Il reportage Lo scontro I volti La storia L`inchiesta

Transcript

Il reportage Lo scontro I volti La storia L`inchiesta
R
Anno IX - Numero 3 - 18 febbraio 2016
eporter
nu ovo
Lo scontro
Il "potere" ai giovani.
Così un selfie vi rottamerà
Il reportage
La bestemmia
sull'Arno
L'inchiesta
Più trasparenza,
ma non nei conti
La storia
ROTTE
PRIMARIE
Il boomerang
di Prodi
I volti
Toh, chi si rivede:
la candidata incappucciata
Sono nate undici anni fa, ma sembrano già in crisi
Da Roma alla Toscana, dai palazzi del potere alle sezioni:
viaggio nel mondo dei gazebo
Quindicinale della Scuola Superiore di Giornalismo della LUISS Guido Carli
R
3
Un selfie vi rottamerà
Roma, viaggio nel presente e nel futuro dei circoli Pd a tre settimane
dalle primarie che decideranno il candidato sindaco del centrosinistra.
I giovani: «Renzi? Ci chiama anche troppo spesso». I vecchi militanti:
«Chi li sente mai quelli del partito?»
7
10
Vite da gazebo
Il primo e l'ultimo, il vincitore e lo sconfitto. Chi le contesta e chi le pretende.
Loiero, Boccia, Civati, Storace, Ottaviani, Calandrini: sei storie, da sinistra a destra
A tutti i costi
Qual è il prezzo delle primarie? I bilanci del Pd non lo dicono. L’ex tesoriere Misiani:
«Molto difficile stabilirlo». La trasparenza può attendere.
11
Quell'inutile primato
Viaggio nella terra del premier Matteo. La Toscana è stata la prima regione a regolamentare
le primarie. Ma la legge è già stata abolita. Il segretario fiorentino, Incatasciato, ha i suoi dubbi:
«Le mafie a volte inquinano il voto». La sezione di Rignano sull'Arno la gestiva papà Renzi,
«ma qui non si vede più nessuno»
13
Compagni coltelli
Rivitalizzarle o cestinarle? Nate nel 2005 per avvicinare la base al gruppo
dirigente, adesso le primarie diventano sempre più spesso un terreno
di battaglia per la resa dei conti all'interno del partito di governo
SOMMARIO
R
POLITICA
L'INCHIESTA
Un selfie vi rottamerà
Roma, viaggio nel presente e nel futuro dei circoli Pd a tre settimane dalle primarie che decideranno il candidato sindaco del centrosinistra. I giovani: «Renzi? Ci chiama anche troppo spesso». I vecchi militanti: «Chi li sente mai quelli del partito?»
Giovanna Giannone e Irene Mossa
Il circolo Pd "Lanciani" di Via Catanzaro a Roma
C'è il circolo di via Catanzaro con le pagine storiche dell'Unità sui muri.
Quello di piazza Verbano, una stanza minuscola con le foto di Gramsci da
una parte e la lavagnetta degli incontri dall'altra. A Ponte Milvio, invece,
sono le vecchie pagine di giornale che tappezzano il cancello esterno a
raccontare che quella fu la sezione di Enrico Berlinguer.
Nonostante le apparenze, secondo iscritti e segretari di circolo la situazione è cambiata, eccome, da quando nelle sezioni non sventolano più le
bandiere rosse.
Manca meno di un mese alle primarie che eleggeranno il candidato sindaco di Roma e Claudio Carassiti, segretario del circolo Lanciani racconta pro e contro della nuova era: «Il cambiamento delle primarie è stato
epocale, lo stiamo ancora metabolizzando. Mi prendono in giro perché io
sono fautore delle primarie sempre e comunque. Fra di noi c’è anche chi
si domanda se è giusto chiedere il voto dei cittadini per eleggere cariche
interne al partito».
Le pareti intorno raccontano di quando il Pd era il Partito comunista. Le
prime pagine dell’Unità, le foto di Marx, Lenin, Allende e Togliatti, ricordano una storia complessa. Le anime diversissime di un’ideologia, che nel
Pc avevano trovato la loro sintesi. Una storia in cui tanti si identificavano
totalmente. Nel 2016 il militante è stato rimpiazzato dal “simpatizzante”,
figura a metà fra l’intellettuale con il pugno alzato e il tifoso che passa
ogni tanto per incoraggiare la sua squadra.
Grazie a twitter, facebook, instagram e tutti gli altri strumenti, usati con
disinvoltura anche dallo stesso Matteo Renzi, proprio il cittadino simpatizzante è spesso più informato di chi dibatte in una delle tante riunioni
3
Circolo "Lanciani", interno: prime pagine de L'Unità, Gramsci e il Che
di circolo. «Non mi mette in difficoltà la capacità del leader di interloquire
con i cittadini, ma il fatto che il partito non ha gli strumenti per fare in
modo che le informazioni arrivino anche ai dirigenti locali, in modo da
non essere presi in contropiede da chi ha ricevuto un tweet e sa già che il
partito ha una certa posizione».
A piazza Verbano, negli appena quaranta metri quadrati che ospitano il
Pd, due iscritti di lungo corso sono meno diplomatici. Racconta Claudio
Dal Pozzo, 70 anni: «Io ero nei Ds e rimango, anche se con molti dubbi.
Non tanto sulla gestione di Renzi, ma sui modi. Con twitter, le mail, in televisione. Piccole cose che non ci piacciono, si resta troppo in superficie». A
tenere aperta la sede, in un mercoledì mattina di pioggia, ci sono solo lui e
Giorgio Panizzi, settantenne anche lui: «Io ero socialista e lo sono ancora.
Ma ho una tessera che dice che sono fondatore del Pd. È un po' come il
battesimo: ti danno l'acqua, piangi, non capisci, ma speri».
Ci tengono a smentire il luogo comune secondo cui prima delle primarie la base era esclusa dalla scelta dei candidati: «Negli anni ’70 le sezioni
«La vecchia guardia
si lamenta perché
non si riconosce
nel governo»
(Riccardo Carnevale,
Giovani democratici)
Selfie di gruppo. I Giovani democratici di Ponte Milvio, Roma
avevano un gran peso. Adesso, in teoria, il candidato lo scegliamo noi, ma
di fatto lo scelgono Renzi e i vertici del partito». Entrambi raccontano un
Partito democratico che sembra non aver più bisogno dei circoli: «Non
ci coinvolgono». Anche ora, a meno di un mese dalle primarie, non si sa
bene cosa fare. La Federazione romana non dà direttive precise: «È capitato che non arrivassero neanche i gazebo. Non hanno più personale. E
da queste parti non ho più visto nessuno di loro».
