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IL FOGLIO
quotidiano
Redazione e Amministrazione: via Carroccio 12 – 20123 Milano. Tel 02/771295.1
ANNO XIV NUMERO 259
La telefonata di Netanyahu
Tutti vogliono tenere
il gen. Graziano in Unifil
La Spagna s’infuria
Israele vuole il comando italiano nel sud
del Libano anche dopo la scadenza
di febbraio. Il Paìs grida al complotto
Patti rispettati, dice Frattini
Roma. Il premier israeliano, Benjamin
Netanyahu, ha telefonato a Silvio Berlusconi
chiedendogli di prolungare per altri sei mesi il comando italiano della missione Unifil
nel sud del Libano. La conversazione doveva
restare riservata, invece è trapelata e ha fatto infuriare la Spagna – scrive Haaretz – che
dovrebbe prendere il comando di Unifil a
febbraio prossimo e vorrebbe al più presto
un suo ufficiale al
posto del generale
italiano Claudio Graziano, alpino alla
guida dei Caschi blu
da quasi tre anni. Secondo la ricostruzione del quotidiano
israeliano,
Netanyahu
avrebbe
concordato la richiesta all’Italia con i
vertici militari senza
informare il ministro
degli Esteri, Avigdor
Lieberman, che ha GEN. CLAUDIO GRAZIANO
precisato che Israele
“non ha alcuna preferenza sul comandate di
Unifil”. Ma l’ambasciatore spagnolo a Gerusalemme, Alvaro Iranzo, non si è sentito affatto rassicurato, e alcuni parlano già di crisi diplomatica: toccherà al ministro della Difesa, Ehud Barak, riportare la calma durante la sua visita a Madrid alla fine di questa
settimana. Il País, che sulle questioni militari italiane ha già avuto da ridire un mese fa,
non ha perso tempo: Roma “ha comunicato
all’Onu l’intenzione di ritirare mille soldati
dal Libano, ma è disposta ad aspettare che
Graziano lasci il comando”. Non è un ricatto,
conclude il País, “ma ci somiglia”, pure se
ammette che l’Italia “non ha presentato formale proposta di proroga, lo ha fatto soltanto informalmente”. Il ministro degli Esteri,
Franco Frattini, ha confermato che c’è una
scadenza a febbraio, come già aveva garantito Berlusconi al collega spagnolo, José Luis
Rodríguez Zapatero: “Sarà rispettata, e questo smentisce il Pais ancora una volta”, ha dichiarato Frattini.
(segue a pagina due)
Modello Graziano
Israeliani e libanesi ora si parlano
Poi ci sono “i pilastrini”,
i pattugliamenti e i soldi stanziati
Milano. Il successo della missione dei
12.235 Caschi blu di Unifil in Libano sotto
il comando del generale Claudio Graziano
può essere riassunto in una constatazione:
la guerra non è ricominciata. Il punto cruciale della risoluzione 1.701 del Consiglio
di sicurezza, che rafforzava l’antica missione dell’Onu, era proprio la cessazione
delle ostilità, dopo i 34 giorni di guerra
con Israele nel 2006. La questione non è
così banale se si pensa che nel sud del Libano Hezbollah era padrone, aveva covi,
armi, appoggio della popolazione e controllo di tutte le vie di comunicazione.
Adesso ci sono tre brigate dell’Armée libanese, otto-diecimila uomini che lavorano assieme ai Caschi blu. Nella postazione 132 Alfa, tenuta dai soldati italiani sulla linea blu, il confine fra Israele e Libano, si incontrano i nemici sotto lo sguardo
vigile di Graziano. “All’inizio libanesi e
israeliani non si parlavano. Lo facevano
soltanto attraverso di noi. Adesso scappa
qualche frase diretta, segno che le cose
migliorano. Lentamente, ma migliorano”,
racconta al Foglio il tenente colonnello
Diego Fulco, portavoce del comandante
dei Caschi blu.
