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IL FOGLIO quotidiano Redazione e Amministrazione: via Carroccio 12 – 20123 Milano. Tel 02/771295.1 ANNO XIV NUMERO 259 La telefonata di Netanyahu Tutti vogliono tenere il gen. Graziano in Unifil La Spagna s’infuria Israele vuole il comando italiano nel sud del Libano anche dopo la scadenza di febbraio. Il Paìs grida al complotto Patti rispettati, dice Frattini Roma. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha telefonato a Silvio Berlusconi chiedendogli di prolungare per altri sei mesi il comando italiano della missione Unifil nel sud del Libano. La conversazione doveva restare riservata, invece è trapelata e ha fatto infuriare la Spagna – scrive Haaretz – che dovrebbe prendere il comando di Unifil a febbraio prossimo e vorrebbe al più presto un suo ufficiale al posto del generale italiano Claudio Graziano, alpino alla guida dei Caschi blu da quasi tre anni. Secondo la ricostruzione del quotidiano israeliano, Netanyahu avrebbe concordato la richiesta all’Italia con i vertici militari senza informare il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, che ha GEN. CLAUDIO GRAZIANO precisato che Israele “non ha alcuna preferenza sul comandate di Unifil”. Ma l’ambasciatore spagnolo a Gerusalemme, Alvaro Iranzo, non si è sentito affatto rassicurato, e alcuni parlano già di crisi diplomatica: toccherà al ministro della Difesa, Ehud Barak, riportare la calma durante la sua visita a Madrid alla fine di questa settimana. Il País, che sulle questioni militari italiane ha già avuto da ridire un mese fa, non ha perso tempo: Roma “ha comunicato all’Onu l’intenzione di ritirare mille soldati dal Libano, ma è disposta ad aspettare che Graziano lasci il comando”. Non è un ricatto, conclude il País, “ma ci somiglia”, pure se ammette che l’Italia “non ha presentato formale proposta di proroga, lo ha fatto soltanto informalmente”. Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha confermato che c’è una scadenza a febbraio, come già aveva garantito Berlusconi al collega spagnolo, José Luis Rodríguez Zapatero: “Sarà rispettata, e questo smentisce il Pais ancora una volta”, ha dichiarato Frattini. (segue a pagina due) Modello Graziano Israeliani e libanesi ora si parlano Poi ci sono “i pilastrini”, i pattugliamenti e i soldi stanziati Milano. Il successo della missione dei 12.235 Caschi blu di Unifil in Libano sotto il comando del generale Claudio Graziano può essere riassunto in una constatazione: la guerra non è ricominciata. Il punto cruciale della risoluzione 1.701 del Consiglio di sicurezza, che rafforzava l’antica missione dell’Onu, era proprio la cessazione delle ostilità, dopo i 34 giorni di guerra con Israele nel 2006. La questione non è così banale se si pensa che nel sud del Libano Hezbollah era padrone, aveva covi, armi, appoggio della popolazione e controllo di tutte le vie di comunicazione. Adesso ci sono tre brigate dell’Armée libanese, otto-diecimila uomini che lavorano assieme ai Caschi blu. Nella postazione 132 Alfa, tenuta dai soldati italiani sulla linea blu, il confine fra Israele e Libano, si incontrano i nemici sotto lo sguardo vigile di Graziano. “All’inizio libanesi e israeliani non si parlavano. Lo facevano soltanto attraverso di noi. Adesso scappa qualche frase diretta, segno che le cose migliorano. Lentamente, ma migliorano”, racconta al Foglio il tenente colonnello Diego Fulco, portavoce del comandante dei Caschi blu. (segue a pagina due) Leggi di Stefano Cucchi, 31enne romano fermato nella notte del 15 ottobre, a Roma, e morto nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini il 22 ottobre. Leggi che per otto giorni la famiglia ha cercato in ogni modo di poter vedere Stefano e di parlare con i medici, senza riuscirci. Era detenuto, quindi inavvicinabile senza il permesso del pm. Che evidentemente non l’ha concesso. Leggi come il processo per direttissima, che doveva aver luogo il giorno successivo all’arresto, fosse stato rinviato al 13 novembre. Leggi che il corpo di Stefano Cucchi, dopo il passaggio in tribunale, in carcere e in ospedale, ormai inerte, appariva sconvolto da inspiegabili colpi. Il volto devastato, l’occhio destro rientrato nell’orbita, l’arcata sopraccigliare sinistra gonfia e la mascella destra spezzata. Leggi tutto questo, ti sforzi di trovare una battuta che strappi un sorriso, e porco giuda se ti viene. Sped. in Abb. Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO VENERDÌ 30 OTTOBRE 2009 - € 1,30 DIRETTORE GIULIANO FERRARA IL SESSO E LA NEMESI Coscienza critica di sinistra si accorge che la cultura progressista è caduta in una trappola mortale rovistando nei panni dei potenti. “Attacchi arcaici. Ci infanghiamo tutti” (Marco d’Eramo, il manifesto) i siamo domandati nel Foglio il 28, l’altroieri: ma ci sarà un liberal vero a siniC stra? Ci sarà uno che capisce la deriva claustrofobica e sessuofobica di Repubblica? E’ arrivata una argomentata e seria autodenuncia. La firma sul “manifesto” di ieri, 29 ottobre, un prim’attore del giornalismo di sinistra, Marco d’Eramo, americanista e analista della modernità e postmodernità capitalista, tra economia, segni e costume. Dice che non è lecito “dribblare la conclusione: chi di sesso ferisce, di sesso perisce”: è imposta dal caso Marrazzo, coronamento di nove mesi di campagna sessuofobica di Repubblica. Dice che la vicenda del governatore e dei trans “ci fa esplodere in bocca il retrogusto amaro della vicenda delle escort”. Chiaro, no? E aggiunge: “Il malessere è acuito dalla magnanimità pelosa del premier che da tempo aveva avvertito il governatore (suo avversario politico) del ricatto che incombeva su di lui”. Chi abbia visto, per distrazione, le puntate di Santoro e Lerner, e letto per abitudine i pezzi di D’Avanzo, è servito: ora qualcuno a sinistra si è accorto che si sono fatti fregare dalla loro stessa stupidità. Peggio. La fregatura, secondo d’Eramo, viene dall’abbandono di una prospettiva culturale tipicamente europea, lo spassionato disinteresse verso gli argomenti pruriginosi che sconvolgono, in altri contesti storici e culturali, la vita pubblica nei paesi puritani. Nella Prima repubblica, e secondo d’Eramo era un punto d’onore per tutti, non si dava la caccia alle abitudini scandalose private, come l’omosessualità di presidenti del Senato e di ministri degli Esteri. “Vizi privati e pubbliche virtù”, questa è la regola, altrimenti ne risulta un’insalata che uccide la lotta politica, il nitore delle differenze vere, delle opposizioni significative, e tutto diventa una repellente brodaglia. D’Eramo cita le analisi di Louis Dumont (1911-1998, antropologo francese) su autonomia del politico e prevalenza dell’agire collettivo per dire che gli attacchi alla vita privata del “sovrano”, per di più “sacralizzato e assolutizzato”, sono “arcaici”. Hai voglia, dice, a distinguere e a puntare sullo scambio sesso/potere: la verità è che, nella lotta “contro la pratica governativa della sessualità”, alla fine la mente progressista è scaduta a osservatorio pettegolo di figure pruriginose. Sappiamo tutto di Patrizia o di Brenda, si lamenta disperato d’Eramo, ma ormai più niente di come hanno governato Berlusconi e Marrazzo. “In modo abbastanza prevedibile, impariamo che a frugare nei panni sporchi del potere, ci infanghiamo tutti”. A me sembra tutto molto chiaro. E a voi? Ogni scandalo ha la sua pozzanghera Ci piace rotolarci nel fango da rotocalco, ma non per giudicare la politica n attacco centrato sui sanitari del cesso” è la definizione geniale di Marco U D’Eramo per le vicende erotiche utilizzate come arma politica. Le foto scattate in DI ANNALENA bagno col telefonino da un paio di ragazze sono state sui giornali per mesi, in effetti, corredate da pensosi commenti. Tutti chiamati a discutere di puttane, di morale e adesso di viados e di Tor di Quinto. Con un’esaltazione sospetta, tra l’altro. Il fatto è che la lotta nel fango è irresistibile: segreti da svelare, vizi di cui adesso ci si vergogna meno se sono anche quelli di tizi importanti, nuovi nomi che sbucano