Con un sorriso fra l'ironico e il nostalgico l'ex socialista Panizzi ricorda la
proverbiale organizzazione dei comunisti: «Io una volta gli rubai un faldone. Dentro c'erano addirittura tutti i palazzi con i nomi dei non comunisti
da convincere». Ma a Roma non è il mancato porta a porta l’unico problema: «I comunisti non si iscrivono più. La storia dei centouno franchi tiratori (deputati e senatori che nel 2013, durante il voto segreto per l’elezione
del presidente della Repubblica, affossarono la candidatura di Romano
Prodi) è stata una botta grossa. Poi c'è stato Marino, e in tanti non hanno
accettato il modo in cui è stato cacciato. Tre anni fa eravamo 330, l’anno scorso 230, quest’anno 151». Ma il loro vero dispiacere è l'assenza dei
giovani in sezione: «Nel 1996 ce n’erano tanti, poi sempre meno. Oggi ne
abbiamo cinque, darei l'anima per averne almeno dieci. Perché il futuro è
loro, noi l'abbiamo già visto».
Il futuro, infatti, avanza a Ponte Milvio. Nella sezione che fu di Berlinguer,
un minidirettivo, appena tre persone, siede intorno alla scrivania. Fumano
tutti, l’aria fa molto anni Settanta. Ma la camicia con il colletto sbottonato
e la giacca aggiungono al poster di Che Guevara un tocco di Leopolda.
«Noi abbiamo iniziato tutti con il Pd. Quelli che dicono di non essere
Circolo Pd "Ponte Milvio", Roma: qui era iscritto Enrico Berlinguer
ascoltati dal Pd nazionale probabilmente lo fanno perché non trovano
riscontro delle proprie vecchie idee nel Pd al governo». Faccia pulita, occhiali e un sorriso compiaciuto Riccardo Carnevale, segretario dei Giovani
democratici di Ponte Milvio, aggiunge: «Io quando devo essere ascoltato
vado al Nazareno, anzi vengo troppe volte chiamato». Il ragazzo dal look
più smaccatamente renziano è Luca Soldini, l’ex coordinatore: «Anche
loro, da giovani, contestavano i più grandi. La frizione generazionale è
sempre esistita, ma alla fine collaboriamo». Quando gli si chiede un’opinione sul caso Marino, risponde: «La decisione più giusta non è sempre la
più condivisa. Ma un Presidente del Consiglio che si interessa alla capitale
non si vedeva da tanto». Niente calo di iscrizioni, allora? «Noi come GD
abbiamo raddoppiato le iscrizioni, ora siamo una ventina». Nel futuro vedono l’approvazione della riforma costituzionale, della legge sulle unioni
civili e Roberto Giachetti sindaco di Roma. Ma forse c’è dell’altro. Luca
Soldini, che carica ricopre ora? «Per adesso niente. Per adesso».
«Renzi non ha più
bisogno di circoli.
Il partito non ci
manda più
neppure i gazebo»
(Claudio Dal Pozzo,
militante Pd)
4
R
PRIMA DELLE PRIMARIE
Bianco, rosso
e Verdini
Cosa resta del Partito Repubblicano Italiano?
Bruno, portavoce nazionale: «Il Paese è allo sfascio e noi
in fondo siamo gli ultimi carbonari. Sarà per questo
che siamo finiti nelle cantine e non in senso metaforico»
Giovanna Giannone e Irene Mossa
“Cari Amici, vorrei pregarvi, se qualcuno
di voi è disponibile, di portare avanti questa
pagina facebook, poiché io, come sapete,
non sono più iscritto al Partito repubblicano
italiano, bensì al Partito democratico”.
Segno dei tempi o ironia involontaria di
un ex militante, è questo uno dei primi post
in cui ci si imbatte visitando la pagina Facebook della sezione “Emanuele Terrana”. A
sentire Riccardo Bruno, 56 anni, portavoce
nazionale del Pri, è solo un'esagerazione:
«Chi va nel Pd torna qua perché capisce chi
sono quelli del Pd. Anche con i comunisti
era così. Simpatici fino a quando non li conoscevi».
Il suo ufficio è una stanzetta nel seminterrato che oggi è sede del Partito Repubblicano italiano. Sui muri, sugli scaffali e di
fronte alla sua scrivania brillano le vecchie
glorie: mezzi busti di Spadolini, l'intera collezione della Voce repubblicana e manifesti
con i bordi all'insù. Uno dice: “Il Partito Repubblicano, il tuo futuro”. È del 1988.
«Il Pri è in una crisi drammatica. Dopo la
rottura con Berlusconi nel 2011 è diventato terra di nessuno, spaccato fra le correnti
interne». Complice il sistema maggioritario,
ma anche «una Repubblica in cui o sei di
qua o sei di là e anche i giornali stanno da
una parte o dall'altra».
Al bipolarismo estremo che taglia fuori il
partito, il Pri risponde con Giuseppe Mazzini: «È il nostro capo spirituale». Il fondatore
della Giovine Italia e tutto il suo periodo sto-
5
rico prendono vita nella sede di via Euclide
Turba (a due passi da piazza Mazzini, neanche a farlo apposta). Al punto che Bruno, a
proposito delle commemorazioni dopo gli
attacchi a Parigi, confessa: «Sono rimasto
esterrefatto quando ho sentito la Marsigliese cantata nello stadio dei re di Spagna a
Madrid».
Anche i giorni nostri hanno il loro personale Mazzini però: «Denis Verdini è stato
nel Pri. Era vulcanico, non era né un mazziniano puro né un azionista. La sua posizione
di oggi ha un senso. Sostiene un governo di
sinistra perché è contrario ad una spaccatura che non aiuta il Paese. Anche Mazzini era
così: si accordò con la monarchia che detestava e avrebbe fatto l'accordo anche con il
papa. L'importante è cacciare l'austriaco».
Ma oggi chi è l'austriaco? «Forse, per alcuni, la Merkel. L'Ue non è tanto diversa da
quella descritta da Grillo e Salvini. Nasce
durante la Guerra Fredda per ordine americano. Non per Spinelli e Ventotene. Dopo
la caduta del muro abbiamo perso la testa.
