Tavole rotonde - Clinica Dermatologica

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Tavole rotonde - Clinica Dermatologica
Tavole rotonde
Il dolore associato all’herpes zoster
• Vena GA, Cassano N
U.O. Dermatologia II, Dipartimento M.I.D.I.M., Università degli Studi di Bari
La sintomatologia dolorosa che caratterizza l’herpes zoster è piuttosto variabile in termini qualitativi e quantitativi ed imprevedibile nel
suo decorso. Il dolore e/o disturbi sensoriali possono comparire già prima della comparsa dell’eruzione cutanea; quindi accompagnano
la fase acuta dell’herpes zoster in quasi tutti i pazienti. In molti casi, la sintomatologia si risolve parallelamente alla guarigione del rash
cutaneo, in altri si riduce gradualmente fino a scomparire in tempi lievemente più lunghi di quelli richiesti per la remissione delle lesioni cutanee, mentre in altri casi ancora la sintomatologia acuta cede il passo ad una cronica (nevralgia post-erpetica) senza soluzione di
continuo oppure dopo periodi liberi dal dolore, anche prolungati.
Per lungo tempo, la nevralgia post-erpetica è stata definita in modo piuttosto eterogeneo, creando difficoltà nella corretta interpretazione di dati epidemiologici e terapeutici. Attualmente si tende a raggruppare tutti i tipi di dolore correlati con lo zoster, anche in fasi
diverse, sotto il termine di “dolore associato all’herpes zoster”.
Una classificazione meno arbitraria, recentemente proposta, prevede che le fasi della sintomatologia dolorosa vengano distinte in acuta, subacuta e cronica, facendo perciò corrispondere la nevralgia post-erpetica ad una sindrome dolorosa cronica in conformità ai criteri della “International Association for the Study of Pain”. Ad ogni modo rimane molto difficile l’esatta determinazione del dolore associato allo zoster, in termini sia qualitativi che quantitativi, per la natura puramente soggettiva della sintomatologia e per la carenza di
metodi obiettivi e riproducibili di misurazione.
Da un punto di vista patogenetico, si ritiene che il dolore associato all’herpes zoster sia di tipo neuropatico, legato, cioè, ad alterazioni
degenerative delle strutture nervose e ad alterata processazione dei segnali a livello periferico e centrale. Si è anche ipotizzato che la
nevralgia post-erpetica possa derivare da uno stato infiammatorio persistente. Il rischio di nevralgia post-erpetica e di dolore più duraturo ed intrattabile aumenta con l’età. Sono stati implicati altri fattori di rischio, il cui ruolo però risulta tuttora controverso.
Gestione del paziente con herpes zoster
• Volpi A
Dipartimento di Sanità Pubblica - Università di Roma “Tor Vergata”
In Italia si verificano mediamente 4,14 casi di Herpes zoster/1000 adulti/anno. La complicanza più frequentemente osservata è un prolungato dolore associato allo zoster, definito nevralgia post-erpetica che interessa fino 1/5 della totalità dei pazienti ed oltre i 3/4 di coloro che presentano complicanze. Lo zoster oftalmico si riscontra in circa il 6% dei pazienti, il 20% dei quali presentano complicanze oculari. Inoltre Il 5 % dei pazienti con zoster presenta paralisi motorie più o meno evidenti. L’80% delle complicanze si osserva in individui
di età superiore a 45 anni. Poiché la malattia e le sue complicanze sono il frutto dell’azione di un virus sensibile a farmaci antierpetici,
l’approccio più logico è quello di intervenire con terapia antivirale. Numerosi studi clinici hanno ormai chiaramente dimostrato che la terapia antivirale, se iniziata precocemente (entro 24 ore e comunque non oltre le 72 dall’esordio), riduce notevolmente non solo la comparsa di nuove lesioni e il tempo di risoluzione delle manifestazioni cutanee, ma anche l’intensità e la durata del dolore sia acuto che cronico. Per questi motivi linee guida internazionali sono ormai concordi nell’indicare la terapia antivirale nei soggetti con
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intenso dolore acuto, perché più facilmente vanno incontro a nevralgia post-erpetica,
Herpes zoster oftalmico,
sindrome di Ramsay Hunt,
in tutti i pazienti con oltre 50 anni di età, poiché tra questi soggetti circa il 50-60% presenta ancora dolore dopo un mese dall’esordio della malattia e circa il 10-15% dopo 6 mesi, con gravi ripercussioni sulla qualità della vita.
In caso di Herpes zoster oftalmico o sindrome di Ramsay Hunt, un’eventuale terapia tardiva, entro una settimana dall’esordio delle manifestazioni cutanee, può ancora dare qualche beneficio. L’aggiunta di steroidi (40 mg di prednisone al giorno per 7 giorni) non ha dimostrato grandi vantaggi sulla nevralgia post erpetica, anche se induce un miglioramento della qualità di vita nella fase acuta di malattia.
Terapie antivirali prolungate oltre 7 giorni non danno alcun vantaggio e terapie antivirali, a distanza dall’episodio acuto, sono inefficaci nel trattamento della nevralgia post-erpetica.
Dal momento che lo scopo della terapia antivirale è quello di ridurre la gravità della malattia e le sue complicanze e di diminuire la possibilità di trasmissione dell’infezione, gli attributi essenziali richiesti ad un farmaco antivirale per questa patologia, oltre l’efficacia, sono
la rapidità d’azione, la sicurezza e la convenienza del dosaggio. In particolare, quest’ultima caratteristica assume notevole importanza
nel paziente anziano, in cui la somministrazione di antivirali per zoster è particolarmente indicata e spesso si aggiunge a terapie croniche con numerosi altri farmaci.
Ad oggi i farmaci efficaci nei confronti del virus varicella zoster sono 5, di cui 4 analoghi nucleosidici, aciclovir, penciclovir brivudina e
ganciclovir, ed un analogo del pirofosfato, foscarnet. Ganciclovir e foscarnet non vengono in pratica utilizzati per la loro relativa tossicità. Aciclovir per la scarsa biodisponibilità necessita di 5 somministrazioni giornaliere e l’assorbimento di penciclovir dopo somministrazione per via orale è praticamente nullo. I due profarmaci sintetizzati per ovviare questi limiti, valaciclovir e famciclovir, rispettivamente, pur avendo una discreta biodisponibilità, necessitano di 3 somministrazioni giornaliere. Brivudina per la prolungata emivita plasmatica ed intracellulare è efficace in monosomministrazione giornaliera.
Importante è il controllo del dolore che si avvale principalmente di farmaci antidolorifici, antidepressivi e anticonvulsivanti
Patogenesi della dermatite atopica, meccanismo d’azione di tacrolimus ed indicazioni su altre
patologie dermatologiche
• Girolomoni G
Istituto Dermopatico dell’Immacolata, IRCCS, Roma
La dermatite atopica (DA) è una patologia infiammatoria cronica che deriva da un’iperreattività cutanea a una serie di stimoli ambientali. Le manifestazioni cutanee sono la conseguenza delle alterazioni della barriera epidermica e di risposte immunitarie dirette contro
allergeni. Alterazioni genetiche favoriscono le risposte IgE-mediate ma possono contribuire a rendere le cellule cutanee residenti (cheratinociti) particolarmente prone a produrre aumentati livelli di fattori di crescita, citochine e chemochine, che a loro volta facilitano l’accumulo nella cute e l’attivazione delle cellule dendritiche e dei linfociti T. La flogosi prevalentemente Th2-mediata favorisce l’adesione
e l’accumulo di S. aureo sull’epidermide, e la difettosa produzione di peptidi antimicrobici da parte dei cheratinociti. L’approccio al paziente con DA prevede il riconoscimento e la rimozione dei fattori ambientali scatenanti. La terapia locale della DA è sufficiente a controllare la malattia nella maggior parte dei casi. Questa si avvale di un’adeguata cura della cute, di corticosteroidi e degli inibitori della
calcineurina (tacrolimus e pimecrolimus). Il tacrolimus lega un recettore citoplasmatico denominato FK Binding Protein 12 (FKBP12) e inibisce l’attivazione della calcineurina, bloccando quindi la sintesi di fattori di crescita per i linfociti T (IL-2, IL-4) e di citochine proinfiammatorie (IL-5, GM-CSF, TNF-α). L’affinità del tacrolimus per FKBP12 è più elevata di quella del pimecrolimus. Il tacrolimus agisce inoltre
anche sulle cellule dendritiche, gli eosinofili e i mastociti. Per il suo alto peso molecolare (822 KD) viene assorbito solo dalla cute malata e poco da quella sana, con graduale riduzione dell’assorbimento man mano che l’eczema guarisce. I livelli circolanti del farmaco risultano indosabili o molto bassi anche quando applicato su vaste aree cutanee e per periodi prolungati. Numerosi studi clinici controllati hanno dimostrato l’efficacia del tacrolimus nella terapia a breve e a lungo termine della DA sia del bambino che dell’adulto. Inoltre,
il tacrolimus ha mostrato una efficacia terapeutica simile o superiore a quella di corticosteroidi topici di media potenza. La terapia con
tacrolimus topico non comporta sostanziali effetti collaterali. L’evento avverso più comune è una transitoria sensazione di bruciore che
scompare dopo i primi giorni di trattamento. Più recentemente l’impiego del tacrolimus topico si è esteso a numerose altre patologie dermatologiche. In particolare, il farmaco si è dimostrato efficace nella terapia della psoriasi del volto e delle pieghe, dermatiti delle palpebre, dermatite seborroica, vitiligine, lichen planus orale erosivo, lichen sclero-atrofico genitale, malattia di Hailey-Hailey, pioderma gan-
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grenoso, lesioni cutanee non ipercheratosiche di lupus, dermatomiosite e GVHD. In tutte queste patologie, il tacrolimus si prospetta come un valido ausilio terapeutici, soprattutto se inserito in una strategia rotazionale che sia attenta agli effetti indesiderati dei corticosteroidi
topici.
Utilizzo di Tacrolimus unguento negli adulti con dermatite atopica
• Vena GA, Cassano N
U.O. Dermatologia II, Dipartimento M.I.D.I.M., Università degli Studi di Bari
Tacrolimus è un macrolide lattone estratto per fermentazione dallo Streptomyces tsukubaensis, disponibile nella formulazione topica di
unguento in vari Paesi del mondo, Italia compresa, per il trattamento della dermatite atopica (DA) moderata/severa. Per quest’indicazione,
sono state condotte numerose sperimentazioni cliniche su pazienti adulti, inclusi studi controllati nei confronti di placebo e di farmaci
corticosteroidei topici, che hanno dimostrato l’efficacia e tollerabilità del farmaco. La risposta della DA al trattamento con tacrolimus è
in genere rapida e si mantiene anche nel corso di trattamenti prolungati, con notevole riduzione del rischio di flare-up e senza apparente
comparsa di tachifilassi. Non è stato riscontrato alcun potere atrofogenico di tacrolimus, anche in corso di terapie a lungo termine, a differenza dei corticosteroidi. Nonostante l’elevato peso molecolare, tacrolimus, veicolato in unguento, viene assorbito dalla cute; il livello di assorbimento cutaneo è maggiore nella cute affetta da DA e minore nella cute integra. In studi randomizzati, in doppio cieco, è stato dimostrato che l’assorbimento sistemico dopo applicazione topica di tacrolimus si mantiene al di sotto del limite di quantificazione
del metodo utilizzato nella maggior parte dei pazienti. Quando rilevabile, la concentrazione ematica è risultata transitoria e non ha dato luogo ad effetti sistemici. Non è mai stato osservato accumulo di tacrolimus topico. Gli effetti collaterali più comuni segnalati in studi a breve ed a lungo termine sono stati transitori e di lieve intensità nella maggior parte dei pazienti trattati. Tra questi effetti i più frequenti sono rappresentati da reazioni locali in sede di applicazione di intensità lieve/moderata che tendono solitamente alla risoluzione
spontanea nell’arco di pochi giorni.
Metanalisi dell’efficacia clinica
• Garcovich A
Clinica Dermatologica - Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
La ciclosporina A (CyA) è un farmaco immunomodulante introdotto nella terapia sistemica della psoriasi circa 20 anni fa. Il primo articolo relativo ad una sua attività nella psoriasi risale al 1979. L’impiego della ciclosporina ha dato un contributo fondamentale alla comprensione dei meccanismi immunitari che sono alla base di questa malattia ed in particolare al ruolo che i linfociti T rivestono nell’attivazione e nel mantenimento del processo infiammatorio, nel reclutamento dei monociti e nella proliferazione dei cheratinociti. La sua
efficacia clinica è stata dimostrata in numerosi studi controllati, randomizzati, a breve e lungo termine nella psoriasi volgare diffusa, nella psoriasi eritrodermica, nella psoriasi pustolosa. A partire dal 1995 con la nuova formulazione in microemulsione è aumentata la biodisponibilità del principio attivo e si è ridotta la variabilità della farmacocinetica dopo somministrazione per via orale. La constatazione
del buon rapporto rischio-beneficio e l’adozione di regimi di trattamento discontinui, intermittenti, hanno consentito di estendere l’impiego della ciclosporina anche a forme meno gravi di psoriasi, con localizzazioni particolari (viso, cuoio capelluto, mani, piedi, cute visibile) che sono responsabili di gravi problemi psicologici, occupazionali e relazionali.
In seguito a metanalisi dei numerosi studi clinici apparsi sulla letteratura internazionale si possono ricavare alcune considerazioni sull’efficacia del trattamento con CyA nelle varie forme cliniche di psoriasi, sul dosaggio, sul trattamento continuato o intermittente, i tempi di remissione, le recidive.
Efficacia in tutte le varianti cliniche: è stata osservata sulle forme di psoriasi a placche diffusa, guttata eruttiva, eritrodermica, pustolosa
diffusa, pustolosa palmo-plantare, distrofia ungueale (tempi lunghi)
Dosaggio. Dosi di CyA da 2.5 a 5 mg/kg/die sono associate ad un’ottima risposta clinica. La dose più frequentemente utilizzata è di
3mg/kg/die. Dosi di 5.0 mg/kg/die sono associate ad un aumento della risposta clinica rispetto a 2.5 mg. Dosi superiori a 5 mg sono più
efficaci ma determinano maggiori effetti collaterali (aumento della creatinina).
La terapia di mantenimento richiede dosi di 3.0-3.5 mg/kg/die ed è più efficace se somministrata in modo continuo, tuttavia i rischi di
effetti collaterali sono più marcati se il trattamento è continuo anziché intermittente.
Terapia intermittente: Brevi cicli intermittenti di trattamento (non oltre 12 settimane) con ciclosporina microemulsionata, ripetuti fi-
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no a due anni, sono efficaci nei pazienti affetti da psoriasi a placche clinicamente moderata o grave, migliorando il profilo di tollerabilità rispetto al trattamento continuo.