(segue a pagina due)
Leggi di Stefano
Cucchi, 31enne romano fermato nella
notte del 15 ottobre,
a Roma, e morto nel
reparto detentivo
dell’ospedale Sandro Pertini il 22 ottobre. Leggi che per
otto giorni la famiglia ha cercato in ogni
modo di poter vedere Stefano e di parlare con i medici, senza riuscirci. Era detenuto, quindi inavvicinabile senza il permesso del pm. Che evidentemente non
l’ha concesso. Leggi come il processo per
direttissima, che doveva aver luogo il
giorno successivo all’arresto, fosse stato
rinviato al 13 novembre. Leggi che il corpo di Stefano Cucchi, dopo il passaggio
in tribunale, in carcere e in ospedale, ormai inerte, appariva sconvolto da inspiegabili colpi. Il volto devastato, l’occhio
destro rientrato nell’orbita, l’arcata sopraccigliare sinistra gonfia e la mascella
destra spezzata. Leggi tutto questo, ti
sforzi di trovare una battuta che strappi
un sorriso, e porco giuda se ti viene.
Sped. in Abb. Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO
VENERDÌ 30 OTTOBRE 2009 - € 1,30
DIRETTORE GIULIANO FERRARA
IL SESSO E LA NEMESI
Coscienza critica di sinistra si accorge che la cultura progressista
è caduta in una trappola mortale rovistando nei panni dei potenti.
“Attacchi arcaici. Ci infanghiamo tutti” (Marco d’Eramo, il manifesto)
i siamo domandati nel Foglio il 28, l’altroieri: ma ci sarà un liberal vero a siniC
stra? Ci sarà uno che capisce la deriva claustrofobica e sessuofobica di Repubblica? E’
arrivata una argomentata e seria autodenuncia. La firma sul “manifesto” di ieri, 29 ottobre, un prim’attore del giornalismo di sinistra, Marco d’Eramo, americanista e analista
della modernità e postmodernità capitalista,
tra economia, segni e costume.
Dice che non è lecito “dribblare la conclusione: chi di sesso ferisce, di sesso perisce”:
è imposta dal caso Marrazzo, coronamento di
nove mesi di campagna sessuofobica di Repubblica. Dice che la vicenda del governatore e dei trans “ci fa esplodere in bocca il retrogusto amaro della vicenda delle escort”.
Chiaro, no? E aggiunge: “Il malessere è acuito dalla magnanimità pelosa del premier che
da tempo aveva avvertito il governatore (suo
avversario politico) del ricatto che incombeva su di lui”. Chi abbia visto, per distrazione,
le puntate di Santoro e Lerner, e letto per
abitudine i pezzi di D’Avanzo, è servito: ora
qualcuno a sinistra si è accorto che si sono
fatti fregare dalla loro stessa stupidità.
Peggio. La fregatura, secondo d’Eramo,
viene dall’abbandono di una prospettiva culturale tipicamente europea, lo spassionato
disinteresse verso gli argomenti pruriginosi
che sconvolgono, in altri contesti storici e
culturali, la vita pubblica nei paesi puritani.
Nella Prima repubblica, e secondo d’Eramo
era un punto d’onore per tutti, non si dava la
caccia alle abitudini scandalose private, come l’omosessualità di presidenti del Senato
e di ministri degli Esteri. “Vizi privati e pubbliche virtù”, questa è la regola, altrimenti
ne risulta un’insalata che uccide la lotta politica, il nitore delle differenze vere, delle
opposizioni significative, e tutto diventa una
repellente brodaglia. D’Eramo cita le analisi di Louis Dumont (1911-1998, antropologo
francese) su autonomia del politico e prevalenza dell’agire collettivo per dire che gli attacchi alla vita privata del “sovrano”, per di
più “sacralizzato e assolutizzato”, sono “arcaici”. Hai voglia, dice, a distinguere e a puntare sullo scambio sesso/potere: la verità è
che, nella lotta “contro la pratica governativa della sessualità”, alla fine la mente progressista è scaduta a osservatorio pettegolo
di figure pruriginose. Sappiamo tutto di Patrizia o di Brenda, si lamenta disperato d’Eramo, ma ormai più niente di come hanno
governato Berlusconi e Marrazzo. “In modo
abbastanza prevedibile, impariamo che a
frugare nei panni sporchi del potere, ci infanghiamo tutti”. A me sembra tutto
molto chiaro. E a voi?