È mancata una classe dirigente in grado di
ripensarla».
Tornando ai giorni nostri e alle comunali
«Denis è come Mazzini:
sostiene il governo
come lui sosteneva
la monarchia»
di Roma: «Noi non facciamo primarie. Perché dovremmo? Per far votare i cinesi come
a Milano? Vorremmo fare la lista Nathan, dal
nome di un bravo sindaco repubblicano del
periodo prefascista. Ci saranno quelli che
vogliono andare con il Pd e quelli che vogliono andare da soli. I repubblicani vogliono sempre andare da soli, salvo accorgersi
dopo che non hanno eletto nessuno». A
guardar bene però qualcuno con cui correre
ci sarebbe: «L'unico sarebbe Alfio Marchini. Il
Pd romano invece va seppellito».
E quello nazionale? Bocciato il Jobs act.
Da dimenticare la riforma costituzionale:
«un obbrobrio». Ma la disapprovazione
repubblicana nasce molto prima di Maria
Elena Boschi: «Abbiamo perso la battaglia
dell'unità d'Italia. È stata un obbrobrio. È
stato fatto con un accordo con il papato che
Mazzini non avrebbe fatto. Questo è il punto
della questione repubblicana».
Il passato vi manca? (Faccia contrita e
ampio gesto della mano) «E certo, almeno
prima eravamo influenti!».
Ma per il futuro non dispera troppo: «C'è
una gioventù repubblicana attiva su tutto il
territorio. Noi siamo gli eredi della Giovine
Italia. Non è che loro fossero in tanti. Devono pensare che il problema è il Paese».
E la vecchia guardia del Pri? «Nella mia
sublimazione orgogliosa l'idea di trovarmi
in una cantina mentre il Paese è allo sfascio
non mi preoccupa, mi fa pensare alle mie
origini carbonare».
R
PRIMATI E PRIMARIE
Io, candidata
senza volto
undici anni dopo
Nel 2005 lanciarono la sfida a Prodi con un passamontagna
arcobaleno in testa. Simona Panzino era la voce dei "Disobbedienti": «Oggi in Italia non abbiamo né Podemos né
Syriza. Anche per questo siamo depressi»
Valerio Valentini
Undici anni fa, 13 ottobre 2005. Vannino Chiti,
coordinatore delle primarie che, di lì a un mese,
avrebbero incoronato Romano Prodi leader
dell’Unione, dichiarò: «Se un candidato mi porta le
firme in passamontagna, lo faccio arrestare». Frammenti di storia andati perduti, o quasi: ormai in pochissimi si ricordano del «candidato senza volto»
e della sfida lanciata dai Disobbedienti – questo
il loro nome, all’epoca – all’establishment del centrosinistra. Perfino chi,
di quell’esperienza, fu
protagonista, si stupisce che ci sia ancora chi
voglia parlarne. «Sono
passati dieci anni, ma
come vi è venuto in
mente di intervistare
me?»
Oggi Simona Panzino è responsabile dell’Agenzia dei diritti per il Comune di Roma e attivista di Action, il movimento che lotta per dare
casa a chi ne ha bisogno. Nata a Catanzaro nel
1971, si trasferì nella capitale all’inizio degli anni
Duemila, entrando in contatto con il mondo
antagonista romano. «Devo ammettere che fu
una campagna elettorale molto divertente».
Divertente?
«Ma certo, perché la grande macchina dell’Unione era pronta per l’autocelebrazione. Era la
prima volta che il centrosinistra faceva quest’atto
estremo di democrazia diretta, e noi arrivammo a
fare i guastafeste e a rovinare questa loro sceneggiata. Fu un’irruzione, la nostra, un atto di disobbedienza civile. Arrivai ultima, ma i voti non furono
6
poi così pochi»
Quasi ventimila, in effetti. Ma come nacque
l’idea di quell’improbabile candidatura?
«C’era all’epoca una rete nazionale piuttosto
organizzata di movimenti disobbedienti e centri
sociali. Ma che fossi stata prescelta io, come candidata, lo scoprii praticamente a cose fatte»
In che senso?
«Ne fui informata a fine agosto. Ero in Calabria
a fare la barman, lavoretto stagionale, e ricevetti
una telefonata in cui mi si chiedeva di prestare una
voce a questo candidato senza volto. Il gioco purtroppo durò poco: perché i media non ci misero
molto a scoprire la mia vera identità»
Ma che significato aveva il passamontagna
arcobaleno?
«Rispondeva ad una strategia comunicativa
precisa. Dietro quella maschera poteva esserci
chiunque: un disoccupato, un precario, un senza
casa. Ci fu grande entusiasmo da parte di tutti i
compagni e le compagne. Quando cominciammo a raccogliere le firme in varie regioni d’Italia,
tutti lì che ci chiedevano chi fosse questo candidato, e noi che non lo rivelavamo. In fondo quella di
creare suspense fu un buona trovata. A ripensarci
ora mi viene da ridere»
E perché?
«Perché in fondo quella era un’altra epoca.
Una cosa del genere oggi sarebbe impossibile, e
non solo perché un candidato in passamontagna
verrebbe forse associato all’Isis. Il punto vero è che
i concetti di politica e di rappresentanza si sono
svuotati di senso in maniera assoluta. E questo a
Roma lo viviamo in maniera particolare: è la sta-
gione dei commissari e degli yes-men»
A Roma tra pochi giorni si voterà per le primarie del Pd. Che impressione ha?
«Sono primarie finte, figlie di questa triste stagione politica. Renzi ha già fatto capire che vuole
che vinca Giachetti, e che solo in caso di un suo
successo verrà sbloccato il patto di stabilità. Il Pd
ha perso qualsiasi capacità di relazione con il suo
popolo. È solo una scatola vuota»
Morassut la convince di più?
«No, ti prego. Morassut è l’autore di un piano
regolatore che ha regalato un sacco di metri cubi
ai palazzinari, ansiosi di cementificare in nome della speculazione e non delle reali esigenze abitative
dei cittadini. È per queste ragioni che personaggi del genere non sono minimamente credibili
quando parlano di recupero delle periferie, concetto che per loro equivale alla svendita delle aree
verdi a beneficio dei costruttori»
E quel popolo a cui voi ieri volevate dare
una voce, per chi voterebbe oggi?