Basse dosi di CyA sembrano più efficaci dell’etetrinato. L’aggiunta di calcipotriolo ha un effetto additivo sulla risposta clinica.
Remissione clinica e recidive: La remissione clinica si ottiene entro due mesi con dose piena. Le recidive sono meno frequenti e più ritardate in soggetti che ottengono la remissione completa.
L’assenza di “rebound” sintomatologico dopo sospensione del trattamento è un dato ormai ben documentato. In uno studio recente è
stato osservato che il tempo di comparsa della recidiva era di 113 giorni in soggetti sottoposti a riduzione graduale del dosaggio versus
109 giorni in caso di sospensione brusca.
La scelta del dosaggio giornaliero dipende in ogni caso dall’esperienza del medico e dalle condizioni cutanee e generali del paziente
(gravità della psoriasi, malattie o terapie concomitanti), tenendo presente che dosaggio maggiore = maggiore rapidità d’azione e dosaggio
minore = maggiore tollerabilità. Il range terapeutico deve essere comunque compreso tra 2,5 e 5mg/kg/die.
Safety dal trapianto alla dermatologia
• Ponticelli C
Divisione di Nefrologia - Ospedale Maggiore di Milano
La ciclosporina (CsA) è un potente immunosoppressore che agisce principalmente inibendo la sintesi di Il-2 ed altre citochine, prevenendo quindi l’attivazione dei linfociti T. Grazie a questo meccanismo d’azione la CsA è largamente utilizzata nella terapia delle malattie autoimmuni. È noto che la CsA esercita a livello renale un potente effetto vasocostrittore che può determinare una riduzione della
filtrazione glomerulare con conseguente aumento della creainina plasmatica, dell’uricemia e della pressione arteriosa. Tale effetto è dose-dipendente e reversibile. Nei casi più gravi si possono sviluppare lesioni istologiche irreversibili e disfunzione renale progressiva. Tali
casi sono stati osservati nei riceventi un trapianto d’organo, in cui erano state usate dosi elevate e continuative di CsA. In pazienti non
trapiantati la nefrotossicità della CsA può essere agevolmente prevenuta seguendo alcune precauzioni:
• la CsA non deve essere somministrata in pazienti con valori di creatinina clearance inferiori a 60 ml/min, o con ipertensione grave
• i livelli ematici basali di CsA vanno mantenuti tra 75 e 125 ng/ml
• va monitorata regolarmente la creatininemia. Se durante la terapia i livelli superano del 30% quelli basali, la CsA va ridotta, se li superano del 50% la CsA va sospesa fino al ritorno ai valori basali
• in caso di remissione della malattia le dosi di CsA vanno ridotte molto lentamente cercando la dose minima efficace per la terapia di
mantenimento
• va evitato l’uso contemporaneo di farmaci potenzialmente nefrotossici (FANS, aminoglicosidi, fluorochinolonici etc)
• va modificato il dosaggio della CsA se si usano contemporaneamente farmaci che aumentano i livell ematici di CsA (calcio antagonisti nondiidropiridinici, macrolidi, derivati conazolici) o li abbassano (rifampcina, barbiturici, carbamazepina etc).
Con queste misure preventive, è possibile evitare la nefrotossicità nella maggior parte dei casi.
Cheratosi attinica: un trattamento anti-infiammatorio o infiammatorio?
• Vena GA, Cassano N
U.O. Dermatologia II, Dipartimento M.I.D.I.M., Università degli Studi di Bari
La ciclo-ossigenasi (COX) di tipo 2 sembra svolgere un ruolo importante nella patogenesi delle cheratosi attiniche e dei tumori cutanei
di natura epiteliale. Studi immunoistochimici hanno evidenziato un’esaltata espressione di COX-2 a livello di cheratosi attiniche e di tumori cutanei epiteliali (epiteliomi basocellulari e spinocellulari, morbo di Bowen). L’attività di questo enzima nella cute aumenta in maniera marcata dopo esposizione alle radiazioni UV.
Studi in vitro hanno dimostrato che il diclofenac in combinazione ad acido ialuronico sopprime la crescita di tumori epiteliali ed i fenomeni di neoangiogenesi cutanea mediante molteplici meccanismi. L’acido ialuronico garantisce una maggiore biodisponibilità e persistenza di diclofenac nell’epidermide e sembra esercitare anche un effetto sinergico diretto sulla crescita tumorale.
La nuova associazione diclofenac/acido ialuronico rappresenta quindi un approccio terapeutico innovativo alle cheratosi attiniche rispetto ad altri trattamenti che esercitano invece effetti proinfiammatori.
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I farmaci biologici
• Chimenti S
Clinica Dermatologica - Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
I farmaci biologici sono una classe di molecole farmacologicamente attive prodotte, mediante tecnologia del DNA ricombinante, a partire da organismi viventi. Il termine “biologico” è dovuto al fatto che la loro azione farmacologica “imita” quella di molecole costitutive dell’organismo, come ormoni, citochine, recettori od anticorpi. A partire dagli anni ’80, con l’introduzione dell’insulina biosintetica
prodotta in laboratorio ibridando il gene umano con DNA di ceppi di Escherichia coli, questa nuova classe di farmaci ha determinato un
vera e propria rivoluzione nell’approccio terapeutico di numerose patologie, tra cui, più recentemente, la psoriasi. I farmaci biologici offrono, rispetto ai trattamenti tradizionali di tipo “chimico”, notevoli vantaggi. L’acquisizione di conoscenze sempre più approfondite sui
fini meccanismi immunologici alla base dell’infiammazione psoriasica, infatti, ha permesso di sviluppare molecole in grado di agire su di
una sola citochina, determinando una riduzione della flogosi a livello cutaneo ed articolare senza causare immunosoppressione generalizzata. Questa elevata specificità d’azione, accanto alla natura generalmente proteica di queste molecole, si traduce, inoltre, in una
contemporanea riduzione del numero e dell’entità degli effetti collaterali.
In questa presenta presentazione verrà illustrata la nostra esperienza, maturata nel corso degli ultimi 3 anni, nell’utilizzo dei differenti
farmaci biologici nel trattamento della psoriasi e di altre patologie infiammatorie della cute.
Perché il trattamento continuo migliora la qualità di vita del paziente?
• Maccarone M
Presidente ADIPSO -Roma
La psoriasi, come è noto, è una malattia cronica, invalidante e di cui non è ben noto l’agente etiologico. Per tali motivi, la cura non è e
non può essere definitiva, ma non per questo medico e paziente devono rimanere passivi nei confronti dell’evoluzione della malattia.
L’obiettivo primario, che ci si deve prefiggere, è quello di tenerla sotto controllo il più possibile e per fare ciò il paziente deve ricorrere a
trattamenti continui.
D’altra parte la malattia ha un impatto fortemente negativo su attività giornaliere quali:
• Scelta del vestiario;
• Pratiche igieniche (necessità di lavarsi e cambiarsi spesso);
• Attività sportive (difficoltà nel farle e nell’essere accettati);
• Disturbi del sonno;
• Attività scolastiche e lavorative;
• Relazioni sessuali.
Tutto questo significa, da parte del paziente, dedicare a sé stesso una parte del tempo a disposizione, con l’obiettivo di un miglioramento della salute della pelle.
La piena presa di coscienza di tutto ciò porterà a benefici effetti sulla psiche e sulla qualità di vita del paziente psoriasico.
Esperienza clinica con efalizumab
• Peris K
Clinica Dermatologica, Università degli Studi di L’Aquila
L’efalizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato diretto verso la subunità CD11a dell’LFA1, che impedisce l’interazione tra LFA1 e
ICAM1 inibendo quindi l’attivazione dei linfociti T e la loro migrazione dal circolo ematico alla cute. Numerosi trial clinici di fase III, che
hanno incluso oltre 2000 pazienti, hanno dimostrato l’efficacia e la tollerabilità dell’efalizumab nel trattamento della psoriasi moderata/severa (PASI≥12). Lo schema terapeutico prevedeva la somministrazione di efalizumab per via sottocutanea 1 volta la settimana al
dosaggio di 0.7 mg/kg per la prima iniezione (fase di induzione) seguita da 1 mg/kg per un periodo complessivo di 12 settimane di trattamento. L’impiego di tale schema terapeutico ha permesso di ottenere il PASI 50 nel 60% circa dei pazienti ed il PASI 75 nel 30% dei
pazienti. Gli effetti collaterali più frequentemente riportati includevano cefalea e sintomi simil-influenzali, mentre non è stato osservato un aumentato rischio di infezioni o di neoplasie maligne. È inoltre da notare che, dopo la 3a iniezione, gli effetti collaterali non diffe-
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rivano tra il gruppo di pazienti in trattamento ed il gruppo di controllo cui era stato somministrato il placebo. Successivi studi clinici hanno dimostrato che, effettuando un trattamento prolungato (fino a 24 settimane) con efalizumab, l’efficacia del farmaco aumenta ulteriormente ottenendo un PASI 75 nel 44% dei pazienti, mantenendo lo stesso profilo di sicurezza. Recentemente, è stato eseguito uno
studio multicentrico di fase III, in doppio cieco, controllato vs placebo, condotto in numerosi Paesi tra cui l’Italia, che aveva l’obiettivo di
valutare l’efficacia e la tollerabilità dell’efalizumab in pazienti affetti da psoriasi di grado moderato/severo resistenti a precedenti trattamenti terapeutici. I dati disponibili dimostrano che l’efalizumab è un farmaco efficace e ben tollerato nel trattamento della psoriasi moderata/severa, e che può essere impiegato per lunghi periodi di tempo senza indurre una tossicità d’organo.
Etiopatogenesi della psoriasi
• Pincelli C
Clinica Dermatologica-Università di Modena e Reggio Emilia
La psoriasi è una dermatosi cronica, infiammatoria e iperproliferativa che colpisce circa il 2% della popolazione generale dei paesi occidentali. È definita come una malattia multigenica scatenata da fattori ambientali ed è caratterizzata da iperproliferazione dei cheratinociti,
presenza nella epidermide di leucociti polimorfonucleati e infiltrazione mononucleare a livello del derma papillare e dell’epidermide.
Nell’etiopatogenesi della malattia si annoverano anzitutto fattori genetici come dimostrato da numerosi studi di associazione con i loci
HLA e il coinvolgimento di numerose regioni cromosomiche (PSOR1-7). A questi si sovrappongono senza dubbio fattori ambientali come le infezioni (streptococco, HIV), i farmaci (litio, beta-bloccandi, clorochina), i traumi (fenomeno di Koebner) gli stress psicologici, che
sono stati identificati soprattutto come elementi scatenanti della malattia e delle recidive. Dall’osservazione istologica appare poi evidente
che uno dei momenti patogenetici vada identificato nell’iperproliferazione dei cheratinociti e nella loro abnorme differenziazione. A
questo riguardo sembra rivestire un ruolo fondamentale la fine regolazione dell’omeostasi tra proliferazione, differenziazione ed apoptosi regolata, tra l’altro dal sistema delle neurotrofine e dei loro recettori. Non a caso un ruolo importante nella terapia della psoriasi è
riservato ai farmaci, come i retinoidi, che agicono sulla regolazione del ciclo cellulare. L’osservazione istopatologica di dilatazioni capillari, proliferazione vasale e neovascolarizzazione a livello della cute psoriasica rivela un ruolo patogenetico anche per la componente
vascolare. Infine un ruolo patogenetico fondamentale, come dimostra la grande attenzione ricevuta dalla ricerca degli ultimi 20 anni, è
rivestito dalla componente immunologica. È consolidato infatti che i linfociti T attivati (in particolare i Th1) e le citochine da loro prodotte
abbiano un ruolo chiave nel causare e mantenere le lesioni psoriasiche e che numerosissime terapie, tra cui i nuovi farmaci biologici,
agiscano proprio a questo livello.
Efficacia antiossidante di un nuovo trattamento antietà sistemico: evidenze cliniche sperimentali
• Accinni R*, Bocchietto E**, Bernacchi F***, Pecis L**
* Istituto di Fisiologia Clinica del CNR, Milano; ** Icim International, Milano; *** Riservice, Milano
È noto che il processo di invecchiamento biologico è il risultato di un progressivo sbilanciamento dell’equilibrio tra stress ossidativo e
capacità antiossidante totale del metabolismo. Una parte di questo processo è geneticamente determinata, ma per due terzi è dipendente da fattori ambientali e dallo stile di vita: alimentazione, fumo,esposizione UV, attività fisica, stress emotivo incidono in maniera notevole sulla velocità con cui l’invecchiamento avanza.
Diversi lavori scientifici sostengono l’importanza di una corretta supplementazione con vitamine e antiossidanti nel contrastare i danni
dovuti all’invecchiamento, ma spesso viene sottovalutata l’importanza di un corretto dosaggio e varietà di questi principi attivi nella
somministrazione sistemica. L’eccesso o lo squilibrio di singoli attivi possono infatti non risultare efficaci o addirittura causare effetti opposti a quelli ricercati.
In questo studio abbiamo voluto valutare l’efficacia di una nuova formulazione bilanciata a base di antiossidanti a largo spettro (L-carnosina, β-glucano, Vit. E, CoeQ10, β-carotene, Zn, Se) e aminoacidi precursori del collagene (L-Pro e L-Lys) nel migliorare la capacità
antiossidante dell’organismo.
In un test contro placebo effettuato su 30 volontari trattati per 30 giorni con 1 compressa/die, sono stati quindi valutati, a livello ematico, il titolo delle specie reattive dell’ossigeno (dRoms) e la capacità antiossidante totale (CAT) intesa come somma dei sistemi antiossidanti fisiologici (Tioli, acido urico, vitamine, glutatione, enzimi etc.). A tal fine, è stato selezionato un gruppo di soggetti sani, di età
compresa tra 38 ed 80 anni, con valori basali di dRoms e CAT compresi entro i normali livelli fisiologici, evidenziando alla fine del pur bre-
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ve trattamento un notevole miglioramento dei parametri indagati, decisamente significativo rispetto al placebo.
L’assunzione dell’integratore agisce quindi efficacemente nel contrastare i processi ossidativi che sono direttamente responsabili dell’invecchiamento biologico in gene
Novità nel trattamento anti-aging: impiego di inibitori delle metalloproteinasi e di peptidi ad
azione botulino-simile
• Perosino E**, Pecis L*, Bocchietto E*, Garcovich A***
* Icim International, Milano; ** Specialista in Dermatologia, Roma; ***Università Cattolica del Sacro Cuore- Clinica Dermatologica,
Roma
Nel panorama dei nuovi principi attivi cosmetici antietà, l’impiego di biopeptidi sta sempre più imponendosi per la loro efficacia e pleiotropia d’azione e per l’assenza di effetti tossici e collaterali. La maggior parte di questi peptidi ha un’azione bio-mimetica, simula cioè
l’effetto biologico che si ottiene con proteine native molto più complesse, pur contenendo solo una piccola parte della porzione riconosciuta attiva della molecola. Per lo più si tratta di peptidi sintetizzati ad hoc o ottenuti per biotecnologia, che riproducono specifiche
sequenze della proteina umana, e che sono stati selezionati in funzione dell’attività biologica ricercata. È il caso per esempio dei peptidi inibitori delle metalloproteinasi della matrice extracellulare (TIMPs).
