Giuseppe Cacciatore L`interculturalità e le nuove dimensioni del

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Giuseppe Cacciatore L`interculturalità e le nuove dimensioni del
Giuseppe Cacciatore
L’interculturalità e le nuove dimensioni del sapere filosofico e delle sue pratiche
I teorici e gli studiosi della consulenza filosofica, ma anche molti esperti e praticanti di essa,
compiono, del tutto opportunamente, un preliminare esercizio di prudenza concettuale e di
chiarificazione semantica, elencando subito tutto ciò che non è da intendere come consulenza
filosofica. Proprio in relazione ai temi dell’interculturalità – della sua filosofia come anche, e forse
più, della sua etica e della sua pratica politica e formativo-educativa – quell’atteggiamento di
prudenza e quella esigenza di preliminare chiarificazione vanno ancor più perseguiti e soddisfatti.
Che non si debba assolutamente considerare la consulenza filosofica come un surrogato di religioni
ed ideologie, di precettistiche morali e di procedure assimilabili a terapie psicologiche e
psicoanalitiche, è del tutto auspicabile, specialmente quando la filosofia pratica, le sue metodologie
e i suoi contenuti applicati alla consulenza, si volgano a un delimitato compito di terapia dialogica
che sia precipuamente orientata ad una più aperta e plausibile comprensione del mondo, delle sue
contraddittorie manifestazioni e che riduca, dunque, in misura maggiore o minore, gli elementi di
conflittualità tra esso e l’individuo, innanzitutto nella sua singolarità. Ma quando questa forma di
“disagio esistenziale” riguarda non più la persona isolata, ma le strutture di interazione sociale e le
forme della cultura, delle plurali culture, bisogna ancor più guardarsi da semplificazioni e
schematismi disciplinari del tutto inutili, e fors’anche dannosi, dinanzi a realtà così complesse.
Anche perché, come giustamente osservava qualche tempo fa Umberto Galimberti1, con il
progressivo collasso della religione (ma è poi effettivamente così?), della filosofia e della
psicoanalisi, non è più pensabile affrontare questioni e problemi connessi al dolore e alle sofferenze
mentali ed esistenziali facendo ricorso alla patologia e alla biografia, giacché «oggi sono la
geografia e la storia a disanimare l’anima, a istillare sussulti d’angoscia».
Mi pare che in questa direzione possa muovere la prospettiva di una filosofia interculturale2
come luogo di nuove relazioni tra popoli e culture, ma anche come rivendicazione di autonomia e di
1
U. Galimberti, Se un filosofo ti prende in cura, “La Repubblica”, 15 dicembre 2004.
La bibliografia sull’interculturalità è, da qualche anno, diventata articolata e consistente. Per uno sguardo d’insieme
rinvio a F. Wimmer, Interkulturelle Philosophie.Geschichte und Theorie, Passagen Verlag, Wien, 1990; Id.,
Interkulturelle Philosophie. Eine Einführung, Wiener Universitätsverlag, 2004; R. A. Mall, Philosophie im Vergleich
der Kulturen. Eine Einführung in die interkulturelle Philosophie, Bremer Philosophica, Bremen, 1992; Id.,
Interculturalità. Una nuova prospettiva filosofica, ECIG, Genova 2002 (è la traduzione italiana del testo tedesco citato
innanzi); R. Fornet-Betancourt, Transformación intercultural de la filosofía, Desclée De Brouwer, Bilbao 2001; Id., Zur
interkulturellen Kritik der neueren lateinamerikanischen Philosophie, Traugott Bautz, Nordhausen 2005; H. Kimmerle,
Interkulturelle Philosophie. Zur Einführung, Junius-Verlag, Hamburg, 2002; F. Pinto Minerva, L’intercultura, Laterza,