«Oggi quel popolo non ha alcuna rappresentanza politica. Fino al 2001, in Italia siamo stati innovatori della lotta civile: basta pensare all’epoca
di Genova e dei No global. Oggi invece non abbiamo né Podemos né Syriza. La crisi di rappresentanza del resto non investe solo i partiti, ma anche i
movimenti e ciò che ne resta. E questo ci fa sentire,
anche noi che pure continuiamo a portare avanti
molte lotte, un po’depressi.
Tre emergenze che Roma deve risolvere al
più presto.
«L’estrema povertà, la questione abitativa e il
problema dei servizi sociali»
R
POLITICA
PRIMATI E PRIMARIE
Vite da gazebo
Il primo e l'ultimo, il vincitore e lo sconfitto. Chi le contesta e chi le pretende. Loiero, Boccia, Civati, Storace, Ottaviani, Calandrini: sei storie, da sinistra a destra
Francesco Malfetano e Silvia Perugi
IL PRECURSORE: «Chi è?» Agazio
Loiero. «E chi è?» risponde l’ufficio
stampa del Pd. Tra i fondatori del Partito Democratico e in procinto di tornare alla base dopo alcuni risultati
sfortunati con un suo gruppo, Loiero
è stato il primo vincitore delle primarie in Italia.
L’innovazione del 2005 servì per
ottenere un nome del centrosinistra
da presentare alle elezioni regionali
in Calabria. Il primo candidato a non
essere deciso a tavolino dalla direzione centrale, ma scelto da un’assemblea ristretta di grandi elettori
accreditati che flirtarono con la democrazia al costo di 10 euro – a Milano, invece, ai gazebo i voti erano in
saldo a 2 euro.
Le primarie sono imprescindibili
in Italia?
«Se un partito o una coalizione trovano un personaggio, con il consen-
3
7
so di tutti, possono essere superate.
In un Paese rissoso come il nostro le
primarie fatte bene, cioè regolamentate, sono il meglio che c’è sulla piazza.»
Servirebbe un testo che le normi?
«Bisogna lavorare molto. Negli
Stati Uniti, per esempio, hanno una
scadenza fissa: a novembre si vota.
Questo dà delle certezze straordinarie al cittadino che vanno al di là degli umori dell’opinione pubblica».
Questione di tempi?
«Nel 2010 ci accordammo con Bersani per rifarle, ma il verdetto arrivò troppo a ridosso delle elezioni. Il
candidato del centrodestra Scoppel-
liti, officiato in pompa magna da Berlusconi, era già ufficiale da un anno e
fu irraggiungibile.»
IL PRIMO SCONFITTO: Pochi
giorni dopo le elezioni primarie per
eleggere il candidato alla presidenza
della Regione Puglia, a Bitonto arrivò il carrozzone elettorale di Nicola
La Torre che concorreva alle elezioni
suppletive al Senato. Francesco Boccia, deputato Pd e attuale presidente
della commissione bilancio alla Camera, fece buon viso a cattivo gioco.
Andò sul palco e l’abbraccio con Prodi, Vendola e La Torre finì su tutti i
giornali bloccando le polemiche.
Non la infastidisce essere considerato il primo sconfitto?
«C’è un po’ di confusione su questa cosa. Nel 2005 persi con il 49,2%
dei consensi. Ci furono dei brogli in
4 città e io li segnalai prima dei termini. Accettai la sconfitta su supplica
di Prodi, la mia fu un’operazione di
generosità che Vendola non ha mai
ammesso pubblicamente.»
Poi le ha rifatte nel 2010 e nel 2012.
«Nel 2010 si trattò di una sconfitta
netta. Però la mia candidatura fu organizzata in pochi giorni per rafforzare il centrosinistra, un’operazione
orchestrata da Bersani per tenerlo
unito. Nel 2012, le primarie Pd per il
Parlamento nella provincia BarlettaAndria-Trani invece fui primo tra 7
candidati.»
Sono uno strumento valido?
«Quando servono perché i gruppi
dirigenti non riescono a sintetizzare
le proprie idee in un candidato è una
sconfitta degli stessi. Sono deboli. Al
contrario quando sono fatte con posizioni politiche diametralmente opposte servono a verificare se la base
è su una posizione o sull’altra. Nel
90% dei casi sono usate per il primo
motivo, invece a Milano c’erano punti di vista diversi »
Eppure la situazione di Milano
non può essere d’esempio.
«Le primarie all’italiana hanno
buchi evidenti. L’ipocrisia del “bello perché votano tutti” è amplificata
dall’assenza di regole. Ora si rischiano nuove situazioni come Milano con
i cinesi, o altri extracomunitari che
magari non hanno neppure diritto di
voto. A questo punto preferirei avere
l’esercito, o le forze di polizia, fuori
dai seggi per garantirne la validità.»
IL PERDENTE (POSSIBILE?): Nel
2013 il Pd voleva cambiare. Renzi sognava di rottamare la vecchia guardia
invocando a gran voce le primarie.
Con il sindaco toscano si presentarono Cuperlo, figlioccio di D’Alema, e
l’outsider Pippo Civati.
Sornione e dalla battuta pronta.
Fu relegato al ruolo di minoranza nella minoranza rottamatrice dal netto
68% di Matteo Renzi. Tuttavia quella
sconfitta con il 14% dei consensi ha
fatto da modesta cassa di risonanza
alla voce di Civati nel Partito Democratico.
Le primarie hanno definitivamente accantonato la politica da sezione?
«Le due cose si sarebbero dovute
tenere insieme: primarie per la scelta del leader e lavoro quotidiano con
consultazioni sulle scelte politiche.
Nel Pd Renzi ha peggiorato una situazione già compromessa sul versante della partecipazione.»
Cosa pensa della situazione milanese?
«Le polemiche di Milano nascondono un’assenza politica. È la mancanza di coraggio di una parte che
non voterebbe il Pd ma continua ad
allearsi con il Pd, per poi magari –
compiendo tutte le contraddizioni
possibili – abbandonarlo in un secondo tempo.»
Sarà stata una critica alle nuove
leve del Partito Democratico da parte di un ex Pd, ma sembra proprio
la descrizione della situazione dello
stesso Civati appena qualche mese
fa.