Le metalloproteinasi (MMPs) sono enzimi come le collagenasi e le gelatinasi, fortemente coinvolti nella degradazione delle fibre strutturali della matrice del derma, la cui azione si intensifica con l’età ed in seguito a stress ossidativo. La loro inibizione consente di ritardare i processi di senescenza cutanea, in particolare legati al fotoinvecchiamento, aumentando il tono della cute e rendendola meno soggetta a infiammazioni.
In particolare, abbiamo qui studiato l’efficacia antietà di un prodotto contenente, oltre ai TIMPs, anche un singolo peptide ad azione botulino-simile, che a livello topico si è rivelato in grado di favorire la distensione delle rughe d’espressione in tempi relativamente brevi.
Nel caso specifico, i volontari sono stati sottoposti ad un trattamento antirughe completo, composto dall’applicazione dell’emulsione antietà in oggetto, accompagnata dall’applicazione di un gel antiossidante e in un secondo gruppo di controllo da una specifica supplementazione orale volta a contrastare l’invecchiamento cutaneo.
Il trattamento topico quotidiano eseguito su 15 soggetti sani con applicazione half-face, ha evidenziato in soli 30 giorni un notevole
miglioramento dei parametri strumentali indagati (profilometria, elasticità, idratazione) rispetto alla parte controlaterale non trattata.
Tale miglioramento è ancora più rilevante nel gruppo di volontari trattati con il prodotto topico e con l’integratore antietà.
Clinical efficacy of MAL-PDT
• Braathen LR
Dermatological University Clinic, Inselspital, Berne, Switzerland
Methyl-amino-levulinate (MAL) 16% in a cream-base is registered under the name Metvix in many European countries. The drug is specifically taken up by the metabolically highly active malignant cells in actinic keratosis, basocellular carcinomas, Bowen’s Disease and
spinocellular carcinomas. In these cells MAL enters the haem biosynthesis pathway to produce large amounts of the photosensitive substance protoporphyrin IX. Upon illumination with Woods Light, the procedure can be used to detect the true distribution of a cancer.
This is called fluorescence diagnosis. Illuminated with red light, free oxygen radicals are produced, which kills the cells. This is the photodynamic therapy.
Dose-finding studies demonstrated an optimal treatment efficacy after 3 hours occlusive application time.
A significant number of controlled studies have been performed with Metvix. In actinic keratosis complete response rates up to 90% have been achieved and in basocellular carcinomas complete response rates similar to cryotherapy. In high risk basocellular carcinomas, i.e.
lesions in mid-face and on the ears, very large lesions, recurrent lesions, and lesions in areas with severely sun-damaged skin, histologically verified complete response rates up to 75% were achieved.
An important advantage of MAL-photodynamic therapy (PDT) is the excellent cosmetic outcome which is superior to other therapies.
The patients therefore prefer MAL-PDT to other therapy-modalities.
MAL-PDT is mainly indicated for precancerous and cancerous lesions, and is therefore particularly suitable for treatment of larger sundamaged cancer-prone areas, the so-called field-cancerisation areas. PDT has however, also been used to treat other dermatosis like
warts, psoriasis, acne and others.
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In conclusion, MAL-PDT is an evidence based treatment which is simple to perform, is well tolerated, show excellent clinical results and
superior cosmetic outcome, and is therefore preferred by both patients and physicians.
Terapia fotodinamica: dalla teoria alla pratica clinica
• Calzavara - Pinton PG, Sala R
Divisione Dermatologica, Spedali Civili - Brescia
La terapia fotodinamica (TFD) utilizza l’attività fotochemiotossica di molecole con attività fotosensibilizzante (Fs).
A differenza dei trattamenti farmacologici convenzionali sia topici che sistemici, la TFD è data dall’applicazione successiva di due componenti: il farmaco e la luce attivante e le possibili combinazioni terapeutiche sono numerose.
I Fs attualmente impiegati per la TFD appartengono a due gruppi:
• le porfirine endogene indotte dall’acido aminolevulinico (ALA). L’ALA non è un Fs per se ma può essere metabolizzato fino alla formazione di protoporfirina IX (PPIX) da numerose linee cellulari utilizzando la catena enzimatica della via metabolica dell’eme, in particolare la protoporfirina IX
• i Fs esogeni quali i derivati ematoporfirinici (Photofrin® o Photosan®), i composti porfirinici di sintesi (quali ftalocianine, clorine, benzoporfirine e porficeni) caratterizzati da sistematici cambiamenti della struttura chimica che ne hanno cambiato radicalmente le proprietà fisico-chimiche e fotobiologiche e i coloranti fenotiazinici, (quali blu di metilene, blu di toluidine e arancio d’acridina). Tutti questi Fs possono, in via sperimentale, essere somministrati sia per via topica che sistemica ed, in entrambi i casi, vi è la possibilità di scegliere tra le numerose sostanze veicolanti proposte.
Tutti i Fs utilizzati in PDT si caratterizzano per l’elevata capacità di generare specie di ossigeno reattivo (ROS), in particolare ossigeno singoletto, dopo fotoesposizione. I ROS interagiscono successivamente con lipidi e proteine cellulari e solo in misura trascurabile con gli acidi nucleici.
Per quanto riguarda l’irradiazione, sono disponibili tanto fonti luminose ad ampio spettro con un’ampia possibilità di filtri quanto fonti
monocromatiche laser ed entrambe possono essere modulate per ottenere potenze e dosi diverse. Lo spettro d’emissione della luce irradiata deve essere centrato su uno degli spettri di assorbimento del Fs. Di regola vengono preferite lunghezze d’onda comprese tra
660 e 700 nm se intendiamo trattare patologie con interessamento dermico mentre per patologie solo intra-epidermiche può essere
sufficiente un’esposizione a radiazioni comprese nell’intervallo 400-420 nm. Sebbene vi sia una relazione dose-risposta sia per i Fs che
per l’irradiazione, quando si esamina l’effetto fotodinamico complessivo, la reciprocità dei due componenti combinati non è sempre ottenibile. Questa diversità di regimi terapeutici influenza in modo importante i risultati clinici e le discrepanze nell’interpretazione dei risultati sono ulteriormente accentuate dal fatto che non vi è uniformità di criteri per giudicare il risultato terapeutico.
MAL-PDT ed il trattamento delle cheratosi attiniche nei pazienti sottoposti a trapianto d’organo
• Piaserico S, Alaibac M, Peserico A
Clinica Dermatologica, Università di Padova
I pazienti sottoposti a trapianto d’organo presentano una prevalenza di cheratosi attiniche del 30-40% ed un rischio di comparsa di un
carcinoma squamocellulare più di 100 volte superiore rispetto alla popolazione generale e nel caso del carcinoma basocellulare variabile da 30 a 80 volte. Nella nostra esperienza, il rischio cumulativo di insorgenza dei tumori cutanei è del 16% dopo 5 anni e del 33% dopo 10 anni. La progressione delle cheratosi attiniche verso un carcinoma squamocellulare appare in tali soggetti molto più frequente ed
accelerata, potendosi manifestare anche nell’arco di pochi mesi. Inoltre, i carcinomi cutanei (in particolare gli squamocellulari) presentano una maggiore aggressività ed una spiccata tendenza alla diffusione metastatica. Gli approcci terapeutici delle lesioni preneoplastiche e neoplastiche cutanee nei pazienti trapiantati d’organo attualmente disponibili includono: chirurgia, crioterapia, diatermocoagulazione, radioterapia, laser o applicazione topica di 5-fluorouracile o imiquimod. La scelta del tipo di terapia dipende dalla sede, dal numero, dalle dimensioni e dalla natura delle lesioni (eventuale recidiva) e dalle condizioni cliniche, dall’età e dalle eventuali patologie concomitanti del paziente. La terapia fotodinamica (PDT) cutanea rappresenta un approccio innovativo per il trattamento non chirurgico
dei tumori della cute e delle lesioni pretumorali. Il principio su cui si basa è quello di una reazione fotodinamica in grado di distruggere
in modo più o meno selettivo le cellule tumorali. Una reazione fotodinamica è caratterizzata dall’azione combinata di un fotosensibiliz-
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zatore, luce ed ossigeno su di un substrato. Il fotosensibilizzatore è una cromoforo capace di assorbire ed indurre, nel suo stato eccitato, modificazioni permanenti nei confronti di altre molecole. Se tali molecole rappresentano costituenti essenziali delle strutture cellulari, la loro alterazione può determinare gravi alterazioni o perdita completa funzione dell’attività cellulare. I vantaggi della PDT rispetto alle terapie attualmente più utilizzate sono la lisi (relativamente) selettiva delle cellule neoplastiche con risparmio della cute sana circostante, l’elevata percentuale di successo terapeutico, la non-invasività, i tempi di guarigione rapidi, la possibilità di ripetere i trattamenti,
la possibilità di trattare nella stessa seduta molteplici lesioni presenti sulla stessa zona anatomica, l’eccellente risultato estetico (nessun
segno visibile). Gli svantaggi sono rappresentati dal dolore determinato dall’irradiazione ed il tempo necessario per la penetrazione della molecola fotosensibilizzante. La possibilità di utilizzare la PDT indipendentemente dallo stato generale, dall’età o dalle malattie concomitanti del paziente e la capacità di trattare contemporaneamente anche molteplici lesioni anche in sedi non facilmente aggredibili
chirurgicamente ne fanno una terapia utile anche (e soprattutto) in pazienti “difficili” quali i trapiantati d’organo. Tali pazienti, a nostro
avviso, rappresentano anzi dei candidati ideali per tale terapia, considerata l’elevata incidenza di cheratosi attiniche e carcinomi cutanei,
spesso multipli e localizzati al volto. Infine, i soggetti cardiotrapiantati sono generalmente sottoposti a terapia anticoagulante, che rende l’intervento chirugico più difficilmente eseguibile.
Imiquimod nel trattamento dei condilomi genitali esterni
• Delmonte S
Clinica Dermatologica I, Ospedale Dermatologico “S.Lazzaro” di Torino
A 4 anni di distanza dalla comparsa di imiquimod nella terapia dei condilomi ano-genitali è tempo di bilanci e riflessioni sulle potenzialità dei modificatori di risposta immunitaria.
Imiquimod, nato per il trattamento delle infezioni cutanee da HPV, è stato usato in numerose condizioni patologiche ma l’area ano-genitale resta la sede di elezione sia per i condilomi che per la patologia displastica e neoplastica HPV-indotta.
Alla luce della letteratura più recente e dell’esperienza clinica verranno esaminate l’efficacia di imiquimod nella regressione delle lesioni e nella prevenzione delle recidive in confronto ad altre terapie, le indicazioni ufficiali e non, i più recenti sviluppi del trattamento combinato: imiquimod preceduto o seguito da terapie fisiche, imiquimod su cute sana dopo ablazione delle lesioni come terapia adiuvante. L’approccio terapeutico integrato al paziente con condilomi è infatti il metodo che permette di associare la massima efficacia alla migliore tollerabilità.
Infine, verrano considerati il punto di vista del paziente e l’aspetto economico fattori imprescindibili nella scelta del trattamento più idoneo alle necessità individuali
Le patologie oncologiche cutanee e la modulazione della risposta immunitaria:
nuove prospettive terapeutiche
• Serresi S
U.O. Dermatologia Ospedale Geriatrico I.N.R.C.A. - IRCCS, Ancona
Nella popolazione di razza caucasica le neoplasie più frequenti sono rappresentate dai tumori cutanei non-melanoma, le cui due forme
principali sono il carcinoma basocellulare (80%) ed il carcinoma squamocellulare (16%). Le cheratosi attiniche sono lesioni precancerose con un rischio di progressione verso il carcinoma squamocellulare che è stato riportato essere variabile tra lo 0,25% ed il 20% in 1025 anni.
Recentemente diversi studi hanno dimostrato l’efficacia e la tollerabilità del farmaco immunomodulante topico imiquimod nel trattamento
dei carcinomi basocellulari e della cheratosi attinica.
Nel carcinoma basocellulare il trattamento con imiqimod è stato utilizzato sia nel basalioma superficiale che nel basalioma nodulare con
diversi regimi terapeutici per ottimizzare la frequenza e durata della terapia in rapporto agli effetti collaterali.
Anche nella cheratosi attinica sono stati valutati diversi regimi terapeutici: il numero di applicazioni settimanali più efficace è di tre applicazioni, mentre la durata del trattamento nei diversi studi è stata fino a sedici settimane continuative o cicli di tre settimane eventualmente ripetuti.
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Imiquimod e toll like receptors, meccanismi d’azione
• Toto P, Amerio P, Morelli F, Di Rollo D, Tracanna M, Grossi G, Marra ME, Motta A, Tulli A
Clinica Dermatologica, Università “G. d’Annunzio”, Chieti
I toll-like receptors (TLRs) sono recettori transmembrana di tipo I coinvolti nella immunità innata attraverso il riconoscimento di strutture microbiche conservate. È stato recentemente dimostrato che il TLR3 riconosce il dsRNA, un prodotto virale, mentre il TLR9 riconosce
motivi CpG non metilati frequentemente trovati nel genoma di batteri e virus. Il TLR7 riconosce alcuni modificatori della risposta immune di sintesi quali l’Imiquimod e l’r-484. Il legame al TLR7 aumenta l’espressione di molecole costimolatorie ed induce la sintesi di IL1, IL-6, IL-12, interferon alfa e TNF-alfa, i quali stimolano sia l’immunità innata che cellulo-mediata. Recenti studi hanno indagato l’effetto del legame del TLR7 su un subset di cellule dendritiche umane: le cellule dendritiche plasmocitoidi esprimono il TLR7 ed il TLR9 e
rispondono ai lingandi di tali TLRs producendo grandi quantità di interferon alfa. Nel complesso tali dati suggeriscono che il targeting
di di subset specifici di cellule dendritiche per mezzo dei ligandi del TLR, quali l’imiquimod e i suoi analoghi potrebbe incrementare l’attività antitumorale ed anti-virale e fornire un razionale all’uso clinico degli immunomodulanti.
