Azioni di responsabilità verso gli amministratori

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Azioni di responsabilità verso gli amministratori
Itinerari della giurisprudenza
Profili processuali delle azioni
di responsabilità nei confronti
degli amministratori sociali
a cura di Lorenzo Pelle
L’itinerario che viene percorso segue l’evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali delineatisi in tema di
azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori sociali dopo l’entrata in vigore della riforma del diritto societario. Scopo dell’indagine è fornire una ricomposizione sistematica, in chiave critica, del composito scenario esegetico emerso in ordine ai profili processuali delle azioni esperibili nella crisi di legalità e nella
crisi economica delle società capitalistiche.
L’azione
di responsabilità
sociale contro
gli amministratori
delle s.p.a.
Gli amministratori sono civilmente responsabili dei danni derivanti dal loro operato in una triplice direzione: verso la società, i creditori sociali e i singoli soci o terzi direttamente danneggiati.
Come strumento di reazione all’illecito gestorio commesso dagli amministratori ai danni dell’impresa in veste collettiva, l’ordinamento concede, in primo luogo, l’azione sociale di responsabilità, che la giurisprudenza unanime qualifica come contrattuale in considerazione del fatto
d’essere correlata alla violazione delle attribuzioni derivanti da specifici obblighi, di derivazione
legale e pattizia, imposti dal contratto di società (Cass. 11 novembre 2010, n. 22911, in questa Rivista, 2011, 377). Presupposto processuale, verificabile anche d’ufficio dal giudice, è la
deliberazione assembleare di cui all’art. 2393, comma 1, c.c., la quale deve sussistere al momento della pronuncia della sentenza (Cass. 10 settembre 2007, n. 18939, in Mass. giur. it.,
2007) o, rectius, essere rilasciata prima dell’emanazione del provvedimento che, accertando il
difetto di autorizzazione, rigetti in rito la domanda. La deliberazione, infatti, è atto volto a rimuovere un limite all’esercizio di un potere rappresentativo già conferito all’organo, pertanto il suo
difetto - sanabile con efficacia retroattiva secondo quanto disposto dall’art. 182, comma 2,
c.p.c. - pregiudica la valida imputazione degli atti processuali alla persona giuridica. Parimenti
anche l’art. 2393, comma 6, c.c. condiziona la rinuncia e la transazione alla previa approvazione
assembleare, la quale costituisce modo formale e inderogabile di espressione della volontà sociale di cui non sono ammessi equipollenti, cosicché in sua mancanza quegli atti risulteranno
affetti da nullità assoluta e insanabile, deducibile da chiunque vi abbia interesse e rilevabile anche d’ufficio (Cass., sez. lav., 7 luglio 2011, n. 14963, in Lplus). L’esigenza, sottesa al principio costituzionale del contraddittorio, di consentire all’avversario di predisporre adeguati e tempestivi mezzi di difesa impone all’attore di indicare, sin dall’atto introduttivo, i fatti sui quali si
fondano le censure mosse e di descrivere i comportamenti asseritamente contrari agli obblighi
legali o statutari (Trib. Napoli 26 marzo 2008, in DeJure). La domanda deve quindi contenere
la compiuta enunciazione della causa petendi e non può essere innervata nel corso del giudizio
di una più puntuale descrizione, con la conseguenza che la denuncia di comportamenti illegittimi diversi o ulteriori rispetto a quelli menzionati in limine litis implica il mutamento d’uno degli
elementi d’identificazione della domanda (Cass. 27 ottobre 2006, n. 23180, in questa Rivista,
2007, 297). Corollario della natura contrattuale dell’illecito è che a carico di chi promuove l’azione grava l’onere di dimostrare la sussistenza dell’inadempimento a uno o più obblighi legali o
statutari e la produzione di un danno eziologicamente imputabile all’inottemperanza dell’amministratore, mentre al convenuto compete la prova liberatoria della non imputabilità a sé del fatto dannoso ovvero dell’osservanza dei doveri inerenti alla carica (Cass. 29 ottobre 2008, n.
25977, in Fall., 2009, 619).