Ogni scandalo ha la sua pozzanghera
Ci piace rotolarci nel fango da rotocalco, ma non per giudicare la politica
n attacco centrato sui sanitari del
cesso” è la definizione geniale di Marco
U
D’Eramo per le vicende erotiche utilizzate
come arma politica. Le foto scattate in
DI
ANNALENA
bagno col telefonino da un paio di ragazze
sono state sui giornali per mesi, in effetti,
corredate da pensosi commenti. Tutti
chiamati a discutere di puttane, di morale e
adesso di viados e di Tor di Quinto. Con
un’esaltazione sospetta, tra l’altro. Il fatto è
che la lotta nel fango è irresistibile: segreti
da svelare, vizi di cui adesso ci si vergogna
meno se sono anche quelli di tizi
importanti, nuovi nomi che sbucano
all’improvviso, meschinerie totali, scandali
all’ombra, l’improvvisa e spontanea
riabilitazione della banalissima amante.
Siamo tutti servette, adoriamo rotolarci nei
pettegolezzi, sbaviamo per un segreto e
speriamo intensamente che in quel segreto
ci siano almeno un paio di tette, ma se ci
sono anche ciglia finte e lamette da barba,
andiamo in estasi da salotto, possiamo
svernare contenti. Siamo tutti servette ma
questo è fango da rotocalco, non da discorso
politico. Ci divertiamo e allo stesso tempo ci
vergogniamo, però non ci importa nulla
delle dimissioni, stiamo volentieri in questo
fango ma in un’altra pozzanghera, non
pubblica, non collettiva. Anche l’autoblu a
via Gradoli, insomma, non è il particolare
più rilevante, quella è solo una scusa per
potere cominciare il discorso. Tutti vogliono
parlare di queste faccende, tutti, e del fatto
che nel post Marrazzo nessun uomo sarà
mai più al di sopra del sospetto trans e
nemmeno della tentazione, ma si può farlo
da sincere servette, senza contaminare la
discussione pubblica, scegliendoci luoghi
adeguati, pause pranzo, cene con altre
servette, fino a che anche la pozzanghera
verrà a noia. Ma elevare a cose serie i
sanitari del cesso, quello no. Fingere che
sia necessario intervistare le escort per
avere un governo migliore, o inseguire un
viados e farsi raccontare le abitudini dei vip
per fare chiarezza sull’amministrazione
della regione Lazio, è ridicolo. Anche
moralizzare sui corpi in vendita è da
servette. La differenza fra i due tipi di
pozzanghere è la consapevolezza o meno di
sguazzarci dentro.