Aspetti istologici ed immunoistochimici del sarcoma di Kaposi classico
• Berti EF
Università di Milano-Bicocca ed IRCCS Ospedale Maggiore di Milano
Il sarcoma di Kaposi si caratterizza per la presenza di una doppia popolazione proliferante costituita in prima istanza da cellule endoteliali con formazioni di lacune vascolari ripiene di eritrociti o piccoli lumi vascolari, che sepimentano il derma e successivamente dalla proliferazione di cellule fusate, che tipicamente formano delle proliferazioni coesive-nodulari costituite da fasci di cellule fusate, variamente intrecciate nel contesto del derma. Le mitosi sono rare, così come sono rari gli aspetti francamente angiosarcomatosi, tipici degli stadi più avanzati della patologia, con evidenza di cellule atipiche aggettanti nei lumi vascolari.
La pressoché totale reattività delle cellule proliferanti per l’anticorpo monoclonale anti CD34 depone per una origine dagli endoteli vascolari, anche se gli aspetti istologici all’esordio possono suggerire una proliferazione linfangiosarcomatosa. Le cellule tumorali risultano inoltre CD31+, Fattore VIIIRA+/-, UEA+(Ulex), Actina Muscolo Liscio -/+. Rare sono le mitosi ed il grado di proliferazione con anti Ki67, tuttavia le cellule risultano esprimere la proteina anti apoptotica Bcl-2. Le cellule tumorali dimostrano positività anche per gli anticorpi monoclonali specifici per il virus HHV8/KSHV e per numerosi altri marcatori vascolari. L’infiltrato è caratterizzato dalla presenza di
un discreto numero di macrofagi CD68+, CD14+, CD11b+; mentre risultano diminuite le cellule dendritiche dermiche FXIIIA+ e CD1a+.
È presente un discreto infiltrato linfocitario sia CD4+, che CD8+ soprattutto in sede perivascolare alla periferia della lesione.
Aspetti clinici tipici e atipici del sarcoma di Kaposi classico
• Boneschi V, Brambilla L, Ferrucci S, Brambati M
II Clinica Dermatologica, Università di Milano - IRCCS Ospedale Maggiore
Caratteristiche cliniche cutanee peculiari del sarcoma di Kaposi (SK) sono la policentricità delle lesioni ed il loro polimorfo aspetto di
esordio ed evolutivo. Nella sua espressione usuale la proliferazione vascolare matura ed immatura che caratterizza la malattia dà origine ad aspetti nodulari angiomatosi sia primitivi che come fasi evolutive di macule e/o placche infiltrative. Sono prediletti i distretti corporei con circolazione acrale, in particolare piedi e gambe dove ricca è la componente vascolare linfatica il cui coinvolgimento porta al
linfedema organizzato e irreversibile, spesso caratterizzato da papillomatosi. Presentazioni poco usuali del SK sono rappresentate da
piccoli noduli angiomatosi isolati limitati all’estremità cefalica (palpebre, padiglioni auricolari, fronte) ed ai genitali, dove simulano il granuloma piogenico; oppure noduli angiomatosi con angiectasie periferiche a raggiera. La velocità evolutiva delle singole lesioni e della
malattia nel suo insieme condizionano aspetti clinici secondari: ipercheratosi che ricopre placche e noduli; ulcerazione dei noduli e loro
sovrainfezione (in particolare alle dita dei piedi); costituzione di pseudobolle in sede di lesioni nodulari o in placca (per regressione della componente proliferativa cellulo-fusata sostituita da ampie lacune vascolari linfatiche); linforragia in aree di linfedema e pseudobolle; placche ecchimotiche profonde che fanno da base a lesioni nodulari rapidamente evolutive; necrosi di singoli noduli con piccola base d’impianto (sino al loro distacco spontaneo). Da segnalare in alcuni casi il coinvolgimento di strutture ossee con riassorbimento e distruzione (piedi) e l’inglobamento dei tronchi neurovascolari degli arti inferiori da parte di grossi nodi neoplastici. Se nelle forme ag-
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gressive cutanee è frequente il riscontro di lesioni nel tratto gastroenterico, eccezionale ma possibile è il contemporaneo esordio cutaneo e linfonodale della malattia in assenza di evidente immudepressione.
Aspetti etiopatogenetici del sarcoma di Kaposi
• Bongiorno MR, Aricò M
Cattedra di Dermatologia - Unità Operativa Complessa di Dermatologia e MTS, Università degli Studi di Palermo
Il sarcoma di Kaposi, malattia proliferativa multifocale, descritto per la prima volta da Moritz Kaposi nel 1872, da un punto di vista epidemiologico può essere distinto nelle forme: “classico” a decorso cronico, che insorge dopo la sesta decade di vita nei soggetti di origine Mediterrenea, Ebrea e dell’est Europa; endemico o Africano tipica dell’Africa equatoriale che a sua volta si può esprimere con due
caratteristiche diametralmente opposte la forma nodulare, generalmente benigna, dei giovani adulti, e la forma fulminante linfoadenopatica
dei bambini, fatale, che volge all’exitus nello spazio di due-tre anni; iatrogena frequente nei pazienti sottoposti a trapianto d’organo o
nei soggetti che ricevono terapie immunosoppressive; epidemico associato a AIDS.
Nonostante le notevoli differenze cliniche ed epidemiologiche tutte e quattro le forme mostrano lo stesso quadro istopatologico, caratterizzato da angiogenesi, edema, eritrociti stravasati, infiltrato linfomonocitario e presenza di cellule fusate. L’analisi immunoistochimica delle lesioni iniziali mostra la presenza di cellule T, in maggior numero cellule T CD8+, di numerose cellule della linea monocito-macrofagica, di cellule dendritiche e di poche cellule B. Le cellule T CD8+ e le cellule monocito-macrofagiche sono responsabili della produzione sia sistemica che locale di citochine infiammatorie del tipo Th-1 come interferone γ, IL-2 e TNF-α. Queste citochine inducono la
produzione di fattori angiogenetici, l’attivazione delle cellule endoteliali, l’aumento di adesività vascolare con estravasione e richiamo tissutale di linfociti e di cellule monocito/macrofagiche e conseguente secrezione di ulteriori citochine infiammatorie.
Le citochine infiammatorie locali agiscono, inoltre, sia sulle cellule endoteliali attivate sia sulle cellule del sistema monocito-macrofagico. Le cellule endoteliali attivate acquisiscono particolari caratteristiche fenotipiche e funzionali come la morfologia fusata, la sottoregolazione di FVIII-RA e l’attivazione di ELAM-1, VCAM-1 e l’espressione dell’antigene di istocompatibilità di classe II, mentre le cellule
del sistema monocito/macrofagico si trasformano nelle cellule fusate del sarcoma di Kaposi. I fattori secreti dalle cellule fusate e dalle
cellule infiammatorie amplificano questi eventi e stimolano la proliferazione delle cellule del sarcoma di Kaposi (bFGF, PDGF), l’angiogenesi
(bFGF, VEGF, PDGF-B) e l’ulteriore reclutamento di cellule T, monociti ed altre cellule immuni (MCP-1, IL-8).
La cascata degli eventi summenzionati ha trovato un momento unificante nella scoperta del virus HHV-8 . Anche se a tutt’oggi non è
chiaro come l’HHV-8 possa iniziare e promuovere lo sviluppo delle lesioni del SK si tende a considerare il virus HHV-8 l’agente eziologico con un comune meccanismo patogenetico in tutte le forme cliniche di SK.
È stato ipotizzato, infatti, che il genoma dell’HHV-8, attraverso meccanismi di stimolazione autocrina e paracrina, codifichi numerosi
omologhi di proteine cellulari umane che modulano la crescita, la differenziazione e la sopravvivenza delle cellule o possa essere direttamente responsabile della trasformazione cellulare.
Terapia del sarcoma di Kaposi classico: esperienza terapeutica e novità
• Brambilla L, Ferrucci S, Brambati M, Boneschi V
II Clinica Dermatologia, Università di Milano - IRCCS Ospedale Maggiore
Dalla nostra casisitica di 450 pazienti seguiti in 25 anni abbiamo elaborato una stadiazione che ci permette di decidere quando trattare e linee terapeutiche per decidere come trattare questi pazienti spesso anziani e con patologie concomitanti. Negli stadi iniziali (I e II
a lenta evoluzione) la strategia terapeutica consiste nell’osservazione clinica, radioterapia in casi selezionati, chemioterapia intralesionale
(vincristina) per noduli isolati e terapia elastocompressiva. Negli stadi II ad evoluzione veloce, III e IV, oltre all’elastocompressione, la terapia cardine è la chemioterapia sistemica, sia in mono sia in polichemioterapia.
In prima linea vengono utilizzati i seguenti farmaci:
• Vinblastina: induzione 4, 6, 8 mg e.v.settimanali, mantenimento 10 mg e.v. dopo 3 settimane e poi ogni 4 settimane
• Vinblastina (secondo schema sopraccitato)+ Bleomicina 15 mg i.m. ogni 2 settimane iniziando quando la vinblastina è alla massima
dose.
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In seconda linea:
• Vinorelbina induzione: 17,5 mg/mq ogni 2 settimane per 5 cicli; mantenimento: 29 mg/mq ogni 3 settimane.
• Etoposide 150 mg/die e.v. per 3 gg consecutivi ogni 3 settimane.
• Gemcitabina 1200 mg/mq e.v. a settimana per 2 sett. seguiti da una settimana d’intervallo.
• Epirubicina 20 mg e.v settimanale.
Tutte le chemioterapie vanno mantenute fino al raggiungimento della massima risposta clinica seguiti da 3 cicli di consolidamento.
Novità terapeutica:
• Taxolo 100 mg e.v settimanale.
• Doxorubicina liposomiale 20 mg/mq ogni 3 settimane per 6 cicli.
• Inibitori delle proteasi.
Vengono discussi i risultati delle linee di trattamento eseguite e proposte le nuove linee con i risultati preliminari.
Sarcoma di Kaposi familiare
• Ferrucci S, Brambilla L, Boneschi V, Brambati M
II Clinica Dermatologia, Università di Milano - IRCCS Ospedale Maggiore
Nella nostra casistica di 450 pazienti con sarcoma di Kaposi classico (SKC) abbiamo riscontrato 14 famiglie con più di un membro affetto
con rapporti di parentela molto variabile. Abbiamo avuto la possibilità di studiare 3 gruppi familiari mediante indagini sierologiche sui
consanguinei e conviventi dei pazienti. Gli anticorpi circolanti anti-HHV-8 sono risultati positivi nel 100% dei pazienti e nel nei 26,7%
dei famigliari. Si può concludere che la prevalenza del virus all’interno delle famiglie è risultata superiore alla prevalenza del virus all’interno della popolazione di confronto di donatori (nord-Italia: 4%, sud-Italia:24%).
La presenza in letteratura di rari casi in cui nella stessa famiglia più individui consanguinei sono affetti da sarcoma di Kaposi fa presupporre che vi sia la possibilità di fattori di rischio aggiuntivi all’interno della famiglia stessa che permettano un più facile contagio del virus HHV-8 e potrebbero confermare l’ipotesi che vie di trasmissione differenti a quella sessuale siano possibili.
Le cellule CD34+ circolanti nel sarcoma di Kaposi classico: analisi fenotipica e funzionale
• Villa ML, Della Bella S, Ferrucci S*, Nicola S, Boneschi V*, Berti E*, Brambilla L*
Cattedra di Immunologia, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biomediche, Università degli Studi di Milano
*Istituto di Dermatologia, IRCCS Ospedale Maggiore di Milano
Le DC sono una popolazione eterogenea di cellule presentanti l’antigene che sono fondamentali per iniziare le risposte immuni antivirali e antitumorali. Essendo il sarcoma di Kaposi (KS) una malattia linfangioproliferativa strettamente associata ad infezione da herpesvirus-8 (HHV-8), abbiamo precedentemente studiato un possibile coinvolgimento delle DC nella patogenesi e nello sviluppo della malattia, dimostrando una riduzione numerica, oltre che alterazioni funzionali, delle DC presenti nel sangue periferico di soggetti affetti dalla variante classica di KS (cKS). Precursori delle DC sono rappresentati da monociti e da cellule CD34+, progenitori totipotenti in grado
di differenziarsi nei diversi stipiti cellulari (linfoidi, mieloidi, megacariocitici, eritroidi, endoteliali). Il processo differenziativo che porta allo sviluppo di DC a partire dai loro precursori è finemente regolato da numerosi fattori solubili, quali fattori di crescita e citochine. Al fine di chiarire i meccanismi alla base delle alterazioni delle DC in soggetti con cKS, nel presente studio abbiamo valutato la presenza di
eventuali alterazioni numeriche a carico dei precursori CD34+ e dei monociti; abbiamo caratterizzato fenotipicamente e funzionalmente
gli stessi precursori; abbiamo valutato l’eventuale presenza nel plasma dei pazienti con cKS di fattori solubili in grado di modificare il
differenziamento di DC a partire da monociti; e abbiamo provato ad identificare i fattori eventualmente implicati. I risultati finora ottenuti sembrerebbero indicare che nei soggetti con cKS si assista ad una riduzione dei monociti circolanti, che presentano le stesse alterazioni funzionali osservate a carico delle DC. Nei pazienti con cKS si osserva inoltre un aumento dei precursori CD34+ presenti in circolo; tali cellule non sembrerebbero orientate verso uno stipite cellulare prevalente. Infine gli esperimenti finora condotti su DC in vitro
sembrerebbero indicare sia la presenza di alterazioni nei monociti dei soggetti con cKS, che la presenza di fattori solubili nel loro plasma,
in grado di produrre nelle DC generate in vitro parte delle alterazioni osservate direttamente nelle DC presenti nel sangue periferico.
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Etanercept nell’esperienza italiana: dati di efficacia e sicurezza ad 1 anno nell’artrite psoriasica
• Chimenti S
Clinica Dermatologica - Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
La psoriasi artropatica è una spondilo artrite siero-negativa che può interessare fino al 30% dei pazienti psoriasici. L’osservazione di elevati livelli di Tumor Necrosis Factor-alpha (TNF-α) nel liquido sinoviale di pazienti affetti da psoriasi artropatica suggerisce che questa citochina giochi un ruolo fondamentale nella patogenesi di questa forma di psoriasi, così come nelle altre varianti. L’etanercept è una proteina di fusione totalmente umanizzata caratterizzata dal dominio extracellulare del recettore del (TNF-α) ed il frammento Fc delle immunoglobuline di classe G1. La sua attività antinfiammatoria è dovuta al fatto che, legandosi in maniera competitiva al TNF-α, ne inibisce l’attività prevenendone l’interazione con il suo recettore cellulare. Presso la Clinica Dermatologica dell’Università di Roma Tor Vergata sono attualmente in trattamento con etanercept 17 pazienti affetti da psoriasi artropatica. Il farmaco è stato somministrato al dosaggio di 25 mg per via sottocutanea, due volte a settimana. In questa presentazione verranno illustrati i risultati relativi all’efficacia ed
alla sicurezza ad 1 anno dell’etanercept nel trattamento di questa forma di psoriasi.
