La deontologia del giornalista

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La deontologia del giornalista
LA DEONTOLOGIA
DEL GIORNALISTA
2007
CARATTERI GENERALI
Le norme che regolano il comportamento del giornalista sono contenute nel Codice della
Privacy (2003), nel codice di deontologia dei giornalisti (1998) e, con riferimento alla cronaca su
minori, nella Carta di Treviso. Sono norme di legge e attengono al rapporto tra il giornalista e la
collettività. La loro violazione può portare alla responsabilità civile e/o penale del giornalista.
Accanto a queste norme ve ne sono altre, che però sono prive di una “forza di legge”.
Riguardano l’etica della professione e attengono al rapporto tra il giornalista e la categoria di
appartenenza. La loro violazione non comporta di per sé una responsabilità civile o penale del
giornalista, ma solo una responsabilità di tipo disciplinare, che viene accertata da appositi
organi (Consigli regionali e Consiglio nazionale) e prevede la comminazione di sanzioni
disciplinari. Le sanzioni disciplinari, in ordine crescente di gravità sono: l’avvertimento, che
viene comminata “nei casi di abusi o mancanze di lieve entità”; la censura, applicata “nei casi di
abusi o mancanze di grave entità”; la sospensione dall’esercizio della professione da un minimo di
due mesi a un massimo di un anno, quando la condotta del giornalista abbia “compromesso la
dignità professionale”; la radiazione, che origina da un comportamento che abbia “gravemente
compromesso la dignità professionale”.
Le norme disciplinari contenute nella Carta dei Doveri, siglata l’8 luglio 1993 dal Consiglio
Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e dalla Federazione Nazionale Stampa Italiana. Molte di
queste sono poi diventate “norme di legge” con l’emanazione del codice di deontologia del
1998, perché in esso trasfuse: si pensi al divieto di discriminazione, alla tutela della riservatezza,
al divieto di identificare le vittime di reati sessuali, alla tutela dei minori e dei soggetti deboli.
Il dovere più pregnante del giornalista e caposaldo del diritto di cronaca è il dovere di verità,
considerato sia dalla legge 69/1963 che dalla stessa Carta dei Doveri quale “obbligo inderogabile”.
Gli organi d’informazione sono l'anello di congiunzione tra il fatto e la collettività. Essi
consentono alla collettività l'esercizio di quella sovranità che secondo l'art. 1 Cost. “appartiene al
popolo”. Un'informazione che occulta o distorce la realtà dei fatti impedisce alla collettività un
consapevole esercizio della sovranità. In più punti la Carta dei Doveri pone l’accento su quelli
che, al pari del dovere di verità, vanno considerati valori etici assolutamente inderogabili:
l’autonomia e la credibilità del giornalista. L’autonomia del giornalista serve a garantire
l’obiettività dell’informazione. L'informazione obiettiva serve unicamente la collettività, ossia
persegue un interesse generale. Il dovere di autonomia vuole impedire che la funzione
giornalistica venga subordinata ad interessi particolari. E’ evidente, quindi, che particolari
rapporti del giornalista con soggetti interessati ad un’informazione compiacente sono visti come
il fumo negli occhi. Tuttavia, non basta qualsiasi tipo di contatto a gettare un’ombra sulla
professionalità del giornalista. Anzi, rapporti con i più disparati ambienti sono indispensabili
per poter acquisire le notizie e garantire un’informazione precisa, dettagliata. La Carta dei
Doveri vuole stigmatizzare non tanto il rapporto, quanto quegli elementi presenti in esso che
indicano uno stato di sudditanza del giornalista o un interesse in conflitto con il dovere di
verità. Insomma, casi il cui verificarsi ingenera quantomeno il dubbio sulla reale capacità o
volontà del giornalista di dare vita ad un’informazione obiettiva. Casi difficilmente
preventivabili. Ma la Carta dei Doveri tenta una “tipizzazione” di quelle situazioni in presenza
delle quali si presume che l’autonomia e la credibilità del giornalista vengano meno.
Innanzitutto, stigmatizzando l’adesione del giornalista “ad associazioni segrete o comunque in
contrasto con l’articolo 18 della Costituzione” (norma che vieta appunto “le associazioni segrete e
quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere
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militare”). Qui è la natura antidemocratica, il perseguimento di scopi illegittimi e
l’impenetrabilità della struttura cui il giornalista aderisce a minarne l’autonomia e la credibilità
(si pensi all’adesione di giornalisti ad associazioni come la “P2”). Poi, vietandogli di “accettare
privilegi, favori o incarichi che possano condizionare la sua autonomia e la sua credibilità professionale”,
nonché pagamenti, rimborsi spese, vacanze gratuite, regali, inviti a viaggi, facilitazioni, che
provengano “da privati o enti pubblici”. Ciò in quanto l’accettazione di questi vantaggi
porterebbe il giornalista a sentirsi in debito nei confronti di chi glieli ha procurati, mettendo così
ad alto rischio di violazione la norma che gli impone di accettare “indicazioni e direttive soltanto
dalle gerarchie redazionali della sua testata”. In generale, la Carta dei Doveri pone l’accento sulla
“responsabilità del giornalista verso i cittadini”, specificando che tale responsabilità non può dal
giornalista essere subordinata “ad interessi di altri e particolarmente a quelli dell’editore, del Governo
o di altri organismi dello Stato”. Il giornalista deve avere una relazione esclusiva, diretta e
immediata con la collettività. E’ un dovere strumentale allo stesso dovere di verità, poiché
l’asservimento della funzione giornalistica all’interesse “particolare”, per definizione diverso da
quello generale, costringe il giornalista a modulare l’informazione. Strettamente collegate
all’esigenza di autonomia e di credibilità del giornalista sono quelle norme che lo vogliono
estraneo ad iniziative di carattere pubblicitario. Innanzitutto, sottolineando il diritto dei
cittadini “di ricevere un’informazione corretta, sempre distinta dai messaggi pubblicitari”. La norma è
la diretta conseguenza di quanto stabilito dal D.Lgs. 25 gennaio 1992 n. 74, attuativo delle
direttive europee in materia di pubblicità ingannevole. In particolare, l’art. 1, comma 2°,
stabilisce che “La pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta”; e l’art. 4, comma 1°, la vuole
“chiaramente riconoscibile come tale” e, con specifico riferimento alla pubblicità a mezzo stampa,
“distinguibile dalle altre forme di comunicazione al pubblico, con modalità grafiche di evidente
percezione”. In pratica, va scongiurato il rischio di commistione tra pubblicità e informazione. In
ogni organo di informazione il pericolo che si ricorra alla cosiddetta pubblicità redazionale è
alto, considerata la sua efficacia: vengono messi in luce i benefici di un prodotto adottando la
grafica dell’articolo di cronaca, spacciando così un’attività promozionale per informazione,
inducendo il lettore a credere che quanto sta leggendo descrive un “fatto”, mentre in realtà
promuove un prodotto. Ed è naturale che la Carta dei Doveri responsabilizzi il giornalista
obbligandolo a “porre il pubblico in grado di riconoscere il lavoro giornalistico dal messaggio
promozionale”. Un conto è descrivere un prodotto attraverso l’enfasi tipica del messaggio
pubblicitario, ben altra cosa è indicare al lettore l’utilità di un bene legandola all’efficacia di un
articolo giornalistico. Qui l’inganno perpetrato ai danni del lettore attraverso una pubblicità
mascherata da articolo informativo è odioso, perché il giornalista approfitta della fiducia che il
lettore ripone nella presunta obiettività di chi esercita una funzione informativa. Il problema è:
come distinguere un articolo informativo da una pubblicità redazionale? In effetti, anche il più
obiettivo e disinteressato servizio giornalistico su una questione di interesse pubblico potrebbe
avere, come risultato non voluto, quello di convogliare le preferenze dei lettori sul prodotto
descritto. Nella notizia sulla presentazione della nuova collezione di un noto stilista, la semplice
descrizione dei capi di abbigliamento apporta certamente un beneficio alla sua azienda, ma non
è detto che l’articolo dissimuli una finalità pubblicitaria. Se si scoprisse che lo stilista ha pagato
per il servizio, non si porrebbe più alcuna questione. Ma è raro che il rapporto contrattuale
emerga. Si deve quindi ricorrere all’individuazione di “elementi presuntivi”, ricavabili dal
servizio giornalistico stesso, che facciano supporre lo scopo non di informare il pubblico, ma di
“promuovere la vendita di beni, oppure la prestazione di opere o di servizi”. Nella pubblicità
redazionale vengono sottolineate le caratteristiche di un prodotto, magari comparandolo con
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altri prodotti concorrenti ma in modo tale da farlo uscire largamente vittorioso. Il giornalista
guida il lettore nella scelta del prodotto. Un confronto con la problematica della Continenza
formale può aiutare a chiarire la questione. In quel caso, come si è visto, il giornalista ricorre ad
artifici comunicativi spingendo il lettore a travisare il fatto di cronaca a danno del protagonista.
Nella pubblicità redazionale, invece, gli artifici (primo fra tutti: la grafica, identica a quella di un
articolo di cronaca) inducono il lettore, mentalmente inserito in un contesto informativo, a
ricondurre la bontà del prodotto, puntualmente elogiato dall’articolista, ad un “fatto” (di
cronaca) anziché ad un’iniziativa pubblicitaria, consentendo all’inserzionista di evitare quelle
enfasi tipiche del messaggio promozionale che “allerterebbero” il consumatore per la palese
mancanza di obiettività nella descrizione del prodotto. Sotto questo aspetto, la pubblicità
redazionale può paragonarsi ad una violazione inversa del requisito della continenza formale,
a causa degli effetti positivi prodotti. L’autonomia e la credibilità del giornalista è tutelata anche
attraverso norme che gli impediscono di fare da testimonial, sul presupposto che
l’asservimento, anche estemporaneo, del giornalista ad interessi privati non può mai conciliarsi
con la sua autonomia. La Carta dei Doveri gli vieta di “prestare il nome, la voce, l’immagine per
iniziative pubblicitarie incompatibili con la tutela dell’autonomia professionale”, consentendogli di
partecipare (ma solo “a titolo gratuito”) ad “iniziative pubblicitarie volte a fini sociali, umanitari,
culturali, religiosi, artistici, sindacali. e comunque prive di carattere speculativo”. Qui sembrerebbe
esserci una contraddizione. La prima parte della norma consentirebbe al giornalista di proporsi
come testimonial quando l’iniziativa non può nuocere alla sua autonomia professionale. E, nel
contempo, la seconda parte gli vieterebbe la partecipazione persino a titolo gratuito ad ogni
iniziativa pubblicitaria “di carattere speculativo”, ossia finalizzata al profitto, anche quando
riguardasse un ente benefico. Paradossalmente, quello che il giornalista non potrebbe fare
nemmeno gratuitamente per un ente benefico, potrebbe invece farlo dietro compenso per una
qualsiasi azienda se ciò non mettesse a rischio la sua autonomia professionale! Data l’evidente
incongruità della conclusione, s’impone un’interpretazione nei seguenti termini. Il carattere
speculativo di un’iniziativa pubblicitaria è sempre un limite al diritto del giornalista di prestare
nome, voce o immagine, perché è proprio il carattere speculativo a pregiudicarne l’autonomia
professionale (e la credibilità). Ove invece manchi il carattere speculativo, il giornalista può
liberamente fare da testimonial, ma soltanto ai fini elencati nella norma. Ed esclusivamente a
titolo gratuito, altrimenti il carattere speculativo riguarderebbe addirittura il giornalista stesso.
Altra norma di comportamento contenuta nella Carta dei Doveri è quella che vieta al giornalista
di “pubblicare immagini o fotografie particolarmente raccapriccianti di soggetti coinvolti in fatti di
cronaca, o comunque lesive della dignità della persona”. La norma riproduce, almeno in parte, l’art.
15 L. n. 47/1948 (“legge sulla stampa”), che estende l’applicazione dell’art. 528 del codice penale
(“Pubblicazioni e spettacoli osceni”) al “caso di stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari
impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in
modo da poter turbare il comune sentimento della morale o l’ordine familiare o da poter provocare il
diffondersi di suicidi o delitti”, norma estesa anche al sistema radiotelevisivo dall’art. 30 L. n.
223/1990 (“legge Mammì”). La Carta dei Doveri ha depurato la norma degli anacronistici
riferimenti al “comune sentimento della morale” e all’“ordine familiare”, sostituendoli con il
parametro della “dignità della persona”. Storicamente la norma ha avuto un’applicazione
pressoché univoca. Ha riguardato qualsiasi immagine scioccante, a prescindere dall’esigenza
informativa che la pubblicazione era destinata a soddisfare. In realtà, la norma pone una
fondamentale questione, a causa del risultato contraddittorio cui porta la sua applicazione. Si
censura un comportamento che può turbare chi apprende la notizia, ma che per il giornalista
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costituisce la forma più esemplare di adempimento del dovere di verità, che è il caposaldo del
diritto di cronaca. Per questo sarebbe un errore scartare a priori la legittimità della
pubblicazione dell’immagine raccapricciante. Va quindi privilegiata una soluzione che tenga
conto della sensibilità del lettore medio, ma anche del diritto della collettività a ricevere
un’informazione il più possibile fedele ai fatti. E la soluzione non può che passare attraverso
l’analisi dell’altro fondamentale requisito del diritto di cronaca: l’interesse pubblico. Bisogna
cioè valutare se e quando sussiste l’interesse pubblico della collettività ad acquisire l’immagine
raccapricciante. L’interesse pubblico sussiste quando l’immagine raccapricciante ha di per sé un
valore indiscutibilmente informativo, essendo l’unica fonte della notizia. Giova passare subito
ad un esempio: le torture nel carcere irakeno di “Abu Graib”. I fatti furono resi noti attraverso
la diffusione di fotografie scattate, incautamente e per diletto, dagli stessi torturatori americani e
poi finite in “mani sbagliate”. Ebbene, la collettività non avrebbe potuto acquisire la notizia
senza la diffusione di quelle immagini. Quale può essere quella fonte “ufficiale” (o quantomeno
“attendibile”) che avrebbe dovuto fornire elementi di fatto tali da consentire al giornalista la
diffusione della notizia nel rispetto del requisito della verità? Qui le immagini raccapriccianti
hanno un incontestabile valore informativo perché rappresentano il contenitore di una notizia
non altrimenti acquisibile dalla collettività. Si pensi anche alla pubblicazione di immagini
raccapriccianti che testimoniano i massacri compiuti in un paese dove è in corso una feroce
azione repressiva da parte dello Stato, le cui autorità si rifiutano di fornire informazioni ai
giornalisti. Qui rinunciare alla pubblicazione significherebbe privare la collettività
dell’informazione su ciò che accade in quel paese. E, nel contempo, offrire a quelle autorità la
possibilità di smentire efficacemente (ma soprattutto “ufficialmente”) ogni notizia scomoda.
Non va dimenticato, infatti, che dovendo il diritto di cronaca poggiare sulla verità, qui la
diffusione delle immagini costituisce l’unico modo per neutralizzare l’efficacia di quanto
proviene da una fonte ufficiale, che in simili casi ha tutto l’interesse a dare una versione dei
fatti contraria a verità. Si ricorderanno le sconvolgenti immagini raccolte nel reportage
trasmesso da Rainews 24 sulla battaglia di Fallujia del novembre 2004, che ha svelato l’impiego
in Iraq del cosiddetto “fosforo bianco”, il micidiale ordigno Usa che fonde e deforma
orribilmente i corpi delle vittime lasciandone intatti i vestiti. Le fonti ufficiali statunitensi
avevano smentito le voci circa l’impiego di armi di distruzione di massa nella guerra in Iraq,
soprattutto perché tale guerra era stata giustificata proprio con la ricerca e la neutralizzazione di
questo tipo di arma, che si diceva fosse posseduta in grandi quantità da Saddam. Qui la prova
dell’uso del fosforo bianco da parte delle truppe americane era rinvenibile soltanto in
quell’eccezionale documento, la cui integrale diffusione ha quindi soddisfatto un sicuro
interesse pubblico. Si può dunque trarre la seguente conclusione. L’immagine raccapricciante
può essere pubblicata quando la sua diffusione soddisfa una reale esigenza informativa, ossia
quando l’immagine è il contenitore di una notizia non altrimenti divulgabile nel pieno rispetto
del requisito della verità. Resta, invece, non pubblicabile quando la sua diffusione non è
necessaria per far acquisire la notizia alla collettività. Un’ultima considerazione va fatta
riguardo ad un altro divieto contenuto nella Carta di Treviso, inserito subito dopo quello sulla
pubblicazione di immagini raccapriccianti. E’ il divieto del giornalista di “soffermarsi sui dettagli
di violenza e di brutalità, a meno che non prevalgano preminenti motivi di interesse sociale”. Qui la
maggiore libertà del giornalista, che deriva dalla prevalenza di “motivi di interesse sociale”, si
spiega con il minor impatto emotivo che una mera descrizione produce rispetto ad
un’immagine. E la soluzione della questione va ricercata nel principio di essenzialità
dell’informazione di cui all’art. 6 del codice di deontologia. La norma, trattando delle “notizie di
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rilevante interesse pubblico o sociale”, salva l’informazione dettagliata quando sia “indispensabile in
ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché
della qualificazione dei protagonisti”. Benché dettata in riferimento alla sfera privata della persona,
è facile cogliere nella norma un’analogia con quei “preminenti motivi di interesse sociale”,
menzionati nella Carta dei Doveri, che consentono al giornalista di riferire dettagli violenti e
brutali.
IL DIRITTO DI CRONACA
Il fondamento del diritto di cronaca è nell’art. 21 Cost., in quanto libera manifestazione del
pensiero. La cronaca si distingue dalle varie forme di espressione, riconducibili a quella norma
costituzionale, principalmente per due ragioni. In primo luogo, si manifesta attraverso la
narrazione di fatti. In secondo luogo, si rivolge alla collettività indiscriminata. Essendo la
cronaca narrazione di fatti rivolta alla collettività, se ne deduce che la sua funzione è quella di
informare la collettività. Quella collettività il cui ruolo, nella società democratica, è
inequivocabilmente delineato dall’art. 1 Cost., laddove dice che “La sovranità appartiene al
popolo”. Ed è proprio questa attribuzione di sovranità a connotare ulteriormente la funzione
della cronaca. La collettività, infatti, delega periodicamente la gestione della “cosa pubblica” (res
publica) ai suoi rappresentanti eletti in Parlamento. E la delega deve avvenire con piena
cognizione di causa. La collettività deve avere un quadro dettagliato sia di ciò che accade nel
Paese, sia delle persone alle quali delega l’esercizio della sovranità. Ma, non disponendo di
mezzi idonei, ecco che gli organi di informazione si incaricano di puntare i riflettori su quegli
aspetti la cui valutazione determina la scelta del delegato. Di qui l’insostituibile funzione della
cronaca: la raccolta di informazioni e la loro diffusione, in virtù del rapporto privilegiato che
gli organi di informazione vantano con la realtà, allo scopo di consentire al popolo un corretto e
consapevole esercizio di quella sovranità che l’art. 1 Cost. gli attribuisce. Tuttavia, vi sono
articoli di cronaca riguardanti personaggi o aspetti che non presentano punti di contatto con la
gestione della cosa pubblica, ma che per vari motivi destano l’interesse della collettività. Si
pensi agli artisti, ai campioni dello sport, agli argomenti culturali. Anche su questi personaggi e
argomenti la collettività va tenuta informata. Qui la funzione della cronaca è quella di
mantenere saldo il legame che unisce la collettività al personaggio, nonché di agevolarne la
crescita intellettuale. Sotto questo aspetto si può dire che la collettività vanta un vero e proprio
diritto all’informazione. O perché è funzionale all’esercizio di quella sovranità che per
Costituzione le appartiene, o perché ne favorisce la crescita in termini culturali e intellettuali.
Ma si potrebbe affermare che esiste, in correlazione al diritto della collettività ad essere
informata, anche un obbligo di informazione? Un necessario chiarimento. Qui un eventuale
“obbligo di informazione” non andrebbe riferito né specificamente alla persona del giornalista
(o a chi comunque informa la collettività), né allo scopo di fondare un giudizio di responsabilità
in caso di mancata osservanza. Un giornalista non può essere costretto a pubblicare una notizia,
né può essere ritenuto responsabile nei riguardi della collettività per non averla informata. Al
limite, ciò potrà avere rilevanza nel suo rapporto contrattuale con l’editore. In realtà, si tratta
soltanto di verificare se, in base ad alcune norme, tra collettività ed organi di informazione si
possa delineare un rapporto che, sebbene privo di rilevanza giuridica, sia tale da attribuire alla
manifestazione di pensiero che accompagna la cronaca, una valenza tutta particolare all’interno
dell’art. 21 Cost. Ebbene, di vero e proprio obbligo di informazione si potrebbe formalmente
parlare con riferimento a quei soggetti che esercitano un servizio dichiarato pubblico dalla
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legge, perché inteso in favore della collettività indiscriminata. Secondo le leggi di disciplina del
sistema radiotelevisivo che finora si sono succedute, l’attività radiotelevisiva ha sempre
costituito “un servizio di preminente interesse generale”. E alla relativa attività di informazione
è sempre stata attribuita la massima importanza, dal momento che “I soggetti titolari di
concessione per la radiodiffusione sonora o televisiva in ambito nazionale sono tenuti a trasmettere
quotidianamente telegiornali o giornali radio” (art. 20 “legge Mammì”, confermato dalla “legge
Gasparri” e dall’art. 7 del “Testo Unico della radiotelevisione”). L’attività informativa
radiotelevisiva è dunque un obbligo per i maggiori concessionari. Per la carta stampata, non c’è
dubbio che molti quotidiani e periodici a diffusione nazionale assolvano ad una funzione
informativa indispensabile per la collettività. Ma è anche vero che nella L. n. 47/1948 (“legge
sulla stampa”) non vi è norma sulla quale fondare un obbligo di informazione analogo a quello
dei concessionari radiotelevisivi nazionali. Tuttavia, l’attività di quasi tutti i quotidiani e i
periodici è esclusivamente informativa. Per non dimenticare, poi, quelle norme deontologiche
che disciplinano la professione giornalistica e che espressamente parlano di “diritto dei cittadini
all’informazione” e di “diritto-dovere di cronaca”, senza fare distinzione tra mezzi di
informazione. Dati questi presupposti, è evidente come la cronaca assuma una posizione di
netto privilegio rispetto alle altre forme di manifestazione del pensiero garantite dall’art. 21
Cost. Si tratta dunque di scoprire in cosa consiste esattamente questo privilegio. Di norma, i
limiti alla libertà di manifestazione del pensiero sono rappresentati dal rispetto di quei diritti
inviolabili che l’art. 2 Cost., norma “aperta” a sempre nuove istanze di tutela della persona, fin
dalla sua nascita si è incaricato di accogliere e garantire: a cominciare da concetti come onore,
decoro, reputazione. Diritti della persona che l’ordinamento tutela attraverso la previsione di
reati come l’ingiuria (art. 594 c.p.) e la diffamazione (art. 595 c.p.). E, nel conflitto tra
manifestazione del pensiero e diritto inviolabile, è sempre quest’ultimo a prevalere.
Non così per il diritto di cronaca. Costituendo al tempo stesso espressione della libertà di pensiero
ed insostituibile strumento di informazione al servizio esclusivo della collettività, il diritto di
cronaca vanta una tutela rafforzata. E finisce per prevalere sul diritto del singolo individuo,
anche se “inviolabile”. Il reato di diffamazione, l’illecito civile, qui non sorgono, pur in presenza
di una obiettiva lesione, perché è lo stesso ordinamento giuridico a permetterla (art. 51 c.p.:
“L’esercizio di un diritto […] esclude la punibilità”). Nel linguaggio giuridico in questo caso si
dice che il comportamento illecito è scriminato, e la lesione non dà luogo ad alcuna
responsabilità. Tutela rafforzata, ma non assoluta. Il diritto inviolabile del singolo individuo
soccombe di fronte all’esigenza informativa, ma nel rispetto di alcune precise condizioni. Di
stabilire quali siano queste condizioni si è incaricata la giurisprudenza, a partire dalla storica
sentenza che scrisse il cosiddetto decalogo del giornalista (Cass. 18 ottobre 1984 n. 5259).