all’improvviso, meschinerie totali, scandali all’ombra, l’improvvisa e spontanea riabilitazione della banalissima amante. Siamo tutti servette, adoriamo rotolarci nei pettegolezzi, sbaviamo per un segreto e speriamo intensamente che in quel segreto ci siano almeno un paio di tette, ma se ci sono anche ciglia finte e lamette da barba, andiamo in estasi da salotto, possiamo svernare contenti. Siamo tutti servette ma questo è fango da rotocalco, non da discorso politico. Ci divertiamo e allo stesso tempo ci vergogniamo, però non ci importa nulla delle dimissioni, stiamo volentieri in questo fango ma in un’altra pozzanghera, non pubblica, non collettiva. Anche l’autoblu a via Gradoli, insomma, non è il particolare più rilevante, quella è solo una scusa per potere cominciare il discorso. Tutti vogliono parlare di queste faccende, tutti, e del fatto che nel post Marrazzo nessun uomo sarà mai più al di sopra del sospetto trans e nemmeno della tentazione, ma si può farlo da sincere servette, senza contaminare la discussione pubblica, scegliendoci luoghi adeguati, pause pranzo, cene con altre servette, fino a che anche la pozzanghera verrà a noia. Ma elevare a cose serie i sanitari del cesso, quello no. Fingere che sia necessario intervistare le escort per avere un governo migliore, o inseguire un viados e farsi raccontare le abitudini dei vip per fare chiarezza sull’amministrazione della regione Lazio, è ridicolo. Anche moralizzare sui corpi in vendita è da servette. La differenza fra i due tipi di pozzanghere è la consapevolezza o meno di sguazzarci dentro. La domanda imbarazzante Serpeggia a sinistra il dubbio di essere finiti nella trappola erotico-moralista Roma. “Chi di sesso ferisce, di sesso perisce… A frugare nei panni sporchi del potere, ci infanghiamo tutti”, ha scritto ieri Marco d’Eramo sul Manifesto. “Trappola”, D’Eramo la chiama proprio così. Di fronte al “basta” scritto da d’Eramo su uno dei giornali storici della sinistra, c’è chi, a sinistra, raccoglie lo spunto. La deputata pd Paola Concia si dice “d’accordissimo” con il giornalista del manifesto, “anche sulla citazione di Foucault: il sovrano l’abbiamo costruito noi insistendo sul corpo del sovrano”. Concia si augura che “si produca una riflessione: abbiamo tanti argomenti per proporre un’altra idea di società – dal mio punto di vista migliore di quella proposta dalla maggioranza – ma possiamo farlo uscendo da questo moralismo. Un giornale può fare legittimamente le campagne che vuole, ma quelle non possono essere le campagne di un partito. E allora usciamo dall’abitudine di giudicare il politico sulla base della vita privata e non per quello che fa, per esempio esaltando la coerenza tra quello che si è e quello che si fa, come in Germania, dove un politico gay può serenamente rappresentare la Germania nel mondo”. Per Vladimir Luxuria, ex parlamentare di Rifondazione, “è vero che fissarsi sul privato del politico fa entrare in una spirale senza uscita, con un cortocircuito tra soldi, audience, copie vendute, ricatti, vendette, estorsioni. Si azzera la capacità di far politica e il vincitore non è un partito, ma soltanto la Conferenza episcopale italiana”. La giornalista e scrittrice Lidia Ravera si dice “sostanzialmente d’accordo con Marco d’Eramo”, anche se trova che “i panni sporchi del potere ci siano stati buttati sotto il naso”. Dopodiché, dice Ravera, “anche io penso che sia più importante giudicare un uomo politico in base alla sua efficienza. I cittadini non devono sindacare sulla vita privata della propria classe dirigente finché questa non travalica gli spazi di leisure. Ed è questo infatti il tipo di critica che ho rivolto a Berlusconi: l’aver fatto un uso improprio del potere”. Nella prima Repubblica, dice Ravera, “poteva esserci il politico democristiano, ipocrita, che riceveva nel suo appartamento una ragazzina, ma certo non sbatteva in faccia le sue abitudini al paese. C’è stata una mutazione culturale per cui non ci si vergogna più di niente, una mutazione iniziata con le televisioni berlusconiane