La domanda imbarazzante
Serpeggia a sinistra il dubbio di essere finiti nella trappola erotico-moralista
Roma. “Chi di sesso ferisce, di sesso perisce… A frugare nei panni sporchi del potere, ci infanghiamo tutti”, ha scritto ieri Marco d’Eramo sul Manifesto. “Trappola”, D’Eramo la chiama proprio così. Di fronte al
“basta” scritto da d’Eramo su uno dei giornali storici della sinistra, c’è chi, a sinistra,
raccoglie lo spunto. La deputata pd Paola
Concia si dice “d’accordissimo” con il giornalista del manifesto, “anche sulla citazione
di Foucault: il sovrano l’abbiamo costruito
noi insistendo sul corpo del sovrano”. Concia si augura che “si produca una riflessione: abbiamo tanti argomenti per proporre
un’altra idea di società – dal mio punto di vista migliore di quella proposta dalla maggioranza – ma possiamo farlo uscendo da questo moralismo. Un giornale può fare legittimamente le campagne che vuole, ma quelle
non possono essere le campagne di un partito. E allora usciamo dall’abitudine di giudicare il politico sulla base della vita privata e non per quello che fa, per esempio esaltando la coerenza tra quello che si è e quello che si fa, come in Germania, dove un politico gay può serenamente rappresentare la
Germania nel mondo”. Per Vladimir Luxuria, ex parlamentare di Rifondazione, “è vero che fissarsi sul privato del politico fa entrare in una spirale senza uscita, con un cortocircuito tra soldi, audience, copie vendute,
ricatti, vendette, estorsioni. Si azzera la capacità di far politica e il vincitore non è un
partito, ma soltanto la Conferenza episcopale italiana”. La giornalista e scrittrice Lidia
Ravera si dice “sostanzialmente d’accordo
con Marco d’Eramo”, anche se trova che “i
panni sporchi del potere ci siano stati buttati sotto il naso”. Dopodiché, dice Ravera,
“anche io penso che sia più importante giudicare un uomo politico in base alla sua efficienza. I cittadini non devono sindacare
sulla vita privata della propria classe dirigente finché questa non travalica gli spazi di
leisure. Ed è questo infatti il tipo di critica
che ho rivolto a Berlusconi: l’aver fatto un
uso improprio del potere”. Nella prima Repubblica, dice Ravera, “poteva esserci il politico democristiano, ipocrita, che riceveva
nel suo appartamento una ragazzina, ma
certo non sbatteva in faccia le sue abitudini
al paese. C’è stata una mutazione culturale
per cui non ci si vergogna più di niente, una
mutazione iniziata con le televisioni berlusconiane prima che Berlusconi scendesse in
politica”. Per tornare a parlare “di idee”, bisogna, secondo Ravera, “smettere di personalizzare la politica: il politico è trattato da
vip e non da servitore dello stato”. La giornalista Marina Terragni pensa, sulla scia
dell’articolo di d’Eramo, “che si trovi alle
corde un certo tipo di campagna di una parte della sinistra e del quotidiano Repubblica. Spero sia esaurita la spinta a non parlare di politica per parlare di letti. Però mi dico anche che questo febbrone, questa irruzione violenta del sesso e del corpo nel cuore della politica maschile possa offrire l’opportunità di riflettere sulla malattia, una
malattia che attiene alla fine del patriarcato”. La giornalista Paola Tavella, dicendosi
“disgustata dall’uso del gossip come mezzo
di lotta politica” e convinta “della sua inefficacia”, riflette su un mondo in cui “non si
può nascondere più nulla, non si può proteggere più nulla e non si può più vivere una
vita privata meravigliosamente segreta. E’
un danno politico ed esistenziale. Lo stato di
putrefazione è totale. Con l’ossessione delle
dieci domande ci si è attaccati la carta moschicida in fronte da soli”.
Stefano Menichini, direttore del quotidiano d’area pd Europa, si era dichiarato “estenuato” dalla sovraesposizione della vicenda
Berlusconi-escort prima dell’estate. Oggi non
è ottimista sul fatto che il discorso pubblico
possa riprendersi dall’invasione sesso, potere, escort, trans, ma non dà la colpa a Repubblica: “La cosa tragica è stata quando la politica ha scelto questo come terreno di lotta.
Da quel momento si è innescato il meccanismo. Ciò non toglie che gli uomini pubblici
nei loro comportamenti privati debbano rispettare un limite”. Il giornalista e deputato
pd Furio Colombo, ex direttore dell’Unità,
pur non condividendo la tesi di d’Eramo sul
“chi di sesso ferisce, di sesso perisce”, perché “il giornalista è come un medico, e di
fronte a certi casi non può esimersi dall’intervenire”, dice: “Non mi piace la chiacchiera su sesso e potere e vorrei che ci occupassimo di ciò che accade e di ciò che è importante per il bene del paese. Per esempio del
no preventivo alla legge sull’omofobia e su
quello che per me è divieto di fare un testa(Altri articoli a pagina 4)
mento biologico”.