Roma-Bari 2002; G. Favaro, L. Luatti, L’intercultura dalla A alla Z, Angeli, Milano 2004; G. Gennai, Lessico
interculturale, EMI, Bologna, 2005. Ho discusso di alcuni aspetti più strettamente filosofici ed etico-politici
2
pari dignità di identità etniche storico-culturali e nazionali. I contenuti, i metodi, le forme di
interazione tra i saperi, che la consulenza filosofica può mettere in campo non costituiscono soltanto
uno dei possibili tracciati di un indispensabile nuovo curriculum formativo per operatori e fruitori di
pratiche filosofiche, ma possono anche costituire un antidoto critico alle fenomenologie invadenti di
un pensiero unico che si manifesta sempre più come volontà di produzione, gestazione e controllo
dei saperi, delle conoscenze e delle informazioni. Le categorie e i concetti autenticamente filosofici
dovrebbero aiutare a interpretare la realtà contemporanea, così come le regole morali, che non
pretendano di essere norme assolute ed astratte, potrebbero delineare e contestualizzare gli stili di
vita e le condotte pratiche degli individui. Tutto questo oggi sembra non esser più alla portata della
filosofia, malgrado i tentativi di restaurazione affidati ora alle ontologie realistiche, ora alle diverse
etiche applicate. Categorie filosofiche e valori pratici sembrano non avere più la capacità di
misurarsi con la realtà. Tuttavia, pur nel breve spazio di un intervento, tenterò di argomentare il
convincimento che una filosofia interculturale, la sua ispirazione teorica e le sue pratiche possono
oggi, se non presumere di offrire soluzioni, almeno suscitare una discussione ed un incontro
dialogico tesi a rielaborare concetti e stili di pensiero che prediligano un tono critico e problematico
nell’analisi e nella diagnosi e una visione alternativa e trasformativa nella prognosi e nella terapia
rispetto alla dimensione totalizzante dell’ideologia della globalizzazione e dell’unicità
universalistica.
Se si riflette sul fatto – testimoniato, peraltro, dall’affermarsi e dal consolidarsi di un
autonomo ambito di ricerca e di specifiche metodiche riconducibili, anche sul piano accademico, al
genere dei cultural studies – che l’analisi dei sistemi culturali si rapporta ad uno scenario nel quale
sempre più si complicano e si frammentano i processi analogici e differenziali nell’esame
comparato delle specificità spaziali e temporali delle culture (la geografia e la storia di cui si parlava
sopra), si può allora determinare un significato di interculturalità che oltrepassi il tradizionale
compito delle storie e delle narrazioni di oggetti (cioè le culture) considerati nella loro unicità di
fenomeni specificamente contrassegnati da una serie di tratti comuni identitari. Le forme più
evidenti di spaesamento, di disagio e, in molti casi, di vera e propria conflittualità tra persone,
generazioni e gruppi sociali sono individuabili non più o soltanto nel cosiddetto “scontro tra le
culture” – figura più retorico-ideologica che storicamente e cognitivamente reale – quanto piuttosto
nel difficile processo di adattamento e contaminazione di fenomenologie che appartengono ad una
medesima configurazione territoriale e ad una comune morfologia, le quali vedono sempre più
diluirsi la propria originaria consistenza solida per assumere i tratti – ricorrendo alla suggestiva
dell’interculturalità in un mio saggio di prossima pubblicazione sulla rivista “Iride” dal titolo Identità e filosofia
dell’interculturalità. In esso si possono trovare più ampie indicazioni bibliografiche.