Il recettore umano solubile del TNF-α: razionale d’impiego nelle malattie autoimmuni della cute
• Girolomoni G
Istituto Dermopatico dell’Immacolata, IRCCS, Roma
Il TNF-α è una citochina fondamentale nell’iniziare la cascata infiammatoria da cui dipendono diverse malattie cutanee. Essa esiste in due
forme biologicamente attive: una forma di membrana (26 kDa) ed una forma solubile (17 kDa) che è rilasciata per proteolisi dalla precedente ad opera della metalloproteasi TNF-α converting enzyme (TACE/ADAM17). Le attività biologiche del TNF-α sono mediate da
due distinti recettori di membrana, TNF-R1 (p55, CD120a) e TNF-R2 (p75, CD120b). L’attivazione dei recettori avviene ad opera di omotrimeri di TNF-α e da luogo ad una complessa serie di eventi intracellulari (tra cui l’attivazione di NF-κB) che conducono a sopravvivenza cellulare e infiammazione o a morte cellulare. TNF-R1 è ubiquitario ed è responsabile della maggior parte degli effetti biologici del TNFα
.. , inclusi gli effetti proinfiammatori e proapoptotici. Il clivaggio proteolitico dei recettori (da parte di metalloproteasi tra cui la stessa
TACE) da origine a recettori solubili (TNF-R1 solubile) che competono con i recettori di membrana nel legare TNF-α
.. , e quindi si comportano
da antagonisti naturali della citochina
.
Nella
cute
psoriasica
il
TNF-α
è
prodotto
da
diversi
tipi
cellulari:
in
primo
luogo i linfociti T (pre.
valentemente di tipo 1), monociti e cellule dendritiche, e secondariamente dai mastociti, cellule endoteliali e cheratinociti. Il TNF-α
.. svolge un ruolo chiave nella patogenesi della psoriasi in quanto favorisce l’afflusso dei leucociti nella cute (attivando le cellule endoteliali e
inducendo la produzione di chemochine), stimola l’attivazione delle cellule dendritiche e dei linfociti T, e partecipa all’iperproliferazione
dei cheratinociti e alla neoangiogenesi inducendo la produzione di fattori di crescita. Per questi motivi gli inibitori del TNF-α
.. risultano particolarmente efficaci nella terapia della psoriasi. In particolare, etanercept (Enbrel™).) è una proteina di fusione (934 aa) che consiste di
due TNF-R1 identici fusi alla frazione Fc della IgG1 umana. Etanercept lega sia TNF-α che TNF-β, e forma complessi con i trimeri di TNFα prevendone il legame con TNF-R1 e TNF-R2. Pertanto etanercept non fa altro che esaltare una funzione anti-TNF-α endogena, già
messa in atto nei tessuti per modulare le attività della citochina.
Infliximab nella psoriasi: esperienza italiana
• Chimenti S
Clinica Dermatologica - Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
L’infliximab è un anticorpo monoclonale chimerico con elevata affinità ed avidità sia per la forma solubile che per quella transmembrana del Tumor Necrosis Factor-alpha (TNF-α), attualmente approvato per il trattamento dell’artrite reumatoide, del morbo di Crohn e,
più recentemente, della spondilite anchilosante. Il ruolo centrale rivestito dal TNF-α nella patogenesi della psoriasi ha permesso di utilizzare questo farmaco biologico con successo nel trattamento di questa dermatosi.
Presso la Clinica Dermatologica dell’Università di Roma Tor Vergata sono attualmente in trattamento con infliximab 112 pazienti. Il farmaco è stato somministrato alla dose di 5 mg/kg per via endovenosa lenta somministrati al tempo 0, dopo 2 e dopo 6 settimane (ciclo
di induzione) e, successivamente, ogni 8 settimane. L’efficacia è stata valutata sulla base della diminuzione del PASI e dell’Health Assessment Questionnaire (HAQ) dal tempo 0. Dei 112 pazienti, 88 hanno completato il ciclo di induzione: 42 pazienti affetti da psoriasi
55
volgare, tutti non rispondenti alle terapie sistemiche convenzionali (ciclosporina, methotrexate od acitretina) con PASI > 20; 46 pazienti affetti da psoriasi artropatica (HAQ disability index medio=2.1), tutti non rispondenti alle terapia con DMARDS. In questa presentazione
verranno illustrati i risultati sull’efficacia e la tollerabilità a lungo termine (3 anni) dell’infliximab nel trattamento della psoriasi.
Tossina botulinica in estetica: la proposta italiana
• Bartoletti E
Dal 1991 la tossina botulinica viene utilizzata per il trattamento estetico delle rughe d’espressione.
Da più di 10 anni questa sostanza ha dimostrato, nel 1/3 superiore del viso, di riuscire a dare dei risultati assolutamente naturali e con
pochissimi effetti collaterali o complicanze.
In questa zona, molto difficile da trattare se non chirurgicamente, la tossina botulinica ha permesso di diminuire drasticamente l’indicazione all’intervento di lifting frontale, ma soprattutto si è dimostrata di grande utilità nella prevenzione della formazione delle rughe
di espressione. Dopo un periodo di utilizzo “off label” del farmaco, sono stati prodotti negli ultimi anni numerosi lavori in doppio cieco
su grandi numeri che hanno confermato la validità del trattamento. Questa produzione scientifica ha portato all’approvazione FDA negli USA e a ruota nei Paesi Europei compresa l’Italia.
In questo lavoro l’Autore presenta le linee guida elaborate dal gruppo italiano di ricerca sulla tossina botulinica in estetica precedute da
alcuni cenni sull’anatomia dei muscoli interessati dal trattamento.
Botulinum toxin type a 100U: actuality in aesthetic use
• Levy P
Dopo l’autorizzazione all’uso della tossina botulinica in ambito estetico avvenuta in Svizzera nel 2002, numerose sono state le esperienze di impiego della tossina botulinica a fini estetici.
La presentazione delucida lo stato dell’arte del trattamento cosmetico con tossina botulinica, offrendo una panoramica delle esperienze raccolte nei primi anni di impego del farmaco in ambito estetico, con particolare attenzione alla tecnica di iniezione e ai dosaggi adottati.
Di particolare interesse sono inoltre i possibili futuri sviluppi dell’impiego della tossina botulinica per il trattamento delle rughe del volto.
Efficacy and safety of botulinum toxin type a in the treatment of focal hyperhidrosis
• Naumann M
Department of Neurology, University of Würzburg, Germany
Focal essential hyperhidrosis is a common and often disabling disorder mainly involving the palms, axillae, face, and soles of the feet. In
60 - 80 % of cases the palms and soles of the feet (palmoplantar hyperhidrosis), and in 30- 40 % the axillae are affected. The therapies
currently used include topical aluminium chloride salts, systemic anticholinergic drugs, tap water iontophoresis, and some surgical approaches. However, none of these options are entirely satisfactory. The first report of botulinum toxin type A (BoNT/A) use in a patient
with hyperhidrosis was published as a case history in 1997. Following this anecdotal report, several small open studies on axillary and
palmar hyperhidrosis were performed. Only recently, two large placebo-controlled trials evaluated efficacy and safety of BoNT/A in axillary hyperhidrosis. All these studies showed that the intradermal injection of BoNT/A into the hyperhidrotic area is highly effective in reducing or abolishing focal sweating of different etiology without major side effects. The duration of action is usually between 6 and 12
months. Follow-up studies with repeated injections have also shown that BoNT/A is a safe and effective long-term treatment of focal
hyperhidrosis. Botulinum toxin A may therefore have the potential to replace more invasive therapies.
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Il trattamento dell’iperidrosi: esperienza italiana
• Offidani A, Campanati A
Clinica Dermatologica, Università degli Studi di Ancona
L’introduzione della tossina botulinica nella cura dell’iperidrosi focale idiopatica ha sostanzialmente rivoluzionato la gestione del paziente iperidrotico.
Numerosi studi apparsi in letteratura dimostrano l’efficacia del farmaco ed il suo elevato profilo di sicurezza, unitamente alla correlata
capacità di indurre un significativo miglioramento in tema di qualità di vita nei soggetti sottoposti al trattamento.
L’esperienza italiana risale agli ultimi 5 anni, nel corso dei quali sono stati sottoposti a somministrazione di tossina botulinica di tipo A
un pool amplio di soggetti affetti da iperidrosi focale idiopatica a localizzazione ascellare, plamare, plantare e forme combinate.
L’interesse riposto nell’argomento e l’esperienza pratica acquisita sul campo ci hanno permesso di focalizzare l’attenzione su quelli che
sono i punti di maggiore interesse sia per lo specialista che si appresta ad impiegare il farmaco, sia per il paziente che a questo nuovo
trattamento si accosta per la prima volta.
Ruolo della componente batterica delle diverse forme cliniche di acne
• Micali G
Clinica Dermatologica, Università di Catania
L’acne è una patologia del follicolo pilo-sebaceo caratterizzata nelle fasi iniziali da cheratinizzazione anomala dell’infundibolo, iperproduzione ed accumulo di materiale sebaceo e cheratinico e conseguente dilatazione del follicolo stesso che, secondariamente, per intervento della microflora batterica, rappresentata principalmente da Propionibacterium acnes e granulosum, Staphylococcus aureus
nonché da altre specie, quali Micrococcus spp e Corineformi aerobi, va incontro a flogosi, la cui intensità si ripercuote sull’espressività
clinica e gravità della patologia. L’acne coinvolge elettivamente le aree cutanee ricche di unità pilo-sebacee, e pertanto le lesioni tendono
a localizzarsi prevalentemente al volto, al dorso ed al tronco. A differenza dello Staphylococcus aureus ed epidermidis, come pure dei
micrococchi e dei corinebatteri aerobi, la cui presenza nelle lesioni acneiche non sembrerebbe avere alcuna importanza patogenetica,
il Propionibacterium acnes, riscontrabile nelle aree seborroiche sia della cute sana che di quella acneica, avrebbe un ruolo fondamentale soprattutto nella patogenesi dell’acne infiammatoria (papulosa, papulo-pustolosa, pustolosa). Evidenze sperimentali emergenti da
studi in vitro suggeriscono infatti come tale microrganismo sia in grado di esercitare azione chemiotattica nei riguardi dei granulociti
neutrofili, come pure di attivare il complemento sia attraverso la via classica che quella alternativa. Esso inoltre sintetizza e rilascia nei tessuti circostanti molecole enzimatiche (lipasi e proteasi) ad azione proinfiammatoria che contribuiscono in maniera significativa ad aggravare
il quadro clinico in questa affezione.
Gli emollienti nel management del paziente psoriasico
• Berardesca E
Istituto Dermatologico San Gallicano, Roma
La psoriasi è una malattia cronica caratterizzata da iperproliferazione epidermica ed infiammazione sia del derma che dell’epidermide. I
trattamenti topici classici includono i corticosteroidi topici, il ditranolo, i derivati della vitamina D3, il catrame i cheratolitici e gli emollienti. Questi ultimi hanno una indicazione soprattutto nelle forme moderate e lievi in supporto eventualmente ad altre terapie. Possono
essere utili anche nel mantenimento della cute sana tra gli intervalli terapeutici. Tra i vari principi attivi ad attività emolliente utilizzati comunemente l’urea è quello forse più conosciuto dal dermatologo. Il suo utilizzo nelle condizioni di cute secca e desquamante è ampiamente supportato dai dati della letteratura internazionale. Infatti, l’urea è conosciuta per avere attività cheratolitiche, idratanti, igroscopiche, antipruriginose e leviganti. Studi abbastanza recenti hanno dimostrato l’efficacia dell’urea da sola nel ridurre lo spessore dell’epidermide e la proliferazione epidermica in modo significativo. Inoltre, è anche stato dimostrato un effetto adiuvante l’assorbimento transcutaneo di altri farmaci topici utilizzati in associazione. Questo potrebbe essere di grande aiuto nel management del paziente psoriasico in quanto il trattamento associato tra urea ed altri principi attivi permetterebbe una maggiore efficacia farmacologia degli stessi.
È in corso di pianificazione uno studio clinico per valutare l’idratazione cutanea di un trattamento dermocosmetico emolliente con prodotti a base di urea al 2% ed al 4% che verrà somministrato a pazienti con psoriasi durante e dopo l’interruzione del trattamento con
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farmaci antipsoriasici topici. Lo studio verrà condotto su 50 pazienti che verranno trattati con i preparati emollienti per emiparti: ogni
paziente sarà quindi il controllo di se stesso. Oltre alla valutazione di parametri clinici quali eritema, desquamazione, prurito, l’idratazione
cutanea verrà valutata tramite corneometria e Trans Epidermal Water Loss.
L’emolliente come complemento della terapia della dermatite atopica
• Monfrecola G
Dip. di Patologia Sistematica - Sez. di Dermatologia, Università “Federico II”, Napoli
Studi epidemiologici indicano che la dermatite atopica (DA) ha una prevalenza stimata fra il 5 ed il 15%. Questo dato, unito al fatto
che la malattia ha andamento cronico-recidivante durante l’intera vita infantile ed oltre, evidenzia come la DA rappresenti un serio problema sia medico che sociale. Uno dei punti cruciali nella patogenesi della DA è quello relativo alle modificazioni della barriera cutanea
fondamentalmente da ascrivere ad alterazioni dei lipidi epidermici. Di particolare rilevanza sono la ridotta presenza di acido linoleico e
la ridotta attività dell’enzima delta-6-desaturasi con relativa carenza di acido gamma linolenico. Conseguenza dell’alterazione della barriera, documentabile anche attraverso l’aumento della perdita d’acqua transepidermica, è la secchezza cutanea riscontrabile su tutto
l’ambito cutaneo dell’atopico. La disidratazione costituisce il presupposto per la maggiore suscettibilità agli stimoli irritativi ed al prurito. L’impiego di emollienti è assolutamente indispensabile per la gestione del soggetto con DA. Al moderno emolliente viene richiesta
non solo una capacità “idratante passiva” ma anche una funzione “attiva” che consenta la ricostituzione di un’efficace barriera epidermica. Ciò può essere ottenuto con una adeguata supplementazione topica di acidi essenziali omega-3.
È dimostrato che un corretto e costante programma di emollienza della cute atopica contribuisce fortemente a limitare l’insorgenza di
segni e sintomi della malattia, nonché a ridurre il numero di recidive delle lesioni eczematose con evidenti benefici sia in termini prognostici
che di riduzione della spesa farmaceutica.