prima che Berlusconi scendesse in politica”. Per tornare a parlare “di idee”, bisogna, secondo Ravera, “smettere di personalizzare la politica: il politico è trattato da vip e non da servitore dello stato”. La giornalista Marina Terragni pensa, sulla scia dell’articolo di d’Eramo, “che si trovi alle corde un certo tipo di campagna di una parte della sinistra e del quotidiano Repubblica. Spero sia esaurita la spinta a non parlare di politica per parlare di letti. Però mi dico anche che questo febbrone, questa irruzione violenta del sesso e del corpo nel cuore della politica maschile possa offrire l’opportunità di riflettere sulla malattia, una malattia che attiene alla fine del patriarcato”. La giornalista Paola Tavella, dicendosi “disgustata dall’uso del gossip come mezzo di lotta politica” e convinta “della sua inefficacia”, riflette su un mondo in cui “non si può nascondere più nulla, non si può proteggere più nulla e non si può più vivere una vita privata meravigliosamente segreta. E’ un danno politico ed esistenziale. Lo stato di putrefazione è totale. Con l’ossessione delle dieci domande ci si è attaccati la carta moschicida in fronte da soli”. Stefano Menichini, direttore del quotidiano d’area pd Europa, si era dichiarato “estenuato” dalla sovraesposizione della vicenda Berlusconi-escort prima dell’estate. Oggi non è ottimista sul fatto che il discorso pubblico possa riprendersi dall’invasione sesso, potere, escort, trans, ma non dà la colpa a Repubblica: “La cosa tragica è stata quando la politica ha scelto questo come terreno di lotta. Da quel momento si è innescato il meccanismo. Ciò non toglie che gli uomini pubblici nei loro comportamenti privati debbano rispettare un limite”. Il giornalista e deputato pd Furio Colombo, ex direttore dell’Unità, pur non condividendo la tesi di d’Eramo sul “chi di sesso ferisce, di sesso perisce”, perché “il giornalista è come un medico, e di fronte a certi casi non può esimersi dall’intervenire”, dice: “Non mi piace la chiacchiera su sesso e potere e vorrei che ci occupassimo di ciò che accade e di ciò che è importante per il bene del paese. Per esempio del no preventivo alla legge sull’omofobia e su quello che per me è divieto di fare un testa(Altri articoli a pagina 4) mento biologico”. OGGI NEL FOGLIO QUOTIDIANO LA MORALE DEL LIBERTINO •LO STILE MAGISTRALE di Alberto Arbasino è anche in quegli sfoghi plurimi e anonimi, senza teoria (Langone, Siti, Burini, inserto I) Subbuglio a Bruxelles Blair pronto a scendere in campo, socialisti contrari Merkel e Sarkozy freddini, britannici preoccupati dal “tutti tranne Tony” Chi ci mette la faccia. L’ex premier britannico, Tony Blair, è pronto ad andare fino in fondo nella battaglia per diventare il primo presidente stabile del Consiglio europeo. Ma a una condizione: come anticipato dal Foglio il 7 ottobre, esige che il ruolo sia di sostanza, un vero “presidente dell’Europa”, non solo un segretario dei capi di stato e di governo dei Ventisette. L’ex premier rinuncerebbe ai suoi attuali interessi e guadagni (tra i 12 e i 15 milioni di sterline da quando ha lasciato Downing Street) per un incarico che gli permetta di “fare la differenza” per l’Unione europea sulla scena mondiale, dicono i suoi amici citati dal Times. Blair è “spettatore altamente interessato” del vertice europeo in corso da ieri a Bruxelles. I socialisti europei hanno confermato il loro interesse per la carica di Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue: così facendo, escludono la possibilità che Blair vada alla presidenza del Consiglio, che spetterebbe quindi a un membro del Partito popolare europeo. Naturalmente nella famiglia socialista non è compreso il premier inglese, Gordon Brown, ha caldeggiato la nomina di Blair. Gran parte della scelta è nelle mani del presidente francese, Nicolas Sarkozy, e della cancelliera tedesca, Angela Merkel. Tony Baber, del Financial Times, ha scritto ieri sul suo blog che la cena tra i due, mercoledì sera, sia stata fredda nei confronti di Blair. Fonti diplomatiche