immagine di Baumann3 – di una inafferrabile liquidità. La conflittualità tra gli stili culturali amplia
il fronte del disagio (ne diventa anzi una delle maggiori fonti di alimentazione), e ciò avviene non a
caso nella più liquida delle realtà del secolo XXI, la metropoli, ma anche ormai in ogni città di
medie e piccole dimensioni. Qui il conflitto può addirittura diventare interno ad una stessa entità
culturale (nel senso della contaminazione, dell’ibridismo, del meticciato), con tutti i disagi anche
familiari tra immigrati di prima, seconda e terza generazione, tra immigrati e comunità originarie,
con tutti i problemi e i conflitti che riguardano i processi formativi (le scuole, le università) e le
strutture di servizio (ospedali, tribunali, burocrazia, etc.). L’interculturalità, allora, come ho già
sostenuto altrove4 non tocca soltanto le questioni dell’integrazione tra culture differenti, ma anche e
principalmente i problemi che caratterizzano oggi tutte le società complesse, nelle quali i paradigmi
culturali appartengono non solo alle radici etniche, ma anche al modo in cui queste radici si
mescolano e si intrecciano nelle grandi realtà urbane e metropolitane, nei gruppi sociali, nelle
comunità locali. Il problema dell’interculturalità, dunque, diventa oggi essenzialmente elaborazione
di strumenti logici e linguistici per la conoscibilità, narrazione e comprensione delle identità. Da
questo punto di vista si può dire che il riconoscimento delle differenze oltrepassa il dato, per così
dire, descrittivo e mette in campo una intenzionalità etico-filosofica che accetta come premessa
fondativa il riconoscimento di una realtà multiculturale, ma ne sviluppa altresì gli effetti verso la
ricerca reale di una convivenza che deve trasversalmente caratterizzare quasi tutte le società
avanzate della contemporaneità.
Un discorso filosofico sull’interculturalità – almeno nella mia prospettiva – non può
esaurirsi al pur importante livello dell’analisi sociologica e geopolitica. L’interculturalità mette in
gioco – e di questo la consulenza filosofica non può non tener conto – un profondo mutamento e
rinnovamento dei saperi umani: la pedagogia, la psicologia, la comprensione linguistica, il diritto, la
religione e, innanzitutto, l’etica, tanto nel suo profilo normativo quanto in quello della sua
applicabilità. La particolare curvatura etico-politica che caratterizza questo mio intervento sulla
filosofia dell’interculturalità – nella misura in cui essa è considerata sin dall’inizio in un
inestricabile nesso con le identità individuali e collettive dei contesti storici, sociali e politici della
contemporaneità – ha una sua semplice ragion d’essere nella natura relazionale di un procedere
comunicativo (filosofico e politico) fondato sul principio non contrattabile della uguaglianza dei
punti di partenza, cioè sull’argomento innanzitutto morale (e poi auspicabilmente politico e
giuridico) del rigetto di qualsiasi egemonia di una unica tradizione culturale.
3
Di Baumann cfr. almeno Dentro la globalizzazione, Laterza, Roma-Bari 1999; La società dell’incertezza, Il Mulino,
Bologna 1999; Il disagio della postmodernità, Bruno Mondadori, Milano 2002; Amore liquido, Laterza, Roma-Bari
2004; Fiducia e paura nella città, Bruno Mondadori, Milano 2005.
4
Mi riferisco al mio saggio richiamato nella nota 2.
Quanto, alcuni nuovi percorsi, teorici e pratici, tracciati dalla filosofia e dall’etica
dell’interculturalità possano e debbano avere incidenza sui metodi e sui profili didattici, formativi e
professionali della consulenza filosofica, è agevole comprendere a partire dalla centralità che
assume il dato interrelazionale. I problemi di disagio e di sofferenza nella qualità della vita in
generale e nella stessa dimensione dello scambio esistenziale quotidiano, in particolare, possono
essere affrontati quando si instauri una comunicazione libera da vincoli di ogni natura, quando
subentri cioè un atteggiamento critico-filosofico, un atteggiamento, in questo caso, disponibile alla
comprensione verso le identità altre, ma anche verso la propria identità culturale. Atteggiamento
critico-filosofico vuole così innanzitutto significare la disponibilità a mettere in discussione la
propria biografia fino a toccare (senza lasciarsi andare all’opposto di un astratto sradicamento) le
stesse matrici genealogiche e, dunque, fino a rifiutare ogni dogmatico ed oppressivo etnocentrismo.