Secondo i giudici che, a partire da quella storica sentenza, si sono ritrovati a dover affrontare
problematiche relative al diritto di cronaca, quest’ultima si configura correttamente soltanto
quando concorrono i seguenti tre requisiti: a) la verità dei fatti (oggettiva o “putativa”); b)
l’interesse pubblico alla notizia; c) la continenza formale, ossia la corretta e civile esposizione
dei fatti. In assenza anche di uno solo di questi requisiti, il diritto inviolabile risorge in tutta la
sua pienezza, rendendo illecita la manifestazione di pensiero. Un’ultima considerazione va fatta
riguardo ai soggetti che possono beneficiare del diritto di cronaca. Sarebbe errato sostenere che
il privilegio di informare è riservato al giornalista. L’art. 21 Cost. non può riguardare una
ristretta categoria. In realtà, l’ambito di applicazione del diritto di cronaca non è riferito al
soggetto che lo esercita, ma al mezzo attraverso il quale viene diffuso il pensiero. Così, il diritto
di cronaca va riconosciuto a chi narra fatti o esprime un pensiero utilizzando un mezzo
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tecnicamente idoneo ad informare una cerchia indeterminata di persone. Quindi, non solo al
giornalista, ma anche a chi scrive sul giornalino della scuola o dell’università, su un volantino
poi distribuito al pubblico, a chi interviene in un forum o tiene un blog su internet. Persino chi
scrive sui muri della città può invocare il diritto di cronaca, se vengono rispettati gli altri
requisiti (interesse pubblico e continenza formale), anche se il più delle volte i messaggi scritti
sui muri, non riportando fatti ma giudizi, risultano meglio riconducibili alla problematica della
critica.
LA VERITÀ
Il primo requisito che la cronaca deve rispettare nel momento in cui entra in conflitto con un
diritto inviolabile garantito dall’art. 2 Cost., è rappresentato dalla verità dei fatti. Non sarebbe
esatto dire che si tratta del requisito più importante. Eguale importanza rivestono i requisiti
dell’interesse pubblico e della continenza formale. Ma è proprio con riferimento al requisito
della verità che si registra l’avanzamento dei tradizionali limiti in materia di manifestazione del
pensiero e si rinviene la giustificazione per una tutela rafforzata del diritto di cronaca. Bisogna
prima chiarire in che termini il rispetto della verità dei fatti rappresenta, nella cronaca, un
avanzamento dei limiti tradizionalmente imposti alla libertà di pensiero. E’ utile un esempio. Se
un quotidiano locale scrive che il sindaco è indagato o è stato condannato per truffa, avrà
senz’altro agito nell’ambito del diritto di cronaca se quella notizia è vera. Ma se uno di noi viene
a sapere che per truffa è stato condannato un proprio condomino, non potrà comunicarlo agli
altri condomini affiggendo all’ingresso del palazzo il dispositivo della sentenza. Insomma, al di
fuori di un contesto propriamente informativo, fatti lesivi non possono essere resi noti
nemmeno quando sono veri. Ciò in quanto i reati di ingiuria e diffamazione prescindono dalla
verità dei fatti. Lo dice l’art. 596, comma 1°, c.p.: “Il colpevole dei delitti preveduti dai due articoli
precedenti [ingiuria e diffamazione] non è ammesso a provare a sua discolpa la verità o la notorietà del
fatto attribuito alla persona offesa”. Insomma, chi attribuisce ad una persona fatti offensivi, in un
eventuale giudizio non potrà cavarsela dimostrando che sono veri. Invece, in un contesto
informativo, la prova della verità dei fatti narrati è indispensabile per escludere la
responsabilità. Ecco, dunque, in che termini si può parlare, con riferimento alla cronaca, di
avanzamento dei limiti tradizionalmente imposti alla libertà di pensiero. Un avanzamento dei
limiti che trova giustificazione nella stessa funzione della cronaca, fondamentale in un sistema
democratico, dove “la sovranità appartiene al popolo” (art. 1 Cost.). Per ovvi motivi, qualsiasi
persona troverebbe grosse difficoltà se dovesse personalmente apprendere i fatti. Gli organi di
informazione, invece, vantano un rapporto privilegiato con la realtà. E’ come se possedessero
un gigantesco specchio da orientare di volta in volta dall’alto, consentendo così alla collettività
di cogliere fatti la cui visione diretta le è impedita da ostacoli insormontabili. La cronaca è il
tramite tra la collettività e la realtà. Raccoglie le informazioni, le seleziona e le restituisce alla
collettività sotto forma di notizia. E’ naturale, quindi, che si debba escludere qualsiasi
responsabilità, sia civile che penale, quando i fatti oggetto di cronaca siano veri. Questa è la
ragione per cui la cronaca deve basarsi sulla verità dei fatti. Il sacrificio dei diritti del singolo
individuo è giustificato soltanto dall’esigenza di informare la collettività.
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L'INTERESSE PUBBLICO
Secondo l’art. 1 Cost. “La sovranità appartiene al popolo”. La collettività ha il diritto di essere
informata segnatamente su quei fatti in grado di fornirle una visione globale e il più possibile
precisa della società, in modo da porla nelle giuste condizioni per un corretto e consapevole
esercizio della sovranità. Fatti, cioè, per i quali vi sia un reale interesse pubblico alla loro
conoscenza. Tuttavia, ciò non significa che debbano essere divulgati soltanto fatti la cui
diffusione soddisfi un reale interesse pubblico. Spesso, infatti, vengono diffuse notizie nelle
quali è davvero difficile scorgere un interesse sociale. Si pensi all’anatra che depone le uova nel
giardino della Casa Bianca, o alla fuga del gatto di Tony Blair dalla residenza di Downing
Street. Ciò dipende evidentemente dal modo in cui una testata considera e costruisce il rapporto
con i propri lettori o telespettatori. Ma la diffusione di notizie banali e insignificanti non può
essere impedita, perché è anch’essa tutelata dall’art. 21 Cost. In teoria, ogni giornalista, ogni
editore, sono liberi di stabilire quali notizie sono interessanti per la collettività e proporgliele
sotto forma di servizio giornalistico. In ogni caso, la loro diffusione non pone alcun problema. Si
tratta di notizie del tutto innocue, per le quali il giudizio sulla loro utilità sociale non assume
importanza per l’ordinamento giuridico. Il ricorso al concetto di interesse pubblico diventa,
invece, irrinunciabile quando la diffusione della notizia porta all’attenzione della collettività il
comportamento di un determinato soggetto. In linea di principio, qualunque accadimento
relativo a una persona è fatto privato; e come tale necessita del suo consenso per poter essere
divulgato. Tuttavia, vi sono casi in cui un fatto privato può essere divulgato anche contro la
volontà del soggetto. O perché la relativa notizia informa la collettività su un accadimento che
potrebbe toccare chiunque, o perché il fatto si riferisce ad un bene che, per valore o diffusione,
va considerato “comune”. Il pubblico va tenuto informato, a scapito dei protagonisti, sugli
episodi di corruzione, sulla adulterazione delle sostanze alimentari, sugli episodi di malasanità,
sugli omicidi, sulle truffe, sulle violenze sessuali. Quando ciò accade, il fatto privato diventa di
interesse pubblico e il diritto del singolo individuo viene sacrificato in nome dell’interesse
sociale. Qui la collettività è legittimata a conoscere dettagliatamente i comportamenti privati.
Comportamenti la cui conoscenza è funzionale ad una migliore comprensione delle
problematiche che proprio quei comportamenti svelano o evidenziano. La loro divulgazione
crea opinioni, stimola dibattiti, suggerisce rimedi. Rimedi cui la collettività ricorre per un
puntuale e corretto esercizio della sovranità che l’art. 1 Cost. le attribuisce. Tuttavia, non vanno
considerati di interesse pubblico soltanto gli accadimenti la cui conoscenza stimola una reazione
della collettività come soggetto sovrano, ma anche quei fatti riguardanti personaggi legati al
pubblico per meriti che non hanno nulla a che vedere con la gestione della cosa pubblica. E’ il
caso di calciatori, attori, artisti, presentatori, cantanti, etc.; che spesso, loro malgrado, vengono a
trovarsi al centro della scena pubblica per fatti che rientrano nella propria sfera privata. Qui non
è l’azione in sé a fare notizia, ma soltanto il loro riferirsi al personaggio noto. Si tratta di casi
molto delicati, dove spesso viene messo a repentaglio quel diritto alla riservatezza che, in linea
di principio, andrebbe garantito anche al personaggio noto.
IL DIRITTO ALLA RISERVATEZZA
Il diritto alla riservatezza è una creazione della giurisprudenza, che lo ha collocato tra quei
diritti inviolabili menzionati dall’art. 2 Cost. Ha la funzione di delimitare il concetto di
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interesse pubblico alla notizia, escludendo l’esistenza di un diritto della collettività a penetrare
nella sfera privata di un individuo al solo scopo di soddisfare una curiosità morbosa. In
generale, un fatto deve ritenersi privato (e rimanere riservato) quando la sua diffusione non ha
alcuna utilità sociale. Quando, cioè, la collettività non può obiettivamente ricavare dalla sua
conoscenza alcuna utilità. In assenza di questa, la divulgazione di un fatto privato cessa di
servire l’interesse pubblico; e il diritto del singolo individuo alla riservatezza non può essere
sacrificato senza il suo consenso. La questione della divulgabilità di un fatto appare semplice
quando riguarda un soggetto anonimo. In questi casi la divulgazione è sempre occasionata da
comportamenti eclatanti commessi dal soggetto stesso, per i quali non si può dubitare
dell’interesse della collettività alla loro conoscenza. Non possono invocare il diritto alla
riservatezza lo stupratore e l’omicida, il truffatore e il medico abusivo, così come l’anonimo
funzionario arrestato per corruzione. Qui il soggetto è trascinato al centro della scena pubblica
unicamente a causa della gravità o eccezionalità dell’azione. Tuttavia, non ogni particolare in
qualche modo ricollegabile ad un evento di interesse pubblico va considerato parte integrante
di una “notizia”. E’ il cosiddetto principio di essenzialità dell’informazione, introdotto
dall’art. 6, comma 1°, del codice di deontologia dei giornalisti, secondo cui “la divulgazione di
notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta con il rispetto della sfera privata quando
l’informazione, anche dettagliata, sia indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o della relativa
descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti”. Come si
nota agevolmente, la norma è così mal formulata da dar luogo ad una sorta di ossimoro.
Intitolata “Essenzialità dell’informazione” all’evidente scopo di limitare la notizia al corpus
dell’evento, in realtà consente tecniche di narrazione che finiscono per offuscare la regola
dell’essenzialità. Qualsiasi “dettaglio” ricollegabile anche indirettamente al fatto “essenziale”
può risultare “indispensabile” per garantire “l’originalità del fatto”, per meglio descrivere i
“modi particolari in cui è avvenuto” o per la “qualificazione dei protagonisti”. Si pensi alla
strage di Erba del dicembre 2006. Sono venuti alla luce particolari, come i precedenti penali e le
frequentazioni del tunisino Azouz Marzouk (inizialmente sospettato della strage) e fatti privati,
relativi a membri di entrambe le famiglie, che avevano ben poco a che vedere con il fatto nella
sua “essenzialità”. Eppure nessuno potrebbe obiettare che la narrazione di quei “dettagli” non
servisse ad una migliore comprensione della vicenda o a qualificarne i protagonisti, compreso
lo stesso Azouz. In quest’ottica, va avvalorata una interpretazione del principio di essenzialità
che poggi sulla obiettiva gravità del fatto-notizia. Il grado di eccezionalità dell’evento è
responsabile del depotenziamento del principio di essenzialità dell’informazione. Quanto
maggiore sarà la gravità del fatto di cronaca, tanto maggiore sarà la domanda informativa. E, di
conseguenza, più ampia la libertà di azione dell’organo di informazione nel narrare particolari e
fatti privati ricollegabili anche indirettamente all’evento o ai loro protagonisti. Se quindi potrà
essere scandagliata la vita privata alla ricerca delle perversioni di chi ha ucciso e fatto a pezzi
moglie e figli, non potrà citarsi l’abitudine del maldestro rapinatore tossicodipendente di
prostituirsi per racimolare qualche euro. La questione muta quando la notizia riguarda fatti o
comportamenti che, anche se non eclatanti, riscuotono l’interesse del pubblico solo per essere
riferiti ad un personaggio noto (qui a maggior ragione deve ritenersi sussistente l’interesse
pubblico quando il fatto è eclatante). Non c’è dubbio che maggiore è la rilevanza pubblica di un
personaggio, maggiore è l’attenzione che i mezzi di informazione, proprio interpretando i gusti
della collettività, prestano ai fatti che lo riguardano. A molti piace conoscere nei dettagli i fatti
privati di una star del cinema, di un noto politico, di un famoso manager, di un campione dello
sport. Spesso vengono prontamente accontentati. E’ il caso del paparazzo che sorprende il vip
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mentre cena al ristorante in compagnia di persona diversa dal proprio partner. E’ agevole capire
che, nella normalità dei casi, simili accadimenti rientrerebbero nel concetto di “fatto privato”.
Ancor più agevole capire che la loro divulgazione non potrebbe mai essere considerata utile alla
collettività. Ma è anche vero che si tratta di personaggi che, in quanto noti, non possono vantare
un diritto all’immagine, poiché “non occorre il consenso della persona ritrattata quando la
riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà […]” (art. 97 Legge sul diritto d’autore [n.
633/41]). E la circostanza che siano sorpresi in un ristorante, che è luogo pubblico, impedisce di
considerare “fatto privato” quella cena. Naturalmente sarebbe diverso se le immagini della
“cena” fossero indebitamente tratte da un domicilio privato: qui scatterebbe addirittura il reato
di cui all’art. 615-bis c.p. (“Interferenze illecite nella vita privata”). Il caso del vip al ristorante
rappresenta una situazione diametralmente opposta a quella del soggetto anonimo che compie
un’azione eclatante, dove è l’azione a portare il soggetto sotto i riflettori. Qui, invece, è la
notorietà del personaggio a colorare un fatto in sé insignificante. Il nostro ordinamento
riconosce, entro certi limiti, il diritto al pettegolezzo. La questione si complica se dal
pettegolezzo si passa a fatti privati drammatici, la cui divulgazione rischia di rovinare
l’immagine del personaggio pubblico. Di simili casi la cronaca è piena. Qui bisogna partire dal
presupposto che alla base del legame che unisce il personaggio al pubblico vi è l’attività che lo
ha reso noto. E la soluzione va trovata tenendo presente, come imprescindibile parametro di
valutazione, l’incidenza del fatto privato sull’attività, ossia sul nesso che lega il personaggio al
pubblico. E’ la soluzione offerta dallo stesso art. 6 del codice di deontologia dei giornalisti, il cui
comma 2° stabilisce che “La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve
essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica”. Si
tratta di un giudizio delicatissimo, che va quindi improntato alla più rigorosa obiettività.
L’incidenza del fatto privato sull’attività pubblica del personaggio non può riferirsi a parametri
soggettivi, come la rappresentazione o l’idea che l’opinione pubblica ha di quel personaggio, o
anche morali; altrimenti qualsiasi fatto sarebbe rilevante e divulgabile, a prescindere dal suo
collegamento con l’attività. Bisogna, cioè, valutare l’incidenza che il fatto privato può avere
obiettivamente sul legame che unisce il personaggio al pubblico. Alcuni esempi saranno utili. Si
prenda il caso della modella Kate Moss. Che abbia sniffato cocaina in uno studio di Londra
insieme ad amici è un fatto privato, in quanto non può in alcun modo incidere sulla sua attività
di testimonial e di modella. Diverso è il fatto, diffuso successivamente, del suo ricovero in una
clinica per cronica intossicazione da cocaina. Una tale condizione, incidendo sull’attività che
lega Kate Moss al pubblico, ne suscita il legittimo interesse. Quindi, in presenza di un’attività
caratterizzante il personaggio e che costituisce la causa della sua notorietà, la divulgazione di
un fatto privato è legittima se e nella misura in cui fornisca al pubblico elementi per una
riconsiderazione del rapporto con il personaggio stesso. A ben vedere, la soluzione è conforme
ai principi del diritto di cronaca. Divulgando un fatto privato destinato ad incidere sull’attività
del personaggio si rispetta il requisito della verità, poiché in questo modo si forniscono al
pubblico gli elementi per ricostruire il rapporto con il personaggio su basi veritiere.
Nascondendo il fatto, il rapporto verrebbe viziato da una falsa rappresentazione della realtà,
mutata proprio a causa del fatto privato. Se non venisse reso noto che è stato accertato l’uso
sistematico di illecite sostanze dopanti da parte di un famoso atleta, il pubblico continuerebbe a
credere nella genuinità delle sue performance. Un rapporto, cioè, basato sulla falsità. Se invece
venisse divulgato un fatto privato che non ha alcuna incidenza sull’attività pubblica del
personaggio, ne deriverebbe la gratuita demolizione della sua immagine, perché l’acquisizione
della notizia non sarebbe in alcun modo utile al pubblico. Deve quindi rimanere confinato
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all’interno della sfera privata tutto ciò che obiettivamente non incide sul nesso che lega il
personaggio al pubblico. Solo così si possono evitare dannose quanto odiose
strumentalizzazioni. Si ricorderà il caso dell’attore inglese Hugh Grant, sorpreso nel giugno
1995 dalla polizia di Los Angeles mentre faceva sesso in auto con una prostituta, obbligato dai
suoi produttori alle pubbliche scuse dopo essere stato illegittimamente consegnato al pubblico
ludibrio dai media di tutto il mondo. Per non parlare, poi, di Lapo Elkann, il rampollo di casa
Agnelli finito in coma per overdose da cocaina nell’ottobre 2005, vicenda che ha fatto emergere
particolari intimi della sua sfera sessuale. Sotto questo aspetto, ben diverso sarebbe se in simili
situazioni fosse colto non un attore, ma il famoso politico coniugato che si presenta
insistentemente ai propri elettori come strenuo difensore dei valori della famiglia. Qui la
divulgazione del fatto privato assolverebbe ad una funzione sociale, poiché ristabilirebbe il
rapporto tra politico ed elettori in termini di verità, rapporto che è alla base della scelta di quel
politico come delegato nella gestione della cosa pubblica. In mancanza di qualsiasi nesso con
l’attività del personaggio pubblico, il fatto privato potrà essere legittimamente divulgato, oltre
che in presenza di un suo espresso consenso, soltanto quando risulti che il personaggio ha
implicitamente rinunciato a considerarlo “riservato” attraverso un comportamento pubblico. E’
il caso, già citato, del vip al ristorante, nonché di tutti quei personaggi che spesso si trovano a
fare i conti con la cronaca scandalistica. Questo tipo di cronaca si nutre anche dei
comportamenti di quei soggetti la cui notorietà non deriva da particolari meriti, o meglio, da
una professionalità definita. Personaggi, cioè, che acquisiscono fama per il solo fatto di apparire
in video. Gli esempi sono numerosi, a cominciare dai partecipanti ai vari reality. Il legame con il
pubblico che simili personaggi possono vantare è del tutto privo di sostanza, essendo costruito
essenzialmente sulle loro comparsate in tv. Essendo la loro presenza finalizzata non ad offrire al
pubblico una particolare competenza, ma a far parlare di sé, nei loro confronti il diritto al
pettegolezzo acquista una particolare rilevanza, essendo l’unico tipo di cronaca loro riferibile.
Al genere della cronaca scandalistica va ricondotta anche la divulgazione dei comportamenti di
quei soggetti dalla notorietà del tutto involontaria. Si pensi ai membri della Famiglia Reale
inglese, quotidianamente inseguiti da cronisti a caccia di uno scoop. La loro è una notorietà di
tipo parassitario, svincolata da qualsiasi caratterizzazione del personaggio e pressoché costante
fin dalla nascita. Il loro legame con il pubblico deriva esclusivamente dall’essere gli eredi al
trono di Inghilterra. Qui qualsiasi fatto privato è suscettibile di assumere rilevanza pubblica. E,
peggio ancora, il giudizio finisce per essere condizionato da valutazioni di tipo moralistico,
peraltro giustificate dallo stesso anacronismo che avvolge l’istituzione monarchica. Purtroppo,
per questi personaggi, l’essere colti ubriachi ad una festa privata costituisce fatto di interesse
pubblico.
LA CRONACA SCANDALISTICA
Nel conflitto tra diritto all’informazione e diritto dell'individuo, l’interesse pubblico alla notizia
è dato dall’utilità che la collettività trae dalla sua conoscenza. Se la notizia riguarda un fatto
riferito ad un soggetto anonimo, ossia privo di relazioni con la collettività, l’interesse pubblico è
dato dalla gravità o eccezionalità dell’avvenimento. Così, non può considerarsi di interesse
pubblico la notizia dello studente fermato con addosso alcuni grammi di hashish. Quando il
fatto riguarda un personaggio noto, il presupposto dell’interesse pubblico non è più la gravità o
eccezionalità dell’avvenimento, ma la sua capacità di incidere sul rapporto tra il personaggio
stesso e la collettività. Incidenza che può derivare anche da un fatto lieve. Proseguendo
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nell’esempio, l’interesse pubblico sarebbe massimo se Fini e Giovanardi fossero sorpresi a
fumare marijuana, data la loro posizione oltranzista sulle droghe leggere. Qui il fatto è
relativamente insignificante, poiché assume enorme valore se rapportato ai protagonisti. Di ciò
si è già parlato in Il diritto alla riservatezza. Vi è poi un’altra categoria di “fatto privato”: quella
che rientra nell’area del cosiddetto gossip. Riguarda fatti sempre riferiti a personaggi noti, ma
assolutamente insignificanti, privi di un obiettivo interesse e divulgati al solo scopo di
rispondere alle istanze voyeuristiche di un certo pubblico. Fatti che non possono incidere sul
rapporto che lega il protagonista alla collettività; o perché non hanno alcuna attinenza con
l’attività pubblica svolta dal personaggio, o perché riguardano soggetti dalla rilevanza pubblica
evanescente, ossia soggetti il cui rapporto con il pubblico è scarsamente definito, essendo privi
di particolari meriti o competenze (in genere, quelli che acquisiscono fama per il solo fatto di
apparire in video o di appartenere alla cosiddetta “alta società”). L’interesse pubblico alla
conoscenza di quei fatti è pari a zero. E i fatti che rientrano in questa categoria formano
l’oggetto della cronaca scandalistica. La cronaca scandalistica si situa all’estrema periferia del
diritto di cronaca. Non soddisfando il requisito dell’interesse pubblico, implica sempre una
violazione del diritto alla riservatezza. Pertanto, è legittima solo se vi è il consenso, esplicito o
implicito, dell’interessato alla divulgazione del fatto privato. Sul consenso esplicito c’è poco da
dire. Una “liberatoria” con la quale il personaggio autorizza una testata a descrivere fatti privati
che lo riguardano gli inibisce qualsiasi futura pretesa di risarcimento basata sulla lesione del
diritto alla riservatezza. Allo stesso modo, un’intervista nella quale il personaggio confida alla
testata le proprie vicissitudini. La questione del consenso implicito richiede invece un
approfondimento. Si ponga il caso (peraltro tra i più frequenti) del giornale scandalistico che
pubblica una fotografia, corredata di ampia didascalia, ritraente un personaggio noto al
ristorante o sulla spiaggia in atteggiamenti affettuosi con persona diversa dal proprio partner.