OGGI NEL FOGLIO QUOTIDIANO
LA MORALE
DEL LIBERTINO
•LO STILE MAGISTRALE di Alberto
Arbasino è anche in quegli sfoghi
plurimi e anonimi, senza teoria
(Langone, Siti, Burini, inserto I)
Subbuglio a Bruxelles
Blair pronto a scendere
in campo, socialisti contrari
Merkel e Sarkozy freddini, britannici
preoccupati dal “tutti tranne Tony”
Chi ci mette la faccia. L’ex premier britannico, Tony Blair, è pronto ad andare fino
in fondo nella battaglia per diventare il primo presidente stabile del Consiglio europeo. Ma a una condizione: come anticipato
dal Foglio il 7 ottobre, esige che il ruolo sia
di sostanza, un vero “presidente dell’Europa”, non solo un segretario dei capi di stato e di governo dei Ventisette. L’ex premier
rinuncerebbe ai suoi attuali interessi e guadagni (tra i 12 e i 15 milioni di sterline da
quando ha lasciato Downing Street) per un
incarico che gli permetta di “fare la differenza” per l’Unione europea sulla scena
mondiale, dicono i suoi amici citati dal Times. Blair è “spettatore altamente interessato” del vertice europeo in corso da ieri a
Bruxelles. I socialisti europei hanno confermato il loro interesse per la carica di Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue: così facendo, escludono la possibilità
che Blair vada alla presidenza del Consiglio, che spetterebbe quindi a un membro
del Partito popolare europeo. Naturalmente nella famiglia socialista non è compreso
il premier inglese, Gordon Brown, ha caldeggiato la nomina di Blair. Gran parte della scelta è nelle mani del presidente francese, Nicolas Sarkozy, e della cancelliera
tedesca, Angela Merkel. Tony Baber, del Financial Times, ha scritto ieri sul suo blog
che la cena tra i due, mercoledì sera, sia
stata fredda nei confronti di Blair. Fonti diplomatiche francesi ribattono al Foglio:
“Vedremo”. Ma gli inglesi sono preoccupati, temono che Francia e Germania abbiano già deciso che la candidatura di Blair
sia troppo controversa. Il Benelux, l’Austria
e la Polonia preferiscono una figura notarile. Secondo il presidente polacco dell’Europarlamento, Jerzy Buzek, “deve essere un
chairman o una chairwoman anziché un
presidente”. “Se si vuole qualcuno che rappresenti l’Ue in modo efficace, che possa
aprire le porte nelle grandi capitali mondiali, c’è un solo candidato possibile”, spiega un ambasciatore dell’Ue: Blair. Se invece “si vuole qualcuno che sia incaricato di
coordinare delle riunioni, allora le scelte
sono multiple”. Ma non sarà Blair.
Sostenitori e detrattori. Il Financial Times ieri si è schierato contro la candidatura Blair con un corposo editoriale. L’ex
premier “è l’uomo sbagliato” per le solite
ragioni: la guerra in Iraq che ha spaccato
l’Ue, la rinuncia a convincere i britannici
a diventare euroentusiasti, l’istinto a privilegiare gli interessi dei grandi paesi. Secondo il Wall Street Journal, invece, ora
che il brutto Trattato di Lisbona è quasi in
vigore, “scegliere un leader che non offende la suscettibilità degli altri perché poco
conosciuto è un modo sbagliato di aggiustare le cose”. Di “lillipuziani” che aspirano all’incarico l’Europa è piena: dal premier del Lussemburgo, Jean-Claude
Juncker, all’ex presidente irlandese, Mary
Robinson, al leader olandese, Jan Peter
Balkenende. Ma se l’Ue “vuole un leader
globale” deve scegliere Blair. Oppure l’ex
premier spagnolo José Maria Aznar. Per il
Wsj “entrambi sono pesi massimi politici”
in grado di far sentire la voce dell’Ue a Pechino, Washington, Mosca, Brasilia, il Cairo o Gerusalemme.