Il simultaneus
processus
nel litisconsorzio
con gli amministratori
Fin qui l’esegesi giurisprudenziale è pacifica e si pone in linea di continuità con l’interpretazione
che dell’art. 2393 c.c., per la verità non modificato sotto i profili esaminati, già veniva fornita
dalle corti prima della riforma del diritto societario. Dove invece si registra un’opinabile inversione è in tema di giudizi di gravame subiettivamente complessi. Stando a un dato indirizzo,
sussisterebbe in sede di impugnazione un’inscindibilità delle cause ogniqualvolta le distinte posizioni degli amministratori presentino un’interdipendenza tale che la condotta addebitata a cia-
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scuno di loro sia definibile come illecita solo in stretto collegamento con la valutazione del
comportamento dell’altro (App. Roma 3 aprile 2008, in Giur. mer., 2010, 119). È evidente come siffatta impostazione implichi una discutibile deroga all’ordinario principio dell’autonomia
delle liti che dovrebbe regolare i rapporti litigiosi fondati sul criterio della solidarietà, com’è
quello che connota la responsabilità prevista dall’art. 2392, comma 1, c.c. Ed invero, dalla circostanza che la società ha titolo per rivalersi per l’intero nei confronti di ogni amministratore
corresponsabile si dovrebbe ricavare proprio il principio inverso ossia che la solidarietà dà luogo a una pluralità di rapporti giuridici scindibili (Cass. 25 luglio 2008 n. 20476, in Fall., 2009,
826). La tesi è peraltro smentita tanto dallo stesso dato testuale dell’art. 2393, comma 5, c.c.,
a norma del quale sono revocati dall’ufficio i soli amministratori contro cui è deliberata l’azione
di responsabilità, quanto da quell’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale l’amministratore
convenuto in solido non può profittare della transazione raggiunta dalla società con gli altri
coobbligati se tale possibilità non sia stata espressamente autorizzata con deliberazione assembleare e senza il voto contrario della minoranza prevista dall’art. 2393, comma 6, c.c., giacché altrimenti rimarrebbe esautorata proprio la tutela dell’azionariato di minoranza che l’approvazione dell’assemblea è volta a presidiare (Cass. 24 aprile 2007, n. 9901, in questa Rivista,
2007, 1241. Di contro la transazione non riguardante l’intero debito ma limitata alla sola quota
interna di un coobbligato libera lo stipulante dal vincolo solidale con gli altri condebitori, i quali
in tale ipotesi se ne gioveranno nella misura corrispondente alla quota transatta; v. Cass. 8 luglio 2009, n. 16050, in Contratti, 2009, 1011). Non solo, vi sono anche ragioni sistematiche
che impediscono di ricondurre la responsabilità solidale nello schema dell’art. 331 c.p.c. L’onere di integrare il contradditorio, a pena d’inammissibilità dell’impugnazione, costituisce un vulnus al principio dispositivo nonché una deviazione dalla regola per cui la revisio prioris instantiae presuppone la soccombenza (Bove, Lineamenti di diritto processuale civile, Torino, 2009,
380). L’art. 331 c.p.c. può trovare allora la sua giustificazione solo nella tutela di interessi prevalenti, quale è l’esigenza di evitare il conflitto pratico di giudicati o situazioni di incompatibilità
sostanziale. Al contrario la disomogeneità degli accertamenti, che può riscontrarsi nelle controversie contro soggetti solidalmente tenuti a rispondere del proprio illecito, si risolve in una mera antinomia teorica che può agevolmente scongiurarsi mediante la proposizione di impugnazioni incidentali. Gli artt. 333 e 334 c.p.c. consentono dunque di conseguire quello stesso risultato di coerenza decisoria senza che rimanga vulnerato il principio dell’impulso di parte. Va infine sottolineato che, quantunque la riforma del 2003, nel riaffermare una «responsabilità per
colpa e fatto proprio», abbia ridotto l’estensione del regime della solidarietà, l’esigenza di individuare il contributo causale di ogni amministratore all’illecito contestato non è pretesto sufficiente per affermare la recessività del principio dispositivo a favore di un inverosimile litisconsorzio necessario. Ove l’art. 102 c.p.c. trova invece applicazione è in tema di azione esercitabile da una minoranza di soci, per la quale l’art. 2393 bis, comma 2, c.c. stabilisce l’obbligo di
evocazione in giudizio della società. In tale fattispecie la previsione del litisconsorzio necessario è peraltro coerente con la natura surrogatoria dell’azione. Si tratta invero della stessa iniziativa giudiziale che la società, rimasta inerte, avrebbe potuto proporre qualora vi fosse stata una
conforme deliberazione assembleare e lo dimostra che a favore della stessa andranno versati
gli importi dell’eventuale condanna degli amministratori. Sulla tutela dell’azionariato di minoranza si avrà comunque cura di tornare al termine del lavoro.
L’azione
di responsabilità
dei creditori sociali
delle s.p.a.