IL CINGUETTATORE INDIPENDENTE:
Uno che nelle primarie ci ha sperato
fino all’ultimo, e forse ci spera ancora, è Francesco Storace, leader de La
Destra. L’ex presidente della regione
Lazio chiede da mesi al centrodestra
le primarie per la scelta del candida-
to sindaco di Roma. Dopo la decisione del trio Berlusconi, Meloni, Salvini
di puntare su Bertolaso alle prossime
amministrative, a Storace non resta
che correre da indipendente. Quella
di Storace è una politica davvero social e l’intervista è avvenuta via twitter.
E’ l’unico esponente del centrodestra a chiedere con fermezza le
primarie per il comune di Roma.
Perché secondo lei sono necessarie
e perché la destra invece è così titubante su questo tema?
«Le chiedo perché credo nella
sovranità popolare e penso che do-
8
R
PRIMATI E PRIMARIE
vremmo affidarci tutti con responsabilità alla nostra gente, che ci conosce meglio di altri. Forse non le vuole
chi ne teme l'esito».
Al di là del caso Roma, ritiene
che le primarie dovrebbero diventare uno strumento fisiologico per
la scelta dei candidati del centrodestra?
«Si, credo che sia necessario adottarle sempre, ovviamente con un regolamento chiaro. Vanno fatte anche
e soprattutto a livello nazionale».
IL PRIMOGENITO: A Frosinone,
nel 2012, per la prima volta la destra
si è misurata con le primarie per la
scelta del candidato sindaco. Si trattò di “primarie libere”, aperte anche
alle liste civiche. Da qui uscì il nome
dell’avvocato Nicola Ottaviani, che
poi avrebbe vinto le successive elezioni.
Perché a destra il sistema delle
primarie fatica ad affermarsi?
«Purtroppo si pone il problema
della primogenitura. Spesso questo
strumento viene demonizzato perché in Italia dieci anni fa venne portato avanti dall’ex Pds e da quelle
forze che si rifacevano all’Ulivo, finendo per essere accostato ad una
determinata pars politica. Nulla di
più sbagliato. Le primarie, per chi ha
un minimo di reminiscenza storica,
sono di derivazione anglosassone. E
non credo che nei Paesi anglosassoni
ci siano i post comunisti o quelli che
così vengono etichettati nella logica
manichea del rosso e del nero».
Quindi le primarie oggi sono
9
indispensabili?
«Oggi non c’è un’alternativa valida alle primarie, se non ritornare a
quello che era il vecchio meccanismo
delle tessere di partito, che ha ucciso la democrazia, perché ha creato
degli azionariati. L’alternativa alle
primarie poi quale dovrebbe essere?
Il cerchio magico? La bacchetta che
viene utilizzata per indicare Tizio o
Caio che dovrebbero rappresentare
un elettorato senza che nessun elettorato abbia mai avuto la possibilità
di conoscere il delegato?»
IL CANDIDATO: C’è chi le primarie
sta per farle. A Latina a metà marzo
«Nasce da una certezza e da una
necessità. La certezza che di troppa
democrazia nessuno si è mai lamentato e la necessità di rimettere insieme le varie anime del centrodestra
di Latina, uscite ferite dalla caduta
dell’amministrazione comunale ad
opera dell’asse FI-Pd».
Tra polemiche e scetticismo, non
tutte le forze politiche di destra
hanno aderito all'iniziativa, cosa
ne pensa?
«Rispettiamo le posizioni e le idee
di ognuno, anche se, ovviamente,
avremmo preferito un percorso condiviso da tutti fin dall’inizio».
si voterà per scegliere chi rappresenterà la destra alle elezioni comunali
tra gli esponenti di Forza Italia, Fratelli d’Italia e Nuovo Centro Destra.
La Lega ha deciso di non aderire. Il
candidato di Fratelli d’Italia, lo stesso partito del sindaco uscente, sfiduciato, è Nicola Calandrini.
Come nasce la decisione di fare le
primarie per il centrodestra a Latina?
Crede che oggi lo strumento
delle primarie abbia alternative?
«Ribadisco la loro importanza, nel
dare la parola agli elettori fin dall’inizio della campagna elettorale, attraverso la scelta dei candidati che
li andranno a rappresentare nei vari
livelli amministrativi. Anche a Roma
sarebbero state un ottimo esercizio
di democrazia».
E Boccia ancora non molla:
«Nel 2005 ci furono dei brogli. Accettai la sconfitta,
fu un gesto di generosità che Vendola
non ha mai ammesso pubblicamente»
R
I CONTI
A tutti i costi
Qual è il prezzo delle primarie? I bilanci del Pd non lo dicono.
L’ex tesoriere Misiani: «Molto difficile stabilirlo».
La trasparenza può attendere
Antonio Misiani, 47 anni, ex tesoriere nazionale del Pd
Valerio Valentini
Primarie a tutti i costi. Ma qual è il prezzo
della partecipazione? È lecito domandarsi a
quanto ammonta la spesa per eleggere un
segretario nazionale del Partito Democratico? «Sarebbe molto difficile stabilirlo, molto complicato». Ammissione scoraggiante,
soprattutto se a farla è l’ex tesoriere del Pd,
Antonio Misiani, rimasto in carica dal 2009
al 2013. Nelle sue mani sono passati i bilanci relativi agli anni in cui si sono svolte due
delle ultime tre primarie nazionali: quelle
che incoronarono Bersani segretario del
partito prima, e candidato premier poi.
A consultare quei bilanci sul sito del
Pd si rimane delusi, Misiani: non c’è nessuna voce di spesa specifica riferita alle
primarie. Com’è possibile?
«Il punto è che le primarie vengono
gestite a livello locale, e i bilanci dei circoli
sono autonomi rispetto a quelli nazionali.
In questi ultimi, poi, le voci sono più generali: nelle spese della comunicazione, o
dell’organizzazione di eventi, rientrano anche quelle andate a finanziarie le primarie.
Va inoltre tenuto presente che nel 2012 le
consultazioni furono organizzate da una
coalizione che comprendeva anche Sel
(Italia. Bene comune), per cui il discorso si
complica ancora di più»
Ma ciascun circolo stilerà un bilancio
riferito all’organizzazione dell’evento
nel suo territorio?
