La felicità coniugale

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La felicità coniugale
tahar ben jelloun
la felicità coniugale
Traduzione di Anna Maria Lorusso
I LIBRI DI
TAHAR BEN JELLOUN
La prima versione di questo romanzo è stata pubblicata da Bompiani
nel 2010 con il titolo L’uomo che amava troppo le donne.
Titolo originale
LE BONHEUR CONJUGAL
ISBN 978-88-452-7607-1
© 2013 Tahar Ben Jelloun
© 2014 Bompiani/RCS Libri S.p.A.
Via Angelo Rizzoli 8 - 20132 Milano
I edizione Tascabili Bompiani marzo 2014
marianne : Pensi che due persone possano vivere insieme tutta la vita?
joahn: Il matrimonio è una convenzione
sociale idiota, rinnovabile ogni anno o
annullabile... Pensa piuttosto a pagare le
tue contravvenzioni, si stanno accumulando.
Scene da un matrimonio,
Ingmar Bergman
Creiamo noi la nostra fortuna.
Gilda, King Vidor
prima parte
l’uomo che amava troppo le donne
Prologo
Si è posata sulla punta del suo naso. Né grossa né
piccola. Una mosca qualsiasi, grigia, nera, leggera,
inopportuna. Sta bene lì, sul quel naso su cui è atterrata come un disco volante su una portaerei. Si pulisce le
zampe anteriori. Sembra che se le sfreghi, che le lucidi
per qualche missione urgente. Niente la disturba. Si attiva pur restando sul posto. Non pesa, ma dà fastidio.
Snerva l’uomo che non può cacciarla. Lui ha cercato di
muoversi, di fare vento, ha soffato, ha urlato. La mosca
è indifferente. Non si scompone. È lì, ben messa, e non
ci pensa proprio a scappare. Eppure l’uomo non le vuole male, auspica solo che se ne vada, che lo lasci in pace,
lui che non può muovere le dita, le mani, le braccia.
Il suo corpo non funziona più. È (momentaneamente)
impedito. Una specie di tilt a livello del cervello. Un incidente sopraggiunto qualche mese fa. Di cui non aveva avuto sentore e che lo ha colpito come un fulmine.
La sua testa non controlla più le sue membra. In quel
momento, per esempio, lui vorrebbe che il suo braccio
si sollevasse e cacciasse l’intrusa. Ma non si muove nulla. La mosca se ne frega. Che lui sia malato o in buona
salute, non cambia niente, lei continua tranquillamente
a farsi la toilette sulla punta di quel naso fantastico.
L’uomo cerca ancora una volta di muoversi. La mosca si
attacca. Lui sente le sue minuscole zampette quasi trasparenti piantarsi nella sua pelle. Si è sistemata bene.
Nessuna voglia di andarsene. Come è arrivata fn lì?
Quale sventura l’ha portata lì? Le mosche sono libere,
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non obbediscono a nessuno, fanno quel che vogliono,
volano via quando si cerca di cacciarle o di schiacciarle.
Si dice che abbiano uno sguardo a 360 gradi. Che la
loro vigilanza sia impressionante. Per il momento,
l’uomo cerca di sapere quale percorso ha preso per
arrivare fn lì. Ah, il giardino! I cani che non fniscono
mai il loro cibo. Le mosche del quartiere conoscono
tutta la sua casa e l’angolo vicino al portone. Accorrono lì da ovunque, sicure di trovarvi un pasto. Dopo
aver mangiato in abbondanza, fanno un giro, volano
qua e là per digerire. Canticchiano, cadono nel vuoto,
vanno in tutte le direzioni. Ecco che un naso umano si
presenta e le invita a fargli visita. Una volta che una di
loro ci si posa, nessun’altra osa contenderle il territorio.
L’uomo, intanto, soffre. Ha voglia di grattarsi, voglia
di cacciarla, voglia di alzarsi, di correre e di pulire lui
stesso quell’angolo sporco del giardino in cui il guardiano ha l’abitudine di buttare una parte della spazzatura. Immagina un mondo diverso: se il giardiniere
fosse andato a scuola, se i suoi genitori contadini non
avessero lasciato il loro paese per venire a stare in città,
diventare mendicanti, lavamacchine, parcheggiatori, se
il Marocco non avesse attraversato due anni di terribile
siccità, se il denaro del paese fosse stato distribuito meglio fra città e campagne, se queste ultime fossero state
considerate come un granaio e un tesoro per il paese,
se la riforma agraria fosse stata fatta con giustizia, se
quel mattino al guardiano fosse venuto in mente di pulire quella parte del giardino dedicata all’immondizia,
se si fosse preoccupato di scacciare le mosche che si
danno appuntamento lì, se inoltre i due uomini che si
occupano di lui fossero stati al suo capezzale, quella
mosca, quella maledetta mosca, non avrebbe potuto
atterrare sul suo naso e dargli un prurito tremendo da
farlo impazzire, lui che già un ictus aveva inchiodato al
letto, ormai sei mesi fa.