Qui ci sono due fattori da considerare. Il primo fattore è che il personaggio noto, in riferimento
alla pubblicazione della fotografia che lo ritrae, non può vantare un vero e proprio diritto
all’immagine, poiché secondo l’art. 97 L. n. 633/1941 (legge sul diritto d’autore) “non occorre il
consenso della persona ritrattata quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà
[…]”. Dunque, la sua immagine è liberamente riproducibile in quanto personaggio noto. Il
secondo fattore è rappresentato dalla circostanza che nell’esempio fatto il comportamento viene
dal personaggio tenuto in un luogo pubblico, come vanno senz’altro considerati sia il ristorante
che la spiaggia. Qui il consenso può ritenersi implicito perché il personaggio, tenendo il
comportamento “alla luce del sole”, rinuncia a considerarlo “riservato”. Come non può
lamentare la violazione del diritto alla riservatezza l’anonima persona sposata che viene colta
mentre bacia l’amante in una pubblica via, se qualcuno riferisce l’evento alla cerchia di
conoscenti cui appartiene, così il personaggio noto non può pretendere che al pubblico (che è la
“cerchia” di conoscenti cui il personaggio è legato) vengano nascosti comportamenti che il
personaggio stesso non si è minimamente preoccupato di mantenere segreti. A questo punto,
nodo cruciale diventa il significato da attribuire all’espressione “luogo pubblico”. Purtroppo
una soluzione definitiva non può provenire da una utilizzazione pura e semplice delle
tradizionali categorie giuridiche. In particolare, la nozione di “demanio pubblico” fornita
dall’art. 822 del codice civile appare troppo ristretta, poiché comprende soltanto “il lido del mare,
la spiaggia, le rade e i porti, i fiumi, i torrenti, i laghi […] le strade, le autostrade, le strade ferrate, gli
aerodromi, gli acquedotti”. Al contrario, troppo ampie appaiono le categorie di “luogo pubblico” e
di “luogo aperto al pubblico”, elaborate nel corso degli anni dalla giurisprudenza, soprattutto
riguardo al reato di “atti osceni”. In esse si è soliti far rientrare luoghi come: il cunicolo di
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collegamento di due gallerie di autostrada, le camere e i gabinetti di radiologia degli ospedali, la
toilette dei cinema, gli ascensori, gli edifici sinistrati e abbandonati, gli uffici di una capitaneria
di porto; e persino le sagrestie e le celle carcerarie. Ossia, luoghi potenzialmente accessibili ad
un numero indeterminato (o anche solo ad una categoria) di persone. Occorre, dunque,
verificare se esiste un ulteriore elemento obiettivo che faccia ritenere preponderante la volontà
del personaggio di mantenere riservato il proprio comportamento, anche se tenuto in un luogo
che tecnicamente va considerato pubblico. Proseguendo con i soliti esempi, non potrà invocare
il diritto alla riservatezza il vip colto dal fotografo su una spiaggia frequentata mentre tiene la
mano della nuova fiamma, o nel corso di una cenetta romantica gustata sul ponte del panfilo
ormeggiato a pochi metri dal molo. Qui il vip ha messo in conto di essere colto dal paparazzo in
simili circostanze. In altre parole, qui il personaggio fornisce un consenso implicito alla
pubblicazione del fatto perché quel consenso riguarda proprio il rischio di essere colto dal
paparazzo. Ma se il vip viene colto dal fotografo non su una spiaggia frequentata, ma all’interno
di una suggestiva e nascosta insenatura raggiungibile soltanto a nuoto o dopo una scalata sulla
roccia? Oppure mentre cena sul ponte del panfilo ormeggiato al largo? Si tratta di luoghi (mare,
insenatura) sul cui carattere pubblico non può sorgere alcun dubbio. Ma nemmeno qui il vip
può invocare il diritto alla riservatezza? Se si negasse la tutela della riservatezza anche in simili
casi, allora bisognerebbe concludere che la (c)privacy del personaggio noto è protetta solo in
presenza del reato di cui all’art. 615-bis del codice penale (“Interferenze illecite nella vita privata”),
il quale presuppone che l’immagine del vip sia attinta da un domicilio privato (abitazione,
camera d’albergo, etc.). Ciò anche quando il particolare stato dei luoghi (pubblici) dove il
personaggio viene colto, rende inequivocabile la sua volontà di mantenere riservati certi
comportamenti. Una soluzione francamente inaccettabile. Ma la cui esclusione va giustificata
ricorrendo ad elementi obiettivi. E l’elemento obiettivo non può che essere riferito all’attività
espletata dal cronista per apprendere la notizia, ossia per scattare la fotografia. Se questa attività
si è limitata al solo scatto, o comunque ha richiesto un lavoro marginale da parte del fotografo,
allora significa che il personaggio non ha adottato alcun accorgimento per rendere riservato il
proprio comportamento. Non occorre un particolare impegno per cogliere il vip mentre balla
nella discoteca o passeggia sulla spiaggia o sulla pubblica via. Qui vi è un’apprensione passiva
della notizia, e il consenso alla pubblicazione va ritenuto implicito. Se invece risulta evidente
che il fotografo ha dovuto ricorrere a complessi accorgimenti per fotografare il personaggio,
allora significa che ha dovuto ingegnarsi per neutralizzare la ritrosia del vip a rendere pubblico
un suo comportamento. Installare sulla propria macchina fotografica un teleobiettivo in grado
di cogliere l’immagine di una persona lontana centinaia di metri, sul presupposto
dell’impossibilità per il fotografo di avvicinarsi; noleggiare appositamente una barca per
raggiungere il panfilo del vip ormeggiato al largo; arrampicarsi sugli scogli per inquadrare la
coppia appartatasi in un’insenatura. Sono tutti comportamenti che implicano una positiva
azione del cronista, ideata per abbattere la barriera eretta dal vip allo scopo di difendersi da
sguardi indiscreti. In questi casi vi è un’apprensione attiva della notizia, perché il fotografo
vince la resistenza opposta dal vip. Qui è impossibile ricondurre la pubblicazione della relativa
fotografia ad un consenso implicito del personaggio. E, a ben vedere, è forte l’analogia tra i casi
appena visti in cui va escluso il consenso implicito, e i casi di applicazione dell’art. 615-bis del
codice penale (“Interferenze illecite nella vita privata”). Chi prende ogni accorgimento per sottrarsi
alla vista altrui, crea attorno a sé luoghi estemporanei simili alla “privata dimora” di cui parla
quella norma. E se da un lato non può certo considerarsi “privata dimora” un luogo la cui
natura pubblica è incontestabile, tanto da rendere impossibile l’applicazione della norma
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penale, dall’altro il comportamento oggettivo di chi si impegna per sfuggire alla curiosità
morbosa del pubblico realizza la possibilità di invocar la tutela della riservatezza. Dunque, la
valutazione dell’attività svolta dal cronista per catturare la notizia è fondamentale per
concludere se e in che misura vi sia stata la violazione del diritto alla riservatezza del vip. E’
senza dubbio una soluzione equa, che salvaguardia il diritto di cronaca anche quando sconfina
nel gossip; e, nel contempo, fornisce al vip quella tutela della riservatezza che in linea di
principio spetta a chiunque.
LA CONTINENZA FORMALE
La continenza formale è il requisito che attiene alle modalità di comunicazione della notizia.
Questa deve riportare il fatto nei suoi elementi oggettivi così come appresi dalla fonte. Il
giornalista non deve essere altro che un tramite tra la fonte e il lettore. Qualsiasi artificio
adoperato dal giornalista che, eccedendo lo scopo informativo, condizioni la genuinità della
notizia, viola il requisito della continenza formale. L’artificio può consistere nell’uso di un
linguaggio colorito ed incauto, nel porre l’accento volutamente su un particolare aspetto del
fatto, nell’adoperare termini tali da comunicare un messaggio sottinteso diverso, nell’accostare
l’evento narrato ad altro evento in modo da attribuire al soggetto un fatto diverso e ulteriore
rispetto a quello originario. Tutto questo può indubbiamente produrre un effetto lesivo. E in
qualunque forma si manifesti, la violazione del requisito della continenza formale va a scapito
della obiettività della notizia. La violazione del requisito della continenza formale può
avvenire in diversi modi, per semplicità riconducibili a due categorie generali, tra di loro in
qualche modo opposte. La prima categoria è rappresentata dalla violazione palese. E’ una
violazione che si verifica raramente e che non pone particolari problemi di individuazione.
Attiene principalmente al tono adoperato nella narrazione del fatto. E’ una violazione diretta,
che non necessita di uno sforzo intellettivo per essere individuata. Il tono è
sproporzionatamente scandalizzato e vi è un'eccessiva drammatizzazione della vicenda, oppure
risulta fuori luogo l’inserimento di aggettivi estremi e peggiorativi come “impressionante”,
“sconcertante”, “incredibile”, “terribile”, “stranissimo”, “pazzesco”, “vergognoso”,
“deplorevole”, etc. E’ una violazione grezza, tipica del giornalista inesperto ed ingenuo. Ma
tutto sommato “onesta”, se confrontata con la categoria che segue. E’ frutto di impeto e si
traduce spesso in un attacco personale. E’ la meno pericolosa, perché il lettore riesce con relativa
facilità ad isolare il fatto-notizia dal soggettivismo del giornalista. Un modo efficace per
identificare questa forma di violazione è equipararla ad una critica espressa in un contesto di
cronaca. La seconda categoria è quella caratterizzata da un premeditato difetto di chiarezza.
Qui il giornalista, nel narrare il fatto reale, vuole attribuire al soggetto un fatto diverso o
ulteriore. E’ uno strumento subdolo al quale il giornalista, fermi i suoi cattivi propositi, deve
necessariamente ricorrere perché la rappresentazione chiara, espressa, inequivoca del fatto
diverso o ulteriore lo porterebbe ad una violazione diretta del requisito della verità. La
violazione non appare prima facie, ma può essere individuata solo attraverso un’operazione che
definisca prima il fatto diverso, poi la sua falsità o non riconducibilità al soggetto. Spesso il fatto
diverso è in qualche modo richiamato nel titolo o nell’occhiello. A questa categoria appartiene il
cosiddetto sottinteso sapiente. Un classico caso è l’uso delle “virgolette” o degli eufemismi. Qui
il giornalista usa i termini sapendo che il lettore li interpreterà in maniera contraria o comunque
diversa da quanto suggerirebbe il dato formale letterale, stimolando un giudizio estremamente
negativo e amplificando così gli effetti lesivi. Altra tecnica riconducibile al premeditato difetto
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di chiarezza è quella degli accostamenti suggestionanti. Oltre a narrare il fatto attribuito al
soggetto, il giornalista cita altri fatti che si riferiscono a soggetti diversi e più gravi, creando tra
il primo e i secondi un collegamento implicito senza minimamente esteriorizzarlo. E’ il lettore
che metterà in relazione il primo con i secondi. A questa categoria appartengono anche le
insinuazioni. Qui il fatto diverso o ulteriore, ovviamente peggiorativo, viene attribuito al
soggetto comunicando espressamente al lettore che la relativa ipotesi “non è improbabile”, o
“non si può escludere”, o che “si potrebbe azzardare”, o affermando che “quanto appreso fa
pensare a”, nella totale assenza di qualsiasi elemento obiettivo che possa permettere di
affermarlo esplicitamente. In ognuno di questi casi, l’informazione che ne deriva perde la sua
originaria obiettività. Si può dire che la violazione del requisito della continenza formale è in
sostanza una violazione indiretta del requisito della verità, perché con essa o si enfatizza il fatto
(1^ categoria) o si induce il lettore ad attribuire al soggetto un fatto diverso o ulteriore (2^
categoria). Muta comunque il fatto originario. E mentre nella violazione (diretta) del requisito
della verità il giornalista riferisce un fatto falso (perché inesistente o diverso da quello appreso
dalla fonte), nella violazione del requisito della continenza formale il giornalista riferisce lo
stesso fatto appreso dalla fonte, ma spinge il lettore a travisarlo per effetto degli artifici sopra
descritti. Sotto questo aspetto, la violazione del requisito della continenza formale è una
violazione indotta del requisito della verità. Nella cronaca televisiva la problematica del
requisito della continenza formale risulta ancor più complessa. In proposito è utile riportare un
episodio eclatante. All’indomani delle stragi terroristiche di Londra del luglio 2005, l’emittente
televisiva “Telepadania” trasmette più volte le immagini di un gruppo di immigrati festanti nei
pressi della stazione ferroviaria di Cento (Ferrara), citando testimonianze che indicano nel
successo delle azioni “kamikaze” londinesi il motivo di quelle manifestazioni di giubilo. Tutti i
principali esponenti leghisti, ministri compresi, gridano allo scandalo. Si saprà poi che quelle
manifestazioni di giubilo erano antecedenti alle stragi e riguardavano un matrimonio. La
vicenda diverrà nota come “Il falso scoop di Telepadania”. Ora, è evidente che si tratta di un
clamoroso caso di violazione del requisito della verità. Attraverso la decontestualizzazione
delle immagini del gruppo festante, si è creato un fatto falso: immigrati hanno festeggiato in
Italia, pubblicamente, le stragi terroristiche di Londra. Violazione che avrebbe meritato
quantomeno un intervento esemplare dell’Ordine dei Giornalisti. Ma la vicenda offre lo spunto
per riflettere sui modi con i quali il giornalista televisivo può violare il requisito della
continenza formale. Oltre alla voce fuori campo che accompagna il servizio, il mezzo televisivo
dispone di un efficace strumento che può rivelarsi micidiale: la tecnica di montaggio.
Immaginiamo un servizio trasmesso dall’ipotetica emittente “Teleapostolica” sulla comunità
musulmana in Italia, che si soffermi sull’Imam e gli assidui frequentatori di una moschea.
Intervistati singolarmente, rivendicano orgogliosi la propria fede, ma prendono le distanze da
qualsiasi pratica terroristica. Successivamente una voce fuori campo incomincia a parlare del
pericolo derivante dalla presenza, all’interno della vasta comunità islamica, di frange estremiste
che solidarizzano con Bin Laden. I commenti e le immagini di distruzione e di morte riportano
ai martiri della Jihad. E si alternano ai primi piani degli stessi intervistati intenti a pregare con in
mano il corano, insieme ad inquadrature suggestive all’interno della moschea. La voce fuori
campo ricorda le indagini della magistratura che hanno attribuito ad alcune moschee un ruolo
chiave nella formazione di cellule terroristiche. Ebbene, questo è un caso di violazione del
requisito della continenza formale. La tecnica di montaggio induce il telespettatore a ritenere
che gli intervistati abbiano appena espresso la loro contrarietà ad iniziative di matrice
terroristica solo perché sollecitati da una fonte informativa. Quando, nel chiuso della loro
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moschea, al di fuori di un contesto pubblico, aderiscono alle posizioni più estremistiche. Mentre
nel caso di Telepadania si è creato e divulgato un fatto falso, violando così il requisito della
verità, nel caso di Teleapostolica ciò che viene rappresentato dalle immagini ed evocato dalla
voce fuori campo è vero; ma, tramite una raffinata tecnica di montaggio, si crea tra fatti veri un
collegamento inesistente, suggerendo al telespettatore una conclusione falsa. E non c’è dubbio
che il mezzo televisivo dispone di tecniche di suggestione di gran lunga più sofisticate di quelle
tipiche del mezzo cartaceo. Spesso la tecnica di diffusione della notizia televisiva si basa su un
tipo di spettacolarizzazione (impossibile da ottenere con la carta stampata) ampiamente
ricercata ed apprezzata, ma anche difficile da distinguere dai casi di violazione del requisito
della continenza formale. Sotto questo aspetto, chi è chiamato a giudicare la violazione deve
spesso compiere un grosso sforzo intellettivo per scoprire che una raffinata tecnica di
montaggio nasconde, in realtà, un messaggio dalla elevatissima capacità lesiva.
La cronaca aggressiva
Generalmente la violazione del requisito della continenza formale avviene attraverso modalità
subdole, non facilmente percepibili, che inducono il lettore alla acquisizione inconsapevole di
una notizia diversa da quella reale. E’ rara la violazione palese, ossia quella che non necessita di
uno sforzo intellettivo per poter essere individuata e che, come già visto, attiene principalmente
al tono adoperato nella narrazione del fatto. La violazione “palese” del requisito della
continenza formale si riscontra in quella che può definirsi “cronaca aggressiva”, possibile
soltanto attraverso il mezzo televisivo. Prevalentemente finalizzata allo smascheramento di
attività truffaldine, la cronaca aggressiva è una cronaca in diretta, a causa della coincidenza
temporale tra l’accadimento del fatto e la diffusione della notizia. Gradita ad un vasto pubblico,
devastante per chi ne è vittima. Esempi di questo tipo di cronaca vengono forniti da
trasmissioni come Striscia la notizia e Le Iene, quando mandano i propri inviati con telecamera
nascosta alla ricerca soprattutto di persone che lucrano approfittando dell’ingenuità altrui o
millantando capacità inesistenti. L’inviato, o chi per lui, si finge una vittima che abbocca, salvo
poi farsi riconoscere consegnando il truffatore al pubblico ludibrio. E’ una forma estrema di
giornalismo di inchiesta, poiché il fatto viene colto sul nascere e senza l’intermediazione di
alcuna fonte. A fare da contorno una voce fuori campo che guida il telespettatore nella
progressione dei fatti e crea un contesto satirico che riversa i suoi effetti nefasti sul malcapitato
truffatore. Altre volte il contesto satirico è determinato dallo stesso inviato che mette alle strette
il truffatore con le proprie domande. Si intuisce l’enorme portata lesiva di questo tipo di
cronaca. Ci si chiede se sia lecita. Scontato qui il rispetto del requisito della verità, pochi dubbi
circa la sussistenza dell’interesse pubblico. In primo luogo, l’inviato armato di telecamera
denuncia un’attività palesemente illecita e dannosa per un numero indiscriminato di persone,
azzerandone ogni possibilità di continuazione. Inoltre, il programma si rivela un ottimo
deterrente, costringendo chi medita di fare la stessa cosa a convivere col terrore di essere colto
in flagrante da una troupe televisiva. Semmai, alcuni dubbi nascono sulla sussistenza del
requisito residuo: la continenza formale. Il modo in cui spesso viene annunciato il servizio, i
commenti inseriti, le risate in sottofondo, l’atteggiamento spesso aggressivo dell’inviato. Sono
tutti elementi che, avendo poco a che vedere con il concetto di obiettività della notizia, rischiano
di condizionare il telespettatore. In questi termini si potrebbe sostenere che simili modalità di
presentazione della notizia violano il requisito della continenza formale. Ma la presenza di
quegli elementi “di contorno” possono davvero condizionare il telespettatore, tanto da poter
essere ritenuti in violazione del requisito della continenza formale? Generalmente nella cronaca
la diffusione della notizia segue al fatto. Quindi, la sua apprensione da parte del
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lettore/telespettatore è necessariamente mediata dall’attività del giornalista, perché il primo non
ha un rapporto diretto con il fatto. E il giornalista, nel comunicare la notizia, deve conservare
l’originalità del fatto evitando qualsiasi errore, tantomeno artificio, che possa indurre il
lettore/telespettatore a travisarlo. Nella cronaca aggressiva, invece, vi è assoluta coincidenza
temporale tra notizia e accadimento del fatto che la genera. Il telespettatore apprende la notizia
insieme al giornalista. Non rischia di vederne alterato il rapporto di coincidenza con il fatto. Il
telespettatore, cioè, non può travisarlo, poiché manca l’attività di mediazione del giornalista.
Ciò non significa che qui il ricorso al concetto di continenza formale sia del tutto inutile. Se nella
cronaca aggressiva non sussiste alcuna possibilità che il telespettatore travisi il fatto, tuttavia
incauti comportamenti nella sua presentazione possono oltrepassare i limiti del diritto di
cronaca. Ed ecco, quindi, che pesanti valutazioni personali espresse dall’intervistatore o dalla
voce fuori campo, o toni particolarmente aggressivi, possono tradursi in una violazione del
requisito della continenza formale, quando non siano funzionali alla cronaca. In questo caso, il
programma infierirebbe sul soggetto preso di mira senza alcuna necessità di cronaca,
producendo effetti lesivi autonomi rispetto alla stessa rappresentazione del fatto. In presenza di
simili circostanze, la cronaca non sarebbe legittima. In passato si sono verificati casi di cronaca
“sconcertante”, più che aggressiva. Una per tutte. Alla fine degli anni ‘90 un’emittente televisiva
privata a diffusione nazionale trasmetteva un servizio sulla prostituzione domiciliare. Si
mostrava una troupe televisiva che, rispondendo telefonicamente ad un annuncio di offerta di
prestazioni sessuali pubblicato su un quotidiano nazionale e spacciandosi per cliente, aveva
ottenuto un appuntamento per la “consumazione”. Si era quindi presentata a casa della ignara
prostituta per ottenere un’intervista. La prostituta, resasi conto della situazione e in evidente
imbarazzo, si era rifiutata di rispondere alle domande e aveva cacciato gli operatori, che
tuttavia erano riusciti a riprenderla per qualche istante. Il filmato veniva integralmente
trasmesso. Tuttavia, qui il problema non è tanto la continenza formale, quanto l’interesse
pubblico. Che in questo caso è del tutto mancante, con conseguente grave violazione del diritto
alla riservatezza. Non può sussistere alcun obiettivo interesse della collettività a sapere che
quella determinata donna, identificata, esercita l’attività di prostituta. Qui l’unico interesse che
può risultare soddisfatto è la curiosità morbosa di chi gradisce un simile squallido esempio di
giornalismo. Un interesse che il Diritto di un paese civile non tutelerà mai. Tra l’altro, al
processo scaturito dalla querela della donna, la difesa della televisione aveva chiesto il
riconoscimento del diritto di cronaca per sussistenza dell’interesse pubblico sulla base della
seguente argomentazione: la prostituta, inserendo un annuncio corredato del proprio numero
telefonico su un quotidiano a diffusione nazionale, aveva intenzionalmente trasformato la
propria attività in fatto pubblico. Un’argomentazione sgangherata e imbarazzante. Che, se
accolta, avrebbe legittimato qualsiasi troupe televisiva ad intervistare forzatamente una vedova
sulla causa di morte del marito, per il riferimento ad un male incurabile inserito nel necrologio.
Perciò, bene ha fatto il Pretore di Roma a condannare lo squadrone di sprovveduti per
“Interferenze illecite nella vita privata” (art. 615-bis c.p.).
IL DIRITTO DI CRITICA
Attraverso la tutela del diritto di cronaca, ogni ordinamento democratico garantisce la libertà di
informazione nella sua duplice veste di diritto ad informare e ad essere informati. Con la tutela
del diritto di critica, l’ordinamento garantisce quell’aspetto della libertà di pensiero che più di
ogni altro è funzionale alla dialettica democratica. Diritto di cronaca e diritto di critica sono
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entrambi emanazioni dall’art. 21 Cost. Tuttavia, la loro diversità è enorme. La cronaca riferisce
una realtà fenomenica (fatto o comportamento). Essendo informazione, è obiettiva. La critica,
essendo valutazione, è soggettiva. La cronaca nasce con il fatto e lo descrive, la critica segue la
descrizione del fatto e lo valuta. La cronaca esprime l’identità tra una realtà fenomenica e
l’informazione che la veicola, la critica esprime un dissenso verso quella realtà fenomenica. In
realtà, quando si parla di diritto di critica, si vuole legittimare qualcosa che va ben al di là della
mera opinione. Le potenzialità dell’art. 21 Cost. sono ben altre. Sarebbe estremamente frustrante
per l’art. 21 Cost. sapersi in grado di tutelare soltanto un generico, umile ed innocuo “secondo
me…”. La libertà di opinione permette di esprimere la propria idea su una questione, giusto per
aggiungere una voce alle altre. Il diritto di critica, invece, è dura contrapposizione, è mettere a
nudo l’inadeguatezza, l’inaffidabilità, la falsità, gli errori altrui. E’ voler scuotere, provocare una
reazione. La critica è fondamentalmente un attacco. E’ il giudizio soggettivo a caratterizzare la
critica rispetto alla cronaca. Se quest’ultima consiste nel riferire un fatto obiettivo, è possibile
fornire per esso un solo messaggio informativo. Le possibilità di critica nei confronti di un fatto,
invece, sono tendenzialmente infinite. In teoria la critica dovrebbe incontrare gli stessi limiti
previsti per il diritto di cronaca: verità, interesse pubblico, continenza formale. Solo se rispetta
tutti e tre i requisiti la critica è legittima. La verità è riferita al fatto: ossia la critica deve poggiare
su basi veritiere. Deve rivestire un interesse pubblico, che è poi riferito allo stesso fatto: non si
potranno, quindi, esprimere pubblicamente valutazioni critiche su fatti privati o comunque
privi di interesse per la collettività. Infine, la critica deve rispettare il requisito della continenza
formale. In teoria, appunto. Ma in pratica, la differenza ontologica con la cronaca rende
impossibile applicare alla critica i tradizionali requisiti nella stessa misura e con la stessa
severità. Non è difficile immaginare come la valutazione di un fatto, passando attraverso la sua
interpretazione, possa tendere a travisarlo. E come la critica verso una persona, o un suo
comportamento, per forza di cose finisca per rappresentarla in maniera diversa da quella che è.
Non a caso la giurisprudenza ha riconosciuto il diritto di critica a chi attaccava un avversario
politico definendolo “un khomeinista nella lotta per il potere, che ha collaudato un modo di
amministrare a metà strada tra il decisionismo e l’illegalità, come non si era mai visto finora nelle peggio
amministrate città d’Italia” e che avrebbe fatto da “cerniera tra l’amministrazione e i gruppi
immobiliari finanziari, che nel frattempo sono diventati i veri padroni di Roma”; o a chi qualificava
altri con il termine “faccendiere” o “lottizzato”. Si pensi se queste frasi fossero state riportate in un
articolo di cronaca. Il diritto di critica non poggia sull’obiettività. Non è finalizzato ad
informare, ma a stimolare un dibattito. Partendo non dalla realtà obiettiva ma da un punto di
vista, si basa su valutazioni soggettive, fatte per essere accolte o contrastate, ma comunque
dibattute. Il diritto di critica è forse la più genuina e significativa delle libertà contenute nell’art.