francesi ribattono al Foglio: “Vedremo”. Ma gli inglesi sono preoccupati, temono che Francia e Germania abbiano già deciso che la candidatura di Blair sia troppo controversa. Il Benelux, l’Austria e la Polonia preferiscono una figura notarile. Secondo il presidente polacco dell’Europarlamento, Jerzy Buzek, “deve essere un chairman o una chairwoman anziché un presidente”. “Se si vuole qualcuno che rappresenti l’Ue in modo efficace, che possa aprire le porte nelle grandi capitali mondiali, c’è un solo candidato possibile”, spiega un ambasciatore dell’Ue: Blair. Se invece “si vuole qualcuno che sia incaricato di coordinare delle riunioni, allora le scelte sono multiple”. Ma non sarà Blair. Sostenitori e detrattori. Il Financial Times ieri si è schierato contro la candidatura Blair con un corposo editoriale. L’ex premier “è l’uomo sbagliato” per le solite ragioni: la guerra in Iraq che ha spaccato l’Ue, la rinuncia a convincere i britannici a diventare euroentusiasti, l’istinto a privilegiare gli interessi dei grandi paesi. Secondo il Wall Street Journal, invece, ora che il brutto Trattato di Lisbona è quasi in vigore, “scegliere un leader che non offende la suscettibilità degli altri perché poco conosciuto è un modo sbagliato di aggiustare le cose”. Di “lillipuziani” che aspirano all’incarico l’Europa è piena: dal premier del Lussemburgo, Jean-Claude Juncker, all’ex presidente irlandese, Mary Robinson, al leader olandese, Jan Peter Balkenende. Ma se l’Ue “vuole un leader globale” deve scegliere Blair. Oppure l’ex premier spagnolo José Maria Aznar. Per il Wsj “entrambi sono pesi massimi politici” in grado di far sentire la voce dell’Ue a Pechino, Washington, Mosca, Brasilia, il Cairo o Gerusalemme. Caos a Londra. Il leader dei conservatori britannici, David Cameron, si è cacciato in un euroguaio, assecondando le tendenze più eurofobe del suo partito. Già lo scorso maggio, Sarkozy e Merkel avevano minacciato di isolare Cameron se, vinte le elezioni nella primavera del 2010, avesse mantenuto la promessa di un referendum sul Trattato di Lisbona. “Rifiutiamo di tendere la mano a chi si oppone a Lisbona e allo stesso tempo parla a favore dell’allargamento”, aveva detto la cancelliera tedesca. Cameron ha fatto marcia indietro sul referendum perché il Trattato sarà in vigore prima delle elezioni. Ma il suo ministro degli Esteri ombra, William Hague, ha avvertito gli ambasciatori degli altri 26 paesi europei che un governo Tory considererebbe come “atto ostile” la nomina di Blair a presidente del Consiglio europeo. Alla fine, lo schiaffo per Cameron rischia di essere triplo. Il ministro degli Esteri, David Miliband, ne ha approfittato per accusare i Tory di sedere nello stesso gruppo dei neonazisti lettoni all’Europarlamento. L’ipotesi di nominare il conservatore eurofilo, Chris Patten, al posto di Alto rappresentante dell’Ueè tramontata. L’opposizione a Blair si sta trasformando in un boomerang: Brown ha accusato Cameron di agire contro “gli interessi nazionali britannici” e Merkel pensa di usare Blair presidente dell’Ue come diga alla deriva euroscettica di un Regno Unito guidato dai Tory. S. Cucchi, 31 anni Parlano i dalemiani Dopo sette giorni tra caserma, carcere e ospedali, muore. Senza spiegazioni. Le immagini Alla Camera il disarmo ideologico comincia con le riforme istituzionali Roma. Se un ragazzo entra in carcere con le sue gambe e ne esce morto dopo sei giorni, lo stato deve spiegare. Questo è forse il massimo che un parente emotivamente provato possa chiedere a qualche ora dalla scomparsa di un suo caro, e allo stesso tempo il minimo che i cittadini di un paese democratico devono pretendere. Spiegazioni e assunzione di responsabilità: è quanto esige la scarna cronaca degli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi, 31 anni, deceduto nella notte tra il 22 e il 23 ottobre all’ospedale Pertini di Roma. 15 ottobre, tarda serata: Stefano è arrestato dai carabinieri per il possesso di 20 grammi di stupefacenti (marijuana e cocaina). “Così inizia quella che non