Si dice che è alla mercé di un insetto, un piccolissi10
mo insetto. Lui che per una semplice zanzara poteva,
quando era in buona salute, avere uno scatto di rabbia
incomprensibile. Da bambino, di notte immaginava
delle autentiche cacce alla zanzara, che schiacciava con
grossi libri le cui copertine conservano ancora oggi
tracce di sangue. Lì, nel luogo in cui viveva, sembravano insensibili alle piante velenose, come ai detergenti
e ai prodotti tossici. Sua moglie era arrivata a far intervenire uno stregone che aveva preparato dei talismani
e recitato delle preghiere per cacciarle. Ma loro erano
più forti di qualsiasi cosa. Passavano la notte a succhiare il sangue degli umani e sparivano all’alba. Vampiri.
Quel pomeriggio, la mosca era venuta a vendicare gli
insetti del Marocco che aveva massacrato per tutta la
vita. Prigioniero del suo corpo immobile, l’uomo urla,
grida, supplica inutilmente, la mosca non si muove e la
cosa lo fa soffrire sempre di più. Non una grande sofferenza, solo un disturbo, piccolo, che inevitabilmente
eccita i suoi nervi – cosa che, nello stato in cui si trova,
non è affatto consigliata.
E poi, poco a poco, l’uomo riesce a convincersi che
la mosca non lo disturba più, che i suoi pruriti sono
immaginari. Ecco, inizia a trionfare su di lei. Non che si
senta meglio, ma ha capito che deve accettare la realtà e
smettere di imprecare. Il suo rapporto col tempo e con
le cose, in quegli ultimi mesi, ha cambiato natura. Il suo
incidente è una prova. Già non pensa più alla mosca.
All’improvviso i due assistenti che giocavano a carte
nella stanza accanto sono venuti a vedere se l’uomo stava bene e la mosca immediatamente è volata via. Nessuna traccia di lei ora, se non la collera muta, la collera
controllata che la dice lunga sullo stato di quest’uomo – un pittore che non può più dipingere.
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I
Casablanca, 4 febbraio 2000
Ho in me delle capacità d’amore, ma è
come se fossero sepolte in una stanza
chiusa.
Scene da un matrimonio,
Ingmar Bergman
I due uomini robusti che lo avevano trasportato e poi
deposto sulla poltrona rivolta al mare non avevano più
fato. Il malato aveva anche lui il respiro corto e lo sguardo pieno di amarezza. Solo la sua coscienza era ancora
viva. Il suo corpo era ingrassato, era diventato pesante.
Quanto alla elocuzione, era lenta e per lo più incomprensibile. Gli facevano ripetere più volte quello che diceva – cosa che lui detestava, perché era faticosa e anche
umiliante. Preferiva comunicare con gli occhi; quando li
sollevava voleva dire no. Quando li abbassava voleva dire
sì, ma un sì rassegnato. Un giorno uno dei due Gemelli
– chiamava così i suoi due aiutanti, benché non fossero
fratelli – credendo di fare una buona cosa, gli portò una
lavagna con un pennarello attaccato a una cordicella. Lui
si arrabbiò ed ebbe la forza di buttarla per terra.
Quella mattina i Gemelli non avevano potuto raderlo. Una esplosione di foruncoli intorno al mento rendeva diffcile l’operazione. Era scontento. Trascurato. Si
sentiva trascurato. Cosa che non sopportava. Considerato come l’ictus l’aveva conciato, rifutava la minima
trascuratezza nell’aspetto e nell’abbigliamento. Quando si rese conto che sulla sua cravatta non era stata
pulita una macchia di caffè, si accigliò ulteriormente. I
Gemelli si affrettarono a cambiarlo, ma anche quando
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fu tutto di bianco vestito continuò a brontolare, seppur
in modo mite.
Quando parlava, anche se non capivano certe parole, i
Gemelli riuscivano comunque a indovinarle. Leggevano
il suo volto, anticipavano i suoi desideri. Erano necessari
udito fne e pazienza. Quando era stanco, chiudeva gli
occhi, segno che bisognava lasciarlo solo. Forse piangeva, quell’uomo che era stato così brillante, così elegante,
celebrato ovunque andasse; lui, così curato, così sensibile, non tollerava lo stato in cui si trovava prigioniero. La
morte lo aveva sforato, ma non aveva fnito la sua opera.
Questo gli sembrava un insulto, un tiro mancino della
sorte, una sfortuna in più. Era una ragione di irritazione
permanente, per lui che sognava di morire nel sonno,
come il suo vecchio zio poligamo e viveur. Invece alla
fne gli era successa la stessa cosa che era successa a molti suoi amici e conoscenti della stessa generazione. Era
arrivato, come diceva il medico, a un’età critica. Il vigore
dell’età doveva affrontare qualche tempesta.
Quando la rabbia dei primi mesi si fu un po’ placata,
decise di sorridere a coloro che andavano a trovarlo:
un modo per non cedere alla decadenza fsica, che certe volte portava con sé quella dello spirito. Per questo
sorrideva sempre. C’era il sorriso del mattino, leggero
e profumato, poi il sorriso di mezzogiorno, impaziente
e secco, e poi quello della sera, divenuto alla lunga una
lieve smorfa. Un giorno però, d’improvviso, smise di
sorridere. Non voleva più far fnta. Perché sorridere? E
a chi e a quale scopo? La malattia aveva confuso le sue
abitudini. La malattia o la morte?
Non era più lo stesso uomo, e lo notava negli occhi
degli altri. Aveva perduto completamente la prestanza
del grande artista. Ma si rifutava di nascondersi; voleva poter uscire in tempi brevi e mostrarsi nel suo nuovo
stato. Sarebbe stata un’esperienza penosa, ma per lui
era importante.
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