Novità nella fotoprotezione cutanea
• Picardo M, Leone G
Istituto Dermatologico San Gallicano, Roma
Gli UV sono stati ampiamente identificati come i principali responsabili di effetti deleteri per la pelle umana. L’esposizione cronica agli
UV, e in alcuni casi anche l’esposizione acuta a dosi elevate, aumenta il rischio di sviluppare cancri cutanei, come il carcinoma baso- e/o
spino-cellulare, o melanoma maligno. Inoltre, l’esposizione agli UV determina un acceleramento dei fenomeni di invecchiamento cutaneo, con la comparsa di rughe generalizzate e dall’aspetto peculiare (cutis romboidalis), secchezza e assottigliamento dello strato epidermico, fenomeni di cheratosi seborroica e alterazioni della pigmentazione. Alcune malattie cutanee, come foto-dermatosi, reazioni foto-allergiche, malattie auto-immuni, tra le quali si annoverano il lupus eritematoso e la foto-dermatosi idiomatica, vengono attivate in
maniera specifica dall’esposizione agli UV. I notevoli cambiamenti dello stile di vita del mondo occidentale con l’aumentare della vita
media, del tempo dedicato alle attività ricreative svolte all’aperto, dell’esposizione a fonti artificiali di UV per fini estetici, e dei viaggi in
paesi tropicali hanno messo in grande evidenza i problemi che può provocare la prolungata esposizione alle radiazioni solari, ed in particolare allo spettro degli UV, ed hanno portato ad un notevole incremento della domanda di strategie per la protezione della pelle nei
confronti dei danni prodotti dagli UV. Di conseguenza, negli ultimi anni si è assistito alla messa in commercio di prodotti solari dotati di
filtri di nuova concezione, sia fisici, sia chimici, in grado di schermare le radiazioni di tutto lo spettro UV che raggiunge la superficie terrestre. Tali preparazioni di prodotti solari si sono dimostrate efficaci nel prevenire alcuni degli effetti degli UV, ed in particolare la reazione
eritematigena della pelle. Tuttavia, vi sono dati contrastanti circa la capacità di protezione esercitata da tali preparazioni nei confronti di
altri effetti dannosi degli UV. Inoltre, per alcuni dei marker biologici rilevanti nei processi di foto-carcinogenesi o foto-invecchiamento,
non esistono test in vivo in grado di testare l’efficacia della preparazione solare. Questo ultimo aspetto è particolarmente importante per
gli effetti biologici indotti dalle radiazioni UVA (320-400 nm), dato che tali radiazioni inducono risposte cutanee molto differenti da
quelle prodotte dagli UVB e che la reazione eritematigena è una misura più valida per i danni da UVB, piuttosto che per quelli da UVA.
Di conseguenza sono state sviluppate varie combinazioni tra filtri solari e ingredienti attivi per migliorare il grado di protezione. Questi
sviluppi sono stati resi possibili dai numerosi studi di foto-biologia cha hanno contribuito a chiarire il meccanismo molecolare di azione
degli UVA e degli UVB. Inoltre, tenendo conto che la pelle per proteggersi dallo stress ossidativo indotto dall’esposizione agli UV possiede un sofisticato network di antiossidanti endogeni, enzimatici e non-enzimatici, il potenziamento di tale difesa antiossidante trami-
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te l’incorporazione di sostanze ad azione antiossidante nelle formulazioni solari o la somministrazione per via sistemica di miscele di antiossidanti può costituire un valido approccio per raggiungere la fotoprotezione ottimale. Un altro importante fattore da considerare è
la permanenza del preparato fotoprotettore sulla pelle, che può facilmente essere asportato per abrasione, contatto con l’acqua, sudorazione o fotodegradazione. Ciò ovviamente implica la necessità di ripetute applicazioni nel tempo che facilmente conducono ad una
minore compliance e conseguentemente ad una aumentata fotoesposizione. Recentemente si sono resi disponibili nuovi preparati caratterizzati da filtri solari fotostabili ad ampio spettro (sia UVB che UVA) veicolati da preparazioni liposomiali capaci di fissare elettivamente
gli attivi nello strato corneo, garantendo una permanenza prolungata nel tempo. Per verificare le caratteristiche peculiari di questi nuovi prodotti è in corso uno studio su 20 volontari sani che valuta la permanenza sulla cute dei preparati attraverso il monitoraggio del
fattore di protezione solare (SPF) dopo 4 e 8 ore dall’applicazione e dopo bagni ripetuti. I dati preliminari suggeriscono una permanenza nel tempo superiore ad altri prodotti fotoprotettori attualmente disponibili.
Short contact therapy con tazarotene
• Caputo R, Veraldi S
Istituto di Scienze Dermatologiche, I.R.C.C.S., Università di Milano
Gli autori presentano i risultati di uno studio clinico italiano multicentrico (*), effettuato con lo scopo di valutare l’efficacia e la tollerabilità del tazarotene allo 0.1% in gel nel trattamento della psoriasi volgare in placche. Il farmaco è stato utilizzato secondo un nuovo schema terapeutico recentemente proposto dalla Clinica Dermatologica di Milano, la “short contact therapy” (1).
Questa nuova modalità terapeutica consiste nella mono-applicazione quotidiana del farmaco, non in occlusiva, per 20’, seguita dalla detersione delle lesioni.
Bibliografia
• 1S Veraldi & R Schianchi: Short-contact therapy with tazarotene in psoriasis vulgaris. Dermatology 2003; 206: 347.
(*) Centri partecipanti:
K Peris & A Pacifico (L’Aquila)
R Caputo & S Veraldi (Milano)
S Chimenti & R Soda (Roma Tor Vergata)
Il tazarotene nella psoriasi ungueale
• Diluvio L, Soda R, Bianchi L, Giunta A, Chimenti S
Clinica Dermatologica - Universitá di Roma Tor Vergata
La psoriasi ungueale interessa dal 10 al 55% dei pazienti adulti psoriasici, raramente si manifesta nei bambini (7-13%); la sua incidenza raggiunge valori elevati (pari all´80%) nei pazienti affetti da artropatia psoriasica.
I segni clinici osservabili si distinguono in aspetti specifici, come il pitting, l´onicolisi, le chiazze a macchia d´olio, l´ipercheratosi subungueale ed in aspetti aspecifici, quali l´emorragia a scheggia, la perionissi, la friabilitá e l´ispessimento della lamina. L´interessamento
dell´apparato ungueale é causa di di gravi e significativi deficit funzionali (con compromissione della destrezza manuale, alterazione della biomeccanica deambulatoria) e problemi estetici.Oltre il 50% dei pazienti riferisce, inoltre, dolore. Sebbene molti nuovi farmaci siano stati introdotti per il trattamento della psoriasi cutanea, la terapia della psoriasi unguele rimane una sfida ancora aperta: accanto alle terapie sistemiche, i comuni trattamenti topici includono i corticosterodi, i derivati della vitamina D3, il 5 fluoro-uracile, l´urea, il ditranolo,
la ciclosporina e la radioterapia. Il tazarotene é un retinoide poliaromatico di terza generazione, usato di recente con successo, nella terapia della psoriasi delle unghie delle mani. Il tazarotene modula sulla cute l´infiammazione, la differenziazione e la proliferazione cheratinocitarie, processi coinvolti nella patogenesi della psoriasi. E´probabile che tale farmaco agisca sulle cellule della matrice e del letto
ungueale. Presso il nostro istituto é stato condotto uno studio aperto per valutare l´efficacia e la sicurezza del tazarotene gel 0,1% applicato, in modalitá non occlusiva, sulle unghie delle mani e dei piedi. 25 pazienti, di etá compresa fra i 22 ed i 66 anni, hanno partecipato e completato la sperimentazione. Tutti presentavano gravi segni specifici ed aspecifici di psoriasi ungueale a carico delle 20 unghie. Per la valutazione del coinvolgimento ungueale é stato il Visual Assessment Score (VAS) all´inizio e dopo 12 settimane di terapia.
Lo studio prevedeva l´applicazione del tazarotene 0,1% sulla superficie superiore ed inferiore della lamina e sulla cute periungueale, in
monosomministrazione giornaliera, per una durata massima di tre mesi. 19/25 pazienti hanno mostrato una buona risposta clinica sia
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delle unghie delle mani, che di quelle dei piedi, con una riduzione statisticamente significativa del VAS score dopo 12 settimane di terapia dei segni specifici (P>0◊0001) ed un sostanziale miglioramento di quelli aspecifici. Gli effetti collaterali consistevano in lieve eritema, bruciore e desquamazione periungueali. Nel follow up a tre mesi il 50% pazienti ha mantenuto i risultati osservati.
I risultati ottenuti, la modalitá di somministrazione, i tempi terapeutici, l´accettabilitá egli effetti collaterali, indicano il tazarotene gel
0,1% come una valida alternativa nella terapia della psoriasi ungueale.
Storia di tazarotene
• Peris K, Pacifico A
Clinica Dermatologica, Università degli Studi di L’Aquila
Il tazarotene, formulato in gel acquoso in due diverse concentrazioni 0.1% e 0.05%, è approvato in Europa per il trattamento topico
della psoriasi e negli Stati Uniti per il trattamento della psoriasi e dell’acne. Il tazarotene agisce legandosi selettivamente ai recettori nucleari dell’acido retinoico regolando la trascrizione e l’attivazione di specifici geni, con conseguente modulazione della proliferazione e
della differenziazione dei cheratinociti. Numerosi studi hanno dimostrato l’efficacia del tazarotene sia in monoterapia che in associazione con i corticosteroidi o con la fototerapia nel trattamento della psoriasi di grado lieve e moderato. Inoltre, il tazarotene è stato impiegato con successo anche nel trattamento dell’acne di grado lieve e moderato, del fotoinvecchiamento, dei disordini della cheratinizzazione e dei carcinomi basocellulari. In particolare, nell’acne volgare di grado lieve e moderato il tazarotene agisce normalizzando
la cheratinizzazione follicolare, e con un effetto antinfiammatorio diretto, riducendo le citochine proinfiammatorie espresse dai cheratinociti. Numerosi studi clinici hanno inoltre dimostrato che il tazarotene è più efficace rispetto ad altri retinoidi topici correntemente
utilizzati nella terapia dell’acne, nel ridurre le lesioni acneiche non infiammatorie. Un miglioramento del fotoinvecchiamento è stato descritto in seguito a terapia con tazarotene in crema. Tale miglioramento è stato dimostrato anche istologicamente dall’ispessimento dell’epidermide e dalla riduzione della quantità di melanina. Il tazarotene 0.1% gel infine, è stato recentemente utilizzato con successo in
alcune genodermatosi quali l’ittiosi e la malattia di Darier ed in neoplasie cutanee maligne quali l’epitelioma basocellulare.
Principi di biodisponibilità cutanea
• Alessandrini G, Fai D
Collegio Salentino di Dermatologia
La cute, quale organo di confine, ha funzione barriera. Accanto a questo precipuo compito la permeazione e il passaggio transcutaneo
sono prerogative ben conosciute dell’organo cutaneo.
Ci sono vari metodi per valutare queste attività in ordine ad un’applicazione topica di un principio attivo. La biologia della pelle oggi si
presenta rinnovata ed arricchita daarricchita da studi clinici e sperimentali.
Sistemi di rilascio di principi attivi nella cute: innovazioni tecnologiche, vantaggi ed utilizzo clinico
• Fai D, Alessandrini G
Collegio Salentino di Dermatologia
Nella formulazione di un prodotto cosmetico gli ingredienti attivi sono combinati con altri composti in modo tale da definire la forma
fisica finale e da controllare il rilascio dell’ingrediente attivo stesso. L’industria dei cosmetici è alla costante ricerca di prodotti efficaci, che
combinino la loro attività biologica con un efficiente sistema di rilascio. Si passeranno in rassegna i sistemi di rilascio cutaneo a partire
dai più tradizionali ed usati (emulsioni olio in acqua, microemulsioni, emulsioni multiple,gel... ecc) fino ai moderni a tipo liposomi e niosomi. Di particolare interesse oggi si sono dimostrati essere un film di biopolimeri idrosolubili, le ciclodestrine e le membrane idrocolloidi contenenti principi attivi inglobati in glicosfere. Utile conoscenza, quindi, dello sviluppo di innovativi modi di rilasciare all’interno della pelle i principi attivi. La strada per la definitiva caratterizzazione dei prodotti Cosmeceutici.
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Nuova tecnologia in film di biopolimeri idrosolubili per applicazione cutanea e ungueale
• Mailland F
Dipartimento Scientifico, Polichem S.A., Lugano
È stata messa a punto una nuova tecnologia di rilascio di prodotti farmaceutici che consente di veicolare in una soluzione idroalcolica
principi attivi a livello cutaneo ed ungueale, utilizzando biopolimeri idrosolubili di tipo aminopolisaccaridico derivati dalla chitina. La chitina è un aminopolisaccaride di cui è costituito il carapace dei crostacei; il chitosano è il suo derivato deacetilato. Sono state messe a punto soluzioni caratterizzate dalla presenza di un agente filmante idrosolubile, veicolato in acqua e in solventi volatili, e contenenti principi attivi di differente categoria chimica e classe farmacoterapeutica.
Come agenti filmanti sono stati utilizzati derivati idrossialchil - e carbossialchil - sostituiti del chitosano, che hanno la caratteristica di essere idrosolubili. È noto che il chitosano e i suoi derivati hanno proprietà adesive nei confronti di differenti tessuti biologici, e la carica
positiva dei chitosani quaternari può essere sfruttata per creare legami con le superfici cariche negativamente, quali la cute e le unghie,
ciò che li rende utili nell’industria cosmetica. Inoltre, i gruppi liberi idrossialchilici possono interagire con la cheratina per mezzo di legami d’idrogeno o altri legami deboli. Una aderenza del film di chitosano alla matrice cheratinica risulta in un contatto intimo con la matrice, che favorisce il trasporto dei principi attivi attraverso la cheratina.
L’applicazione ungueale di prodotti ad attività antimicotica, dovendo prevedere terapie croniche (fino ad 1 anno di trattamento in caso
di onicomicosi dell’alluce) è inoltre particolarmente facile ed accetta al paziente per la facilità di rimozione (semplice lavaggio con acqua).
Un esempio delle formulazioni realizzate contiene prodotti ad attività antimicotica, per i quali è stata dimostrata un’elevata capacità di
permeazione di lamine ungueali bovine utilizzate come modello di penetrazione di unghie umane. Una soluzione di amorolfina al 5%
in veicolo idroalcolico di idrossipropilchitosano era in grado di permeare in vitro le lamine ungueali con un tempo di latenza di 2.37 ±
0.71 ore ed un flusso di 0.92 ± 0.19 µg/cm2.h, in confronto a 5.0 ± 0.64 ore e rispettivamente 0.33 ± 0.07 µg/cm2.h di una soluzione
di riferimento contenente la stessa percentuale di principio attivo in soluzione alcolica di una resina acrilica quale agente filmante. Analogamente, una soluzione di ciclopirox all’8% in veicolo idroalcolico di idrossipropilchitosano permeava in vitro le lamine ungueali con
un tempo di latenza di 3.36 ± 0.46 ore ed un flusso di 4.70 ± 0.60 µg/cm2.h, in confronto a 12.48 ± 1.31 ore e rispettivamente 3.05 ±
0.63 µg/cm2.h di una soluzione di riferimento contenente la stessa percentuale di principio attivo in soluzione alcolica di una resina polivinilica quale agente filmante. La stessa soluzione di ciclopirox all’8% realizzata con la nuova tecnologia permeava in vitro la cute di topo nudo con una latenza di 1.51 ± 0.20 ore e un flusso di 127.45 ± 46.29 µg/cm2.h.