«Quello deve chiederlo al singolo circolo, perché il dato non confluisce nel bilan-
10
cio del partito nazionale. C’è totale separatezza. Il meccanismo è assai complesso:
nel 2012, ad esempio, sostenemmo una
serie di spese “di struttura” (la campagna di
comunicazione nazionale, la preparazione
e la distribuzione dei kit da inviare sul territorio) finanziandole con una parte dei ricavi ottenuti dal contributo degli elettori,
ovvero i due euro pagati al momento del
voto. E poi trattenemmo una quota dai trasferimenti ai bilanci regionali. È tutto molto
complesso»
Complesso, certo. Ma almeno una stima approssimativa?
«Direi che normalmente alla fine il saldo
è in pareggio, o forse leggermente attivo. E
comunque le spese non superano i cinque
milioni di euro per le primarie nazionali.
Questo è quello che mi sembra di ricordare»
Con l’avvento della rottamazione, la
stagione di Misiani alla tesoreria del partito è terminata. Quella dell’opacità sui conti, quando si tratta delle primarie, no. Uno
dei primi cambiamenti imposti dalla nuova segreteria renziana riguardò proprio la
sorveglianza sulle casse del partito, e condusse alla nomina di Francesco Bonifazi:
fiorentino, consigliere comunale a Palazzo
Vecchio dal 2009. Tesoriere diverso, ma
stessa approssimazione: un rendiconto
ufficiale, per quanto concerne le votazioni
dell’8 dicembre 2013, ancora non c’è. Si è
parlato di un incasso di 4,6milioni a fronte di poco più di un milione di spesa: ma
un riscontro definitivo non è disponibile.
O almeno non sul sito del partito, dove
pure campeggia la scritta “Trasparenza.
Un valore e una pratica del Pd”. Come se
qualcuno potesse dubitarne.
Francesco Bonifazi, 39 anni, fiorentino, attuale tesoriere del Pd
R
POLITICA
IL REPORTAGE
Quell'inutile primato
Viaggio nella terra del premier Matteo. La Toscana è stata la prima regione a regolamentare le primarie.
Ma la legge è già stata abolita. Il segretario fiorentino, Incatasciato, ha i suoi dubbi: «Le mafie a volte inquinano il voto».
La sezione di Rignano sull'Arno la gestiva papà Renzi, «ma qui non si vede più nessuno»
Tommaso Paghi
Partiamo da una bestemmia. E da una storia, che è questa: «La foto di Papa Francesco
lì accanto a Meme non ci può stare. È una
bestemmia». È Matteo Renzi che parla, con
fare ironico, appena entrato nel circolo Pd
della sua Rignano. Di bestemmia ce n’è anche un’altra e per scoprirla basta fare un giro
per la Toscana, la terra del premier e delle primarie. È lì che per la prima volta sono state
regolamentate con una legge approvata dal
Consiglio regionale della Toscana, la n. 70 del
2004. È quella la “bestemmia”. Una legge per
le elezioni regionali che si sarebbero tenute
l'anno seguente. La storia parte dunque da
un piccolo paesino della Val di Sieve. Qui il
premier è cresciuto, qui suo padre Tiziano è
stato consigliere comunale e segretario del
Pd. Una cittadina tranquilla a cui si accede
tramite un angusto ponte a doppio senso di
3
11
marcia che conduce a un sottopasso ferroviario: il confine che separa Rignano dai comuni
limitrofi. Il sindaco Daniele Lorenzini (neanche a dirlo del Pd), di mestiere fa il dentista:
ascolta le lamentele dei cittadini in piazza e
quelle dei pazienti nell'ambulatorio, anche se
spesso e volentieri coincidono. Tutti si conoscono ed è proprio qui che sta il nodo della
questione. «Qui non è come nelle grandi città, sei sempre giudicato, ti ferma chiunque,
per una buca per terra, per un cartello da
sistemare», racconta Antonio Ermini, segretario dell’Unione Comunale del paese. Il contatto con gli elettori è continuo, il rapporto con
il territorio imprescindibile. Se è vero che le
primarie sono uno strumento per mobilitare
la base del partito e rivitalizzare il legame con
il territorio, è facile capire perché siano tanto
importanti per chi è cresciuto in una piccola
realtà come quella.
La strada si snoda in salita e si apre su
piazza XXV Aprile, cuore pulsante della vita
cittadina. Le poste, il supermercato, il circolo
Arci e la farmacia sono tutte condensate lì, in
pochi metri quadrati. E facendo attenzione
ecco comparire anche il circolo del Pd: porta a vetri, infissi di legno e un climatizzatore
all'ingresso. Una sola stanza. Un distillato
della storia della Sinistra: scritti di Marx ed
Engels, Labriola e Gramsci, un piccolo busto di Togliatti, un quadretto in memoria dei
partigiani italiani e una foto di Papa Francesco. A catturare lo sguardo del visitatore non
può che essere, però, il poster in memoria
di Manuele (Meme) Auzzi, storico segretario
dei Ds di Firenze, scomparso nel 2006. «Ciao
Meme», recita il manifesto. «Fosse dipeso da
lui il Segretario del Pd non lo avrei mai fat-
to», fu lo stesso premier a ricordarlo. I due hanno
incrociato più volte la spada. La stima non è mai
venuta meno. La stessa sede del Pd fiorentino è
intitolata a Meme.
E’ questa la seconda tappa del nostro viaggio
alla ricerca della “bestemmia” da cui parte la storia
delle primarie, la legge regionale n. 70 del 2004.
La prima forma di regolamentazione pubblica di
questo istituto.
«Fu un orrore istituzionale vero e proprio, una
scelta completamente sbagliata, ormai sorpassata» racconta l'attuale segretario del Pd di Firenze,
Fabio Incatasciato. «La Toscana decise, soprattutto lo decisero i Ds, di eliminare il sistema delle
preferenze che aveva prodotto situazioni non positive, varie indagini della magistratura. Si voleva
aprire la strada alle liste bloccate, poi riprese dal
Porcellum. Così si decise di mettere primarie istituzionali, finanziate dalla Regione. Si rivelarono
uno strumento usato da un unico partito, i Ds. Gli
altri scelsero liste bloccate senza primarie: poche
persone sceglievano chi doveva fare il consigliere
regionale, con un agglomerato di potere che una
tradizione democratica come quella della Toscana non aveva mai visto». Sulla regolamentazione
pubblica delle primarie sembra avere più di una
perplessità. «Chi vuole fare le primarie le fa da sé.
Si è virtuosi nella misura in cui si sanno fare e organizzare. Non può essere un tema istituzionale, ma
va regolamentata la democrazia interna dei partiti. Alcuni partiti non hanno apertura democratica
verso i propri iscritti: Forza Italia è un partito tutto
verticistico, ma normale rispetto alle assurdità del
M5 Stelle che è una roba quasi indecifrabile».