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Se si eccettua la soppressione del comma 3 migrato nel corpo del neo art. 2394 bis c.c., la riforma ha lasciato sostanzialmente invariata la disciplina prescritta dall’art. 2394 c.c. L’azione
dei creditori sociali resta dunque uno strumento di reazione agli atti di gestione degli amministratori che abbiano cagionato una diminuzione del patrimonio sociale tale da renderlo inidoneo
a svolgere quella funzione di garanzia generale assegnatagli dall’art. 2740 c.c. Ancorché scevra
da ricadute dirette sul patrimonio della società incapiente e sebbene volta a far valere la responsabilità di un soggetto diverso dal debitore - che però quel patrimonio amministra - è proprio la caratteristica di assurgere a rimedio alla lesione della garanzia patrimoniale che consente un accostamento dell’azione dei creditori sociali ai tradizionali mezzi di conservazione e reintegrazione del patrimonio, quali la tutela surrogatoria e revocatoria, l’azione di simulazione e il
sequestro conservativo (Nicolò, Sub art. 2740 c.c., in Scialoja - Branca (a cura di), Commentario
del codice civile, Bologna - Roma 1979, 5 s.). L’invariata formulazione dell’art. 2394 c.c. ha offerto nuova linfa alla diatriba fiorita intorno alla natura dell’azione, che vede ancora la giurisprudenza post riforma polarizzata tra l’orientamento sostenitore della tesi contrattuale (Cass. 22
marzo 2010, n. 6870, in questa Rivista, 2010, 769, e Trib. Milano 19 novembre 2004, in
Giust. a Milano, 2004, 77) e quello fautore della qualificazione aquiliana (Trib. Roma 20 giugno 2011, n. 13184, in DeJure) nonché tra l’indirizzo che le riconosce carattere diretto e autonomo (tendenzialmente speculare al filone che qualifica l’azione in termini extracontrattuali, v.
Cass. 12 giugno 2007, n. 13765, in questa Rivista, 2007, 1349) e quello, meno recente, che
la inquadra nello schema surrogatorio (Trib. Palermo 8 febbraio 2001, in Giur. mer., 2001,
1267). Non si tratta ovviamente di una mera disputa teorica giacché dalla sua qualificazione di-
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scendono importanti conseguenze sotto il profilo del thema decidendum et probandum, della
distribuzione del carico probatorio, del danno risarcibile, dell’operabilità della sospensione ex
art. 2941, n. 7, c.c. nonché del regime delle eccezioni opponibili. Ma se si condivide l’orientamento, ormai dominante, che ricostruisce l’azione dei creditori in chiave autonoma e diretta, bisogna concludere che la stessa ha presupposti e contenuti meno ampi dell’azione sociale poiché l’una è limitata alla reintegrazione del pregiudizio economico patito dai creditori nei limiti di
quanto necessario al soddisfacimento delle loro pretese (Trib. Napoli 10 gennaio 2007, in
questa Rivista, 2008, 8, 1031), mentre l’altra postula qualunque danno emergente o lucro cessante cagionato dalla violazione di una preesistente obbligazione legale o statutaria (Trib. Milano 29 gennaio 2007, in Il merito 2008, 4, 47).
Il problema
della sopravvivenza
dell’azione dei creditori
sociali delle s.r.l.
La consultazione dei repertori giurisprudenziali mostra come in materia di azione dei creditori
sociali i più importanti pronunciamenti, intervenuti negli otto anni che ci separano dall’entrata
in vigore della riforma, non riguardino le s.p.a. bensı̀ le s.r.l. Non si tratta ovviamente di un caso. Nel riassetto complessivo della disciplina delle società capitalistiche, il regime delle s.r.l. introdotto col D.Lgs. n. 6/2003 non ha riprodotto alcuna fattispecie di responsabilità degli amministratori nei confronti dei creditori sociali, suscitando cosı̀ un vivace dibattito che ha riguardato
la possibilità di enucleare, anche per tale tipologia sociale, un principio generale di responsabilità degli organi di gestione per inadempimento all’obbligo di conservazione dell’integrità patrimoniale. Va altresı̀ evidenziato che, dall’entrata in vigore della riforma, la giurisprudenza è sempre intervenuta sul tema incidentalmente alla connessa questione della legittimazione del curatore a subentrare, ex art. 146 l.fall., nella titolarità dell’azione spettante ai creditori. La meno dispendiosa procedura fallimentare, i cui oneri sono condivisi tra tutti i concorrenti, si rivela tuttora il terreno di predilezione dell’azione a tutela dei creditori, cosicché, anche dopo la riforma societaria, l’ipotesi di un’azione creditoria al di fuori delle procedure concorsuali resta teorica. All’indomani della novella si sono coagulate due posizioni contrapposte. Un primo indirizzo, rimasto minoritario, ha negato la sopravvivenza dell’obbligo di conservazione del patrimonio sociale
verso i creditori, ritenendo che il silenzio serbato dall’art. 2476 c.c. non costituisca una lacuna,
bensı̀ il frutto di una precisa volontà legislativa non aggirabile con l’interpretazione analogica
dell’art. 2394 c.c. date le profonde differenze intercorrenti con le società azionarie sul cui modello quelle a responsabilità limitata non sono più ricalcate (App. Napoli 7 luglio 2008, in Riv.