21 Cost., poiché il diritto di cronaca non deriva solo da una libertà, ma anche dal dovere di
informare la collettività su fatti di interesse pubblico, e da questo dovere si trova ad essere
inevitabilmente limitato. Sarebbe invece controproducente se si vincolasse il diritto di critica
alla “verità” o alla “continenza formale” che si esige nella cronaca, perché non stimolerebbe
alcun dibattito. Il diritto di critica non è informazione, ma legittimo attacco. Tuttavia, è chiaro
che anche il diritto di critica incontra dei limiti. Per quanto riguarda il requisito della verità, a
differenza della cronaca, che è sempre informazione su fatti determinati, l’oggetto della critica
può essere incredibilmente vario. Può indirizzarsi su un fatto determinato, come la cronaca, ma
anche riguardare un comportamento generico e diluito negli anni. Ma più la critica riguarda
fatti specifici, maggiore è la sua potenzialità lesiva, maggiore quindi l’esigenza che venga
rispettata la verità. Più la critica è generica, minore è il pregiudizio che può derivarne, minore la
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necessità del controllo sulla verità. Che una critica generica sia potenzialmente meno lesiva di
una critica su fatti determinati, è una conclusione che si trae anche dalle disposizioni del codice
penale sull’ingiuria e la diffamazione (artt. 594 e 595 c.p.). Entrambe le figure di reato
prevedono una pena doppia quando “l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato”.
Inoltre, le argomentazioni critiche sorrette da motivazioni razionali, pur se discutibili e
comunicate con veemenza, assicurano un corretto esercizio del diritto di critica, perché si offre
alla controparte la possibilità di controbattere con argomentazioni altrettanto razionali,
arricchendo così il dibattito intorno a problematiche di interesse pubblico. Questo è un aspetto
fondamentale del diritto di critica, che assicura altresì il rispetto del requisito della continenza
formale. Nella critica il requisito della continenza formale è necessariamente meno rigido di
quello che si esige nella cronaca. Consistendo la critica in un attacco, è chiaro che non può
pretendersi dall’autore lo stesso equilibrio di chi veicola un’informazione. Quest’ultimo è
vincolato alla narrazione obiettiva ed imparziale dei fatti, ad un inquadramento non “di parte”
della vicenda. Cosa che non è possibile pretendere da chi esprime una critica, che esprime
proprio una valutazione “di parte”. Tuttavia, ciò non esclude che la critica possa a volte
consistere in una mera aggressione personale, come tale incapace di stimolare dibattiti
costruttivi. Ad esempio, non può non destare l’interessamento della magistratura chi in
campagna elettorale definisce un avversario politico “pidocchio, mascalzone e burattino”; o i
candidati di una lista elettorale avversaria “incapaci di aprire bocca senza dire menzogne”; o
un’intera giunta regionale “uno scandaloso branco di signorotti stolti e fannulloni”. Frasi del genere
non hanno nulla di costruttivo. Non è possibile la verifica della verità perché non vi sono fatti.
E’ una critica sul nulla, perché priva di argomentazioni. Queste frasi deprimono, anziché
stimolare, la dialettica democratica. Offendono gratuitamente. Pertanto, non possono ritenersi
legittime. Tuttavia, bisogna ammettere che nelle ultime campagne elettorali si è assistito ad un
generale innalzamento dei toni critici. Nella dialettica politica hanno fatto ingresso termini che
in teoria non potrebbero considerarsi espressione di una corretta critica, perché non sorretti da
argomentazioni. Non si può negare che la tendenza alla spettacolarizzazione delle campagne
elettorali abbia finito per provocare un avanzamento dei tradizionali limiti del diritto di critica.
Naturalmente anche nella critica ha rilevanza il requisito dell’interesse pubblico, da intendersi
come interesse della collettività a venire a conoscenza della manifestazione critica. Significa che
l’oggetto su cui verte la critica deve riguardare fatti o comportamenti che rivestono una certa
importanza per la collettività, con esclusione quindi dei fatti personali. Se poi la manifestazione
critica è basata prevalentemente su un giudizio, deve necessariamente rivolgersi ad una
persona presente nella vita pubblica. La collettività non ha alcun obiettivo interesse a conoscere
i giudizi su persone prive di notorietà, proprio perché non ha interesse ad una conoscenza
approfondita di quella persona. Per questo la critica pubblicamente rivolta ad uno sconosciuto
non può considerarsi legittima. In generale, si può dire che quanto maggiore è la rilevanza
pubblica di un personaggio, tanto più le critiche rivoltegli saranno ritenute legittime. E più la
critica riguarda l’aspetto pubblico del personaggio, vale a dire l’attività che lo caratterizza agli
occhi dei più, maggiore sarà la probabilità che venga ritenuta legittima, essendo maggiore
l’interesse pubblico alla sua conoscenza. La critica rivolta ad un politico su fatti della sua vita
privata non può interessare la collettività, se quei fatti non incidono sulla sua attività pubblica.
Va stimolato il dibattito su questioni rilevanti. In pratica, come va data la massima trasparenza
al rapporto che lega il personaggio alla collettività (cronaca), così va garantito il dibattito cui
può dar vita un giudizio espresso su quel rapporto (critica). Un’ultima osservazione. Da alcune
parti si afferma che la critica può accompagnare la cronaca. Questa affermazione non può
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accettarsi. La rievocazione dei fatti è sì connaturata ad un’idea di critica, anche perché ne
rafforza l’efficacia; e la critica spesso si accompagna sì ad una comunicazione di fatti, eventi,
comportamenti. Ma ciò non ha nulla a che vedere con l’informazione. Non è informazione, ma
critica, quella contenuta in un editoriale in cui viene rievocato un fatto allo scopo di criticare
aspramente il soggetto cui viene attribuito. Qui la citazione del fatto è strumentale alla critica,
non all’informazione. La descrizione del fatto è separata dalla manifestazione del pensiero e la
relativa informazione acquisita. Di conseguenza, se si vorrà esercitare il diritto di critica, anche
nei riguardi di un fatto appena acquisito, la critica dovrà essere ben distinta, fisicamente e
graficamente, dalla cronaca. Che la cronaca, intesa come veicolo dell’informazione, non possa
andare di pari passo con la critica, è anche una conclusione imposta dall’idea stessa di
obiettività dell’informazione. Se la critica è valutazione soggettiva, è incompatibile con la
cronaca, che è narrazione obiettiva di fatti. Si pensi, poi, al conflitto che si determinerebbe tra la
libertà di forma insita nel diritto di critica e il requisito della continenza formale che si esige
nella cronaca. Anzi, la categoria della violazione palese del requisito della continenza formale
si esprime esemplarmente proprio attraverso una critica espressa in un contesto di cronaca.
Insomma, sostenere che la critica possa accompagnare la cronaca significa affossare il concetto
di obiettività della notizia.
LA CRITICA POLITICA
La politica è lo strumento attraverso il quale la collettività esercita, in maniera prevalentemente
indiretta, quella sovranità che l’art. 1 Cost. le attribuisce espressamente. La critica politica ha lo
scopo di provocare una reazione, una risposta sul modo di gestire la cosa pubblica. Attraverso
di essa viene attuato un controllo sull’esercizio della sovranità che l’art. 1 Cost. affida al popolo.
Si può scorgere nella collettività un generale interesse alla critica politica, poiché il suo esercizio
stimola un dibattito sull’esercizio della sovranità. Interesse pubblico alla critica politica significa
che la collettività considera costruttivo per l’esercizio della sovranità che un personaggio venga
attaccato nelle sue posizioni, o per i suoi comportamenti politici, proprio per stimolare una
reazione, alimentando così il dibattito democratico su una questione politica di interesse
pubblico. Da ciò conseguono effetti soprattutto sulla rilevanza della verità dei fatti su cui la
critica si basa. Come già detto, quando la critica si indirizza su fatti determinati, non si può
prescindere dalla loro verità. Ma quanto più generica è la critica, tanto più illogica risulterà
quella verifica. Qui va garantita la massima libertà di argomentazione, che fa della critica
politica un formidabile strumento di controllo del potere, i cui detentori si vedono costretti a
rispondere alle domande poste loro attraverso la proposizione di argomenti critici. Quando la
critica politica non si basa su fatti determinati, unico limite alla sua legittimità è dato dalla
razionalità delle argomentazioni. Che per quanto estreme, non debbono mai sconfinare nel
gratuito insulto. Si arriva all’insulto proprio quando la pochezza delle argomentazioni adottate
rende impossibile una replica su basi razionali. Per fare degli esempi concreti, dare ad un
avversario politico del “pidocchio” equivale ad un mero insulto. Perché, in primo luogo, non vi
è alcun fatto su cui basare la critica, essendo evidente che essere pidocchio non rappresenta un
fatto su cui replicare. Nemmeno può rinvenirsi in una affermazione del genere una qualche
argomentazione razionale. In secondo luogo, non vi sarebbe alcun interesse pubblico a sapere se
un soggetto può essere considerato un "pidocchio". Al contrario, attribuire ad un soggetto la
qualifica di “lottizzato” può rientrare nel concetto di critica politica. Sul presupposto che tale
termine individua chi riveste una carica pubblica in conseguenza del suo colore politico, la
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critica in sé presuppone un preciso fatto accompagnato da un’argomentazione razionale, contro
la quale è sempre possibile opporre argomentazioni altrettanto razionali tendenti ad inficiare la
validità della prima. E non c’è dubbio che sussista un interesse pubblico al dibattito intorno alla
pratica della lottizzazione. Da qualche tempo si assiste ad una sorta di degenerazione della
competizione politica, soprattutto durante le campagne elettorali, che si manifesta attraverso
critiche che hanno ben poco di costruttivo. Spesso la critica non è accompagnata da alcuna
argomentazione, e tende semplicemente a screditare l’avversario politico. In teoria, in molti casi
si tratterebbe di critica non legittima, poiché espressa attraverso attacchi ai quali è impossibile
replicare. E’ il caso dell’avversario politico che viene definito dall’antagonista “un uomo
disperato” o “insano di mente”. Tuttavia, non va dimenticato che la spettacolarizzazione della
competizione politica, attuata anche attraverso una certa dose di ironia, esercita una indubbia
attrazione nei riguardi della collettività, la cui attenzione viene in questo modo convogliata
verso le problematiche politiche. Un tale tipo di critica politica, quindi, possiede una funzione.
Inoltre, in molti di questi casi la critica ha contenuti evidentemente ironici, che sono ugualmente
idonei a dar vita ad un dibattito sul tema che la origina, e che per giunta risultano espressione
di una vena satirica che non potrebbe mai essere occultata per il fatto di essere manifestata da
un politico anziché da un artista.
LA CRITICA AI MAGISTRATI
La Costituzione affida l’esercizio del potere giudiziario ad un corpo di magistrati, selezionati in
base al merito, che costituisce “un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art. 104,
comma 1°, Cost.). La norma vuole impedire qualsiasi interferenza, o peggio, il controllo degli
organi del potere politico sulla applicazione della legge, uno dei momenti istituzionali più
delicati nella vita di un ordinamento. La funzione giurisdizionale va espletata nella massima
serenità. Per questo la giurisprudenza tende a restringere alquanto l’area di legittimità della
critica, quando è rivolta ai magistrati. I tradizionali limiti del diritto di critica arretrano di fronte
all’operato dei magistrati non soltanto perché va loro garantita la massima serenità di giudizio a
tutela della propria indipendenza. Vi sono almeno due motivi di ordine logico. Il primo motivo.
A differenza dei Poteri legislativo ed esecutivo, che vengono esercitati attraverso un’attività
discrezionale nella scelta sia dei fini che dei mezzi, il Potere giudiziario è attività vincolata alle
scelte operate da Parlamento e Governo. Questi ultimi sono liberi di decidere, attraverso
l’emanazione di norme, quali interessi tutelare e i mezzi attraverso cui apprestare la tutela. Il
magistrato, invece, ha l’obbligo di accertare e reprimere la violazione di quelle norme con gli
strumenti giuridici tassativamente fornitigli dalla legge, ossia nei tempi e nei modi predefiniti
dai Poteri legislativo ed esecutivo. Lo si ricava dall'art. 101, comma 2°, Cost., secondo cui “I
giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Il secondo motivo. Nella sua funzione tipica, il magistrato
reprime i comportamenti umani che contrastano con l’ordinamento. Lo fa attraverso un lungo e
complesso iter, che accerta la verità nel rispetto del principio del contraddittorio. Questo iter
culmina nella emanazione della sentenza, basata su quelle argomentazioni logiche e giuridiche
che costituiscono la motivazione. La stessa attività giurisdizionale, quindi, rappresenta la forma
più esemplare di critica, che il magistrato rivolge nei riguardi di un comportamento umano.
Una critica, però, lontana anni luce da quella finora analizzata, perché è espressione non della
libertà garantita dall’art. 21 Cost., ma di un obbligo imposto dall’ordinamento. La critica che il
giudice esprime in un provvedimento giudiziario nei riguardi di un comportamento umano
non è frutto di una libera scelta, ma è una conseguenza obbligata dell’esercizio delle sue
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funzioni. E’ agevole, quindi, comprendere come nei riguardi dell’attività giudiziaria la libertà di
critica garantita dall’art. 21 Cost. subisca una compressione. Gli atti compiuti da un magistrato
nell’esercizio delle sue funzioni non possono essere posti sullo stesso piano delle azioni di un
politico, il quale gode della più ampia libertà di scelta ed è sottoposto soltanto al giudizio dei
propri elettori. Non è un caso che Giuliano Ferrara, massimo beneficiario dell’art. 21 Cost. in
quanto giornalista, sia stato condannato per aver reso un’intervista nel corso della quale, nel
denunciare un uso disinvolto della carcerazione preventiva da parte di alcuni pm, aveva parlato
di “avvitamento antigarantista della magistratura italiana sino agli eccessi deliranti di Cordova”.
Critiche di un simile tenore sono pressoché quotidiane fra i politici. La limitazione della libertà
di critica è giustificata soprattutto quando ha per oggetto uno specifico provvedimento
giudiziario. Qui l’argomentazione su cui deve basarsi la critica assume un’importanza tutta
particolare, in quanto lo stesso provvedimento giurisdizionale è la diretta conseguenza di un
insieme di argomentazioni, obbligatorie, racchiuse nella motivazione e dirette a conferire
validità e logicità al provvedimento finale. In pratica, esiste sempre uno stretto collegamento tra
provvedimento giudiziario e sua motivazione. La sentenza è sempre una conseguenza logica e
diretta della motivazione. La sentenza esiste ed è valida se e nella misura in cui esiste la sua
motivazione. Tant’è che la motivazione “insufficiente” o “illogica” di una sentenza è uno dei
motivi per i quali può farsi ricorso in Cassazione. Di conseguenza, la critica al provvedimento
giudiziario è legittima se chi la esprime manifesta proprie argomentazioni in contrapposizione
a quelle contenute nella motivazione del provvedimento. La critica rivolta ad un
provvedimento giudiziario che non richiamasse quella contrapposizione violerebbe il requisito
della continenza formale. Quindi, l’argomentazione su cui la critica si basa non dovrà limitarsi
ad attaccare il risultato finale, ossia il dispositivo della sentenza. Ma dovrà avere di mira la
stessa argomentazione adottata dal giudice per giungere alla decisione finale. Solo così la critica
ad un provvedimento giudiziario potrà assumere quei toni aspri, che in linea di principio sono
sempre consentiti dall’art. 21 Cost. Per chiarire il concetto, è utile richiamare la vicenda
dell’assoluzione, nel gennaio 2005, dei presunti terroristi islamici ad opera del gip milanese
Clementina Forleo dal reato di “associazione con finalità di terrorismo internazionale” perché
l’attività materiale contestata loro è, per quel giudice, finalizzata non a compiere “atti
terroristici”, ma a fornire appoggio logistico ad una “guerra di liberazione”, secondo una
distinzione riconosciuta dallo stesso diritto internazionale. Ebbene, non costituisce legittima
critica affermare che la sentenza è un “favoreggiamento al terrorismo”, o che “strizza l’occhio al
terrorismo internazionale”, o che addirittura quel giudice è “amica di Bin Laden”. Sarà legittima
quella critica, anche dura, che nell’evidenziare la distinzione, operata dal giudice, tra appoggio
ai movimenti di liberazione e attività terroristica, escluda la possibilità di ricondurre il
comportamento degli imputati, così come emerso dagli atti, ad un’attività di appoggio ad un
movimento di liberazione. La conoscenza della motivazione del provvedimento giurisdizionale,
ossia delle relative argomentazioni, è quindi indispensabile per una legittima critica al
provvedimento stesso. Fino a quando non viene resa nota la motivazione, può tutt’al più
esercitarsi il diritto di cronaca, nel rispetto dei suoi tradizionali limiti che qui non hanno alcun
motivo di arretrare. Ma per la critica sarà indispensabile conoscere la motivazione, perché è
proprio nei confronti delle argomentazioni in essa contenute che il critico potrà legittimamente
e aspramente (ma con cognizione di causa) contrapporre le proprie. Quanto detto, però, ha
conseguenze logicamente diverse a seconda del tipo di funzione svolta dal magistrato. Con
riferimento alla giustizia penale, è nota la differenza tra giudice e pubblico ministero, laddove
il primo deve accertare la verità, mentre il secondo porta avanti un’accusa. Il primo decide in
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base alle risultanze del principio del contraddittorio, il secondo è parte del contraddittorio
stesso. E’ chiaro che anche le richieste formulate dal pm sono ampiamente motivate, quindi
argomentate. Ma non è necessario sforzarsi più di tanto per comprendere come la sua visione
della posizione complessiva dell’indagato/imputato sia condizionata dal ruolo che la stessa
Costituzione gli affida all’art. 112, comma 1°, Cost., laddove espressamente dice che “Il Pubblico
Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Nemmeno la Costituzione, cioè, crede alla
“imparzialità” del pubblico ministero. E non potendosi pretendere dal pubblico ministero
l’imparzialità e l’interesse alla verità che invece contraddistinguono l’operato del magistrato
giudicante, non si può nemmeno pretendere che l’arretramento dei limiti della libertà di critica
debba riferirsi anche alle funzioni esercitate dal pubblico ministero. E la giurisprudenza pare
d’accordo su questo, se ha riconosciuto il diritto di critica al giornalista che, nel commentare la
richiesta di custodia cautelare da parte di un pm, aveva parlato di “diritti fondamentali diventati
un optional affidato ai capricci di chiunque” e di “giustizia con la “g” minuscola”. Ma i più ampi
margini che vanno giustamente riconosciuti alla critica nei riguardi del pm, non autorizzano a
collocare il suo operato al di fuori di quanto stabilito dalla Costituzione. Se può essere lecito
criticare il comportamento di un pm che reitera le sue richieste di custodia cautelare fino a
definirle “liberticide”, non lo si può accusare di strumentalizzare la propria funzione per fini
estranei a quelli di giustizia. Additare il pm agli occhi dell’opinione pubblica non
semplicemente come un funzionario erroneamente convinto della propria ipotesi accusatoria e
poco rispettoso dei diritti dell’indagato/imputato, ma come un funzionario infedele che
persegue finalità opposte a quelle che il suo ruolo costituzionale gli impone, non può rientrare
nel diritto di critica, se le affermazioni non trovano riscontro obiettivo nella realtà. In
particolare, non può ritenersi lecita la critica che descriva un pm come asservito ad interessi
politici. L’uso “politico” della giustizia da parte di un pm è esattamente ciò che la Costituzione
ha voluto scongiurare ideando un sistema che escludesse qualsiasi interferenza degli organi
politici sull’operato della magistratura. Una simile accusa, che evidenzia la massima distorsione
della funzione del pm, va rigorosamente provata, pena la violazione del requisito della verità.
IL DIRITTO DI SATIRA
Saldamente ancorata ad una tradizione millenaria, la satira costituisce la più graffiante delle
manifestazioni artistiche. Basata su sarcasmo, ironia, trasgressione, dissacrazione e paradosso,
verte preferibilmente su temi di attualità, scegliendo come bersaglio privilegiato i potenti di
turno. Anzi, più in alto si colloca il destinatario del messaggio satirico, maggiore è l’interesse
manifestato dal pubblico. Quella politica, infatti, è di gran lunga il tipo di satira che raccoglie
maggiore interesse e consenso presso ogni collettività. Essendo una forma d’arte, il diritto di
satira trova riconoscimento nell’art. 33 Cost., che sancisce la libertà dell’arte. Ma è una forma
d’arte particolare. Il contenuto tipico del messaggio satirico è lo sbeffeggiamento del suo
destinatario, che viene collocato in una dimensione spesso grottesca. La satira mette alla berlina
il personaggio al di sopra di tutti, l’intoccabile per definizione. Esalta i difetti dell’uomo
pubblico ponendolo sullo stesso piano dell’uomo medio. Da questo punto di vista, la satira è un
formidabile veicolo di democrazia, perché diventa applicazione del principio di uguaglianza.
Non a caso è tollerata persino nei sistemi autoritari, fortemente motivati a mostrare il volto
“umano” del regime. Ma proprio perché trova la sua ragion d’essere nello sminuimento del
soggetto preso di mira, il messaggio satirico può entrare in conflitto con i diritti costituzionali
all’onore, al decoro, alla reputazione, etc. Dunque anche qui, come per la cronaca e la critica,
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occorre procedere ad un bilanciamento degli interessi in conflitto. Bilanciamento che dovrà
tenere conto delle peculiarità dell’opera satirica. Peculiarità che fanno dell’interesse pubblico,
riferito al personaggio rappresentato, il solo parametro di valutazione della legittimità della
satira. Con un significato diverso, più ampio rispetto a quello assunto nella cronaca e nella
critica. Il termine “interesse pubblico” viene qui adoperato al solo scopo di identificare il
problema, poiché mal si concilia con la funzione della satira, che non è quella di fornire
“notizie”. Difatti, la giurisprudenza preferisce parlare di qualità della dimensione pubblica del
personaggio, relazionandola al contenuto artistico-espressivo del messaggio satirico. La satira è
lecita se tra i due termini sussiste un nesso di coerenza causale. Si tratta di chiarire cosa debba
intendersi per “qualità della dimensione pubblica” del personaggio e per “nesso di coerenza
causale”. La qualità della dimensione pubblica del personaggio, va vista come un enorme
contenitore dal quale l’artista può liberamente attingere per creare il contenuto dell’opera
satirica. In questo enorme contenitore sono raccolti i frammenti che compongono il
personaggio, ossia tutte le informazioni di sé che il personaggio, volente o nolente, ha visto
fornire al pubblico: le sue fattezze fisiche, la sua mimica facciale, la sua voce, i suoi tic, le sue
dichiarazioni, i suoi comportamenti in pubblico, le sue gaffes, i suoi guai giudiziari; e persino i
pettegolezzi sul suo conto, se di dominio pubblico. Ebbene, la satira restituisce al pubblico
quelle informazioni, quei frammenti, dopo averli mescolati, interpretati, enfatizzati, distorti. In
questo modo la loro riproposizione (ossia il contenuto del messaggio satirico) è in coerenza
causale con la qualità della dimensione pubblica del personaggio preso di mira. Ed è irrilevante
che alcune delle informazioni che confluiscono nel contenitore del personaggio pubblico siano
false: la satira non agisce su fatti, ma sulla dimensione pubblica acquisita da un personaggio,
che potrebbe non corrispondere a quella reale. Il significato del “nesso di coerenza causale” tra
la qualità della dimensione pubblica del personaggio e il contenuto del messaggio satirico viene
meglio colto descrivendo la differenza tra la satira da un lato, la cronaca e la critica dall’altro. La
cronaca si incarica di raccogliere uno ad uno quei frammenti dalla realtà (o presunta tale) ed
inserirli inalterati, allo stato puro, nel contenitore, man mano delineando la dimensione
pubblica del personaggio. La critica esprime un giudizio su uno o più frammenti inseriti nel
contenitore, dopo un’attenta osservazione. La satira seleziona alcuni di quei frammenti, ci
scolpisce e disegna sopra. Ed è proprio questa attività artistica e artigianale ad essere tutelata
dall’art. 33 Cost. L’intensità del nesso di coerenza causale dipenderà dal grado di “lavorazione”
di quei frammenti. Più l’autore interverrà sui frammenti tratti dal contenitore deformando le
informazioni sul personaggio (ossia discostandosi dal dato reale o presunto tale), più debole
sarà il nesso. E ad una minore lavorazione di quei frammenti corrisponderà, invece, un
rafforzamento di quel nesso, che tenderà a far aderire il contenuto del messaggio satirico alla
realtà (o presunta tale). L’importante è che i frammenti “lavorati” dalla satira siano stati
prelevati dal contenitore del personaggio pubblico. Non sarebbe lecita quella satira che agisse
su frammenti “estranei” al contenitore. Per fare un esempio, si pensi alla satira su un
personaggio del calibro di Silvio Berlusconi, il cui contenitore è certamente molto voluminoso.