La stessa tecnologia si presta a veicolare principi attivi diversi, quali un estratto idroalcolico di Equiseto associato ad un donatore di sulfuri, che in uno studio randomizzato di applicazione per 28 giorni sulle unghie di 36 donne ha dimostrato di migliorare la fragilità ungueale e di ridurre del 20% la rugosità e le altre irregolarità della superficie ungueale, misurate per mezzo della profilometria ottica
computerizzata, in confronto alle unghie non trattate della mano controlaterale.
I chitosani idrosolubili sono dotati di un’elevata affinità, e quindi permeabilità, per aria ed acqua, sono altamente plastici e formano un
film molto elastico, particolarmente adatto per l’applicazione non solo a livello ungueale ma anche a livello cutaneo, inoltre non sono
irritanti ed hanno eccellenti proprietà di trasporto di principi attivi. Soluzioni idroalcoliche di chitosani contenenti derivati piridonici, quali ciclopirox, o piroctone, sono state perfettamente tollerate in studi di irritazione cutanea, di sensibilizzazione cutanea e di tollerabilità
a 4 settimane su cute intatta o scarificata. In uno studio clinico di tollerabilità, l’applicazione a 30 soggetti per 30 giorni consecutivi su
un’ampia superficie cutanea (200 cm2) delle spalle era perfettamente tollerata e non causava alcun effetto indesiderato.
Diagnosi dell’alopecia androgenetica
• d’Ovidio R
AIDA-Tricologia, Bari
La diagnosi di Alopecia Androgenetica (AGA) nella pratica dermatologica è di solito clinica e non necessita di particolari conferme strumentali o di laboratorio. Esistono alcune eccezioni, possibili fonte di confusione anche nelle scelte terapeutiche: il Telogen Effluvium,
l’Alopecia Cicatriziale Centrifuga, alcune forme di tricotillomania, l’Alopecia Triangolare e le forme cliniche Incognita, Sisaipho e AGAlike dell’Alopecia Areata.
Il pattern femminile dell’AGA in un maschio merita attenzione per la sua progressione più rapida ed è frequente nei soggetti di età inferiore ai 18 anni, mentre il pattern maschile in una donna si correla spesso a serie alterazioni ormonali.
Per seguire l’evoluzione clinica dell’AGA, il risultato dei trattamenti e fugare alcuni dubbi diagnostici il Dermatologo dovrebbe perciò
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essere in grado di raccogliere dati oggettivi:
• L’evoluzione clinica sarà documentata fotograficamente, con metodiche standardizzate.
• L’intensità del defluvium attuale potrà essere quantizzata con un pull-test o un wash-test
• La previsione di ulteriore defluvium e le eventuali alterazioni strutturali del pelo - utili anche per una diagnosi nei casi dubbi - necessitano di un tricogramma.
• L’osservazione macroscopica del cuoio capelluto potrà essere d’aiuto nella valutazione del suo stato di trofismo e conseguentemente del suo potenziale neotricogenetico; inoltre potrà essere di aiuto nella diagnosi differenziale con le patologie già citate.
• La semplice tecnica del “cartoncino”, insieme al dato della fotografia oggettiva standardizzata, ci potranno far verificare la capacità
di induzione anagenica delle terapie che avremo utilizzato e conseguentemente della potenziale ricopertura raggiungibile.
Le terapie dell’alopecia androgenetica
• Tosti A, Pazzaglia M
Dipartimento di Medicina Clinica Specialistica e Sperimentale Università di Bologna - Sezione di Clinica Dermatologica
Il trattamento medico della calvizie deve impedire agli ormoni androgeni di esercitare i loro effetti sul follicolo e nel contempo stimolare il follicolo a produrre capelli più grossi e più lunghi. È inoltre importante combattere le patologie infiammatorie che accelerano la progressione della malattia, come la dermatite seborroica.
L’obiettivo di ridurre o bloccare l’azione degli ormoni androgeni sul follicolo può essere raggiunto utilizzando farmaci che inibiscono la
formazione del DHT, l’androgeno causa della miniaturizzazione (inibitori della 5alfa- reduttasi: finasteride, dutasteride) o che impediscono agli androgeni di esercitare i loro effetti sulle cellule (inibitori recettoriali degli androgeni: ciproterone acetato, flutamide, spironolattone,
utilizzabili solo nella donna)
La finasteride 1 mg è molto efficace nella calvizie maschile di grado lieve e moderato dove blocca la progressione della malattia nel 99%
dei casi e induce una “ricrescita” - in realtà si tratta dell’ispessimento dei capelli miniaturizzati - nel 65% dei casi.
Il minoxidil in lozione in grado di indurre l’anagen e prolungarne la durata. Il minoxidil è utile sia nel maschio, dove è opportuno usare
la concentrazione del 5%, perchè pi˘ efficace, che nella donna, dove è indicata la concentrazione del 2%.
Nel maschio con calvizie grave puù essere utile associare alla terapia orale con finasteride 1 mg una terapia locale con minoxidil 5% al
fine di ottenere i migliori risultati possibili. L’effetto dei due farmaci è infatti sinergico anche se non vi sono ancora studi che permettono di stabilire l’entità dei vantaggi dell’associazione rispetto al trattamento singolo.
La finasteride è efficace anche nella donna, sia in menopausa che in età fertile. In quest’ultimo caso deve essere sempre associato il trattamento contraccettivo.
La prognosi dell’alopecia androgenetica
• Vena GA, Cassano N
U.O. Dermatologia II, Dipartimento M.I.D.I.M., Università degli Studi di Bari
L’alopecia androgenetica (AGA) è una condizione molto frequente nella popolazione generale; la sua incidenza aumenta progressivamente con l’aumentare dell’età. In soggetti predisposti geneticamente, l’azione degli ormoni androgeni, ed in particolare del diidrotestosterone, provoca la miniaturizzazione e la riduzione della densità dei capelli. Questo processo appare inesorabilmente progressivo, con
una rapidità evolutiva variabile che in alcuni soggetti può essere anche particolarmente marcata. La familiarità è certamente un fattore
prognostico importante, ma possono intervenire anche altri fattori come, ad esempio, stress intercorrenti, forma clinica, gravità, etc.
L’unico trattamento che si è dimostrato efficace nel modificare in maniera radicale il decorso dell’AGA maschile è finasteride 1mg, che
blocca la progressione dell’AGA in gran parte dei pazienti trattati. In una minore percentuale di casi si assiste ad una ricrescita dei capelli, in dipendenza del background genetico e della condizione basale. Pertanto, la precocità dell’intervento terapeutico garantisce migliori risultati terapeutici. I risultati clinici ottenuti con finasteride vengono persi entro 1 anno dalla sospensione del trattamento, con ritorno alla situazione di partenza.
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Mesoterapia
• Atzori L
Clinica Dermatologica - Università di Cagliari
La Mesoterapia o terapia farmacologica intradermica distrettuale, come più recentemente è stato proposto di denominarla dalla Società Italiana di Mesoterapia, è una tecnica iniettiva che consente di somministrare nel derma piccole quantità di sostanze a scopo terapeutico. Tale metodica avrebbe il vantaggio di ridurre gli effetti collaterali sistemici ed aumentare la distribuzione diretta del farmaco
nella sede del processo patologico. Allo stato attuale, nonostante rappresenti uno degli interventi medico-estetici più praticati, non esistono protocolli e farmaci espressamente approvati per tale utilizzo, con le conseguenti non trascurabili implicazioni medico-legali. La
microterapia rappresenta una variante di recente introduzione, che grazie all’impiego di uno speciale dispositivo monouso a campana,
denominato S.I.T. (Skin Injection Therapy), consente di limitare la profondità dell’iniezione (1,5 mm) e la quantità di soluzione ipertonica e/o farmacologica erogata, al fine di ridurre il traumatismo a carico del derma medio-profondo. Nella tecnica classica infatti, l’iniezione intradermica (3-5 mm) è causa frequente di stravasi ematici, danni vascolari ed alle strutture nervose, che innescano processi riparativi a potenziale evoluzione in multiple aree di microsclerosi cicatriziale, con compromissione o aggravamento della funzionalità del
microcircolo. Studi sulla cinetica del riassorbimento dei liquidi a livello del derma papillare hanno evidenziato come piccoli volumi di una
soluzione ipertonica inducano un doppio gradiente osmotico, con rapido drenaggio dell’iniettato verso il derma più profondo, dove richiamano liquidi dai tessuti interstiziali e ne favoriscono l’eliminazione. Conferme dell’efficacia di tale metodica nella pannicolopatia
edemato-fibrosclerotica, soprattutto per quanto concerne la componente edematosa, sono state ottenute con rilievi impedenzometrici e termografici.
L’immagine della donna nell’arte contemporanea
• Battarra VC
Azienda Ospedaliera di Caserta, U.O. Dermatologia
Se l’arte è specchio dei tempi, il corpo è lo specchio dell’anima.
Il ritratto femminile è stato nel passato uno dei temi centrali della pittura e della scultura. Ogni artista si è posto il problema di interpretare il corpo femminile, di leggerlo e di rappresentarlo, nelle sue forme e possibilmente nei suoi sentimenti.
Il nudo femminile, dipinto o plastico, è sempre stato un esercizio accademico, formativo per eccellenza. Se volessimo analizzare quanto è cambiato questo corpo nel corso dei secoli, se non dei millenni, noteremmo che alcuni criteri di bellezza classica costituiscono dei
canoni che sono dei veri e propri archetipi formali.
Tali archetipi nel linguaggio artistico sono rimasti immutati dall’arte greca fino all’Ottocento e nella comune accezione persiste ancora
questo concetto di bellezza classica. L’evoluzione del linguaggio delle arti visive nell’ultimo secolo, con l’arricchimento determinato dalla fotografia, dal cinema e dalla televisione, ha determinato la crisi della rappresentazione. Non essendo più compito della pittura e della scultura riportare il vero, delegando in questo l’occhio meccanico, l’artista pittore e scultore si è liberato del fantasma del ritratto e si
è sviluppato un linguaggio visivo libero dalla necessità di rappresentare.
Ecco allora che il nudo femminile ha perso la sua caratteristica di esercizio pittorico e plastico, ogni artista ha inteso rappresentare la
donna secondo nuovissime coordinate che andavano ben al di là dei canoni estetici classici. Il corpo femminile si è piegato sempre più
alle esigenze di linguaggio ed il compito di rappresentare l’ideale femminile è diventato appannaggio più o meno esclusivo della fotografia, del cinema e della televisione.
Molte fotografie e molti “frame” cinematografici e televisivi sono ormai entrati nell’immaginario collettivo come vere e proprie icone del
nostro tempo. Ciò non significa però che la pittura e la scultura non abbiano con forza proposto un’immagine femminile, anche se a
volte addirittura alternativa all’ideale comune.
Si pensi alle donne dilatate di Fernando Botero o alla moltiplicazione delle Marilyn di Andy Warhol. Di fatto, però, l’immagine della donna ha perso nell’arte contemporanea il suo connotato di esercizio pittorico e plastico, vale a dire rappresentativo, per divenire strumento
del linguaggio.
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Aspetti clinici della cellulite e novità in tema
• Di Pietro A
ISPLAD, Milano
Le alterazioni del rivestimento cutaneo nella cosiddetta “cellulite” non sono primitive, ma secondarie al sovvertimento strutturale del pannicolo adiposo sottocutaneo e del confine tra derma e tessuto adiposo, che si verificano negli stadi avanzati del processo. L’epidermide
è in genere assottigliata e vi possono essere fenomeni zonali più o meno accentuati di ipercheratosi e/o di paracheratosi, fino alla formazione di vere e proprie perle cornee. Il disegno papillare è appena accennato, per cui il confine dermo-epidermico può apparire pianeggiante e solo in alcuni punti le “cristae epidermicae” aggettano verso lo strato papillare del derma. Il connettivo dello strato reticolare e di quelli più profondi del derma, dissociato dall’edema nei primi stadi del processo liposclerotico per fenomenni di abnorme permeabilità capillare, appare costituito da travate di fibre ispessite, a decorso irregolare e talora ondulato, spesso frammentate; la quota
mucopolisaccaridica interstiziale appare molto scarsa o assente. Singole travate di fibre compatte, scleroialinotiche, sono intensamente
PAS-positive e picrofucsinofile, colorandosi in rosso-violaceo con la colorazione tricromica di Masson. Gli annessi cutanei possono mostrare, ma più raramente, alterazioni regressive: in genere si assiste al “fenomeni della superficializzazione” delle ghiandole sudoripare,
che sembrano più vicine all’epidermide per i processi involutivo-sclerotici del derma.
Ciò implica la necessità di procedere sempre con particolare cura alla valutazione del reperto zonale nelle diverse sedi interessate e di convalidare la diagnosi con metodi strumentali, tra cui la termografia ad alta risoluzione assume una posizione di assoluto rilievo.
Cellulite: risultati di un’indagine al femminile
• A cura dell’Associazione Donne Dermatologhe Italia
Coordinatrice dell’indagine: Fabbrocini G, Clinica Dermatologica, Università di Napoli Federico II
Le adiposità localizzate, meglio conosciute come cellulite, rappresentano uno dei principali problemi estetici con i quali si confronta la
donna indipendentemente dall’età. Sono proprio le ragazzine (14-18 anni) a sottoporsi ad estenuanti cicli di massoterapia o ionoforesi o a ricercare la tecnica più moderna per combattere questo antiestetico disturbo. Ma anche la quarantenne non è immune dal ricorrere alla crema miracolosa più propagandata dai mass-media per arginare una situazione da lei stessa definita “catastrofica”.
Non sempre lo specialista riscontra nella situazione che si osserva questi caratteri così drammatici ma è sicuramente un disturbo con il
quale bisogna confrontarsi per dare risposte efficaci.
Di qui l’indagine sulle pazienti afferenti agli ambulatori dell’Associazione Donne Dermatologhe Italia con un questionario autosomministrato su quello che la cellulite rappresenta per la singola intervistata sia in termini di disagio psicologico sia in termini di impegno economico. Quanto spende all’anno una donna per combattere la sua cellulite? e a quale specialista si rivolge più frequentemente? Quali
sono i rimedi maggiormente utilizzati?
Lo studio promosso dalle DDI, cui hanno partecipato oltre 1000 pazienti, vuole fornire una fotografia istantanea della problematica per
creare spunti di discussione ed approfondimento tra i diversi specialisti del settore
Carbossiterapia
• Frasca N
Per carbossiterapia si intende l’utilizzo di anidride carbonica (CO2) per scopi terapeutici.