dir. comm., 2010, 1, II, 1; App. Napoli 28 giugno 2008, in Giur. mer., 2009, 2470; Trib. Milano 27 febbraio 2008, in Riv. dir. soc., 2009, 780; e Trib. Milano 25 gennaio 2006, in questa
Rivista, 2007, 320). Tuttavia può ormai dirsi sedimentato l’opposto indirizzo, divenuto, negli ultimi anni, maggioritario. La tesi si fonda su due ordini di argomenti. Il primo fa leva sull’esistenza di un diritto, vantato dalla collettività dei creditori verso l’organo amministrativo e tutelabile
con l’azione di responsabilità aquiliana per lesione dell’aspettativa del credito, a che non venga
compromesso il complesso delle risorse destinate a garantire la massa dei debiti sociali (principio ricavato dal Trib. Pescara 15 novembre 2006, in Foro it., 2007, I, 2262, direttamente dalla
clausola generale contenuta nell’art. 2043 c.c. in combinato disposto con l’art. 2740 c.c.). Il secondo argomento, di ordine sistematico, è incentrato sulla dimostrazione dell’esistenza di una
lacuna nel contesto regolamentare della s.r.l. che giustificherebbe l’applicazione in via analogica della norma de qua agitur (Trib. Udine, ord., 11 febbraio 2005, in Dir. fall., 2005, II, 808).
Esso si fonda sulla contraddittorietà sistemica emergente dal confronto con i seguenti dati positivi e, anzitutto, con gli artt. 2485 e 2486 c.c., da cui risulta che mentre è stabilita una responsabilità degli amministratori nei confronti dei creditori sociali in fase di scioglimento della società, un’analoga tutela manca durante la sua vita attiva (Trib. Padova 24 giugno 2009, in Fall.,
2010, 6, 729). Un secondo elemento positivo viene rinvenuto nell’art. 2477, comma 4, c.c.
che, mediante un rinvio alle norme dettate in tema di s.p.a., consente di compulsare ai sensi
dell’art. 2394 c.c., a sua volta richiamato dall’art. 2407, ultimo comma,.c.c., i sindaci delle s.r.l
nelle quali sia obbligatoria la nomina del collegio sindacale. Si ripresenterebbe cosı̀ un’altra
aporia di sistema per cui potrebbero essere condannati i sindaci per omessa vigilanza sull’operato pregiudizievole degli organi di gestione, senza però che possano trarsi in giudizio gli stessi
amministratori a cui siano imputabili gli atti contestati (Trib. Roma 17 dicembre 2008, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, II, 483). Simile disparità di trattamento si verificherebbe, inoltre, nei
confronti dei liquidatori di qualunque società capitalistica, i quali sono considerati responsabili
dall’art. 2491, comma 3, c.c. verso i creditori per violazione degli obblighi inerenti alla conservazione e liquidazione del patrimonio secondo il regime prescritto per gli amministratori. Sotto tale profilo l’art. 2489, comma 2, c.c. conferma che la responsabilità degli organi gestori non si
atteggia diversamente a seconda del tipo sociale (Trib. Roma 23 febbraio 2009, in questa Rivista, 2010, 1, 97). Ultimo dato normativo è quello dell’esposizione della società controllante alla responsabilità «da eterodirezione» verso i creditori della società controllata per l’incapienza
patrimoniale cagionata dalla violazione dei doveri di corretta gestione imprenditoriale. L’asimmetria del quadro normativo, che vede declinare la responsabilità nei confronti dei creditori sociali delle s.r.l. solo nella dinamica dei gruppi sociali, lascerebbe cosı̀ scoperto un vulnus nor-
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mativo che priva i creditori di una tutela senza soluzione di continuità tra s.r.l. monade e s.r.l.