Di tutt'altro avviso sembra essere Antonio Floridia, responsabile dal 2004 dell'ufficio elettorale
della Regione Toscana e uno dei padri di quella
legge: «Dal punto di vista del modello legislativo
e organizzativo, quel provvedimento ha funzionato benissimo. È stato garanzia di correttezza
procedurale. Ha evitato casi di doppio voto, tramite il ricorso agli elenchi anagrafici pubblici. Il
problema è stato l' uso politico che ne è stato
fatto. La legge fu impiegata in due occasioni, nel
2005 e nel 2010. In entrambi i casi solo due partiti
vi fecero ricorso: DS e lista civica "Toscana Futura"
nel primo, Pd e Sel nel secondo. I costi erano ridotti, ma si trattava sempre di 1 milione di euro.
Una spesa di risorse pubbliche poco giustificabile
e sostenibile per due soli partiti: il rischio era che
assumesse la forma di un finanziamento pubblico indiretto. La storia finisce qui».
Già, la storia si interrompe. Quella legge fu infatti abolita poco dopo. Vita breve e scarso utilizzo, ecco il bilancio che emerge da quell'esperienza sulle primarie regionali in Toscana. E sul fatto
che non siano sempre uno strumento efficace per
selezionare i migliori candidati, il segretario Incatasciato aggiunge: «In alcuni casi si candidano
persone che non rappresentano i valori del partito, per cui se riescono
a vincere in qualche
modo, chi sta dentro
quel partito non li sostiene. Spesso le primarie sono infiltrate,
non da chi è di destra
e vota alle primarie del
Pd, quello è un voto
acquisito, ma da strani movimenti: è il caso del
Sud, dove camorra, ‘ndrangheta e mafia entrano
con forza e drogano sostanzialmente, inquinano
il voto e la partecipazione della gente. Su tanti territori sono un fatto di rottura, non di unione. Bisogna che ci sia un partito che ci lavora. In alcuni casi
ci sono candidati non presentabili».
Giusto sacrificare la qualità dei candidati in
nome della democrazia? È questo il dubbio di
uno strumento che mostra tutte le sue lacune. Il
Pd fiorentino resta convinto dell’importanza delle
primarie e del ruolo che hanno avuto nella storia del partito: «Un partito consolidato, anche se
aperto come il Pd, non era in grado di interpretare
quella voglia di rinnovamento che c'era a Firenze.
Ci volle uno strumento come quello», continua il
segretario Incatasciato.
Una regolamentazione pubblica fallimentare e
una serie di difetti strutturali difficili da superare lasciano aperti una serie di interrogativi sul cavallo di
battaglia del premier. Non che le altre soluzioni diano maggiori garanzie, ma i problemi rimangono.
Le primarie per Renzi come la coperta per Linus,
il bastone per Dottor House e il chupa chups per il
tenente Kojak. La Toscana è stata la prima a regolamentarle. Un toscano le ha rese lo strumento della
sua ascesa politica.
Tutto è nato da un paesino a 20 chilometri da
Firenze e da una “bestemmia”. Adesso il premier
propone questo istituto per l’elezione del presidente della Commissione europea. «Basta con la
tecnocrazia di persone che non sanno più dove sta
la relazione con la gente», attacca Renzi.
Tra Rignano e Bruxelles, però, i chilometri sono
ben 1300, forse troppi anche per un "portatore
sano" di primarie come lui. La Commissione europea può attendere...per adesso.
Quando Renzi fece rimuovere la foto di Papa Francesco.
«Vicino al diessino Meme è una bestemmia»
12
R
POLITICA
LA
STORIA
Compagni coltelli
Rivitalizzarle o cestinarle? Nate nel 2005 per avvicinare la base al gruppo dirigente, adesso le primarie diventano sempre più spesso
un terreno di battaglia per la resa dei conti all'interno del partito di governo
Valerio Valentini
Da un lato i padroni di partito, dall’altro
il popolo dei gazebo. Da un lato i finti congressi del Pdl che terminavano con la conferma per acclamazione del leader, sempre immancabilmente lo stesso. Dall’altro
il confronto franco, la pluralità nell’unità,
il ricorso alla base per decidere segretari
e candidati. È stato questo, per quasi un
decennio, lo storytelling delle primarie.
Dov’è che il meccanismo s’è inceppato?
Come è stato possibile che uno strumento
3
13
di partecipazione civica si sia trasformato
in un’occasione buona per la resa dei conti
di faide intestine? A voler fare un bilancio,
col senno del poi, viene da pensare che
imperfetto, l’esperimento delle primarie lo
sia stato fin dal suo debutto.
Ripartiamo dall’inizio. È il 16 ottobre del
2005, e per Romano Prodi si prospetta l’apoteosi. Il marchingegno elaborato dal suo
fedele Arturo Parisi per un po’ sembra poter funzionare: vincere le primarie, si pen-
sa, servirà al Professore per ottenere una
concreta investitura popolare e vedersi riconosciuto il suo ruolo di leader di quella
coalizione assai eterogenea, popolata da
tanti prim’attori, che è l’Unione. E Prodi
non vince, trionfa, dimostrando tra l’altro la grandezza del bacino elettorale del
“suo” centrosinistra in vista delle politiche
del 2006: 4 milioni e 300mila elettori in fila
in code chilometriche, schede terminate e
ristampate in tutta fretta, quasi diecimila i
seggi, rimasti aperti un’ora più del previsto.
Prodi s’illude che sia abbastanza per ridurre
i suoi compagni di coalizione se non all’obbedienza, bontà loro, quantomeno alla collaborazione, e l’anno dopo torna a Palazzo
Chigi. E invece Bertinotti, arrivato secondo
a quelle primarie (ma distaccato di 60 punti: 74% contro 14%), non perde occasione
per criticare il suo premier; i ministri vicini
al capo di Rifondazone Comunista, eletto
intanto presidente della Camera, scendono
addirittura in piazza per protestare contro
le scelte del premier. «È il governo che mette in discussione se stesso», se la ridono nel
centrodestra. Inevitabile che l’esecutivo di
Romano Prodi abbia vita breve.