E’ difficile fare esempi di satira illecita su Berlusconi, poiché i frammenti su cui lavorare sono
numerosissimi. Provandoci, non sarebbe lecito ritrarlo oggi mentre si gioca la moglie in una
partita a carte, poiché difetterebbe il nesso di coerenza causale. Ma la gag diverrebbe lecita se
domani, per ipotesi, si venisse a sapere del suo tentativo, seppure scherzoso, di ingraziarsi il
premier di uno Stato estero offrendogli la compagnia della moglie, nella speranza di poter
entrare nel progetto di privatizzazione della televisione pubblica di quello Stato. Ciò che nella
satira viene legittimamente rappresentato, nella cronaca o nella critica diverrebbe ingenua e
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clamorosa diffamazione. Tuttavia, a volte la lavorazione è così accurata da dare l’impressione
che l’autore non abbia adoperato frammenti raccolti dal contenitore e che abbia inserito nel
messaggio satirico informazioni nuove. Il problema della legittimità della satira è tutto qui.
Bisogna cioè prestare la massima attenzione e verificare se il contenuto del messaggio satirico
sia il prodotto della lavorazione di frammenti presenti nel contenitore, oppure il risultato
dell’inserimento di un frammento estraneo che, in quanto tale, non può garantire al messaggio
alcuna coerenza causale con il personaggio pubblico. E’ chiaro, quindi, che la creatività
adoperata dall’autore satirico nel lavorare i frammenti presenti nel contenitore va tutta a suo
rischio e pericolo. Un’eccessiva lavorazione potrebbe non essere compresa dal pubblico, ma
soprattutto dal giudice, che potrebbe non scorgere il nesso di coerenza causale, scambiando i
frammenti prelevati dal contenitore e lavorati dall’autore per frammenti estranei, e rinvenendo
così gli estremi della diffamazione. A maggior ragione, la satira non può pescare in un
contenitore vuoto. Non può prendere di mira soggetti privi di dimensione pubblica. Nessuna
gag soddisferebbe il requisito di coerenza causale laddove non esiste il “personaggio”. Qui la
satira utilizzerebbe frammenti, informazioni che necessariamente rientrano nella sfera privata
di un soggetto, o rinuncerebbe ai contenuti limitandosi a strumentalizzare il nome o le
sembianze di quel soggetto, che si vedrebbe leso in entrambi i casi quantomeno nel proprio
diritto alla riservatezza. Allo stesso modo, non potrebbe ritenersi lecita la satira su un
personaggio pubblico che utilizzasse informazioni rientranti nella sua sfera privata e non di
dominio pubblico. Neanche qui sussisterebbe il nesso di coerenza causale, poiché la sfera
privata del personaggio pubblico è intangibile quanto quella della persona anonima. Quanto
detto porta alla conseguenza più importante: nella satira non esiste l’obbligo di rispettare la
verità dei fatti. Anzi, caratteristica principale della satira è proprio la deformazione della realtà,
la sua rappresentazione in termini paradossali, a cominciare dalle vignette caricaturali e dalle
maschere sceniche che stravolgono i (reali) tratti somatici dei personaggi noti. Parte della satira
di Gene Gnocchi si basa sulla attribuzione a personaggi reali di specifici fatti clamorosamente
falsi, la cui narrazione è sempre accompagnata dal suo ostentato sforzo di renderli credibili. Ciò
non toglie, però, che l’autore possa, per libera scelta artistica, basare il contenuto artisticoespressivo dell’opera satirica sulla verità dei fatti, rinunciando ai più ampi spazi creativi che il
ricorso al concetto di coerenza causale gli garantirebbe. E’ la cosiddetta “satira-verità”, spesso
creata a fini di denuncia sociale, che poggiando sulla verità dei fatti è al contempo espressione
della libertà di pensiero di cui all’art. 21 Cost. Rinunciando allo stravolgimento dei fatti, la
“satira-verità” è, giuridicamente parlando, una forma di satira a basso rischio di lesività,
proprio perché trattiene le potenzialità insite nella satira tradizionale. La satira-verità non va
assolutamente confusa con la “satira informativa”. Sono due concetti distinti e con funzioni
diversissime, ma che in alcuni ambienti retrivi si tende ad assimilare a fini di censura. Si dirà in
seguito della differenza tra Satira verità e satira informativa. Qui basti precisare che la decisione
di aderire alla realtà, o di stravolgerla, rientra nella facoltà di scelta artistica dell’autore,
insindacabile ex art. 33 Cost. Perché la satira-verità, in quanto arte, non risponde ad esigenze
informative. D’altra parte, che la satira non debba essere vincolata al rispetto del requisito della
verità lo impone anche una considerazione di ordine logico. La satira interviene a contenitore
già riempito, ossia a dimensione pubblica acquisita. Interviene su quegli aspetti del personaggio
che, grazie alla cronaca, sono ormai di dominio pubblico. Il rapporto della satira con il fatto è
mediato dalla cronaca, poiché la qualità della dimensione pubblica del personaggio preesiste al
messaggio satirico. L’eventuale obbligo di rispettare la verità dei fatti costringerebbe l’autore
satirico a compiere quella attività di ricerca e di verifica delle fonti che spetta al giornalista,
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dando luogo così ad una paradossale confusione di ruoli. Così, agirà pur sempre nei limiti del
diritto di satira l’autore che utilizzi frammenti presenti nel contenitore (ossia informazioni di
dominio pubblico) ma inserite illecitamente perché non vere o prive di interesse pubblico
secondo i principi generali del diritto di cronaca. Ipotesi, peraltro, piuttosto teorica, poiché
bisognerebbe immaginare uno spiegamento di forze mediatiche che, commettendo il medesimo
errore, creino ex novo una dimensione pubblica o quantomeno ne distorcano la qualità. La
dimensione pubblica del personaggio, ossia la capienza del contenitore da cui l’autore satirico
attinge per le sue creazioni, dipende da vari fattori. Principalmente dal ruolo pubblico e dal
comportamento del soggetto. E’ il politico il miglior ispiratore della satira, poiché, essendo un
soggetto ad alta dimensione pubblica, fornisce all’autore ampia libertà nella creazione di
contenuti in coerenza causale con essa. E’ dunque nella satira politica che l’autore può meglio
liberare la propria creatività. Tra l’altro, è un particolare atteggiarsi dell’uomo politico a
renderlo bersaglio privilegiato della satira. Non è un caso, ad esempio, che Silvio Berlusconi,
durante la sua lunga permanenza a Palazzo Chigi, sia stato conteso da vari autori satirici. Non
certo per una loro presunta riconducibilità a determinate posizioni politiche, ma semplicemente
per le opportunità creative garantite dall’ampiezza e dalla costante caratterizzazione della sua
dimensione pubblica. La libertà di creazione sfuma man mano che l’autore predilige figure “a
basso profilo”. Con questo “scendere”, infatti, l’autore satirico si confronta con dimensioni
pubbliche sempre più povere, che garantiscono contenuti satirici tendenzialmente
monotematici. Il presentatore Rai Luca Giurato viene preso di mira da “Striscia la notizia” con
micidiale frequenza, ma solo per gli strafalcioni grammaticali e la scarsa concentrazione che
manifesta nella conduzione dei suoi programmi. Il contributo che Antonio Zequila (detto anche
“Er mutanda”) e quelli come lui apportano alla satira deriva solo dalle loro sporadiche esibizioni
trash in televisione. Stessa cosa per la satira della “Gialappa’s Band” quando verte sui
protagonisti di reality come “Il Grande Fratello” e simili. Si tratta, cioè, di personaggi a
dimensione pubblica evanescente, che stimola una satira di scarsi contenuti (ma che tuttavia
può risultare piacevole), in cui prevale la mera riproposizione al pubblico del comportamento
di soggetti che in sostanza fanno il verso a sé stessi e che occasionano la satira per il solo fatto di
mostrarsi in video. E’ una satira di tipo parassitario, dal contenuto prevedibile, costretta a
reiterare il solo messaggio in grado di porsi in coerenza causale con la qualità della dimensione
pubblica del soggetto preso di mira. Ma è possibile che la satira, anziché attingere dal
contenitore di un personaggio pubblico esistente, crei essa stessa il personaggio e ne alimenti
nel tempo la dimensione pubblica. Si ricorderà il “caso Randine”, occasionato da una
trasmissione de “Le Iene” dell’autunno 2000. Enrico Lucci, recatosi in una discoteca romana
frequentata da vip in credito col successo, si imbatteva nello sconosciuto Tony Randine,
sedicente “nobile modello attore amico di Confalonieri”, al quale concedeva una spassosa intervista.
Grazie anche alla sua magistrale ironia, con quell’intervista Enrico Lucci lanciava il personaggio
di Tony Randine, che nei mesi a venire verrà impietosamente bersagliato da “Le Iene” e dallo
stesso Lucci come simbolo della vacuità. Si arriverà persino all’incisione di un CD musicale: il
“Randidance”. Per il “caso Randine” non ha senso parlare di nesso di coerenza causale, poiché il
concetto implica la preesistenza della dimensione pubblica rispetto alla creazione della satira.
Qui, invece, il rapporto è rovesciato. E’ la dimensione pubblica di Tony Randine ad essere stata
creata e alimentata dalla satira de “Le Iene”, a partire dalla iniziale gag nella discoteca romana.
Tony Randine esisteva solo nella misura in cui confluiva nel contenuto della satira de “Le Iene”.
L’insistenza di Tony Randine nel richiedere la prima intervista nella discoteca romana, insieme
al suo atteggiamento tipico di chi cerca notorietà (quindi dimensione pubblica), ha senza
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dubbio determinato la legittimità della successiva satira, il cui contenuto era in gran parte
ritagliato proprio su quell’atteggiamento. Conclusioni opposte andrebbero tratte se l’intervista
fosse stata “strappata” a Tony Randine e su quell’episodio si fossero inserite le successive gag.
Ponendolo prepotentemente all’attenzione del pubblico, “Le Iene” avrebbero violato il suo
diritto alla riservatezza. A volte la televisione offre un tipo di satira dove il nesso di coerenza
causale è del tutto mancante. E’ il caso di “Scherzi a parte”, la trasmissione di Canale5 che
escogita le gag più assurde ai danni e all’insaputa di personaggi noti. Qui il contenuto del
messaggio satirico non manifesta alcuna coerenza causale con la qualità della dimensione
pubblica del personaggio, essendone completamente avulso. Vi è la mera strumentalizzazione
della notorietà del personaggio per catturare l’attenzione del telespettatore. Le gag non sono in
alcun modo ricollegabili alla sua dimensione pubblica, attenendo invece alla sua sfera privata,
identica a quella di qualsiasi sconosciuto. La messa in onda delle immagini senza il consenso
del soggetto preso di mira darebbe luogo ad una violazione del diritto alla riservatezza. Infine,
la pretesa che la satira si conformi al requisito della continenza formale non potrebbe avere
alcun senso. Per sua natura, la satira trasgredisce soprattutto attraverso il linguaggio. E se la
continenza formale riguarda tipicamente le modalità espressive, una sua applicazione alla satira
si risolverebbe nella totale negazione di quell’arte.
SATIRA VERITIERA E SATIRA INFORMATIVA
L’intensità del nesso di coerenza causale tra la qualità della dimensione pubblica del
personaggio e il contenuto del messaggio satirico può essere regolata dallo stesso autore.
Minore sarà la lavorazione sui frammenti estratti dal contenitore della dimensione pubblica, più
stretto risulterà il nesso di coerenza causale, essendo maggiore l’aderenza del contenuto della
satira alla realtà della dimensione pubblica. Pertanto, l’autore satirico potrà liberamente
ricercare una soluzione artistica che privilegi la diretta rappresentazione del fatto reale. Senza
tuttavia rinunciare a fare uso qua e là del paradosso o dell’ironia per rendere l’opera più
incisiva e accattivante. Del resto, una delle caratteristiche della satira è notoriamente proprio il
continuo alternarsi del serio con il faceto. Così, diversi autori preferiscono dedicare le proprie
energie creative a temi di attualità, dando vita ad un genere che si può definire “satira-verità”.
Quel che qui diventa estremamente importante sottolineare è che tale decisione rientra in una
facoltà di scelta dell’autore assolutamente insindacabile, in quanto tutelata dall’art. 33 Cost. Ciò
che si è visto per la scienza a proposito della critica scientifica vale anche per l’arte, poiché l’art.
33 Cost. tutela la libertà di entrambe nella stessa misura. Ossia, come lo Stato non può attribuire
ufficialità ad una scienza, così non può dare indicazioni o direttive all’artista sindacando il
contenuto della sua opera. Invece, da qualche tempo e in alcuni ambienti si cerca di imporre
limiti al contenuto artistico-espressivo a varie opere satiriche sostenendo che “la satira non deve
fare informazione”. E a tale scopo si è introdotto il concetto di “satira informativa”. Si dirà più
avanti a quale diversissimo contesto va in realtà riferito il termine “satira informativa”. Occorre
prima soffermarsi sul valore che il nostro ordinamento giuridico potrebbe riconoscere ai
tentativi di vietare una satira-verità. Ebbene, questo valore sta a zero. Infatti, si è visto che il
diritto di satira va garantito quando il contenuto dell’opera è in coerenza causale con la qualità
della dimensione pubblica del personaggio. A maggior ragione, quindi, man mano che la
coerenza causale cede il passo ad una adesione del contenuto al dato reale, ossia quando
l’autore utilizza i frammenti tratti dal contenitore della dimensione pubblica rinunciando a
“lavorarli“. In altre parole, se il ricorso al concetto di coerenza causale garantisce che nessun
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danno può derivare dalla deformazione delle informazioni, a maggior ragione non vi sarà
danno quando le informazioni che delineano la dimensione pubblica del personaggio vengono
riproposte allo stato “grezzo”, così come confluite nel contenitore. La questione della satiraverità pone un problema non molto diverso da quello già affrontato in cinema e diritto di
cronaca a proposito dei film-verità. In questi ultimi il regista comunica al pubblico non soltanto
un risultato creativo, ma anche un fatto di cronaca, facendo luce su una complessa vicenda. In
una parola: informa il pubblico. Proprio come nei film-verità, nella satira-verità l’autore esercita
un’attività riconosciuta e tutelata non soltanto dall’art. 33 Cost., ma anche dall’art. 21 Cost. in
quanto informativa. E le peculiarità della satira permettono all’autore qualcosa di più di quello
che è in facoltà del regista cinematografico. Mentre quest’ultimo, come già visto, può discostarsi
dal dato cronicistico rappresentando i cosiddetti “fatti minori”, l’autore satirico può inserire
nell’opera “fatti maggiori”, purché in coerenza causale con la qualità della dimensione pubblica
del personaggio, passando a suo piacimento dal serio al faceto, dal reale al paradossale.
Generalmente, chi si oppone alla legittimità della satira-verità sostiene una concezione della
satira decisamente anacronistica. Ad esempio, negli atti difensivi depositati dalla difesa di
Mediaset al processo relativo al caso RaiOt, si legge che la satira “non può, per sua natura,
perseguire il fine di contribuire alla formazione della pubblica opinione”; e che deve invece “moderare i
potenti, smitizzare ed umanizzare i famosi, umiliare i protervi”, poiché svolge “una funzione
fondamentale di controllo sociale e di protezione contro gli eccessi del potere, nonché di attenuazione delle
tensioni sociali”. In realtà, la difesa di Mediaset ha tratto questi ultimi due passi da una sentenza
del Tribunale di Roma del 1992. A parte il fatto che il Tribunale di Roma aveva nel caso
specifico adoperato quella frase per affermare la legittimità della satira, non per negarla
(significando quindi che la satira può avere anche quella funzione), avallare una simile
concezione sarebbe estremamente pericoloso. Significherebbe che la satira (in modo particolare
quella politica) non può consistere in una critica al Potere, ma deve sempre implicitamente
riconoscerlo limitandosi a “scherzarci sopra”, evitando accuratamente sia di fare emergere
circostanze vere e imbarazzanti, sia di stimolare pericolose riflessioni. E’ la concezione,
restrittiva, secondo cui la satira “castigat ridendo mores”, accolta dai regimi autoritari. Nelle
monarchie assolute l’impegno profuso dai giullari di corte era ritenuto indispensabile. Non c’è
bisogno di spendere molte parole per dimostrare l’inconciliabilità di una simile concezione con i
principi di una moderna democrazia, dove la verità, in qualunque modo venga diffusa, è
sempre una necessità. Tra l’altro, vietando al comico di riferire fatti scomodi ma veri, si
porrebbero le basi per estendere il divieto ad altri ambiti, sul presupposto che la verità che “fa
male” non va comunque diffusa. Di conseguenza, frasi come “la satira non deve fare
informazione”, oltre a denotare una scarsa dimestichezza con il concetto di libertà
costituzionale, sono assolutamente pretestuose, perché finalizzate soltanto ad impedire scomodi
approfondimenti informativi e a preparare il campo ad un uso generalizzato della censura.
Sarebbe come vietare ai registi di girare film su fatti di cronaca. L’artista è libero di creare ex art.
33 Cost., ma anche di diffondere il proprio pensiero ex art. 21 Cost. attraverso opere che
denuncino una situazione reale, persino drammatica, come fa ad esempio Marco Paolini nei
suoi famosi monologhi. E come si proponeva di fare Picasso nel 1937 quando dipinse La
Guernica, bandito dalla Spagna durante tutto il periodo franchista. La satira-verità finisce per
proporsi prevalentemente come critica, poiché spesso assume toni polemici nei riguardi di atti o
comportamenti pubblicamente già acquisiti. Non mancano, però, casi in cui la satira è
contemporanea alla acquisizione dell’informazione da parte del pubblico. Casi, cioè, in cui
l’autore satirico fa anche cronaca. Un esempio è dato da quella satira di “Striscia la notizia” e de
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“Le Iene” finalizzate allo smascheramento e alla denuncia pubblica di attività truffaldine, ma che
tuttavia può porre soltanto un problema di continenza formale, come già spiegato in La cronaca
aggressiva. Tirando le somme, il concetto di “satira informativa” va respinto perché fuorviante.
Tende ad estrapolare dal genere della satira una autonoma categoria per farne oggetto di
censura. In realtà, il contesto al quale va ricondotto il concetto di “satira informativa” è
completamente diverso. La satira potrebbe definirsi “informativa” solo quando risulti
strumentale ad un messaggio informativo. L’unico esempio concreto che può venire in mente è
quello della vignetta satirica che, inserita accanto ad una notizia di cronaca o comunque in
modo da essere immediatamente riconducibile ad essa, la serve, amplificandone il messaggio
informativo. Qui il messaggio satirico cessa di essere tale e diventa anch’esso (come la notizia
che serve) informativo. La conseguenza è che l’autore della vignetta non potrà limitarsi a
rispettare il nesso di coerenza causale, ma sarà vincolato al rispetto del requisito della verità,
come se stesse comunicando una notizia. Dovrà rinunciare, quindi, alla più importante
caratteristica della satira: la deformazione del fatto. Una storpiatura del dato reale potrebbe
risolversi in una violazione del requisito della verità secondo i principi del diritto di cronaca.
Detto ciò, è agevole notare la differenza abissale tra la fattispecie ora descritta (vignetta che
serve la notizia) e il genere della satira-verità visto prima. Nel caso della vignetta, l’elemento
satirico è ben distinto, addirittura visivamente, dall’elemento informativo rappresentato dalla
notizia. Nella satira-verità, invece, l’elemento informativo si fonde con quello satirico. Tale
fusione produce un risultato decisivo: nella satira-verità l’elemento informativo non potrà mai
avere un’efficacia persuasiva paragonabile a quella di una notizia, proprio perché non è
autonomo e distinto dall’elemento satirico. Da ciò derivano due conseguenze importantissime.
La prima. Il tipo di opera satirica che privilegia un contenuto aderente alla realtà non va
estrapolato dal genere della satira attraverso una sopravvalutazione dell’elemento informativo.
La satira-verità non costituisce una categoria autonoma di satira in quanto non soddisfa
esigenze propriamente informative. La seconda conseguenza. Nemmeno la “satira
informativa”, come ora ricostruita, costituisce una categoria autonoma. E’ soltanto un fenomeno
occasionale che, essendo in rapporto di mera strumentalità con una notizia, nasce solo in
presenza di essa. I casi giudiziari che seguono si inseriscono in tale fenomeno. A parte il “caso
RaiOt”, riconducibile al tipo della satirà-verità.
LA SATIRA RELIGIOSA
Anche la satira religiosa provoca un conflitto tra opposti valori costituzionali. Da un lato, la
libertà dell’arte di cui all’art. 33 Cost.; dall’altro, non più il diritto alla reputazione (come negli
altri casi finora analizzati), ma il sentimento religioso, tutelato dall’art. 19 Cost., norma che
sancisce la libertà di religione. Poi, la concreta tutela del sentimento religioso è affidata agli artt.
403, 404 e 405 del codice penale, che reprimono il vilipendio di una confessione religiosa.
Pertanto, non diversamente da quanto fatto per gli altri casi dove è in gioco la reputazione del
destinatario del messaggio satirico, anche qui bisogna valutare, in un’ottica di bilanciamento di
valori costituzionali, se e a quali condizioni la tutela della libertà dell’arte (e di pensiero) deve
prevalere sulla tutela del sentimento religioso. Proprio come prevale, a certe condizioni, sul
diritto alla reputazione. La satira religiosa può essere suddivisa in due categorie. La prima
prende di mira personaggi che, inseriti all’interno di una confessione religiosa, svolgono una
funzione terrena. La seconda ha per oggetto simboli ed entità spirituali. La prima categoria
non pone particolari problemi giuridici. Capita di vedere irrisi personaggi di spicco delle
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istituzioni religiose, a cominciare dalla Chiesa Cattolica. Spesso pagano il prezzo di un
atteggiamento pubblico di eccessiva intransigenza nella difesa dei propri valori. Si ricorderà la
vena satirica di molti autori all’indomani delle dichiarazioni del cardinal Siri, Arcivescovo di
Genova, che negli anni ’90 arrivò a definire incautamente l’Aids “uno strale celeste, un castigo di
Dio per punire il peccato sessuale”. O la satira occasionata dalle frequenti prese di posizione di alte
gerarchie ecclesiastiche in materia di aborto e famiglia. Ma anche gli scandali che hanno visto
coinvolti alte personalità vaticane hanno occasionato una satira pungente. In questi casi, la
posizione del soggetto preso di mira non è diversa da quella del politico, specie quando le
manifestazioni avvengono nell’imminenza di consultazioni referendarie ed elettorali (è
soprattutto il caso della Chiesa Cattolica). Anche il religioso, nel suo comunicare con la società
civile, attira consensi e critiche, alimentando la propria dimensione pubblica. Sarebbe
incostituzionale comprimere la libertà di satira in nome di un aprioristico rispetto per la
sacralità della funzione, prescindendo dal comportamento di chi la esercita. Persino il Papa non
va considerato immune alla satira, anche se messaggi dal contenuto eccessivamente vivace e
graffiante tendono a mal conciliarsi con la pacatezza che generalmente circonda le esternazioni
del Pontefice. La questione incomincia a complicarsi quando la satira verte su simboli religiosi
o entità spirituali. Qui ad essere presa di mira è una cerchia indeterminata di persone (la
comunità religiosa) anziché un singolo soggetto, anche se in maniera indiretta. Vengono colpiti
soggetti anonimi che, a differenza di coloro che ricoprono incarichi di rilievo, non hanno mai
scelto di esporsi pubblicamente accettando di divenire oggetto di satira. Questo tipo di satira
presenta una caratteristica rilevante. Le entità dissacrate non hanno un rapporto oggettivo con
la realtà, perché fanno parte del patrimonio esclusivo del credente. Figure come Maometto,
Gesù Cristo, Dio e la Madonna esistono se e nella misura in cui preesiste una fede, che è
fenomeno soggettivo e intimo per antonomasia. Sono figure che, pur rivestendo un ruolo
assolutamente primario nella vita interiore del credente, non hanno alcuna possibilità di
incidere sugli eventi del mondo esteriore, a differenza di chi ricopre ruoli confessionali terreni.