inserita in un contesto di gruppo (Trib. Napoli 11 gennaio 2011, in questa Rivista, 2011, 5,
510). Va del resto ricordato che tali argomenti sono stati sottoposti a severa critica da una parte della giurisprudenza che ha osservato come le norme invocate non consentano di trapiantare nella disciplina delle s.r.l. fattispecie di responsabilità concepite per ordinare fenomeni del
tutto diversi (App. Napoli 28 giugno 2008, cit., rileva infatti come gli artt. 2485, 2486, 2489,
comma 2, e 2491, comma 3, c.c. si giustifichino in ragione della fase di scioglimento in cui versa la società; come l’art. 2407 consenta l’applicazione delle disposizioni in materia di azioni
contro gli organi gestori solo «in quanto compatibili»; e infine come l’art. 2497 c.c. abbia a oggetto la responsabilità della società controllante e non i suoi amministratori). L’obiezione per
quanto grave e puntuale non scalza però l’argomento, che è poi quello decisivo, per cui l’azione creditoria rappresenta lo strumento indispensabile per bilanciare la limitazione della responsabilità al solo patrimonio sociale e in difetto del quale si verificherebbe un’irragionevole disparità di trattamento, di dubbia legittimità costituzionale, rispetto al regime azionario. Si consideri
altresı̀ che l’esigenza di approntare uno schema di tutela efficace dei creditori contro il depauperamento del patrimonio diventa ancora più irrinunciabile in un modello organizzativo, quale è
quello a responsabilità limitata, ove l’ampia autonomia statutaria può esporre la società a una
pericolosa commistione tra proprietari e gestori e, di conseguenza, a un depotenziamento dei
controlli lesivo dell’interesse pubblico al corretto funzionamento dell’impresa. (Trib. Vicenza,
ord., 26 luglio 2010, in questa Rivista, 2010, 11, 1399, e Trib. Nola 18 giugno 2009, in Giur
mer., 2010, 3, 706).
‘‘Sostituzione’’
del curatore
fallimentare nell’azione
dei creditori sociali
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Nel passaggio dalla crisi di legalità alla crisi economica si assiste a un mutamento del contesto
in cui si gioca la tutela processuale del credito. Con la compressione degli strumenti di tutela
individuali e il subentro della curatela nel potere di far acquisire all’intero ceto creditorio l’equivalente delle prestazioni a cui la società non è più in grado di adempiere, l’azione di responsabilità si trasferisce da una dimensione individuale a una collettiva (Pagni, Crisi societarie ed intervento del giudice tra revoca dell’amministratore, azioni di responsabilità e forme di tutela
dei creditori, in Scritti in onore di C. Punzi, II, Torino, 2008, 232 s.s.). Ed è proprio sul terreno
concorsuale che gli orientamenti giurisprudenziali, appena passati in rassegna, hanno dovuto
misurarsi con il parallelo problema del coordinamento della disciplina societaria con quella fallimentare sotto il profilo della legittimazione attiva del curatore a subentrare nell’azione creditoria. Per completezza va precisato che di subentro o sostituzione parla la giurisprudenza sul postulato che le azioni di responsabilità esercitabili in via esclusiva dal curatore non sorgano a titolo originario ma derivino da quelle preesistenti al fallimento (sull’argomento v. infra). Nel contesto normativo previgente alla riforma del diritto societario costituiva ius receptum che quella
prevista dall’art. 146, comma 2, l.fall. fosse un’azione unitaria e inscindibile, che cumulava in
sé tanto l’azione sociale quanto quella creditoria. La conclusione non è risultata più cosı̀ granitica dopo che le modifiche introdotte hanno posto in dubbio la permanenza dell’azione dei creditori delle s.r.l., da cui logicamente dipende la sopravvivenza della legittimazione dell’ufficio fallimentare a sostituirsi nella stessa. Non può neppure trascurarsi che la riforma del diritto fallimentare, medio tempore intervenuta, ha inciso in modo determinante sull’itinerario giurisprudenziale. Fino all’emanazione del D.Lgs. n. 5/2006 la giurisprudenza è apparsa divisa tra l’indirizzo contrario all’azione dei creditori sociali di s.r.l., per il quale è stato giocoforza escluderne
l’avocazione da parte dell’ufficio fallimentare (Trib. S.M. Capua Vetere 18 marzo 2005, in
questa Rivista, 2005, 1007), e quello favorevole, per il quale il percorso si è rivelato invece più
travagliato essendo incerto se potesse ancora riconoscersi in capo al curatore il potere di rappresentare in giudizio i diritti vantati dai creditori della società fallita. A questa giurisprudenza
non sfuggiva infatti che mentre la sostituzione nell’azione sociale è espressione della legittimazione del curatore a subentrare, ai sensi dell’art. 43 l.fall., nelle controversie relative ai rapporti
patrimoniali compresi nel fallimento, l’azione di cui all’art. 2394 bis c.c., per converso, non è ricollegabile alla struttura della procedura concorsuale ma è frutto di una scelta legislativa. In seno a questo orientamento è emersa cosı̀ una divisione tra chi ha negato che il curatore potesse sostituirsi ai creditori, non potendo la riserva di cui all’art. 81 c.p.c. essere soddisfatta mediante l’interpretazione analogica di una norma eccezionale quale è quella contenuta nell’art.
2394 bis c.c. (Trib. Napoli 11 novembre 2004, in questa Rivista, 2005, 8, 1007), e chi al contrario lo ha riconosciuto, sostenendo che l’applicazione analogica di questa disposizione fosse
giustificata dall’esistenza di una lacuna normativa e dalla ricorrenza dell’eadem legis ratio (Trib.