Inevitabile anche perché un altro esponente illustre dell’Unione, Walter Veltroni,
pensa bene, mentre il governo è già parecchio traballante, di fondare il Pd. Ricorren-
do, guarda caso, a nuove primarie. E nel
farlo annuncia orgoglioso che di partiti satellite e coalizioni allargate non se ne parla
più: «La prossima volta correremo da soli»,
dichiara l’ex sindaco di Roma. Mastella, leader di uno di quei partiti satellite che fanno
parte di quella coalizione allargata su cui
si regge la maggioranza, sentendosi mancare la terra sotto i piedi toglie la fiducia
all’esecutivo, e Prodi va a casa. Berlusconi
ringrazia: nel 2008 è di nuovo presidente
del consiglio.
Era tutto chiaro, dunque, sin dall’inizio?
Forse. Ma certo è che col passare degli anni,
di sfida leale tra candidati animati dallo
stesso amore per il bene del partito, le primarie hanno perso perfino la parvenza.
Nel 2012 Bersani sconfigge Renzi nel
ballottaggio per designare il candidato
premier del centrosinistra. Il rottamatore
incassa e concede, con una galanteria fin
quasi eccessiva, l’onore delle armi al vincitore. Il momento giusto per consumare la
vendetta arriva nell’aprile del 2013, in occasione delle votazioni per eleggere il successore di Giorgio Napolitano al Quirinale:
tra i 101 che contribuiscono alla defenestrazione di Bersani, c’è infatti anche una
manciata di grandi elettori vicini al sindaco
di Firenze. Il quale, nel frattempo, si prepara alle nuove primarie, quelle dell’8 dicembre, che decideranno la segreteria del
Nazareno. Vince, Renzi, e invoca disciplina: «Chi ha perso esprima pure la sua, poi
però si allinei». Ma chi ha perso non ci sta
ad obbedire: e così Gianni Cuperlo, giunto
secondo a quelle consultazioni, un mese
dopo si dimette da presidente del partito;
Pippo Civati, terzo, di lì a poco abbandonerà la compagnia. Una volta di più, le buone
Le inventa Prodi per legittimare la coalizione che porterà al suo secondo governo.
Serviranno invece per aumentare le ambizioni politiche degli altri candidati.
E solo due anni dopo l'esecutivo cade
14
POLITICA
LA
STORIA
intenzioni di unione e lealtà non reggono
alla prova dei fatti.
E questo accade non solo quando il Pd
convoca i suoi elettori per eleggere il segretario nazionale o l’aspirante premier.
Anche nei territori – anzi soprattutto nei
territori – spesso le primarie partono con
strette di mano e finiscono coi coltelli affilati. È successo di recente in Liguria, dove
Cofferati s’è visto battere, nella sfida interna al Pd per designare il candidato governatore, da Raffaella Paita. E non l’ha
presa bene. Ha fatto ricorso denunciando
anomalie nell’affluenza ai seggi, si è detto sconcertato dal fatto che molti gerarchi
della destra ligure avessero contribuito al
successo della pupilla di Burlando. Renzi
ha liquidato le sue proteste come i capricci
di un bambino che quando perde a calcio
si porta a casa il pallone. E l’ex leader della
Cgil ha abbondonato il Pd. Risultato? Una
delle roccaforti rosse è stata conquistata
dal centrodestra.
A Milano le primarie si sono svolte a
inizio febbraio: le ha vinte Giuseppe Sala,
col 42% dei consensi e, forse, qualche voto
simo sarà non soltanto vincere le elezioni
di giugno, quelle da cui nascerà la nuova
giunta capitolina, ma anche, forse, evitare
che le consultazioni interne si trasformino
nell’ennesimo bagno di sangue tra le varie
correnti. «Nel Pd romano ho visto vere e
proprie piccole associazioni a delinquere»:
così, nel giugno del 2013, Marianna Madia
descriveva le primarie indette dal suo partito per eleggere i candidati deputati e senatori. All’epoca non era ancora ministro
della Pubblica Amministrazione. Fabrizio
Barca, che le storture del Pd romano le
ha analizzate in un dettagliato rapporto
nel giugno scorso, ha parlato di «macchine sempre più sofisticate per il controllo
delle preferenze», che si mettono in moto
soprattutto in occasione delle primarie,
locali e nazionali, divenute «il terreno per
la calibratura continua del peso specifico
delle diverse componenti interne». Il tutto
alimenta, ha spiegato Barca, un «sistema
di conflitto costante» che «è molto dannoso per un partito che ha imparato a comcinese di troppo. Facendo le somme, ci si petere e a trovare bilanciamenti, ma non a
accorge però che Francesca Balzani (34%) cooperare».
e Pierfrancesco Majorino (23%) hanno
Se questa è la democrazia partecipata,
raccolto, insieme, più del super-manager forse il centralismo democratico non era
sponsorizzato da Renzi. Per ora, i due can- poi un’idea così assurda. Chissà che Renzi
didati arancioni, eredi della “rivoluzione” non ci stia pensando.
di Giuliano Pisapia, hanno garantito il fairQuindicinale della Scuola
play: fare squadra e portare la coalizione
Superiore di Giornalismo
“Massimo Baldini”
al successo, questi sono gli imperativi. Ma
la sinistra meneghina, piuttosto variegata,
è in fermento, e la creazione di una canDirettore responsabile
didatura alternativa, che si guadagni l’apRoberto Cotroneo
poggio di Pippo Civati, appare qualcosa di
Ufficio centrale
più che un’ipotesi. E a quel punto, anche
Giampiero Timossi, Gianni Lucarini
la fedeltà dell’ala sinistra del Pd alla linea
Progettazione grafica e impaginazione
Claudio Cavalensi
moderata imposta da Sala diventerebbe
non più scontata.
Redazione
Viale Pola, 12 - 00198 Roma
E poi c’è Roma, dove i gazebo per scetel. 06.85225358 - fax 06.85225515
gliere il candidato del Pd al Campidoglio
Stampa
si apriranno il 6 marzo. Sei i candidati, con
Centro riproduzione dell’Università
Roberto Giachetti favorito e l’altro Roberto, Morassut, costretto a rincorrere. «PriReg. Tribunale di Roma n. 15/08
del 21 gennaio 2008
marie farsa», le ha definite Ignazio Marino,
invitando i suoi elettori a sabotarle. [email protected] - www.reporternuovo.it
ziani a parte, comunque, la missione per
il Pd appare davvero impossibile: difficilis-
R
15