esito a definire una vera e propria via crucis per lui e per i genitori”, spiega al Foglio Luigi Manconi, ex sottosegretario alla Giustizia. Una via crucis che si conclude pochi giorni dopo sul tavolo di un obitorio. Torniamo al 15 ottobre. Stefano, dopo essere stato fermato, è accompagnato a casa; qui, di fronte ai genitori, i carabinieri perquisiscono la sua stanza. Poi lo portano in caserma. La mattina dopo, all’udienza per direttissima, il padre nota per la prima volta tumefazioni agli occhi e al volto del figlio. E non deve essere l’unico a notarle se, secondo le ricostruzioni, è lo stesso pm a chiedere che sia eseguita una visita medica. All’entrata del carcere di Regina Coeli, altro controllo: “Come le foto segnaletiche, è richiesto dalla legge all’entrata di ogni penitenziario – spiega Manconi – e il referto contiene gli stessi rilievi medici riscontrati in tribunale”. Alcuni “dolori alla schiena”, pare, spingono i responsabili a far trasferire Cucchi all’ospedale Fatebenefratelli. Altra visita, altro bollettino: echimosi alle palpebre e fratture delle vertebre. Ma Stefano firma per uscire e viene riportato a Regina Coeli. In carcere. Non ci starà molto perché poi viene trasferito ancora al Pertini, ospedale attrezzato con un reparto ad hoc per detenuti. “In sette giorni, Cucchi viene a contatto con quattro differenti strutture – ricapitola Manconi, presidente dell’associazione A buon diritto – la caserma, il tribunale, il carcere e il reparto detentivo di un ospedale. Posti diversi, ma sotto un’unica responsabilità: quella di chi detiene nella sua potestà il corpo, prima vivo, di Stefano Cucchi”. Nel frattempo, spostamenti a parte, accadono alcune cose: Cucchi, già esile, perde sette chili in altrettanti giorni e scende a 35 chili di peso; poi ci sono il volto tumefatto e la schiena gravemente segnata, come testimoniano le foto rese pubbliche ieri; ci sono infine la negazione del diritto del fermato di ricorrere all’avvocato di fiducia, come anche l’impedimento per i genitori di vedere il proprio figlio, conoscere le sue condizioni di salute e persino di parlare con i sanitari. “Come per recenti casi, quali quello di Federico Aldrovandi e Aldo Bianzino, al centro della questione – secondo Manconi – c’è l’opacità delle strutture statali. La vigilanza non deve mai deflettere, e sollevare pubblicamente tali questioni è il risultato più importante che nell’immediato abbiamo raggiunto con il sostegno di parlamentari di entrambi gli schieramenti”. Ieri al Senato a parlare del caso c’erano, tra gli altri, Giulia Bongiorno, Renato Farina, Gaetano Pecorella e Flavia Perina per il Pdl; Emma Bonino e Rita Bernardini (Radicali), Felice Casson e Gianrico Carofiglio per il Pd. “Spero che avremo energie a sufficienza per costituire un comitato che chieda la verità”, conclude Manconi. Intanto il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha prima riferito di una “caduta accidentale”, poi assicurato l’avvio di accertamenti. Spiegazioni e assunzioni di responsabilità da parte delle istituzioni, appunto. E per il futuro? “Trasparenza e legalità, innanzitutto – dice al Foglio la deputata radicale Rita Bernardini – perciò abbiamo chiesto al governo un’indagine conoscitiva nelle carceri, da allargare alle strutture detentive nelle caserme. C’è poi una proposta di legge per istituire un garante nazionale per le persone private della libertà”. Ieri il neosegretario del Pd ha visto Fini, c’è un accordo di massima sulla bozza Violante, la Giustizia può aspettare La squadra di Bersani e Letta Roma. Gianfranco Fini ha ricevuto alla Camera Pier Luigi Bersani. In quaranta minuti i due leader hanno confermato l’identità di vedute intorno alla necessità di aprire una fase costituente in questa legislatura. La proposta politica che Fini ha in mente, che ha comunicato a Bersani e che potrebbe anche precipitare in un piano articolato, è quella di spacchettare le riforme individuando preventivamente quelle su cui è possibile una larghissima maggioranza: modifiche alla seconda parte della