Napoli 16 aprile 2004, in questa Rivista, 2005, 1015). Tale soluzione era ancora una volta ispirata dall’esigenza di correggere in via interpretativa un’irragionevole iniquità derivante dal fatto
che il curatore non sarebbe stato autorizzato a promuovere le azioni di cui agli artt. 2392 e
2393 c.c. - viceversa consentite al commissario liquidatore ex art. 206, comma 1, l.fall. - ma sarebbe stato invece legittimato a costituirsi parte civile nei procedimenti penali contro gli amministratori di s.r.l. fallite ai sensi dell’art. 240 l.fall. (Trib. Napoli 12 maggio 2004, in questa Rivista, 2005, 8, 1013).
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La legittimazione
del curatore
a esercitare
le azioni di massa
La nuova formulazione dell’art. 146, comma 2, l.fall., non accennando più ad alcuna distinzione
tra le diverse tipologie sociali, sembra ora aver superato il dissidio avvalorando la conclusione
positiva (Cass. 21 luglio 2010, n. 17121, in questa Rivista, 2010, 1271). A ogni modo, proprio
il tenore ampio del novellato art. 146, comma 2, l.fall. non deve far pensare che il curatore, a
parità di tipo sociale, sia legittimato all’esperimento di qualunque azione di responsabilità o alla
rappresentanza generalizzata di tutti i creditori. La Suprema Corte regolatrice ha difatti circoscritto la legittimazione sostitutiva del curatore all’esercizio delle sole azioni di massa ossia alle
iniziative processuali volte a ottenere la ricostruzione del patrimonio nell’interesse del ceto creditorio e dunque caratterizzate dal carattere indistinto dei beneficiari del suo esito positivo
(Cass., sez. un., 28 marzo 2006, n. 7030, in Corr. giur., 2006, 643, e più recentemente Cass.
3 giugno 2010, n. 13465, in Foro it., 2011, 2, I, 518). Non sono invece di massa quelle azioni
che, richiedendo l’accertamento di uno specifico rapporto obbligatorio, sono dirette ad avvantaggiare in via diretta ed esclusiva il creditore uti singulus, come quelle regolate dagli artt.
2395 e 2476, comma 6, c.c. (sulla scorta di questo indirizzo il Trib. Napoli 11 gennaio 2011,
cit., ha ammesso il curatore a far valere la responsabilità degli amministratori per violazione del
divieto di compiere nuove operazioni dopo lo scioglimento della società e il Trib. Milano 22 dicembre 2010, in questa Rivista, 2011, 7, 757, ha escluso che il danno connesso alla condotta
di bancarotta preferenziale possa essere risarcito su domanda del curatore, trattandosi di un
pregiudizio riconducibile nell’alveo dell’art. 2395 c.c.).
Natura giuridica
delle azioni
del curatore
Riconosciuto che il curatore fallimentare è abilitato dall’art. 146, comma 2, l.fall. a esercitare le
azioni di massa reintegrative del patrimonio, lo stesso orientamento ha quindi riproposto il vecchio adagio secondo cui nell’azione ex art. 146 l.fall. confluirebbero in via cumulativa e unitaria
i diversi rimedi previsti dagli artt. 2393 e 2394 c.c. (Trib. Milano 28 novembre 2005, e Trib.
Milano 14 novembre 2006, in questa Rivista, 2007, 67 e 864). Che l’azione abbia natura unitaria e inscindibile non significa che la curatela possa cumulare i vantaggi relativi a entrambe le
azioni (Jaeger, La responsabilità degli amministratori e dei sindaci nelle procedure concorsuali:
una valutazione critica, in Giur. comm., 1988, I, 550), ma vuol dire impossibilità di duplicazione
della tutela risarcitoria. Logica implicazione è che spetta al curatore precisare se agisce utendo
iuribus socium vel creditorum, cosı̀ da rimanere assoggettato all’assetto normativo relativo all’azione esercitata (a es. in ordine al diverso thema decidendum et probandum, alle eccezioni
opponibili, al divieto di mutatio libelli e alla decorrenza del termine prescrizionale; v. Cass. 12
giugno 2007, n. 13765, in questa Rivista, 2007, 1349, e Trib. Napoli 23 gennaio 2009, in
Giur. comm., 2009, 6, II, 1244). Quanto poi alla trasformazione o confluenza delle tutele che
prima del fallimento competono alla società e ai creditori rispettivamente a titolo contrattuale
ed extracontrattuale, si è già anticipato come si tratti di una formula suggestiva, impiegata dalla giurisprudenza, per sostenere che le azioni a disposizione del curatore non nascerebbero ex
novo ma deriverebbero dall’apertura della procedura concorsuale. Tuttavia, dato che con la declaratoria fallimentare le iniziative processuali non mirano più al perseguimento degli interessi
individuali bensı̀ al soddisfacimento degli interessi della massa, appare legittimo interrogarsi se