È una tecnica che nasce nel 1930 in Francia presso le terme di Royat dove è stata utilizzata nel trattamento di pazienti affetti da arteriopatie periferiche somministrando CO2 per via transcutanea.
Nel 1990 Belotti e collaboratori, presso l’Istituto Termale di Rabbi (TN), iniziano a studiare i benefici effetti anche sulla cellulite utilizzando la via di somministrazione sottocutanea.
È stato dimostrato che la somministrazione di CO2 migliora non solo i parametri circolatori locali (dimostrato con esame Videocapillaroscopia, e Laser-Doppler flow) ma anche un incremento della pressione parziale di ossigeno (tcPO2), probabilmente per l’induzione di
uno stato di ipercapnia locale nella circolazione capillare, un abbassamento del consumo di ossigeno a livello cutaneo ed uno spostamento a sinistra della curva di dissociazione dell’ossigeno (effetto Bohr).
Con tali premesse, nel 2001, la U.O. di chirurgia Plastica di Siena ha portato avanti uno studio utilizzando la carbossiterapia per il trattamento delle adiposità localizzate, inizialmente come unica terapia ed in un secondo tempo, in associazione alla lipoaspirazione: oltre
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agli effetti positivi sul microcircolo, è stato dimostrato istologicamente un effetto diretto sul tessuto adiposo con lisi cellulare ma con risparmio del le strutture vascolari.
Terapia topica nella cellulite
• Rigoni C, Sparavigna A*
DDI, Milano; *Derming, Monza
La panniculopatia edemato-fibro-sclerotica è uno stato patologico che rappresenta un vero e proprio problema psicoestetico,in una società che sempre di più richiede un aspetto esteriore perfetto. Essendo teoria comune che la “cellulite” interessi nel 90-98% dei casi le
donne di qualsiasi età, comunque al di sopra della pubertà, è opportuno considerare in maniera seria e pertinente questo inestetismo
controllando i fattori predisponenti e intervenendo con terapie mirate. Il dermatologo non dovrebbe sottovalutare questo disturbo, né
ignorare l’eumorfia cutanea, poiché spesso ciò che è considerato disarmonia della figura è semplicemente un’espressione costituzionale e non uno stato patologico. È comunque opportuno essere in grado di riconoscere anche le formulazioni dei prodotti topici che vengono utilizzati sempre in prima battuta dalle pazienti e che molto spesso accompagnano le metodiche di trattamento medico o chirurgico. I risultati derivanti dal solo utilizzo di prodotti topici, sono legati a molte variabili che vanno dallo stadio della “cellulite” alla diffusione del problema ed alla costanza dell’applicazione, tuttavia anche in questo caso è necessaria una buona conoscenza dei principi
attivi impiegati e della loro modalità d’azione per assicurare alle pazienti dei miglioramenti apprezzabili.
Bibliografia
• Goldman Mitchel P. “Cellulite: a review of current treatments” Cosmet Dermatol vol 15 No2 Feb 2002
• Draelos ZD “Cellulite: etiology and purported treatment” Dermatol Surg 1997;23:1177-1181
Etanercept
• Chimenti S
Clinica Dermatologica - Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
L’etanercept è una proteina di fusione totalmente umanizzata caratterizzata dal dominio extracellulare del recettore del Tumor Necrosis Factor-alpha (TNF-α) ed il frammento Fc delle immunoglobuline di classe G1. La sua attività antinfiammatoria è dovuta al fatto che,
legandosi in maniera competitiva al TNF-α, ne inibisce l’attività prevenendone l’interazione con il suo recettore cellulare. Il TNF-α riveste un ruolo fondamentale in molteplici patologie infiammatorie croniche, come l’artrite reumatoide, molte vasculiti, come la granulomatosi di Wagener o l’arterite temporale, e, in ambito dermatologico, la psoriasi. Presso la Clinica Dermatologica dell’Università di Roma Tor Vergata sono attualmente in trattamento con etanercept 52 pazienti (33 M, 19 F - età media 45 anni, PASI medio iniziale di
15.6), 30 affetti da psoriasi a placche di grado moderato-severo, con un PASI di almeno 12 e con il coinvolgimento di almeno il 10% della superficie corporea, 17 affetti da psoriasi artropatica, 5 pazienti affetti da psoriasi eritrodermica. Il farmaco è stato somministrato al
dosaggio di 25 mg per via sottocutanea, due volte a settimana. L’end-point principale è stato la valutazione del PASI 50 e del PASI 75
alla settimana 12 e alla settimana 24. In questa presentazione verranno illustrati i risultati relativi all’efficacia ed alla tollerabilità dell’etanercept nel trattamento della psoriasi nelle sue varie forme.
La psoriasi artropatica
• Garcovich A
Clinica Dermatologica, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
L’artrite psoriasica (AP) è una artrite infiammatoria, sieronegativa strettamente associata alla psoriasi e potenzialmente invalidante. Essa può interessare dal 5% al 30% dei pazienti affetti da psoriasi. La gravità della AP rispetto all’artrite reumatoide (AR) è ancora sottostimata in termini di progressione del danno articolare e di compromissione della qualità di vita. Le manifestazioni cutanee nell’80% dei
casi precedono, anche di molti anni, la compromissione articolare. Quando compaiono i primi segni di rigonfiamento alle articolazioni,
dolori e rigidità mattutina, il dermatologo può svolgere un ruolo cruciale nel riconoscimento precoce della malattia e nella terapia. Le
alterazioni ungueali sono una delle manifestazioni delle psoriasi più comuni nella AP, ma tutte le forme cliniche ne sono ben rappre-
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sentate: guttata, in placche, circoscritta, diffusa, pustolosa. Il tipo di coinvolgimento articolare nella AP differisce da quello della AR e tende a essere asimmetrico. Sono stati individuati cinque principali quadri clinici di riferimento, ma la distribuzione dell’interessamento articolare può essere estremamente variabile, da poche articolazioni interfalangee distali (IFD) delle mani e dei piedi al prevalente coinvolgimento assiale del rachide. Rispetto alla AR i pazienti con AP hanno maggiori limitazioni funzionali per la presenza di infiammazioni molto dolorose dei tessuti periarticolari (entesi), dei tendini e delle guaine tendinee (tendiniti, dattiliti, sinoviti). Sebbene l’etiologia
della AP non sia ancora chiarita sicuramente intervengono fattori genetici, ambientali, immunologici. Nei tessuti sinoviali si osserva un
infiltrato infiammatorio composto da macrofagi, cellule B, plasmacellule e cellule T attivate. Questo infiltrato cellulare è compatibile con
il profilo delle citochine osservato nelle lesioni psoriasiche della cute. Il tessuto sinoviale dei pazienti con AP produce in vitro notevoli
quantità di TNFalfa, IL-1, IL-2, IL-10 e interferon-gamma. Tra le varie citochine implicate nella patogenesi della AP il TNF sembra rappresentare il target più significativo per un trattamento con i nuovi farmaci biologici. Gli studi controllati sui tradizionali farmaci antireumatici
modificanti il decorso della malattia tra i quali la sulfasalazina, MTX e soprattutto la ciclosporina, hanno dimostrata attività sulla AP ma
sono stati gravati spesso da tossicità nei trattamenti a lungo termine. I nuovi agenti anti TNF (infliximab etarnecept), già utilizzati con efficacia nella terapia della AR, appaiono promettenti anche nei confronti della AP, almeno dalle prime esperienze su un numero limitato
di pazienti. Una valutazione in termini di beneficio clinico sulle lesioni cutanee, articolari e sugli effetti collaterali a lungo termine richiede a nostro avviso ancora tempo e ampie casistiche.
Alefacept
• Girolomoni G, Gisondi P
Istituto Dermopatico dell’Immacolata, IRCCS, Roma
Il riconoscimento del ruolo fondamentale dei T linfociti in molte malattie croniche autoimmunitarie, inclusa la psoriasi, ha portato allo
sviluppo di nuove strategie per inibire l’attivazione dei linfociti T. Un approccio è stato quello di bloccare l’interazione tra il CD2 ed il suo
legante, il lymphocyte function-associated antigen 3 (LFA-3). Il CD2 è presente sulla membrana delle cellule natural killer e di tutti i sottogruppi dei T linfociti, ma è soprattutto espresso dai linfociti T di memoria. Il segnale LFA-3-CD2 gioca un ruolo importante nell’attivazione dei T linfociti. Quando il LFA-3, espresso dalle cellule presentanti l’antigene, interagisce con CD2, si verifica una più vigorosa
proliferazione di linfociti T e vengono aumentate le funzioni effettrici del linfocita T. La proteina ricombinante alefacept (proteina umana di fusione LFA-3-IgG1) previene l’interazione tra LFA-3 e CD2, riducendo l’attivazione dei T linfociti di memoria. Inoltre, i linfociti T
di memoria che hanno legato LFA-3-IgG1 vanno in apoptosi e sono più facilmente eliminati da macrofagi e cellule natural killer, che
esprimono alti livelli del recettore FcγRII. Il farmaco è stato impiegato per via endovenosa (7.5 mg) o per via intramuscolare (15 mg) una
volta alla settimana per 12 settimane, con risultati terapeutici ed eventi avversi sostanzialmente sovrapponibili. In tutti gli studi, il miglioramento
della psoriasi è associato ad una riduzione selettiva del numero di linfociti di memoria CD45RO+ circolanti. Al contrario, il numero delle
cellule T naive e delle cellule natural killer rimane sostanzialmente invariato. Gli effetti terapeutici si evidenziano in genere al termine o
nelle settimane successive alla fine del trattamento con circa il 30% e il 60% dei pazienti che raggiunge rispettivamente il PASI 75 e il
PASI 50. I pazienti trattati con due cicli ripetuti hanno raggiunto il PASI 75 e PASI 50 nel 40% e 70% dei casi, rispettivamente. La risposta al trattamento si è dimostrata particolarmente duratura nei responders. Infatti, i pazienti che ottengono il PASI 75 mantengono il PASI 50 per un tempo mediano di 7 mesi. L’alefacept è stato complessivamente ben tollerato. Gli evento avversi riportati con incidenza
maggiore nei pazienti trattati rispetto a qualli che hanno ricevuto placebo sono i brividi e reazioni nel sito di iniezione. Infezioni opportunistiche da richiedere ospedalizzazioni sono state molto rare (≤1%). Nel 10% dei pazienti trattati si è verificata una riduzione del numero dei linfociti CD4+ <250/µL almeno in una occasione. Un recente studio randomizzato ha inoltre dimostrato che un ciclo di alefacept e.v. di 12 settimane non interferisce con la capacità di rispondere ad antigeni di memoria o di sviluppare immunità umorale nei
confronti di neoantigeni, indicando che la terapia non altera in maniera sostanziale la capacità dell’organismo di reagire alle infezioni o
di rispondere a vaccinazioni anti-infettive. Alefacept è stato approvato da parte della Food and Drug Administration per il trattamento
della psoriasi cronica in placche di grado moderato o severo a seguito dei risultati ottenuti negli studi clinici multicentrici, randomizzati
controllati condotti su oltre 1300 pazienti.
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Il punto di vista dei malati
• Maccarone M
ADIPSO - Roma
Numerosi studi hanno oramai confermato l’impatto devastante che la psoriasi esercita sulla qualità di vita del paziente; particolarmente gravi sono inoltre le ripercussioni sul sentimento di autostima del paziente stesso.
Prurito, desquamazione, chiazze arrossate ed altre manifestazioni della malattia possono causare un disagio fisico ed una condizione psicologica fortemente debilitata.
La componente artritica (psoriasi artropatica) può determinare, inoltre, una patologia altamente invalidante con risvolti drammatici nella vita quotidiana del malato.
Oltre allo stress accumulato, il paziente deve poi affrontare la non curanza e l’ostilità della società: i risultati, è ovvio, saranno quindi catastrofici.
Da non trascurare, inoltre, la componente economica! Il soggetto psoriasico deve infatti ricorrere quotidianamente, oltre alle cure farmacologiche tradizionali, a prodotti emollienti ed idratanti per migliorare lo stato della pelle con un costo medio valutato a circa €1.500
annuali.
Le aspettative dei pazienti, ovvero i loro diritti, non sempre vengono riconosciuti e considerati nella giusta misura. Le sue necessità prioritarie sono essenzialmente due: la prima è di essere informato su tutto ciò che ruota intorno alla psoriasi e su questo punto diventa
fondamentale il supporto delle Associazioni dei malati; in secondo luogo, egli ha diritto di essere rassicurato dalle persone che si prendono cura di lui, consapevoli della sua condizione e delle sue difficoltà quotidiane. Per questo riveste un ruolo fondamentale il medico
specialista che oltre a curare la malattia deve prendersi cura del malato, principio inderogabile cui il dermatologo non può sottrarsi.
Efalizumab
• Pincelli C, Marconi A
Clinica Dermatologica - Università di Modena e Reggio Emilia
Molti dei nuovi trattamenti disponibili per la cura della psoriasi e della artrite psoriasica sono detti “biologici” poichè originano da forme viventi come virus, animali o dall’uomo. A differenza degli altri farmaci sistemici, i farmaci biologici devono essere iniettati o infusi
e non possono essere assunti per bocca perchè, essendo macromolecole proteiche, verrebbero degradati. Questi nuovi farmaci sono diretti contro bersagli molto specifici nell’ambito della risposta immune coinvolta nella patogenesi della psoriasi. L’efalizumab (Raptiva) è
un anticorpo umanizzato cioè reso molto simile a quelli prodotti dal nostro sistema immunitario il quale pertanto non scatena nessuna
reazione in risposta al farmaco stesso. Raptiva impedisce il contatto tra i linfociti T e le cellule presentanti l’antigene (APC) bloccando la
cascata di reazioni immunologiche che stanno alla base della formazione delle lesioni psoriasiche. Oltre la metà dei pazienti trattati con
Raptiva hanno ottenuto miglioramenti superiori al 75% della severità della psoriasi. I farmaci biologici, teoricamente, dovrebbero anche
avere meno effetti collaterali rispetto ai trattamenti esistenti. Le prime inieizioni di Raptiva possono dare sintomi simil-influenzali che
tendono a non comparire più dopo la terza iniezione e non sono stati osservati effetti negativi durante la terapia a lungo termine. Inoltre i nuovi farmaci biologici non devono essere assunti quotidianamente ma a frequenza settimanale e, come nel caso di Raptiva, possono addirittura essere autosomministrati dai pazienti con iniezioni sottocutanee. In conclusione, se si considera l’alta efficacia, i minori effeti collaterali uniti ad una elevata compliance dei pazienti dovuta alla maggior comodità dell’assunzione si intuisce quale notevole
impatto nell’attuale trattamento della psoriasi potrà derivare dai farmaci come il Raptiva, per ora disponibili in Italia solo per uso sperimentale.
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