Ma questo è possibile nella misura in cui, al tempo stesso, non viene ad attenuarsi la rete dei
legamenti (delle connessioni storiche, biografiche e psicologiche) che pongono l’individuo, per
usare la classica terminologia orteghiana, nella sua circostanza, nella sua contingenza storica.
L’esigenza del dialogo interculturale può essere allora soddisfatta – e costituire altresì uno
dei momenti qualificanti del dialogo del consulente filosofico con il suo interlocutore – quando si
riesca a mantenere il massimo dei punti di contatto con la propria identità e, contestualmente, ad
ampliare, modificare e contaminare questi punti nel processo di interazione e comunicazione,
insomma nel consapevole e voluto reciproco passaggio tra modelli culturali diversi. Ma questo
significa – come ho scritto nel saggio già richiamato – che anche la maniera di pensare e fondare
filosoficamente il concetto di alterità deve rinunciare alla tradizionale ricerca (massimamente
idealistica e, in parte, anche trascendentale) di ciò che esprime l’opposto, il contraddittorio,
l’irriducibile rispetto al pensiero. Insomma il filosofo dell’interculturalità non può credere di
esaurire il suo compito, limitandosi alla mera coerenza idealistica tra essere e pensiero o alla mera
coerenza logico-linguistica tra il significato e il significante.
La filosofia dell’interculturalità non è solo istanza etica e appello politico ad una dimensione
di incontro, tolleranza, rispetto e riconoscimento delle culture, né è solo una delle auspicabili e
plausibili vie della riaffermazione di valori cosiddetti non contrattabili ed indisponibili come la
dignità umana. Essa mette in campo e coinvolge, direttamente o indirettamente, tutta una rete di
saperi umani positivi e particolari, dei quali anche la filosofia pratica e la stessa consulenza
filosofica devono servirsi, se vogliono essere in grado di affrontare criticamente e conoscitivamente
la complessità del reale attuale. Per questo, allora, interculturalità è innanzitutto progetto eticopolitico, ma è, deve essere anche articolazione di nuovi saperi: storia e sociologia della cultura,
storia e filosofia della politica, delle pratiche, degli ordinamenti giuridici, storia e filologia delle
religioni, dei linguaggi, delle credenze, dei costumi, delle arti.
Prima dunque di ogni sua declinazione in senso
etico-politico, la teoria e la pratica
dell’interculturalità si pongono consapevolmente come «mutamento di paradigma»5 filosofico,
giacché la dimensione interculturale mette in campo non soltanto diversi e plurali profili sociologici
e antropologici, ma anche differenziate prospettive teoriche. Viene così ad esser bandita ogni
pretesa filosofica di carattere monoculturale (la lingua della filosofia è plurale come plurali sono le
sue matrici culturali, con buona pace del fondamentalismo greco-tedesco di stampo heideggeriano o
di quello, più recente, anglo-nordamericano di stampo analitico) e si costituisce la prassi di un
pensiero che dal riconoscimento del suo limite può aprirsi all’illimitata e tollerante concorrenza
degli altri universi culturali.
Alla luce di queste premesse diventa chiaro e del tutto plausibile come l’istanza teoretica e
anche epistemologica dell’interculturalità si connette coerentemente con un modello critico-radicale
di filosofia politica che mette in discussione il paradigma classico di cultura, dell’identità culturale
come differenza di sapore ontologico, opponendo ad essa un’idea di contingenza e di accidentalità
che rimette in gioco la diversità oppressa ed occultata. La filosofia interculturale, perciò, si presenta
anche come una modalità di pensiero che pur movendo dalla singolarità culturale storicamente
determinata e dunque da una condizione di possibilità imprescindibile per il diritto alla particolarità,
non rinuncia ad una dimensione di universalità resa plausibile dalla conoscenza e dalla
comunicazione di elementi comuni e da tutte le opportunità offerte dalla relazione interculturale.