Sono, cioè, figure prive di dimensione pubblica. Proprio perché attengono alla fede, quindi alla
sfera privatissima di chi quella fede pratica, esprimono un concetto antitetico a quello di
“dimensione pubblica”. Da ciò deriva una conclusione decisiva. E’ impossibile qui concepire un
messaggio satirico in coerenza causale con la qualità della dimensione pubblica del
personaggio, proprio perché non vi è alcuna dimensione pubblica. A maggior ragione per
quanto riguarda una figura come quella di Maometto, la cui raffigurazione è addirittura vietata
dalla religione islamica e i cui tratti somatici sono perciò inafferrabili per gli stessi musulmani.
Inoltre, può sembrare paradossale, ma affermando la legittimità della satira sulle entità
spirituali di una confessione religiosa, ci si porrebbe in contrasto con il principio costituzionale
di laicità dello Stato. Uno Stato è laico quando garantisce la separazione tra religione da un lato,
vita istituzionale dall’altro. Legittimando una simile satira attraverso l’attribuzione di una
dimensione pubblica ad entità spirituali, si finirebbe per equipararle a quei soggetti capaci di
interagire con la realtà proprio perché “terreni”. Conclusione antitetica ad una concezione
basata sulla netta differenziazione tra elemento civile ed elemento religioso. La questione
diventa ancor più complessa e delicata quando oggetto della satira diventa la comunità religiosa
in sé, che viene irrisa in maniera diretta. Anche qui, come nella categoria precedente, l’offesa si
riverbera sui suoi singoli componenti. Ossia su soggetti anonimi che, a differenza di coloro che
ricoprono incarichi di rilievo, non hanno mai scelto di esporsi pubblicamente accettando di
divenire oggetto di satira. Di questo tipo di satira ne fa le spese quasi sempre la comunità
ebraica. Sono note le vignette che raffigurano l’ebreo con fattezze diaboliche mentre impugna la
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Menorah (il candelabro a sette braccia) come se fosse un forcone, o la Bibbia ebraica come un
contenitore d’armi, o il rabbino che trasporta le tavole della Torah su cui campeggia la scritta
“razzismo”, tanto per citarne alcune, peraltro quasi tutte apprese da fonti arabe. Queste vignette
in particolare non sono legittime perché il contenuto del messaggio satirico risulta totalmente
assorbito nella volontà di offendere. Qui componente unica del messaggio satirico è il
pregiudizio razziale. Dando tali vignette per scontato che la dimensione pubblica dell’ebreo è
caratterizzata dall’essere diavolo, razzista, dispensatore di dolore e morte, finiscono per
descriverla secondo l’ottica di un ipotetico pubblico antisemita. Qui è indiscutibile la
sussistenza del reato di vilipendio della religione ebraica, poiché l’unico nesso di coerenza
causale che può rinvenirsi in queste vignette è quello che lega il messaggio satirico al
pregiudizio antisemita. Ma non bisogna cadere nell’eccesso opposto e considerare illegittima
qualsiasi satira sugli ebrei. Alcuni esempi saranno utili. Si ricorderà il caso della vignetta
pubblicata da un giornale francese, durante l’assedio portato nell’aprile 2002 dall’esercito
israeliano alla Chiesa della Natività di Betlemme. La vignetta raffigura Arafat e alcuni suoi
fedeli che esprimono soddisfazione per la scelta del rifugio guardando il crocifisso, mentre il
Cristo esclama: “Non parlatemi degli ebrei!”. Non altrettanto lecita, invece, la vignetta che nella
medesima occasione pubblicò Forattini, della quale si parla compiutamente in Il deicidio di
Forattini. Un altro esempio è la vignetta pubblicata da un quotidiano belga in seguito alle
reazioni dell’opinione pubblica israeliana alla decisione, annunciata nel 2001 da un tribunale
belga, di processare l’allora primo ministro Ariel Sharon per crimini contro l’umanità, per il
ruolo assunto nel massacro compiuto nei campi profughi di Sabra e Chatila nel settembre 1982.
La vignetta reca una didascalia con la scritta “Il Belgio è divenuto un nemico. Giudicare un macellaio
non ha nulla a che vedere con l’antisemitismo” e l’immagine di un ebreo che indossa le proverbiali
vesti dell’ultraortodosso mentre, agitando un coltello davanti ad un bambino efebico sorpreso
ad orinare, esclama: “Circoncision!”. Altra vignetta è quella di “Cuore” che ironizza sulla
presunta assenza dal lavoro, prestato all’interno delle Torri Gemelle di New York, di alcune
migliaia di ebrei americani proprio la mattina dell’11 settembre 2001. La didascalia recita: “Più
di 4 mila impiegati alle Twin Towers, ebrei americani o di origine israeliana, la mattina dell’11 settembre
non si sono misteriosamente recati al lavoro… Come mai???”; e la vignetta ritrae una donna che
risponde “Guardi, noi si doveva circoncidere il pupo… circoincidenze, eh?”. Queste vignette non
brillano per eleganza, irridendo una comunità decisamente in credito di rispetto. Ma le tragedie
passate e presenti non possono condizionare un giudizio obiettivo di legittimità. E i tre esempi
ora riportati riguardano una satira che può sì considerarsi di cattivo gusto, ma non illecita.
Nella vignetta sull’assedio dell’esercito israeliano alla Chiesa della Natività di Betlemme, il
messaggio satirico, consistente nell’insofferenza manifestata da Cristo in croce nei riguardi delle
forze militari israeliane, può ritenersi in coerenza causale con gli storici controversi rapporti tra
Autorità ebraiche e lo stesso Gesù, rinnegato dal clero di Gerusalemme perché
autoproclamatosi Messia. Negli altri due esempi, non si può dire che l’ironico riferimento alla
pratica della circoncisione sia un’offesa al sentimento religioso ebraico. Nel caso della vignetta
sul conflitto tra Belgio e Sharon, l’ebreo ultraortodosso rivendica la valenza educativa che la
pratica della circoncisione assume nella credenza religiosa ebraica, resa ancor più necessaria,
nella sua mente, dal tentativo belga di processare Sharon. Nella vignetta sull’attentato alle Torri
Gemelle, non vi è alcuna offesa alla religione ebraica, poiché la battuta sulla circoncisione vuole
solo costruire un messaggio satirico intorno a quella che può considerarsi una paradossale
diceria ormai di dominio pubblico. Elemento comune di questo tipo di satira è l’essere
occasionata da importanti fatti di cronaca. Qui è un accadimento reale a sollecitare il messaggio
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satirico. Dunque, anche per quanto riguarda la satira religiosa può trarsi una conclusione
analoga a quella che si impone per la satira in generale. Ossia: quanto più la satira è collegata a
vicende attuali e di sicuro interesse pubblico, tanto maggiore è la probabilità che il contenuto
del messaggio satirico risulti in coerenza causale con la dimensione pubblica del suo
destinatario. Coerenza che, al contrario, non può rinvenirsi in vignette simili a quelle analizzate
precedentemente, avulse da qualsiasi contesto di cronaca e motivate unicamente dal
deprecabile intento di diffondere un pregiudizio antisemita.
LA CENSURA
Con la censura un organo pubblico esercita un controllo sul contenuto di una manifestazione di
pensiero, impedendone la diffusione quando è ritenuta contraria agli interessi
dell’ordinamento. Sistematica nei regimi dittatoriali, la censura è un istituto eccezionale in uno
Stato democratico. Infatti, l’unica forma di censura ammessa nel nostro ordinamento è quella
sulle opere cinematografiche, disciplinata dalla L. 21 aprile 1962 n. 161. Una apposita
Commissione, i cui membri sono nominati dal Ministro per i Beni e le Attività Culturali,
concede il “nulla osta” alla diffusione di quelle opere non contrarie al buon costume, stabilendo
eventuali limiti alla visione dei minori. Analoghe cautele sono previste, sempre a tutela dei
minori, per le produzioni Tv. Questa forma di censura trova piena legittimità nell’art. 21 Cost.,
il cui ultimo comma vieta “le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni
contrarie al buon costume”. Per il resto, l’art. 21 Cost. garantisce a tutti il “diritto di manifestare
liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Ciò non
significa che il pensiero possa manifestarsi in spregio agli altrui diritti. Ad impedirlo sono
quelle norme che puniscono, ad esempio, l’ingiuria e la diffamazione. Significa che nel nostro
ordinamento non può esistere un controllo preventivo sul contenuto di una manifestazione di
pensiero, che possa impedirne o solo condizionarne la diffusione. Fatta eccezione per il
menzionato potere di censura in ambito cinematografico, l’intervento dello Stato può essere
sanzionatorio, quindi successivo, ma mai preventivo. In un sistema democratico la diffusione
del pensiero non può essere mediata da alcun organo di controllo. A maggior ragione per la
stampa, data la sua insostituibile funzione di collegamento tra i fatti e la collettività, in piena
sintonia con l’art. 1, comma 2°, Cost. secondo cui “La sovranità appartiene al popolo”. Per questo
l’art. 21, comma 2°, Cost. stabilisce che “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o
censure”. La norma vuole instaurare un rapporto diretto tra gli organi di informazione e la
collettività. Un rapporto arricchito dal dovere di verità del giornalista, che contraddistingue un
sistema democratico, ma che non avrebbe alcun senso in un regime dittatoriale, dove il flusso
informativo è interamente mediato dai pubblici poteri. La censura è l’atto di un potere
pubblico. Non è quindi censura il controllo del direttore responsabile di un periodico, imposto
dall’art. 57 del codice penale per “impedire che col mezzo di comunicazione siano commessi reati”.
Tant’è che in mancanza di controllo, il direttore è punito a titolo di colpa nell’eventualità in cui
il reato venga commesso. Non è riconducibile alla censura nemmeno il potere esercitato dal
direttore responsabile per raccordare l’operato dei propri collaboratori alle caratteristiche
editoriali della testata. Qui il controllo avviene in esecuzione del contratto con l’editore, e può
sostanziarsi in un sindacato sul contenuto della pubblicazione. Del resto, è la previsione della
clausola di coscienza (art. 32 CNLG, che dà al giornalista la facoltà di “chiedere la risoluzione del
rapporto con diritto alle indennità di licenziamento” in caso di “sostanziale cambiamento dell’indirizzo
politico del giornale”) a legittimare l’esistenza di un siffatto potere di controllo: la clausola
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presuppone che il direttore responsabile possa pretendere di conformare l’operato dei propri
collaboratori all’indirizzo politico della testata. Nel sistema radiotelevisivo il rischio di censura
è normativamente prossimo allo zero. Ciò si desume da alcune disposizioni contenute nella L. 6
agosto 1990 n. 223 (“Legge Mammì”). L’art. 30, comma 3°, impone espressamente alla
concessionaria, sia pubblica che privata, un controllo sul contenuto dei programmi, ma al solo
scopo di impedire la commissione dei reati di pubblicazione e spettacoli osceni (art. 528 c.p.), di
pubblicazione lesiva del sentimento di fanciulli e adolescenti (art. 14 L. n. 47/1948), di
pubblicazione impressionante o raccapricciante (art. 15 L. n. 47/1948): ciò in sostanziale armonia
con quanto prescrive l’art. 21, comma 4°, Cost. laddove vieta le manifestazioni contrarie al
“buon costume”. Nessun controllo é previsto, invece, per prevenire il reato di diffamazione,
contrariamente a quanto impone per la carta stampata al direttore responsabile l’art. 57 c.p.,
norma inapplicabile al sistema radiotelevisivo per il divieto costituzionale di analogia in
materia penale (art. 25, comma 2°, Cost.). Non è una differenza da poco. Un conto è limitarsi a
verificare che un programma non contenga riferimenti scabrosi o impressionanti. Ben diverso è
controllare se una trasmissione possa rivelarsi lesiva della altrui reputazione. E’ facile
immaginare come quest’ultimo tipo di controllo, sostanziandosi in un giudizio discrezionale sul
contenuto del programma, possa di fatto tradursi in una censura. Ed è proprio per la mancanza
di un siffatto potere di controllo che poc’anzi si è detto che nel sistema radiotelevisivo il rischio
di censura è “normativamente prossimo allo zero”. Normativamente, però. Di fatto, in passato
si sono registrati all’interno della concessionaria pubblica Rai casi clamorosi, che hanno visto
coinvolti famosi giornalisti, oltre ad artisti di indiscutibile valore (andando indietro nel tempo,
si pensi a Beppe Grillo). Dopo aspre polemiche, sono stati soppressi importanti programmi di
approfondimento informativo e addirittura allontanati i loro conduttori, che per anni non
hanno potuto lavorare in Rai. Stessa cosa per alcuni programmi di satira. Non essendo
concepibile in un sistema democratico, né esistendo un organo deputato ad esercitarla, la
censura non è mai dichiaratamente tale. Qualcuno s’improvvisa censore bloccando un
programma; spesso allontanandone l’autore, giornalista o artista che sia. Ma nel fare ciò
l’improvvisato censore è costretto a nascondere due aspetti. Innanzitutto, deve nascondere che
agisce su direttiva, o comunque nell’interesse, di chi detiene il potere politico e, come tale, non
ha alcun potere giuridico di intervento, tanto da essere costretto ad utilizzare “mandatari” posti
ai vertici della concessionaria Rai. In secondo luogo, l’improvvisato censore deve nascondere i
veri motivi che lo hanno spinto a bloccare il programma, che sono poi i motivi che hanno
indotto chi detiene il potere politico a servirsi del censore; e rimpiazzarli con motivi che
possano giustificare l’atto. Insomma, l’improvvisato censore deve ricondurre la soppressione
della manifestazione di pensiero ad un comportamento ammesso dall’ordinamento. Per quanto
riguarda il primo aspetto (la natura politica dell’atto censorio), essendo difficile ottenere una
prova certa, sono sufficienti “elementi presuntivi” che insieme fanno ritenere verosimile che
l’improvvisato censore abbia agito per conto di chi detiene il potere politico e si sente leso nei
suoi interessi dai contenuti della trasmissione. Generalmente l’atto censorio è preceduto da
autorevoli dichiarazioni di politici il cui tenore fa pensare ad una loro interferenza nei palinsesti
Tv, ufficialmente impermeabili alle scelte politiche. Qui vanno tenute presenti non solo le
dichiarazioni dei politici contro i programmi che poi verranno soppressi, ma anche i
comportamenti dei soggetti preposti ai vertici Rai, da cui si possa ricavare quantomeno una loro
assonanza con chi detiene il potere politico, se non un asservimento. Per i gravi casi verificatisi
in Rai durante il secondo governo Berlusconi (2001-2006), alcune dichiarazioni assumono
certamente un’importanza fondamentale. Basti pensare a quella del leader di An Gianfranco
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Fini poco prima delle elezioni politiche del 2001, quando, criticando la conduzione della
trasmissione “Il raggio verde” di Michele Santoro, affermò che in caso di vittoria della Cdl
“faremo piazza pulita alla Rai”. O alla dichiarazione di Agostino Saccà che, poco prima di essere
nominato direttore generale della Rai (agosto 2002), affermò in un’intervista al “Corriere della
Sera” di votare Forza Italia con tutta la famiglia. O a quella, ingenua ma spontanea, di Alfredo
Meocci all’indomani della sua nomina a direttore generale della Rai (agosto 2005): “Ringrazio il
presidente del Consiglio per la fiducia”, ossia Silvio Berlusconi, quando la sua nomina avrebbe
dovuto essere di esclusiva competenza del consiglio di amministrazione Rai. Sono dichiarazioni
che fanno chiaramente pensare ad una interferenza del potere politico nelle decisioni prese dai
vertici Rai. Ma la dichiarazione più eclatante rimane quella resa da Silvio Berlusconi, allora capo
del Governo, durante una conferenza stampa tenuta a Sofia il 18 aprile 2002, quando parlò di
“uso criminoso della televisione pubblica” da parte di Enzo Biagi, Michele Santoro e Daniele
Luttazzi, nonché di “preciso dovere della nuova dirigenza Rai di non permettere più che questo
avvenga”. La dichiarazione di Berlusconi è passata alla storia con il termine di “editto bulgaro”,
soprattutto per la solerzia con cui sarà eseguito dai nuovi vertici Rai a danno dei menzionati
soggetti. Ma l’elemento presuntivo di maggior importanza è dato dalla circostanza che il
programma viene soppresso nonostante il successo di pubblico. Qui vi sono due interessi
contrapposti. Da una parte l’interesse di chi gestisce il potere politico, che si ritiene minacciato
dalla messa in onda del programma; dall’altra, l’interesse della concessionaria Rai a trasmettere
programmi ad alto share, non solo per soddisfare il maggior numero di utenti (si ricordi che la
Rai è “servizio pubblico”), ma anche per aumentare la raccolta pubblicitaria. E’ chiaro, quindi,
che la soppressione, da parte dei vertici Rai, di un programma che registra alti ascolti è la
classica zappa sui piedi, che tuttavia nell’ottica dell’improvvisato censore, che agisce per conto
del potere politico, appare l’unico modo per tutelare quest’ultimo. Qui è la stessa natura
masochistica dell’atto a far pensare ad una imposizione del potere politico sulla concessionaria
pubblica. Imposizione che durante il secondo governo Berlusconi (2001-2006) era certamente
stimolata dall’essere il capo del Governo addirittura proprietario delle tre reti Mediaset,
principale concorrente della Rai, come tale fortemente interessato a che la stessa perdesse
ascolti, quindi raccolta pubblicitaria. Un altro elemento presuntivo di grande importanza è dato
dagli sforzi organizzativi ed economici spesso profusi dalla Rai per assicurarsi un programma
che poi viene soppresso. Per ovvi motivi, entrambe le decisioni vengono prese dagli stessi
soggetti, o comunque con il loro avallo. E’ chiaro, quindi, che la soppressione di un programma,
in considerazione delle risorse spese per garantirselo, dà luogo ad una evidente contraddizione,
che fa presumere che la decisione finale sia stata adottata in una posizione tutt’altro che
immune da interferenze esterne. Il secondo aspetto da valutare riguarda le motivazioni con cui
l’improvvisato censore giustifica l’intervento sulla trasmissione. Per non violare
dichiaratamente la Costituzione, chi censura deve mentire. Dovendo nascondere i veri motivi
che hanno occasionato la censura, è costretto ad enunciarne altri che formalmente riconducono
l’atto nei binari della legalità, o quantomeno lo fanno ritenere opportuno, ma che quasi sempre
si rivelano pretestuosi: o perché sottolineano l’esigenza del raggiungimento di obiettivi poi
clamorosamente mancati, o perché contraddittori o basati su fatti falsi. I singoli casi
approfonditi danno un chiaro quadro del problema in cui s’imbatte l’improvvisato censore. Ma
vale la pena richiamare subito un esempio. Nel gennaio 2004 uno sketch dell’attrice comica
napoletana Rosalia Porcaro (che conteneva alcune pungenti battute su Berlusconi, sul suo
conflitto di interessi e sulle sue leggi ad personam) viene soppresso dal direttore di Rai1 Fabrizio
Del Noce a poche ore dalla messa in onda, ufficialmente perché il dialetto napoletano non si
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addice ad un programma di prima serata di Rai1 ed è difficilmente comprensibile. Ebbene, basti
pensare alle intere generazioni cresciute con i film di Totò, Peppino De Filippo, Massimo Troisi
ed altri brillanti partenopei per capire quanto la giustificazione fosse pretestuosa, perché diretta
unicamente a censurare il contenuto dello sketch. Un cenno va fatto sul concetto di linea
editoriale. Spesso un programma non viene preso in considerazione o soppresso perché
ritenuto non conforme alla “linea editoriale” della rete. Ciò accade soprattutto per i programmi
di satira. La giustificazione, più che fumosa, è basata sul nulla. La Rai fa servizio pubblico e il
suo editore è idealmente la collettività che ne usufruisce. Di conseguenza, un programma già
collocato nel palinsesto Tv e mandato in onda può essere considerato non conforme alla “linea
editoriale” di una rete quando gli ascolti si rivelano bassi, ossia quando risulta non gradito al
grande pubblico. Invece, prima della messa in onda ma dopo la sua realizzazione secondo gli
accordi tra autore e concessionaria, un programma deve solo rispettare i limiti imposti dalle
leggi vigenti, emanate dal Parlamento in rappresentanza della collettività. L’affermazione
secondo cui un programma non rispetta la “linea editoriale” di una rete ben può essere la spia
di un comportamento censorio. Verificare se in un caso concreto vi è stata censura ha un’utilità
giuridica. Infatti, un conto è ricondurre la soppressione del programma ad un inadempimento
del contratto che lega la Rai alla prestazione del conduttore; un altro conto è ricondurla (anche)
alla precisa volontà di impedire una libera manifestazione del pensiero. Qui vi sono due
ulteriori conseguenze: una riguarda la vittima della censura, l’altra la collettività. Per il
conduttore, al complesso di danni subiti dall’inadempimento contrattuale si dovrebbe
aggiungere quello che deriva dalla lesione di una libertà costituzionalmente garantita (art. 21
Cost.), che la giurisprudenza prevalente riconduce alla categoria del danno esistenziale. Per la
collettività, la censura di un programma interrompe il flusso di informazioni garantito dal
conduttore: in questo caso l’ente portatore di un interesse collettivo (ad esempio il Codacons)
potrebbe citare in giudizio la Rai chiedendo il risarcimento dei danni subiti dalla collettività per
effetto del comportamento censorio. Ma va precisato che la richiesta danni potrebbe essere
rivolta anche (o solo) all’improvvisato censore. E anche al “mandante” politico, qualora si
allegassero prove sufficienti della sua interferenza. Naturalmente, quanto detto vale anche per
la censura che colpisce una manifestazione artistica, che è tutelata dall’art. 33 Cost. (norma che
sancisce la libertà dell’arte). Non va dimenticato, infatti, che tutte le leggi che finora si sono
succedute considerano quali principi fondamentali in materia radiotelevisiva la tutela e lo
sviluppo del patrimonio artistico e culturale, nonché la valorizzazione delle relative opere. Tra i
casi di censura affrontati non compare quello che riguarda Massimo Fini, scritturato dalla Rai
per Cyrano, un programma di 15 puntate di cui lo stesso Fini è autore ed interprete, che sarebbe
dovuto andare in onda su Rai2 in tarda serata a partire dal settembre 2003. Il caso non è
affrontato non perché sia meno grave o importante, ma perché sul caso non vi sono “elementi
presuntivi” da ricercare e analizzare. La censura, infatti, fu clamorosamente ammessa dagli
stessi vertici Rai, come risulta da una conversazione registrata da Fini nello studio di Antonio
Marano, allora direttore di Rai2, che solo pochi giorni prima della messa in onda del
programma parlò candidamente di “veto politico-aziendale” sullo stesso Fini. Cyrano sarebbe
potuto andare in onda, ma i telespettatori non avrebbero dovuto vedere la faccia di Fini, che
sarebbe stato comunque indicato come autore del programma. Fini e il regista rifiutarono la
proposta e Cyrano non fu mai trasmesso.