non sia più corretto riconoscere al curatore una legittimazione distinta, quantunque dipendente, dalle situazioni giuridiche spettanti alla società e ai creditori. Similmente a quanto accade alla revocatoria ordinaria ex art. 66 l.fall., invero, l’insolvenza attribuisce alle azioni della curatela
una connotazione collettiva che le discrimina da quelle conseguenti alla mera incapienza. Nonostante ciò, non rimane incrinato il principio per cui le azioni proponibili dall’ufficio fallimentare
conservano il regime dettato per quelle esperibili contro gli amministratori delle società in bonis (non a caso l’art. 2394 bis c.c. rinvia ai rimedi previsti dalle norme precedenti e l’art. 146,
comma 2, lett. a), l.fall. parla al plurale di «azioni» sottolineando cosı̀ che tali strumenti processuali non sono del tutto avulsi dalla matrice codicistica), anche se sotto taluni profili occorrerà
adeguare la disciplina alle specificità della tutela concorsuale. In tal guisa il danno risarcibile sarà quello subı̀to non dai singoli creditori, ma dalla società divenuta insolvente come massa, e i
termini prescrizionali decorreranno non dalla cessazione della carica degli amministratori o dall’obiettiva conoscibilità dell’insufficienza patrimoniale, bensı̀ dal momento in cui viene in essere il soggetto abilitato all’esercizio dell’azione ossia dalla pronuncia di fallimento (salvo che non
si ritenga decadenziale il termine di cui all’art. 2393, comma 4, c.c., nel qual caso valgono le riflessioni di Consolo-Montanari, La revocatoria ordinaria nel fallimento e le questioni di prescrizione, in Corr. giur. 2005, 399). Da ultimo meritano attenzione alcune recenti pronunce che,
con inatteso revirement, hanno affermato la natura contrattuale dell’azione esercitata dal curatore in luogo dei creditori (Cass. 21 luglio 2010, n. 17121, cit.) con i seguenti corollari: graverebbe sul curatore la prova della sussistenza delle violazioni e del nesso di causalità tra queste
e il danno, mentre incomberebbe sul convenuto l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé
del fatto dannoso (Cass. 29 ottobre 2008, n. 25977, cit.), e non sarebbe opponibile al curatore
l’asserita conformità dell’operato dell’amministratore alla volontà assembleare (Cass. 23 giugno 2008, n. 17033, in Fall., 2009, 565). È evidente che, riconoscendone la natura contrattuale, alcune differenze tra le due azioni, soprattutto in tema di ripartizione dell’onere probatorio,
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Itinerari della giurisprudenza
finiscono per stemperarsi. In questi arresti non ci si sofferma sul percorso logico che conduce
a qualificare in termini contrattuali l’illecito gestorio ai danni dei creditori, ma sembra plausibile
fondare tale ricostruzione sull’inadempimento a un obbligo legale di protezione, imposto agli
amministratori, di evitare un depauperamento del patrimonio che ne provochi l’insufficienza alla soddisfazione dei crediti (la tesi si rifà all’illustre insegnamento di Mengoni, Responsabilità
contrattuale, dir. vig., in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, 1072 s., secondo il quale contrattuale
deve definirsi l’inadempimento a qualunque obbligazione preesistente che scaturisca da una
delle fonti indicate dall’art. 1173 c.c.).
L’azione
di responsabilità
sociale contro
gli amministratori
delle s.r.l.
La riforma della disciplina delle s.r.l. costituisce indubbiamente uno dei passaggi più complessi
della novella. Come poc’anzi rilevato, con la riforma del 2003 il legislatore ha dettato una regolamentazione autonoma delle azioni sociali e individuali che ha infranto quell’omologazione normativa alla tipologia della s.p.a. a cui era soggetto il previgente regime di responsabilità degli
amministratori delle s.r.l. La ratio dell’introduzione di una disciplina specifica risiede, com’è noto, nel diverso assetto giuridico, improntato a un accentuato profilo personalistico e alla valorizzazione del significato contrattuale, che i rapporti sociali hanno assunto. Come s’è già visto in
merito alla tutela dei creditori sociali, ora che la disciplina delle s.p.a. non si pone più come modello a cui l’interprete possa riferirsi, anche i nodi problematici dell’azione sociale sorgono dalla
difficoltà di colmare le lacune lasciate dall’intervento riformatore. L’azione di responsabilità ha,
per opinione unanime, natura sociale in quanto volta a reintegrare il patrimonio dell’impresa.