Caos a Londra. Il leader dei conservatori
britannici, David Cameron, si è cacciato in
un euroguaio, assecondando le tendenze
più eurofobe del suo partito. Già lo scorso
maggio, Sarkozy e Merkel avevano minacciato di isolare Cameron se, vinte le elezioni nella primavera del 2010, avesse mantenuto la promessa di un referendum sul
Trattato di Lisbona. “Rifiutiamo di tendere
la mano a chi si oppone a Lisbona e allo
stesso tempo parla a favore dell’allargamento”, aveva detto la cancelliera tedesca.
Cameron ha fatto marcia indietro sul referendum perché il Trattato sarà in vigore
prima delle elezioni. Ma il suo ministro degli Esteri ombra, William Hague, ha avvertito gli ambasciatori degli altri 26 paesi europei che un governo Tory considererebbe
come “atto ostile” la nomina di Blair a presidente del Consiglio europeo. Alla fine, lo
schiaffo per Cameron rischia di essere triplo. Il ministro degli Esteri, David Miliband, ne ha approfittato per accusare i
Tory di sedere nello stesso gruppo dei neonazisti lettoni all’Europarlamento. L’ipotesi di nominare il conservatore eurofilo, Chris Patten, al posto di Alto rappresentante
dell’Ueè tramontata. L’opposizione a Blair
si sta trasformando in un boomerang:
Brown ha accusato Cameron di agire contro “gli interessi nazionali britannici” e
Merkel pensa di usare Blair presidente dell’Ue come diga alla deriva euroscettica di
un Regno Unito guidato dai Tory.
S. Cucchi, 31 anni
Parlano i dalemiani
Dopo sette giorni tra caserma,
carcere e ospedali, muore.
Senza spiegazioni. Le immagini
Alla Camera il disarmo
ideologico comincia con
le riforme istituzionali
Roma. Se un ragazzo entra in carcere
con le sue gambe e ne esce morto dopo sei
giorni, lo stato deve spiegare. Questo è forse il massimo che un parente emotivamente provato possa chiedere a qualche ora
dalla scomparsa di un suo caro, e allo stesso tempo il minimo che i cittadini di un
paese democratico devono pretendere.
Spiegazioni e assunzione di responsabilità:
è quanto esige la scarna cronaca degli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi, 31 anni,
deceduto nella notte tra il 22 e il 23 ottobre
all’ospedale Pertini di Roma. 15 ottobre,
tarda serata: Stefano è arrestato dai carabinieri per il possesso di 20 grammi di
stupefacenti (marijuana e cocaina). “Così inizia quella che non esito a definire una vera e propria
via crucis per lui e per i genitori”, spiega al Foglio Luigi Manconi, ex sottosegretario alla Giustizia. Una via crucis che si conclude pochi giorni dopo sul tavolo di un obitorio. Torniamo
al 15 ottobre. Stefano, dopo
essere stato fermato, è accompagnato a casa; qui, di
fronte ai genitori, i carabinieri perquisiscono la sua
stanza. Poi lo portano in caserma. La mattina dopo, all’udienza per direttissima, il
padre nota per la prima volta tumefazioni agli occhi e al volto del figlio. E
non deve essere l’unico a notarle se, secondo le ricostruzioni, è lo stesso pm a chiedere che sia eseguita una visita medica. All’entrata del carcere di Regina Coeli, altro
controllo: “Come le foto segnaletiche, è richiesto dalla legge all’entrata di ogni penitenziario – spiega Manconi – e il referto
contiene gli stessi rilievi medici riscontrati
in tribunale”. Alcuni “dolori alla schiena”,
pare, spingono i responsabili a far trasferire Cucchi all’ospedale Fatebenefratelli. Altra visita, altro bollettino: echimosi alle palpebre e fratture delle vertebre. Ma Stefano
firma per uscire e viene riportato a Regina
Coeli. In carcere. Non ci starà molto perché
poi viene trasferito ancora al Pertini, ospedale attrezzato con un reparto ad hoc per
detenuti. “In sette giorni, Cucchi viene a