Costituzione, superamento del bicameralismo perfetto e federalismo istituzionale. “E’ evidente che con la nuova segreteria, nel Pd, si apre una nuova fase politica”, dice al Foglio Nicola Latorre. E il deputato dalemiano Gianni Cuperlo aggiunge: “Distinguerei la riforma della Giustizia dalle riforme istituzionali. Sulla prima grava sempre il sospetto che venga perseguita per avvantaggiare soltanto Silvio Berlusconi. La strada per un ipotetico dialogo è forse quella tracciata dagli incontri tra Fini e Massimo D’Alema ad Asolo”. Una riforma per gradi, che cominci dagli assetti istituzionali. “La bozza Violante è incardinata al Senato insieme ad altre proposte di cui si può discutere. Purché la maggioranza non persegua la via delle ‘leggine ad personam’ di Niccolò Ghedini”, chiosa Stefano Ceccanti, senatore che rappresenta la minoranza ex veltroniana del Pd. Il segretario democratico, Bersani, sta concludendo un giro di consultazioni e visite istituzionali – domani tocca al Prc – e non farà annunci di nessun genere fino al 7 novembre, data del suo discorso di insediamento. Ma il lavoro di trattativa interna in queste ore è intenso, il segretario sta plasmando la propria squadra: Enrico Letta potrebbe diventare presto il nuovo capogruppo del Pd alla Camera. Mentre al Senato Anna Finocchiaro resterebbe in carica soltanto qualora si trovasse un accordo con i maggiorenti della corrente popolare. Disarmo fiscale Le aperture di Bersani per un taglio dell’Irap sono avversate dai suoi grandi elettori Roma. Apparenze e dichiarazioni di circostanza non ingannino: per Pier Luigi Bersani la riduzione dell’Irap, che ieri il neosegretario ha sostenuto, rischia di essere il primo serio inciampo; molto più che per il governo: l’emendamento Pdl-Lega con il taglio dell’imposta sarà discusso in aula del Senato e non in commissione Bilancio. Inoltre l’annuncio bersaniano rischia di minare la strategia di attenzione alle piccole imprese impostata con Enrico Letta. Regioni, enti locali e Cgil considerano l’Irap un’imposta “loro” (fu introdotta nel ’97 da Vincenzo Visco), mentre la riduzione andrebbe a scapito di altri interventi, a cominciare dall’Irpef. Non passa giorno senza che un redivivo Vincenzo Visco e Stefano Fassina, ai quali Bersani ha affidato la strategia fiscale, tambureggino sul sito del Nens, il pensatoio fondato dal neosegretario e dall’ex ministro delle Finanze. Frequenti anche le incursioni sul sito Lavoce.info. Visco aveva già definito “stravagante” la richiesta di taglio all’Irap di Dario Franceschini. Ora, vincendo la riluttanza a polemizzare con Francesco Giavazzi, ha inviato una difesa a tutto campo intitolata “Le ragioni dell’Irap”: “Ha un’ampia base imponibile e basse aliquote”; “non è sul reddito delle imprese ma su tutti i redditi riscossi per conto dello stato”. Neppure l’accusa-principe, che colpisca il lavoro, commuove Visco. “Argomento irrilevante se ci si pone la domanda corretta: è giusto o no che tutti i fattori della produzione contribuiscano alle spese locali?”. “La priorità è l’Irpef sul lavoro dipendente”. Per chi non avesse capito, ecco gli argomenti di Fassina, direttore scientifico di Nens: “E’ ideologico populismo insistere come Giavazzi sulla riduzione dei costi di produzione. Dobbiamo concentrarci su quattro obiettivi: alleggerire l’Irpef sui redditi medio-bassi da lavoro e pensione; allentare il patto di stabilità di comuni e province; potenziare i crediti d’imposta per le imprese; saldare i debiti della pubblica amministrazione con la Cassa depositi e prestiti”. I due ultimi punti riportano nella discrezionalità dello stato i sostegni alle aziende. La riduzione redistributiva dell’Irpef consentirebbe alla Cgil di proporsi alla Confindustria come garante in materia fiscale, ribaltando la logica dei premi di produttività e la contrattazione articolata. L’allentamento del patto è ciò che chiedono sindaci e presidenti di regione, che con l’Irap finanziano la spesa sanitaria. Ma chi sono i grandi elettori di Bersani? Governatori, sindaci e la Cgil.