto che da sempre lega
il medico al paziente e che costituisce la base della pratica medica
(Cavicchi, 2007). Si tratta di dipendenza dal potere decisionale della
“managerialità” aziendale, spesso dominata prevalentemente se non
esclusivamente da una logica di natura economica.
In questo quadro, le attività dei pediatri, i percorsi diagnostici e terapeutici, il contenuto delle prestazioni tendono a divenire sempre più
standardizzate, vincolate e controllate dal potere decisionale aziendale, riducendo gli spazi di autonomia decisionale del pediatra.
Non vanno dimenticate le buone ragioni dell’economia e delle aziende. I
concetti di essenzialità, efficacia, efficienza, appropriatezza nella pratica
medica anche in senso finanziario sono sacrosanti. Il fatto è tuttavia che
le aziende, anche come conseguenza di ritardi del sistema formativo dei
medici di questo Paese, tendono a travalicare, in tal modo intervenendo
sul ruolo del medico nella sua essenza di interprete dei bisogni di salute
dell’individuo e di protagonista delle decisioni conseguenti.
Mentre il processo di progressiva perdita di autonomia del medico si
sviluppava, parallelamente cresceva la consapevolezza dei diritti nel
campo della salute. I “pazienti” di prima sono divenuti gli “esigenti”
di oggi (Cavicchi, 2007). Tutto questo, messo insieme al frequente
malfunzionamento dei servizi sanitari o anche soltanto ai limiti e vin-
Dove va la pediatria
coli imposti dalle aziende, finisce con lo scaricarsi sul pediatra che
rischia di restare schiacciato tra esigenti che chiedono e aziende che
limitano. Nasce così e si sviluppa una crescente conflittualità dentro
la quale, pur essendo dimostrato che nella stragrande maggioranza
dei casi le colpe quando ci sono riguardano l’organizzazione sanitaria e non l’attività pediatrica in senso stretto, il pediatra si trova
in difficoltà e può rifugiarsi nella medicina difensiva che è cattiva
medicina. Va così in crisi il rapporto di fiducia fra pediatra, paziente e
famiglia che costituisce base per la corretta pratica pediatrica. Esso
a volte è sostituito da un rapporto conflittuale, di sospetto, di difesa,
di sfiducia. La situazione appare destinata ad aggravarsi, anche per
i costi continuamente crescenti in sanità, cosicché il conflitto fra le
ragioni degli esigenti e le ragioni delle aziende tende a esacerbarsi
e sempre più a scaricarsi sui pediatri. È evidente che la questione
riguarda l’intera medicina, ma in essa i pediatri sono fortemente
coinvolti, sia perché particolarmente esposti alle giuste e compren-
sibili emotività nelle famiglie e nella società intorno all’infanzia, ma
anche perché essi tendono a mantenere – ancora e malgrado tutto
– un buon rapporto di fiducia, pur nel clima generale avverso.
È auspicabile un’azione fatta di alleanza e corresponsabilità. Si intende alleanza fra pediatri e “esigenti”, cosicché ogni cosa o comportamento che possa prestarsi anche al solo sospetto di non piena
eticità va evitato (soprattutto nelle modalità di attuazione dei programmi di formazione continua), mentre vanno accentuate e rese
più evidenti le posizioni di sostegno, attenzione, dialogo con le famiglie nell’esercizio della pratica pediatrica.
Ma – si diceva – anche corresponsabilità, perché anche il rapporto
con l’azienda dovrebbe riconoscere le giuste ragioni di essa, cosicché
anche il contenimento dei costi, nel limite di ciò che è consentito dal
pieno soddisfacimento dei corretti bisogni di salute, andrebbe trattato
più decisamente ed efficacemente nel sistema formativo e dovrebbe
costituire atteggiamento abituale nella pratica assistenziale.
Box di orientamento
Auspici di obiettivi e azioni per il futuro
• Coesistere come pediatria generale e subspecialità, nella formazione e nell’assistenza, con equilibrio e attenzione ai bisogni di salute.
• Ampliare:
i rapporti scientifici con altre discipline, di base e cliniche;
la formazione scientifica in pediatria;
le interazioni nella comunità scientifica internazionale;
la formazione ai ruoli di coordinamento e all’accesso a programmi e finanziamenti.
• Coniugare le “due culture” (umanistica e tecnico-scientifica).
• Sviluppare le “reti”, le “azioni concertate”, il lavoro in équipe.
• Migliorare la comunicazione in pediatria.
• Preservare la fiducia delle famiglie, nella corresponsabilità con il SSN.
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Corrispondenza
prof. A. Rubino, Dipartimento di Pediatria, Università “Federico II” di Napoli, via S. Pansini 5, 80131 Napoli • Tel. +39 081 7463501 • E-mail: armido.
[email protected]
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