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IL TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI NELL'ATTIVITA' GIORNALISTICA
Secondo l’art. 4, comma 1° lett. b), D.Lgs. n. 196/2003 (noto come “Codice della Privacy”), è dato
personale “qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione,
identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi
compreso un numero di identificazione personale”. Una nozione piuttosto ampia, che fa ritenere il
dato personale come qualunque informazione il cui utilizzo può portare alla identificazione,
anche indiretta, di un soggetto. Sono dati personali, quindi, non solo le generalità e l’immagine
di un individuo, ma anche il numero della carta di identità, dell’utenza telefonica e della carta
di credito, il codice fiscale, l’indirizzo di posta elettronica, la targa automobilistica, la voce, le
impronte digitali. Vi sono, poi, alcuni dati personali che non si limitano ad identificare un
soggetto, ma ne indicano una particolare condizione. Sono i dati sensibili, che per l’art. 4,
comma 1, lett. d), codice della privacy sono quei “dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed
etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti,
sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati
personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”. Il trattamento dei dati personali
consiste in “qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l’ausilio di strumenti
elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione,
l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il
blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in
una banca di dati” (art. 4, comma 1° lett. a), Codice della Privacy). Le regole generali sul
trattamento dei dati personali sono molto precise. In estrema sintesi, chi intende operare un
trattamento deve preventivamente informare l’interessato (ossia colui al quale i dati si
riferiscono) circa finalità, limiti e conseguenze del trattamento stesso: è l’informativa di cui
all’art. 13 del Codice della Privacy. Subito dopo deve ottenerne il consenso (art. 23). Il
trattamento che riguarda dati sensibili, oltre a necessitare del consenso scritto dell’interessato,
deve essere espressamente previsto dalla legge o da uno specifico provvedimento autorizzativo
del Garante. Gli enti pubblici (ma non quelli economici) sono dispensati dall’osservare la regola
del consenso per il trattamento di qualsiasi tipo di dato personale, che però va effettuato
“soltanto per lo svolgimento di funzioni istituzionali” (art. 18, comma 2°, Codice della Privacy), e per
i dati sensibili se e nella misura in cui lo preveda una norma di legge o un provvedimento del
Garante (art. 20). I dati giudiziari sono sottoposti ad una disciplina analoga a quella prevista per
i dati sensibili. Invece, norme particolari sono previste per il trattamento effettuato dai
giornalisti. Non è necessaria alcuna autorizzazione del Garante. E il giornalista che effettua il
trattamento non ha l’obbligo di ottenere il consenso dell’interessato, anche quando il
trattamento riguarda dati sensibili (art. 137, commi 1° e 2°, codice della privacy). Ciò significa
che il giornalista può liberamente crearsi la propria banca dati. Tuttavia, al momento della
raccolta del dato personale, il giornalista sarebbe comunque obbligato a rendere l’informativa di
cui all’art. 13 del Codice della Privacy. Ma è un obbligo dal peso certamente trascurabile se
raffrontato con quello che incombe sugli altri soggetti-tipo responsabili del trattamento. Infatti,
già lo stesso Codice della Privacy all’art. 139 prevede che il codice di deontologia possa adottare
“forme semplificate per le informative di cui all’art. 13”. Forme semplificate adottate dall’art. 2 del
codice deontologico, che impone al giornalista di rendere nota all’interessato soltanto “la propria
identità, la propria professione e le finalità della raccolta”, dispensandolo dall’obbligo di fornire gli
altri elementi descritti all’art. 13, obbligo invece operante per tutti i soggetti che effettuano un
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trattamento. Ma la stessa norma autorizza il giornalista a non identificarsi e a non rendere
l’interessato edotto della finalità della raccolta dei dati quando “ciò comporti rischi per la sua
incolumità o renda altrimenti impossibile l’esercizio della funzione informativa”. E’ evidente come
quest’ultima disposizione svuoti il contenuto dell’obbligo dell’informativa di cui all’art. 13. A
parte il caso dei rischi per l’incolumità, è facile immaginare come spesso l’ostentazione della
propria qualifica obbligherebbe il giornalista a rinunciare ad informare il pubblico, poiché
l’interlocutore si guarderebbe bene dal fornirgli qualsiasi dato. L’omissione dell’informativa è
qui prevista non tanto a tutela della professionalità del giornalista, quanto per consentire alla
collettività la fruizione di informazioni che soltanto il giornalista è in grado di veicolare. Non a
caso l’art. 1 del Codice di deontologia, proprio su spinta del legislatore e del Garante, ha sancito
il principio che i trattamenti effettuati nell’esercizio dell’attività giornalistica “si differenziano
nettamente per la loro natura dalla memorizzazione e dal trattamento di dati personali ad opera di
banche-dati o di altri soggetti”. Sotto questo aspetto, il giornalista gode di una libertà di azione
addirittura maggiore di quella riconosciuta agli enti pubblici, per definizione portatori di un
interesse pubblico. Questi, infatti, come già detto, possono trattare liberamente dati personali
“soltanto per lo svolgimento delle funzioni istituzionali” e solo su autorizzazione di una legge o di
uno specifico provvedimento del Garante quando il trattamento riguarda dati sensibili o
giudiziari. Per giunta, l’informativa sul trattamento va dagli enti pubblici resa sempre e in
forma integrale, senza possibilità di una qualche “forma semplificata”, o addirittura di una
esenzione, come è invece previsto per i giornalisti. Ciò evidenzia il carattere indubbiamente
pubblicistico dell’attività giornalistica, con riferimento non solo al momento informativo, ma
anche a quelle operazioni (prima fra tutte: l’acquisizione della notizia) che, precedendo la
pubblicazione della notizia, sono strumentali ad essa ed implicano quasi sempre un trattamento
di dati personali. Tuttavia, nell’art. 2 del codice di deontologia si scorge un preciso limite
all’attività di raccolta di dati personali. Il giornalista – dice la norma - “evita artifici e pressioni
indebite”. Ora, nessun dubbio sull’opportunità di vietare al giornalista “pressioni indebite”. Ma
cosa deve intendersi esattamente per “artifici”? Se il termine “artificio” lo si intendesse nel
significato opposto al concetto di “trasparenza”, allora molte notizie risulterebbero raccolte in
violazione della legge sulla privacy. E, soprattutto, non potrebbe sfuggire la contraddizione cui
darebbe vita la stessa norma, laddove consente al giornalista di nascondere identità, professione
e finalità della raccolta quando la loro manifestazione “renda altrimenti impossibile l’esercizio della
funzione informativa”. Il giornalista che lascia accesi microfono e telecamera nonostante
l’intervistato abbia condizionato il rilascio di dichiarazioni al loro spegnimento, raccoglie dati
personali (immagine, voce) ricorrendo ad un comportamento tutt’altro che trasparente, ma
evidentemente indispensabile per l’esercizio della funzione informativa. Stessa cosa per il
giornalista che si camuffa da infermiere per trarre le immagini del degrado di un ospedale
pubblico, perché fa ciò che gli consente l’art. 2, ossia non rende nota la propria identità. Ci si
chiede, quindi, in cosa debba consistere l’“artificio” la cui adozione rende illecita la raccolta di
dati personali. Una giusta soluzione potrebbe essere quella che fa leva sul carattere invasivo
della condotta del giornalista nei riguardi di eventuali persone. Per fare degli esempi, il
giornalista che registra un colloquio compromettente tra due persone dopo essersi introdotto
nella loro abitazione spacciandosi per idraulico o per prete, adotta senz’altro un artificio
invasivo della loro sfera privata. Non chi, invece, camuffatosi da musicista di strada, cattura le
immagini dell’alto magistrato mentre si reca a casa del famoso politico alla vigilia della
sentenza che lo assolverà. Insieme alla esclusione dell’obbligo dell’informativa e del consenso,
altre norme contribuiscono a garantire al giornalista una tutela privilegiata. L’art. 2 del Codice
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di deontologia gli permette di “conservare i dati raccolti per tutto il tempo necessario al perseguimento
delle finalità proprie della sua professione”; e lo tutela “per quanto concerne le fonti delle notizie, ai sensi
dell’art. 2 legge n. 69 del 1963” (norma, quest’ultima, che impone al giornalista il segreto
professionale). L’ampiezza della formula adottata porta a ritenere, da un lato, che il giornalista
può senza limiti detenere dati altrui nel proprio archivio personale in quanto esercente l’attività
giornalistica; dall’altro, che nessun interessato può esercitare il generale diritto di accesso,
previsto dall’art. 7 del Codice della Privacy, ai dati contenuti nell’archivio personale del
giornalista; né ottenere spiegazioni sulla loro origine, stante il segreto professionale sulla fonte.
Conclusione peraltro logica. Se il diritto di accesso dà in generale ad ogni interessato la
possibilità di verificare se dati personali siano stati raccolti e conservati in violazione delle
norme sulla informativa e sul consenso, sarebbe una contraddizione prevederlo nei confronti di
soggetti esentati dall’obbligo di rendere quell’informativa e di ottenere quel consenso. Tuttavia,
il codice di deontologia ha previsto all’art. 2 una forma di accesso ai dati personali contenuti
negli archivi editoriali dell’organo di informazione, imponendo all’editore di pubblicare sulla
propria testata “almeno due volte l’anno l’esistenza dell’archivio e il luogo dove è possibile esercitare i
diritti” di accesso ai dati personali, con indicazione del responsabile del trattamento. In genere,
la richiesta di accesso viene dall’interessato effettuata dopo l’uscita dell’articolo o del servizio
ritenuto lesivo, allo scopo di ottenere il blocco o la cancellazione o la rettifica dei dati personali
che lo riguardano. Qui l’interessato può anche chiedere di conoscerne l’origine, in applicazione
delle regole generali di cui all’art. 7 del Codice della Privacy. E l’editore non può opporre il
segreto professionale, invocabile invece dal giornalista a tutela dell’archivio personale. I veri,
unici limiti che il giornalista incontra nel trattamento di dati personali riguarda la loro
comunicazione e diffusione. Qui non basta che la comunicazione (a uno o più soggetti
determinati) e la diffusione (a un numero indeterminato di persone) siano “funzionali all’esercizio
della professione e per l’esclusivo perseguimento delle relative finalità”, come è richiesto per gli altri
tipi di trattamento. Secondo l’art. 137, comma 3°, del codice della privacy, la comunicazione e la
diffusione di dati personali incontrano “i limiti del diritto di cronaca e, in particolare, quello
dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico”. Ciò significa che la diffusione
di dati personali che, come tali, identificano o rendono identificabile una persona (in particolare,
le generalità e l’immagine) deve rispettare i tradizionali requisiti su cui si basa il diritto di
cronaca. Di conseguenza, oltre ad essere esatti nel rispetto del requisito della verità, la
diffusione dei dati personali deve rispondere ad una reale esigenza informativa nel rispetto del
requisito dell’interesse pubblico. E’ chiaro che qui nessun problema di “continenza formale”
può porsi, essendo inconcepibile la “forma espositiva” in un trattamento di dati personali. Da
tutto questo si ricava che l’aspetto dell’interesse pubblico è nel codice della privacy
particolarmente sentito. Vi sono fatti privati alla cui divulgazione non vi è alcuna utilità sociale.
Ma quando il fatto è in sé rilevante, non è detto che l’interesse pubblico alla acquisizione della
notizia debba automaticamente estendersi alla identificazione del protagonista. Conoscere
nome e cognome, o le fattezze fisiche, di chi ha tentato il suicidio gettandosi sotto il treno del
metrò, o del cliente preso in ostaggio durante una rapina in banca, non aggiunge alcuna utilità
per i fruitori dell’informazione e può creare gravi disagi al protagonista stesso. Sotto questo
aspetto si può dire che l’art. 137, comma 3°, del codice della privacy rappresenta la codificazione
del diritto alla riservatezza. La tutela del dato personale è lo strumento attraverso cui viene
garantito quel diritto. E la diffusione di un dato personale in violazione della legge sulla privacy
può portare alla lesione del diritto alla riservatezza. Ciò che da molti anni viene riconosciuto in
ogni sede giudiziaria, oggi è espressamente previsto da una norma di legge. Considerando dati
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personali sia il nome che l’immagine di un individuo, la norma ne subordina la legittimità della
diffusione alla sussistenza di un interesse pubblico. Solo in questo caso un individuo può essere
“identificato” dalla collettività e il relativo “fatto” sganciato dalla sua sfera privata.
LA DIFFUSIONE DI DATI SENSIBILI
I principi che regolano la diffusione dei dati sensibili nell’attività giornalistica sono pressoché
identici a quelli già visti per i dati personali “comuni”. Il giornalista è dispensato dall’obbligo di
rendere l’informativa di cui all’art. 13 del codice della privacy e di ottenere il consenso
dell’interessato. Per la diffusione, i limiti sono quelli tipici del diritto di cronaca, con particolare
riferimento alla “essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico” (art. 137, comma
3°, codice della privacy). Tuttavia, nella categoria dei dati sensibili ne figurano alcuni di
importanza tutta particolare. Accanto a quelli “idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le
convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati,
associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico, o sindacale”, l’art. 4, comma 1°
lett. d), del codice della privacy inserisce i dati sulla salute e quelli relativi alla sfera sessuale.
Per indicarli si è soliti usare il termine di dati “supersensibili”. E’ agevole constatare come i
dati “supersensibili” siano riferiti alla sfera privata dell’individuo in quanto tale, a differenza
degli altri dati sensibili che lo individuano in quanto relazionato ad un “gruppo”. La loro
importanza è dimostrata anche dal fatto che originariamente la L. n. 675/1996 (ossia il codice
della privacy nella sua prima versione), nel dispensare già allora il giornalista dagli obblighi
relativi all’informativa e al consenso, escludeva da questo privilegio proprio i “dati idonei a
rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”. Differenziazione abolita solo con il D.Lgs. n. 171/1998,
che ha definitivamente riservato all’attività giornalistica la medesima vantaggiosa disciplina per
tutti i dati sensibili. E il codice di deontologia dei giornalisti non ha trascurato la prevalente
importanza dei dati “supersensibili” nella vita di un individuo, dedicando ad essi due
specifiche disposizioni: l’art. 10 (“Tutela della dignità delle persone malate”) e l’art. 11 (“Tutela della
sfera sessuale della persona”). Entrambe le norme raccomandano al giornalista una particolare
cautela nella diffusione dei relativi dati. Ma mentre per quelli sulla salute l’art. 10 sembra solo
delimitare l’azione del giornalista, imponendogli il rispetto della “dignità”, del “diritto alla
riservatezza” e del “decoro personale, specie nei casi di malattie gravi o terminali” (ad esempio,
evitando la pubblicazione di immagini che ritraggono il malato sofferente o visibilmente
debilitato), per i dati relativi alla sfera sessuale l’art. 11 pare categorico nel dire che “il giornalista
si astiene dalla descrizione di abitudini sessuali riferite ad una determinata persona, identificata o
identificabile”. In realtà, la diversità di disciplina deriva da ragioni di ordine logico. Se in certi
casi vi è senz’altro un interesse pubblico alla conoscenza dello stato di salute di un individuo
(basti pensare a chi versa in coma dopo essere stato investito da un pirata della strada, o
all’extracomunitario vittima di una barbara aggressione a sfondo razzista), non altrettanto può
dirsi per le abitudini sessuali. Difficile immaginare un caso in cui le abitudini sessuali di una
persona costituiscono fatto d’interesse pubblico. Al massimo, per soddisfare una curiosità
morbosa, potranno essere descritte in un giornale scandalistico, ma con il consenso
dell’interessato. Tuttavia, non si può considerare illecita la pubblicazione di aspetti della sfera
sessuale di un individuo quando questi siano strettamente collegati a fatti di interesse pubblico.
Del resto, è lo stesso principio di essenzialità dell’informazione di cui all’art. 8 del codice di
deontologia a dirlo: un’informazione anche dettagliata “non contrasta con il rispetto della sfera
privata” quando risulti “indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione
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dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché della qualificazione dei protagonisti”, dove il concetto di
“sfera privata” include necessariamente quella sessuale. Dunque la tutela della sfera sessuale di
una persona non è assoluta, come farebbe pensare l’art. 11, comma 1°, del codice di deontologia,
ma affievolisce di fronte all’esigenza informativa che nasce dal ruolo fondamentale assunto dal
dato sensibile nella vicenda. Se non potranno essere descritte dettagliatamente le relazioni
extraconiugali della donna che ha avvelenato il marito, potrà essere divulgata l’omosessualità
dell’uomo sospettato di aver massacrato in un raptus di gelosia la moglie del proprio amante.
Sia l’art. 10 che l’art. 11 del codice di deontologia contengono specifici riferimenti al caso in cui
il dato sensibile (relativo alla salute o alla sfera sessuale) interessi un personaggio pubblico.
Anzi, i riferimenti coincidono letteralmente. Per entrambi (comma 2°) “la pubblicazione è ammessa
nell’ambito del perseguimento dell’essenzialità dell’informazione e nel rispetto della dignità della persona
se questa riveste una posizione di particolare rilevanza sociale o pubblica”. Qui è evidente il
parallelismo con il concetto di essenzialità dell’informazione indicato dall’art. 6, comma 2°,
secondo cui “la sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata
se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica”. Per i dati relativi
alla salute, nel caso del personaggio pubblico è piuttosto difficile ipotizzare una diffusione
illecita quando lo stato di salute sia destinato ad incidere sulla sua posizione pubblica, ossia sul
nesso che lo lega al pubblico, proprio perché in questo caso verrebbe rispettato il requisito della
“essenzialità dell’informazione” richiamato dalla stessa norma. Anzi, qui sarebbe proprio
l’occultamento dello stato di salute a confliggere con l’interesse sociale, poiché il rapporto tra
personaggio e pubblico non verrebbe più rappresentato in termini di verità. Si pensi a Giovanni
Paolo II quando gli fu diagnosticato il morbo di Parkinson, dopo le evidenti difficoltà
manifestate in occasione dei suoi viaggi pastorali. Al contrario, la tutela del personaggio
pubblico sarà massima nel caso in cui la malattia non pregiudichi quella funzione, ossia il
rapporto che lo lega al pubblico, che qui non subirebbe alcuna variazione. Il rapporto
continuerebbe ad essere rappresentato nel rispetto del requisito della verità anche con
l’occultamento dello stato di salute. Sarebbe quindi illegittima la diffusione della notizia del
tumore diagnosticato al leader di un partito senza il suo consenso, se le sue condizioni sono
ancora tali da non comprometterne le funzioni. In ogni caso, quando la diffusione del dato sulla
salute risulti essenziale all’informazione, anche per il personaggio pubblico varrà la regola del
rispetto della dignità. Nel raccontare la verità, si dovranno evitare particolari inutili (ad
esempio, l’inserimento di un catetere). A maggior ragione, la pubblicazione di immagini che ne
evidenzino impietosamente il deperimento fisico. Data la lettera della norma, nemmeno la sfera
sessuale del personaggio pubblico è intangibile. Bisogna però verificare quale può essere quel
fatto “essenziale all’informazione” che legittima la descrizione delle sue abitudini sessuali,
partendo dal presupposto che deve trattarsi di un fatto incidente sulla sua posizione pubblica,
ossia idoneo a rappresentare il suo rapporto con il pubblico in termini diversi rispetto a prima.
Solo in questo caso la diffusione del dato sensibile potrebbe avere un’utilità sociale, nella misura
in cui ristabilisca la verità. Anche se francamente non è facile immaginare la pubblicazione di
particolari intimi relativi alla sfera sessuale nel perseguimento dell’essenzialità
dell’informazione ma, contemporaneamente, “nel rispetto della dignità della persona”, come
imporrebbe l’art. 11, comma 2°, codice di deontologia. E’ chiaro che rispetterebbe il requisito
dell’essenzialità dell’informazione, la notizia che imputa al passato di cardinali come Ruini o
Bagnasco frequentazioni con donne sposate o relazioni omosessuali, date le loro prese di
posizione sulla sacralità della famiglia fondata sul matrimonio eterosessuale. Qui particolari,
anche se decisamente intimi, della vita privata inciderebbero sulla credibilità del soggetto, ossia
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sul nesso che lo lega al pubblico; nesso che in questo caso la cronaca ricostruirebbe in termini di
verità. Nella stessa ottica, potrebbe ritenersi divulgabile la relazione sessuale intrapresa dal
presidente di una nota associazione anti-pedofilia con una ragazzina di 15 anni, pur non
costituendo quella relazione reato. In nessun modo, invece, potrebbe essere ricondotto ad una
legittima diffusione di dati sensibili il “caso Sircana”. Rendere noto che in una sera d’estate
Sircana abbia accostato in macchina un transessuale non può soddisfare alcun interesse sociale,
nonostante la rilevanza pubblica del soggetto. Un altro caso di grave violazione del diritto alla
riservatezza, attraverso l’illecita diffusione di un dato sensibile (sempre ammesso che la notizia
sia idonea a descrivere un “orientamento” sessuale). Non si capisce come il fatto possa mettere
in dubbio le competenze di Sircana quale portavoce del Governo, dunque dove sia l’utilità
sociale della notizia. Qui il nesso tra fatto e funzione di rilevanza pubblica è del tutto assente. E,
francamente, non si riesce a capire come alcuni abbiano potuto considerarla “notizia di rilevante
significato politico”. Un altro limite che il giornalista incontra nella diffusione di dati sensibili è
quello previsto dall’art. 5, comma 1°, del codice di deontologia. Deve evitare “riferimenti a
congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti”. Ossia, il giornalista non deve diffondere dati
sensibili riferiti ai congiunti dei protagonisti della vicenda, o comunque a persone non
direttamente collegate ad essa. In teoria, molti fatti di cronaca possono essere descritti facendo
ricorso ad un metodo narrativo che prevede la partecipazione di familiari o di persone vicine al
protagonista, ma che non presentano alcun obiettivo collegamento con la vicenda. Soggetti che
si limitano a fare da contorno. E l’attenzione del lettore è maggiormente sollecitata quando di
quei soggetti vengono riportati particolari rientranti nella loro sfera privata, veri, che tuttavia
hanno solo la funzione di dare colore alla vicenda principale. Ebbene, la norma vuole evitare
quelle narrazioni che, lungi dall’essere funzionali alla completezza della notizia, sono privi di
utilità sociale e servono esclusivamente il pettegolezzo, pregiudicando l’altrui riservatezza.
Tuttavia, non è agevole, né privo di rischi per la libertà di informazione, individuare i confini
entro cui opera il principio di completezza della notizia. Ossia, concordare su quando finisce la
notizia e incomincia il pettegolezzo. Per questo l’art. 5 del codice di deontologia si è incaricato
di segnare normativamente quel limite, attraverso l’individuazione di un elemento univoco
come il dato sensibile. Di conseguenza, nessun riferimento ad un dato sensibile è consentito
quando il dato stesso non è parte integrante della notizia. Quindi, se è lecito divulgare
l’appartenenza ai Testimoni di Geova (dato sensibile) di chi, in obbedienza ad un precetto
religioso, rifiuta di far sottoporre ad emotrasfusione la moglie morente, non lo sarebbe se la
moglie morisse per un caso di malasanità.
LA TUTELA DEI MINORI NELL'ATTIVITA' GIORNALISTICA
“Chiunque diffonde sentenze o altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado è
tenuto ad omettere in ogni caso […] le generalità, altri dati identificativi o altri dati anche relativi a terzi
dai quali può desumersi anche indirettamente l’identità dei minori”. E’ l’art. 52, comma 5°, del codice
della privacy (D.Lgs. n. 196/2003), che segna il punto di arrivo della tendenza, iniziata alla fine
degli anni ’80, a riconoscere al minore una tutela rafforzata in tema di diritto alla riservatezza.
Già la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989 (resa esecutiva in
Italia con L. n. 176/1991, dove per “fanciullo” si intende il minore di anni 18) aveva sancito
all’art. 16 il divieto “di interferenze arbitrarie o illegali nella sua vita privata”; anche se, per la verità,
quel riferimento ad “arbitrarietà” e “illegalità” era non solo scontato, ma anche inutile, poiché
ogni Stato è libero di stabilire cos’è “arbitrario” o “illegale”. La Convenzione voleva solo
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“stimolare” gli Stati firmatari ad adottare nei rispettivi ordinamenti concrete misure legislative
per evitare che la cronaca saccheggiasse la vita del minore, anche in considerazione delle sue
ridotte capacità di difesa. E l’Ordine italiano dei Giornalisti non si fece attendere. Insieme alla
Federazione Nazionale della Stampa Italiana (Fnsi), e in collaborazione con “Telefono Azzurro”,
il 5 ottobre 1990 (quindi ancor prima che il Parlamento italiano recepisse la Convenzione di
New York) vara la Carta di Treviso (poi integrata dal “Vademecum” del 25 novembre 1995). E’
un manifesto contro lo sfruttamento mediatico del minore. Il suo grande valore è sintetizzato
nella seguente affermazione: “la tutela della personalità del minore si estende anche […] a fatti che
non siano specificamente reati (suicidio di minori, questioni relative ad adozione e affidamento, figli di
genitori carcerati, etc.) in modo che sia tutelata la specificità del minore come persona in divenire,
prevalendo su tutto il suo interesse ad un regolare processo di maturazione che potrebbe essere
profondamente disturbato o deviato da spettacolarizzazioni del suo caso di vita, da clamorosi
protagonismi o da fittizie identificazioni”. L’importanza di questa affermazione sta nell’estensione
della tutela del minore a fatti che non siano specificamente reati. Una tutela che considera il
minore un valore “assoluto”. Viene quindi superata l’impostazione tradizionale che vedeva la
potenziale lesività del diritto di cronaca solo quando il minore fosse soggetto attivo o vittima di
un reato. I principi della Carta di Treviso vengono recepiti e rielaborati dal codice di
deontologia dei giornalisti, che entra in vigore nell’agosto 1998. Il principio fondamentale viene
sintetizzato all’art. 7, laddove si dice che “Il diritto del minore alla riservatezza deve essere sempre
considerato come primario rispetto al diritto di critica e di cronaca”. E il Garante per la Protezione dei
Dati Personali emette, a partire dal ’98, una serie di decisioni che contribuiscono a chiarire la
portata del principio. Il rafforzamento della tutela della riservatezza del minore parte dal
presupposto che in molti casi la cronaca ne danneggia lo sviluppo psico-fisico. Ciò porta ad una
riflessione. Pur in presenza di un fatto la cui importanza è tale da generare una “notizia”, non
sussiste mai l’interesse pubblico alla identificazione del minore protagonista. Infatti, secondo
l’art. 7 del codice di deontologia, “il giornalista non pubblica i nomi dei minori coinvolti in fatti di
cronaca, né fornisce particolari in grado di condurre alla loro identificazione” (comma 1°), anche in
riferimento a “fatti che non siano specificamente reati” (comma 2°). L’esigenza di garantire
l’anonimato del minore attraverso l’occultamento di quei particolari del fatto che possano
condurre alla sua identificazione si pone in evidente contrasto con l’art. 6 del codice di
deontologia, secondo cui “la divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non
contrasta con il rispetto della sfera privata quando l’informazione, anche dettagliata, sia indispensabile in
ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonché
della qualificazione dei protagonisti”. E’ il cosiddetto principio di essenzialità dell’informazione,
ma evidentemente formulato in maniera tale da contenere una sorta di ossimoro. Nel senso che
i casi in cui sono ammesse le eccezioni possono arrivare ad essere ben più numerosi di quelli
per i quali vige la regola dell’essenzialità. Ma nel caso della cronaca sui minori il principio di
essenzialità dell’informazione è certamente salvo, grazie all’apporto derivante dall’art. 7 del
codice di deontologia, che impedisce al giornalista di consentire l’identificazione del minore.