contatto con quattro differenti strutture –
ricapitola Manconi, presidente dell’associazione A buon diritto – la caserma, il tribunale, il carcere e il reparto detentivo di
un ospedale. Posti diversi, ma sotto un’unica responsabilità: quella di chi detiene nella sua potestà il corpo, prima vivo, di Stefano Cucchi”. Nel frattempo, spostamenti a
parte, accadono alcune cose: Cucchi, già
esile, perde sette chili in altrettanti giorni
e scende a 35 chili di peso; poi ci sono il volto tumefatto e la schiena gravemente segnata, come testimoniano le foto rese pubbliche ieri; ci sono infine la negazione del diritto del fermato di ricorrere all’avvocato di
fiducia, come anche l’impedimento per i
genitori di vedere il proprio figlio, conoscere le sue condizioni di salute e persino di
parlare con i sanitari.
“Come per recenti casi, quali quello di
Federico Aldrovandi e Aldo Bianzino, al
centro della questione – secondo Manconi
– c’è l’opacità delle strutture statali. La vigilanza non deve mai deflettere, e sollevare pubblicamente tali questioni è il risultato più importante che nell’immediato abbiamo raggiunto con il sostegno di parlamentari di entrambi gli schieramenti”. Ieri
al Senato a parlare del caso c’erano, tra gli
altri, Giulia Bongiorno, Renato Farina,
Gaetano Pecorella e Flavia Perina per il
Pdl; Emma Bonino e Rita Bernardini (Radicali), Felice Casson e Gianrico Carofiglio
per il Pd. “Spero che avremo energie a sufficienza per costituire un comitato che
chieda la verità”, conclude Manconi. Intanto il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha prima riferito di una “caduta accidentale”, poi assicurato l’avvio di accertamenti. Spiegazioni e assunzioni di responsabilità da parte delle istituzioni, appunto.
E per il futuro? “Trasparenza e legalità, innanzitutto – dice al Foglio la deputata radicale Rita Bernardini – perciò abbiamo
chiesto al governo un’indagine conoscitiva
nelle carceri, da allargare alle strutture detentive nelle caserme. C’è poi una proposta
di legge per istituire un garante nazionale
per le persone private della libertà”.
Ieri il neosegretario del Pd ha visto Fini,
c’è un accordo di massima sulla bozza
Violante, la Giustizia può aspettare
La squadra di Bersani e Letta
Roma. Gianfranco Fini ha ricevuto alla
Camera Pier Luigi Bersani. In quaranta minuti i due leader hanno confermato l’identità
di vedute intorno alla necessità di aprire una
fase costituente in questa legislatura. La proposta politica che Fini ha in mente, che
ha comunicato a Bersani e che potrebbe anche precipitare in un
piano articolato, è quella di spacchettare le riforme individuando
preventivamente quelle su cui è
possibile una larghissima maggioranza: modifiche alla seconda parte della Costituzione, superamento
del bicameralismo perfetto e federalismo istituzionale.
“E’ evidente che con la
nuova segreteria, nel Pd,
si apre una nuova fase politica”, dice al Foglio Nicola Latorre. E il deputato dalemiano Gianni Cuperlo aggiunge:
“Distinguerei la riforma della
Giustizia dalle riforme istituzionali. Sulla prima grava sempre il sospetto
che venga perseguita per avvantaggiare soltanto Silvio Berlusconi. La strada per un ipotetico dialogo è forse quella tracciata dagli
incontri tra Fini e Massimo D’Alema ad Asolo”. Una riforma per gradi, che cominci dagli
assetti istituzionali. “La bozza Violante è incardinata al Senato insieme ad altre proposte di cui si può discutere. Purché la maggioranza non persegua la via delle ‘leggine ad
personam’ di Niccolò Ghedini”, chiosa Stefano Ceccanti, senatore che rappresenta la minoranza ex veltroniana del Pd.