Ma la possibilità del continuo rinvio dalla sfera filosofica a quella politica ed etica e
viceversa è non solo, per così dire, enunciata e praticata, ma può essere attestata anche da un
passaggio logicamente necessario. La filosofia dell’interculturalità pone a base di ogni critica del
pensiero unico e delle filosofie totalizzanti della storia un concetto esplicito di polivalenza delle
esperienze storiche, visibile innanzitutto nella pluralità tollerante e dialogante delle culture. Ma il
riconoscimento e l’auspicabile effettualità di una norma etica che riguardi la salvaguardia della
dignità umana e di una norma giuridica (nazionale e ancor più extra-nazionale) di garanzia e
protezione di una cultura propria, presuppongono una filosofica condizione di possibilità: il
concetto di pluralità delle visioni del mondo, l’idea di una loro uguale dignità e di un loro uguale
diritto alla realizzabilità di mondi reali.
Ma l’intima relazione che lega la dimensione conoscitiva ed epistemologica che il rapporto
particolarità/universalità assume nella filosofia interculturale con la dimensione etica, si può
scorgere soprattutto nel fatto che il concorso delle pratiche e dei saperi attivati dall’interculturalità
5
Questa è una delle tesi di fondo che è possibile ritrovare in quasi tutti i teorici contemporanei della filosofia
dell’interculturalità, in modo particolare nei libri e nei saggi di Fornet-Betancourt.
(filosofia politica, etiche applicate, sociologia, filosofia dell’educazione, formazione curriculare
etc.) si rivolge essenzialmente alla finalità di una vita umana degna di essere vissuta.
La plausibilità di un modello interculturale è direttamente connessa alla critica di una teoria
e di una pratica uniformatrici che, nel nome di artificiali e presunte esemplarità universalistiche (la
democrazia occidentale, il mercato neoliberale, le radici cristiane, etc.) mette in discussione la
specificità territoriale e la stessa sovranità delle culture, impegnate in un confronto (e talvolta in uno
scontro) con modelli di civilizzazione che si insediano egemonicamente, fino ad impadronirsene, in
ambiti culturali destinati alla marginalizzazione e, addirittura, all’esclusione. In questo modo
deperisce sempre più la capacità di una cultura di elaborare autonome dinamiche economico-sociali
e peculiari processi di organizzazione politica. Insomma, le culture perdono rilevanza e funzione
significante come forze di modellamento e di trasformazione delle condizioni storiche concrete e si
dispongono a diventare essenze soprastoriche, paradigmi sacri, contenitori infrangibili di valori e
principi assoluti.
La consulenza filosofica, dunque, non può fare a meno di misurarsi (nel senso di una sua
continua capacità di assimilare o respingere criticamente gli sviluppi del dibattito filosofico
contemporaneo) con la filosofia dell’interculturalità, giacché questa intende presentarsi in primo
luogo come trasformazione dei paradigmi filosofici, come riconoscimento della necessaria
pluralizzazione dei luoghi di nascita della filosofia, dei suoi inizi, della pluralizzazione dei suoi
metodi e delle sue articolazioni. Tutto questo, allora, riguarda gli stili teoretici, ma anche e forse
soprattutto i profili storici e narrativi, giacché si possono e devono ridiscutere le fonti e le tradizioni,
opere ed autori, anche classici. Per questo, allora, la filosofia dell’interculturalità aspira ad essere il
tentativo di superamento di ogni forma di monologo, ma intende proporsi anche come qualcosa di
più della pur auspicabile dialogicità intraculturale che si può instaurare tra l’io e l’altro, tra
l’identico e il diverso, tra il proprio e l’estraneo. Essa, cioè, vuole andare oltre ciò che oggi si
manifesta in forme concettuali del tutto consumate dal modificarsi stesso dei termini e dei contenuti
con cui si definisce e si comprende una cultura.