Quella informazione “dettagliata” che generalmente consente l’art. 6 del codice di deontologia
(e che nella maggior parte dei casi rischia di annullare il principio di essenzialità) va invece
evitata quando ci si occupa di un minore, perché porterebbe alla sua identificazione. Ciò
significa che il giornalista dovrà limitarsi a riportare i fatti che compongono il corpus della
notizia (nella sua reale “essenzialità”), tralasciando i dettagli che possano rendere identificabile
il minore. Ma “identificabile” in quale ambito? Nell’ambito territoriale di diffusione della
notizia (che spesso coincide con quella nazionale), o in quello in cui si esplica normalmente la
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vita relazionale del minore? Se si guarda alla Carta di Treviso, che vuole salvaguardare “la
specificità del minore come persona in divenire” nonché “il suo interesse ad un regolare processo di
maturazione”, è al domicilio del minore che si deve fare riferimento, poiché è lì che si svolge la
sua personalità. In effetti, poco importerebbe se chi risiede a Roma, a Napoli o a Palermo
venisse a conoscenza della disavventura di un quindicenne che vive nella provincia di Milano.
Il concetto di ambito territoriale va quindi inteso in senso rigido, come luogo interessato dalla
quotidianità del minore, poiché è qui che il minore subisce gli effetti della notizia, ossia la
diffidenza, il pregiudizio, lo scherno di coloro con i quali è abituato a relazionarsi. Ora, va
chiarita la condotta che il giornalista deve tenere a tutela della riservatezza del minore. Oltre
alle sue generalità, dovrà occultare l’indirizzo della sua abitazione e il nome dell’istituto
scolastico da lui frequentato. Ma anche le generalità di genitori, parenti, amici non vanno
diffuse, come ogni altro dato che possa indirettamente condurre a lui. Ad esempio, non
servirebbe a nulla tacere generalità, indirizzo e scuola frequentata dal minore che vive in un
paese di poche migliaia di abitanti se si indica nello specifico età e lavoro dei genitori. Anche il
luogo dove abitualmente il minore trascorre le vacanze estive può renderne agevole
l’identificazione, per giunta in un ulteriore ambito territoriale. E il comportamento che il
giornalista deve tenere per scongiurare il rischio di identificazione del minore è stato precisato
dal “Vademecum” del 1995, che è parte integrante della Carta di Treviso. Al punto 3 si legge
che va evitata “la pubblicazione di tutti gli elementi che possano con facilità portare alla sua
identificazione, quali le generalità dei genitori, l’indirizzo della abitazione o della residenza, la scuola, la
parrocchia o il sodalizio frequentati, e qualsiasi altra indicazione o elemento”. Una precisazione quanto
mai opportuna, poiché originariamente la Carta di Treviso era piuttosto lacunosa a riguardo. In
sintesi, può dirsi questo. Ogni evento di una certa importanza viene, attraverso il naturale
“passaparola”, immediatamente conosciuto nell’ambito territoriale in cui si è verificato. Ciò a
prescindere dalla iniziativa degli organi di informazione. Ebbene, la diffusione della notizia
potrà considerarsi rispettosa della riservatezza del minore quando non abbia agevolato quella
attività di raccolta di informazioni che per ovvi motivi la gente del luogo effettua una volta
appreso il fatto. Solo così si potrà dire che la notizia, divulgata perché comunque di interesse
pubblico, non ha di per sé portato alla identificazione del minore. Ma quanto appena detto va
necessariamente rapportato al ruolo assunto dal minore nella vicenda. Certamente la
pubblicizzazione del fatto avrà conseguenze lesive molto maggiori sul minore quando questi è
una vittima, o comunque il fatto accade suo malgrado. Ma quando il minore diventa
protagonista attivo della cronaca nera, spesso l’efferatezza e la lucidità manifestate pongono in
secondo piano gli effetti della pubblicizzazione della vicenda sullo sviluppo armonico della
personalità. Qui non vi sono motivi per impedire che la conoscenza del fatto si diffonda
nell’ambiente di riferimento del minore. Se è necessario limitare il più possibile
l’identificazione, nel suo stesso ambiente, del minore “down” vessato e malmenato dai
compagni di classe, lo stesso sforzo non può essere richiesto a favore della baby-gang che
diserta le lezioni scolastiche per rapinare e picchiare vecchiette, o che compie sistematicamente
gravi atti di bullismo nei confronti di coetanei. Qui opera solo il divieto di diffusione delle
generalità, dal momento che la loro identificazione in ambienti ulteriori rispetto a quello di
riferimento fungerebbe da inutile “gogna mediatica”, questa sì dannosa al processo di
maturazione del minore. “Gogna mediatica” di cui tuttavia non ha molto senso parlare quando
il fatto di cronaca svela una ferocia che non ha precedenti. Si pensi ad Erika e Omar, i due
minori protagonisti nel febbraio 2001 della “strage di Novi Ligure”. Tv e giornali non esitarono
a diffondere le loro generalità (in alcuni casi le immagini). Da un punto di vista formale, ciò ha
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rappresentato una palese violazione dell’art. 7 del codice di deontologia dei giornalisti (che
vieta di pubblicare “i nomi dei minori coinvolti in fatti di cronaca”). Ma è difficile sostenere che tale
violazione abbia potuto mettere in crisi il processo di maturazione dei due. In quest’ottica, va
avvalorata un’interpretazione dell’art. 7 che permetta al giornalista di pubblicare le generalità
del minore quando l’armonico sviluppo della sua personalità sia già compromesso dalla
enorme gravità del fatto. Interpretazione che è la stessa norma a suggerire, vietando la
pubblicazione dei nomi di minori soltanto “al fine di tutelarne la personalità”. Interpretazione che
trova riscontro nelle modifiche apportate alla Carta di Treviso dal “Vademecum” del 1995, che
in generale mantiene fermo il divieto di identificazione del minore. Ma si legge pure, al punto 6,
che “nel caso di comportamenti lesivi o autolesivi – suicidi, gesti inconsulti, fughe da casa,
microcriminalità, ecc. – posti in essere da minorenni, fermo restando il diritto di cronaca e
l’individuazione delle responsabilità, occorre non enfatizzare quei particolari che possano provocare effetti
di suggestione o emulazione”. Per come è formulata la norma, sembra che il timore che qualche
coetaneo si identifichi in un modello negativo prevalga nettamente sulla preoccupazione di
garantire l’anonimato al minore protagonista attivo della cronaca nera. La tutela della
personalità riemerge in tutta la sua pienezza quando il minore può essere oggetto di una
cronaca tesa a creare una “spettacolarizzazione del suo caso di vita”, come si esprime la Carta di
Treviso. E’ il caso del bambino che, suo malgrado, finisce al centro della scena perché conteso
dai genitori famosi; o perché incappa nella burocrazia delle adozioni. Qui il processo di
maturazione del minore verrebbe alterato proprio dalla amplificazione degli effetti negativi che
già di per sé il caso produce sulla sua personalità. Anche quei “clamorosi protagonismi” di cui
parla la Carta di Treviso debbono essere evitati. In questa categoria possono farsi rientrare quei
fatti che non rappresentano di per sé un pericolo per il minore, ma rischiano di pregiudicare il
suo processo di maturazione solo perché i media ne fanno un “caso”. Una prassi
particolarmente diffusa negli Usa, dove non si esita a consegnare al grande pubblico il genio
precoce che si laurea a 12 anni con il massimo dei voti o la bambina di due anni che parla
correntemente e compie alcune operazioni matematiche. Qui è l’immediata assimilazione della
personalità dell’adolescente a quella di un adulto particolarmente dotato a minacciarne
seriamente l’armonico sviluppo, che non può prescindere da una crescita graduale e
consapevole. In un solo caso l’identificazione del minore è permessa: quando “la pubblicazione
sia davvero nell’interesse oggettivo del minore, secondo i principi e i limiti stabiliti dalla Carta di
Treviso”. E’ quanto dice l’art. 7, comma 3°, del codice di deontologia. Qui anche la diffusione
dell’immagine è ammessa. Si tratta però di stabilire quando una notizia viene divulgata
nell’interesse oggettivo del minore. Qui la Carta di Treviso fornisce un valido aiuto.
Innanzitutto, cita l’esempio del bambino rapito o scomparso. In effetti, nessuno potrebbe
dubitare dell’utilità che in questi casi la divulgazione della notizia rappresenta per il minore,
prevalendo sempre l’interesse al suo ritrovamento. Un altro caso riguarda la pubblicazione “tesa
a dare positivo risalto a qualità del minore e/o al contesto familiare e sociale in cui si sta formando”, come
si esprime il “vademecum” del 1995, che è parte integrante della Carta di Treviso. Un principio
ribadito dal Garante per la Protezione dei Dati Personali nella Decisione del 6 maggio 2004,
secondo cui deve ritenersi lecita “la diffusione di immagini che ritraggono un minore in momenti di
svago e di gioco”. Tuttavia, a detta del Garante, resta “l’obbligo per il giornalista di acquisire
l’immagine stessa correttamente, senza inganno e in un quadro di trasparenza, nonché di valutare, volta
per volta, eventuali richieste di opposizione da parte del minore o dei suoi familiari”. Il fatto che il
giornalista debba “valutare eventuali richieste di opposizione” fa pensare che lo stesso goda di una
certa libertà nel decidere di pubblicare notizie “innocenti” riguardanti un minore. Sembrerebbe,
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cioè, che i genitori e lo stesso minore non possano opporsi alla divulgazione di fatti quando sia
evidente – per dirla col Garante – il “positivo risalto a qualità del minore” che la pubblicazione
assicurerebbe. La logica è evidente. Qui la pubblicazione non potrebbe mai nuocere
all’armonico sviluppo della personalità del minore, essendo divulgati fatti positivi e al tempo
stesso non eclatanti. Ma l’esigenza che il giornalista acquisisca l’immagine “correttamente, senza
inganno e in un quadro di trasparenza” fa ritenere inapplicabile l’art. 2, comma 1°, del codice di
deontologia nella parte in cui lo dispensa dall’obbligo di qualificarsi e di comunicare la finalità
della raccolta dei dati personali quando ciò “renda altrimenti impossibile l’esercizio della funzione
informativa”. In altre parole, se in genere il giornalista può spacciarsi per barbone nel carpire
notizie o immagini quando questo sia l’unico modo per garantire l’informazione, non
altrettanto potrà fare con i genitori dei bambini che giocano nel parco, volendo preparare un bel
servizio sull’infanzia e temendo l’opposizione dei genitori a che vengano ripresi i propri figli.
Un approfondimento merita la questione del minore morto. In teoria, l’estrema tragicità
dell’accadimento giustifica l’interesse della collettività ad una conoscenza approfondita del
fatto, che però accrescerebbe il rischio di identificazione del minore. Ma né il codice di
deontologia dei giornalisti, né la legge sulla privacy contengono riferimenti. Pertanto, ci si chiede
se e in che misura l’interesse pubblico che inevitabilmente suscita la morte di un minore, possa
provocare un avanzamento dei limiti imposti in materia al diritto di cronaca. Cominciando dal
caso del suicidio, se si guarda alle affermazioni contenute nella Carta di Treviso, l’obiettivo
primario sembra essere la tutela del minore “come persona in divenire”, dovendosi sempre
preservarlo nel suo “regolare processo di maturazione” e da “informazioni e materiali dannosi al suo
benessere”, comprese tutte le “possibili strumentalizzazioni da parte degli adulti”. Sembrerebbe, cioè,
che la Carta di Treviso si preoccupi, in linea del principio, del minore in vita. Anche se il
documento, nella versione originaria del 1990, nell’estendere la tutela del minore “a fatti che non
siano specificamente reati”, cita diversi casi tra cui il “suicidio di minori” (lettera b). Un riferimento
che sembrerebbe equiparare il diritto alla riservatezza del minore suicida a quello del minore
come “persona in divenire”. Ma a dare una maggiore libertà di azione al cronista nei casi di
suicidio di minori sembrano essere le modifiche apportate alla Carta di Treviso dal
“Vademecum” del 1995. Il già visto punto 6, in caso di “comportamenti autolesivi” del minore,
salva “il diritto di cronaca e l’individuazione delle responsabilità” individuando il limite dell’azione
del cronista nel “non enfatizzare quei comportamenti che possano provocare effetti di suggestione o
emulazione”. Qui l’espresso riferimento al “diritto di cronaca” e alla “individuazione delle
responsabilità” è certamente significativo: se in generale per il minore “vittima”, ma che rimane
in vita, il diritto alla riservatezza prevale sempre sul diritto di cronaca, per il minore suicida il
diritto di cronaca viene limitato esclusivamente in un’ottica di tutela di quei minori che
acquisiscono la notizia. Tutela, quest’ultima, che peraltro arretra di fronte all’esigenza di
“individuazione delle responsabilità”. Un conto è l’informazione dettagliata che agevola
l’identificazione del minore, riportando particolari idonei soltanto a soddisfare le esigenze
voyeuristiche di un certo pubblico. Diverso è quando l’approfondimento del fatto svela gravi
colpe. Se non possono essere oggetto di una cronaca dettagliata le frequentazioni, i gusti, le
sofferenze sentimentali di una sedicenne anoressica suicida, saranno invece di interesse
pubblico i fatti che hanno portato un minore a togliersi la vita perché esasperato dalle
vessazioni subite dai compagni di scuola nell’indifferenza dei professori, o dalle continue
violenze familiari. Qui garantire il massimo livello di riservatezza finirebbe per giovare ben
poco al minore suicida e troppo a chi è responsabile, magari anche penalmente, di fatti che
hanno finito per sconvolgerne l’equilibrio psichico. Ciò a maggior ragione se la morte avviene
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per cause diverse dal suicidio. A parte la mancanza di espliciti riferimenti sia nella Carta di
Treviso che nel “Vademecum” del 1995 (che parlano soltanto di suicidio), non vi sono
particolari motivi per impedire l’identificazione del minore morto, ad esempio, per un caso di
“malasanità”. Adottare ogni accorgimento per scongiurare il rischio di identificazione di un
bambino morto per una errata diagnosi medica, finirebbe per mettere in ombra i responsabili
del fatto, i cui errori devono, al contrario, essere sottolineati per stimolare un costante
monitoraggio pubblico sulla qualità dei servizi resi a tutela della salute.
APPENDICE
DARE DEL FAZIOSO AD UN GIORNALISTA PUÒ ESSERE DIFFAMAZIONE
Secondo la definizione fornita dallo Zingarelli, è fazioso chi “professa con intransigenza, senza
obiettività, idee di parte”. Per il Battaglia, colui “che sostiene accanitamente le tesi di una parte, di un
partito o la candidatura di una persona, che tende a farsi sostenitore intransigente di una tesi estrema
[…] settario, fanatico, estremista; tendenzioso, non obiettivo, parziale”. In altre parole, il fazioso
mente per curare interessi di parte. E’ evidente che di per sé il termine “fazioso” non è
denigratorio e non costituisce un insulto. Ma si compari la definizione con i doveri che
contraddistinguono l’attività giornalistica. In questo contesto, il termine “fazioso” individua un
atteggiamento antitetico al dovere di autonomia. Ma, soprattutto, al dovere di verità, che è il
caposaldo del diritto di cronaca e, tra i doveri del giornalista, quello più pregnante.
Logicamente il giornalista fazioso non è portatore dell’interesse generale della collettività a
ricevere un’informazione obiettiva, perché tutela interessi di parte. E non può avere un
rapporto con la collettività indiscriminata, perché non è credibile. Ne deriva che in determinate
circostanze chi dà del “fazioso” a un giornalista finisce per lederne la reputazione, integrando
gli estremi della diffamazione. E’ un po’ quello che accade quando si accusa un pm o un
giudice, organi che sono “soggetti soltanto alla legge” (art. 101, comma 2°, Cost.), di svolgere
indagini o emettere sentenze “politiche”, sebbene l’essere “politicizzato” non abbia di per sé
alcuna valenza negativa. Tuttavia, anche qui valgono i tradizionali criteri che delimitano la
critica legittima. Può accadere, cioè, che un giornalista realmente affermi il falso o occulti il vero
per tutelare interessi di parte. In questo caso, dargli del “fazioso” costituirebbe libera
manifestazione del pensiero ex art. 21 Cost., perché la critica si baserebbe sulla verità. Pertanto,
è lecito accusare di faziosità un giornalista, ma indicando specificamente le falsità o le omissioni
in cui è davvero incorso; e, nel contempo, argomentando la critica, ossia riconducendo le falsità
o le omissioni all’esigenza di tutelare interessi di parte. La questione, quindi, dovrebbe finire
qui. In teoria, però. In pratica, a complicarla è la tendenza a relegare il giornalista televisivo ad
un ruolo passivo nella conduzione dei programmi di approfondimento informativo,
considerandolo semplice garante delle opinioni altrui. Vale a dire: il ruolo del conduttore di un
programma di comunicazione politica, dove i soli protagonisti sono i soggetti politici. Così, si
accusa di “faziosità” il giornalista che, rivendicando i propri spazi e le proprie prerogative
professionali, assume un ruolo attivo (e fisiologico) nella conduzione di un programma di
approfondimento informativo. Ma così facendo il comportamento del giornalista-conduttore
collide con l’interesse dei soggetti politici che partecipano alla trasmissione. Nei programmi di
comunicazione politica il giornalista non è parte del contraddittorio, previsto solo tra i soggetti
politici. Non può interrompere il politico, perché bloccherebbe il flusso comunicativo tra
politico e telespettatori, che va garantito paritariamente ad ogni soggetto politico, secondo le
regole della par condicio e in osservanza del principio del pluralismo. Nella comunicazione
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politica il giornalista-conduttore non ricerca la verità perché non genera informazione. Deve
unicamente consentire ad ogni politico di esporre la “propria” verità. Svolge un ruolo passivo,
di garanzia delle prerogative dei soggetti politici, unici protagonisti della trasmissione. Ma si
può notare che in molti programmi di approfondimento informativo lo stile di conduzione è il
medesimo. Il giornalista-conduttore si preoccupa principalmente di dare eguale spazio alle
valutazioni dei politici presenti, che rappresentano in maniera paritaria le varie forze politiche.
Il risultato è che il telespettatore non acquisisce alcun dato obiettivo, perché recepisce un
insieme di opinioni necessariamente discordanti. Ciò è la conseguenza di una arbitraria
applicazione della par condicio all’informazione, nonostante essa sia normativamente prevista
solo per la comunicazione politica (la problematica è compiutamente affrontata in La par
condicio). Ed è appena il caso di precisare che programmi come Porta a Porta, Ballarò, AnnoZero,
Otto e Mezzo, sarebbero in origine programmi di approfondimento informativo (per la verità,
AnnoZero rimane tale). I programmi di comunicazione politica sono altri, ossia quelli
tassativamente indicati dalla L. n. 28/2000 nonché dalla Commissione Parlamentare di Vigilanza
e dall'Authority: i messaggi autogestiti e le tribune. Invece, nei programmi di approfondimento
informativo la conduzione dovrebbe essere ben diversa. Qui il giornalista-conduttore produce
informazione. E’ lui a comunicare con il pubblico, dovendo relazionarlo al fatto che il
programma si propone di approfondire. E’ il protagonista della trasmissione, alla stessa stregua
dei politici invitati, che partecipano per rispondere alle domande che il giornalista-conduttore
pone loro per garantire al pubblico l’approfondimento. Egli è parte del contraddittorio. Ed ecco
che spesso il termine “fazioso” viene affibbiato proprio a quei giornalisti che rivendicano un
ruolo attivo nella conduzione del programma, che partecipano al contraddittorio ponendo ai
politici precise domande ed esigendo risposte che consentirebbero al telespettatore di acquisire
il fatto. In molti casi il soggetto politico si irrita, incapace di realizzare che si trova in un
programma non di comunicazione politica, ma di approfondimento informativo, in cui il
giornalista-conduttore è parte essenziale del contraddittorio, deve relazionare il pubblico al
fatto e ricercare la verità oggettiva. Si ricorderà lo scontro verbale tra Michele Santoro e
Clemente Mastella alla puntata di AnnoZero dell’8 marzo 2007 sulle coppie omosessuali, dopo
che il ministro della Giustizia sostenne che l’idea di estendere alle coppie omosessuali i diritti
delle famiglie fondate sul matrimonio è inaccettabile perché contraria al Diritto Naturale. A
quel punto Santoro chiedeva a Mastella se le legislazioni di quasi tutti i paesi Ue, prevedendo
una simile estensione, fossero contrarie al Diritto Naturale. La domanda provocava la reazione
di Mastella, che non esitò a dare del “fazioso” a Santoro, nonostante questi abbia voluto soltanto
stimolare il ministro a fornire un chiarimento logico a quella evidente contraddizione. Il
paradosso è che in questi casi il giornalista-conduttore viene tacciato di “faziosità” nonostante il
comportamento sia strettamente funzionale al dovere di verità, il più pregnante dei doveri
deontologici e caposaldo del diritto di cronaca. E nonostante sia invece la conduzione di un
programma di approfondimento informativo alla stregua di programma di comunicazione
politica a tradursi nella violazione di quel dovere, poiché in tal caso il giornalista-conduttore
rinuncia ad assumere un ruolo funzionale all’accertamento della verità. Quindi, nell’ottica di
molti politici, il “fazioso” non è chi mente per curare interessi di parte (come peraltro è per
natura il politico stesso), ma il giornalista che rivendica il ruolo attivo di parte del
contraddittorio con i politici, eventualmente scontrandosi con essi, sforzandosi di fare emergere
la verità e rifiutando di ridurre l’informazione ad una sommatoria di valutazioni “di parte” che,
essendo necessariamente divergenti, mantengono il telespettatore lontano dalla verità. Inoltre, il
giornalista che mette alle strette un politico per fare chiarezza non viene meno ai doveri di
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imparzialità solo perché l’area politica cui appartiene l’intervistato viene danneggiata
dall’accertamento della verità. Tantomeno va considerato “fazioso” quando l’accertamento
della verità fa comodo allo schieramento politico avverso. Il giornalista che fa emergere la verità
non cura gli interessi di alcuna fazione, ma soltanto quelli della collettività. E’ quindi evidente
come nella maggior parte dei casi l’uso del termine “fazioso” sia fuori luogo. Ormai, nell’usanza
di molti politici italiani l’accusa di “faziosità” viene rivolta al giornalista che, in piena
osservanza dei precetti deontologici, si ostina a negare al potere politico la possibilità di
modulare l’informazione. Possibilità che in un sistema democratico non andrebbe nemmeno
presa in considerazione. Pertanto, un tale uso dell’aggettivo “fazioso” integra gli estremi del
reato di diffamazione.
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