Il segretario democratico, Bersani, sta concludendo un giro di consultazioni e visite
istituzionali – domani tocca al Prc – e non
farà annunci di nessun genere fino al 7 novembre, data del suo discorso di insediamento. Ma il lavoro di trattativa interna in queste
ore è intenso, il segretario sta plasmando la
propria squadra: Enrico Letta potrebbe diventare presto il nuovo capogruppo del Pd
alla Camera. Mentre al Senato Anna Finocchiaro resterebbe in carica soltanto qualora
si trovasse un accordo con i maggiorenti della corrente popolare.
Disarmo fiscale
Le aperture di Bersani per
un taglio dell’Irap sono avversate
dai suoi grandi elettori
Roma. Apparenze e dichiarazioni di circostanza non ingannino: per Pier Luigi Bersani la riduzione dell’Irap, che ieri il neosegretario ha sostenuto, rischia di essere il
primo serio inciampo; molto più che per il
governo: l’emendamento Pdl-Lega con il taglio dell’imposta sarà discusso in aula del
Senato e non in commissione Bilancio. Inoltre l’annuncio bersaniano rischia di minare
la strategia di attenzione alle piccole imprese impostata con Enrico Letta. Regioni, enti locali e Cgil considerano l’Irap un’imposta “loro” (fu introdotta nel ’97 da Vincenzo
Visco), mentre la riduzione andrebbe a scapito di altri interventi, a cominciare dall’Irpef. Non passa giorno senza che un redivivo
Vincenzo Visco e Stefano Fassina, ai quali
Bersani ha affidato la strategia fiscale, tambureggino sul sito del Nens, il pensatoio
fondato dal neosegretario e dall’ex ministro
delle Finanze. Frequenti anche le incursioni sul sito Lavoce.info. Visco aveva già definito “stravagante” la richiesta di taglio all’Irap di Dario Franceschini. Ora, vincendo la
riluttanza a polemizzare con Francesco Giavazzi, ha inviato una difesa a tutto campo intitolata “Le ragioni dell’Irap”: “Ha un’ampia base imponibile e basse aliquote”; “non
è sul reddito delle imprese ma su tutti i redditi riscossi per conto dello stato”. Neppure
l’accusa-principe, che colpisca il lavoro,
commuove Visco. “Argomento irrilevante se
ci si pone la domanda corretta: è giusto o no
che tutti i fattori della produzione contribuiscano alle spese locali?”. “La priorità è
l’Irpef sul lavoro dipendente”. Per chi non
avesse capito, ecco gli argomenti di Fassina,
direttore scientifico di Nens: “E’ ideologico
populismo insistere come Giavazzi sulla riduzione dei costi di produzione. Dobbiamo
concentrarci su quattro obiettivi: alleggerire l’Irpef sui redditi medio-bassi da lavoro
e pensione; allentare il patto di stabilità di
comuni e province; potenziare i crediti
d’imposta per le imprese; saldare i debiti
della pubblica amministrazione con la Cassa depositi e prestiti”. I due ultimi punti riportano nella discrezionalità dello stato i
sostegni alle aziende. La riduzione redistributiva dell’Irpef consentirebbe alla Cgil di
proporsi alla Confindustria come garante in
materia fiscale, ribaltando la logica dei premi di produttività e la contrattazione articolata. L’allentamento del patto è ciò che chiedono sindaci e presidenti di regione, che
con l’Irap finanziano la spesa sanitaria. Ma
chi sono i grandi elettori di Bersani? Governatori, sindaci e la Cgil.