Gli argomenti testuali sul punto appaiono incontrovertibili: l’art. 2476, al comma 1, c.c. prevede
una diretta responsabilità degli amministratori verso la società, nei cui confronti si riverberano i
risultati utili del risarcimento; il comma 4 dispone che, in caso di accoglimento della domanda,
la società sia tenuta a tenere indenne il socio dalle spese giudiziali; e il comma 5, infine, stabilisce che spetta alla società il potere di disporre del diritto controverso, rinunciando all’azione
promossa dal socio o transigendo la lite (Trib. Napoli 7 settembre 2007, in Foro it., 2008,
2060). Una delle più incisive novità introdotte al riguardo sta nell’aver svincolato l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori delle s.r.l. dalla previa deliberazione assembleare
per conferirne, in via disgiuntiva, la legittimazione a ciascun membro della compagine sociale.
La scelta è coerente con l’accresciuto potere di controllo dei soci, che si traduce nel diritto di
avere notizia degli affari imprenditoriali e di consultare i documenti concernenti l’amministrazione, e costituisce un diritto potestativo funzionale e prodromico al potere reattivo di esercizio
dell’azione di responsabilità (Trib. S.M. Capua Vetere 10 giugno 2011, in DeJure, il quale si
inserisce nel solco di un consolidato orientamento che ammette la concessione del provvedimento d’urgenza a tutela del diritto di esaminare i libri sociali). Quantunque possa esperirsi uti
singulus, quella di cui all’art. 2476, comma 3, c.c. non è inquadrabile nell’azione surrogatoria,
giacché il socio non è creditore della società né è presupposta l’inerzia dell’assemblea, ma
neppure è qualificabile come azione autonoma, in quanto l’attore non fa valere un diritto soggettivo di cui sia titolare. Al contrario va ricostruita come una vera e propria azione rimessa alla
legittimazione straordinaria della minoranza, avente natura contrattuale e incentrata sul generale obbligo di diligenza professionale di cui all’art. 1176 c.c. Proprio dalla natura contrattuale della responsabilità si desume che grava sulla società la prova del danno e del nesso causale tra
questo e il comportamento del convenuto, mentre la dimostrazione dell’elemento soggettivo
è posta dall’art. 2476 c.c. a carico dell’amministratore, presunto inadempiente, secondo il meccanismo di inversione dell’onus probandi stabilito dall’art. 1218 c.c. (Trib. Roma 22 maggio
2007, in Foro it., 2008, 1, I, 307).
Legittimazione
della s.r.l. a esercitare
l’azione sociale contro
gli amministratori
La nuova formulazione normativa non induce comunque a inferire che la rimessione della legittimazione ad agire ai singoli soci si sia risolta per la società nell’espropriazione dell’azione risarcitoria (contra, Trib. Milano 12 aprile 2006, in Giur. it., 2006, I, 2096, e Trib. Milano 4 maggio 2005, in Giur. it., 2005, 1653). Come poc’anzi evidenziato, il dato testuale regola una responsabilità degli amministratori verso la società, pertanto, attesa la naturale correlazione tra titolarità sostanziale del diritto e legittimazione ordinaria ad agire, non può disconoscersi in capo
alla stessa il potere d’azione, pena la compromissione del diritto atipico alla tutela giurisdizionale sancito dall’art. 24 Cost. (Trib. Marsala, ord., 1 aprile 2005, in Giur. mer., 2006, 2, 354, che
precisa come l’iniziativa giudiziale necessiti della previa delibera assembleare con la maggioranza prescritta dall’art. 2479, ultimo comma, c.c.; e Trib. S.M. Capua Vetere 20 gennaio
2004, in Foro it., 2008, 1, I, 331).
Legittimazione
straordinaria del socio
e litisconsorzio
necessario
Poiché il socio è autorizzato a far valere, nomine proprio e nell’interesse della società, la responsabilità dell’amministratore, è pacifico in giurisprudenza che quello agisca in veste di legittimato straordinario. Le principali conseguenze di carattere processuale che derivano da tale inquadramento sono il potere degli amministratori di proporre le eccezioni di rito e di merito opponibili alla società, la legittimazione di questa a impugnare la sentenza nonché l’interdizione
del socio dalla spendita dei poteri processuali che presuppongono la capacità di disporre del di-
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Itinerari della giurisprudenza
ritto litigioso (preclusione, questa, ricavabile anche dalla lettera dell’art. 2476, comma 5, c.c.).
È disputato però se la divergenza tra titolarità del diritto al risarcimento, che è in capo alla società, e la titolarità dell’azione, spettante ai singoli soci, realizzi un fenomeno di legittimazione
straordinaria stricto sensu o se, invece, integri gli estremi di una sostituzione processuale con
litisconsorzio necessario. Secondo un primo orientamento sarebbe da considerarsi pleonastica
la citazione in giudizio della società, configurandosi qui una sorta di legittimazione diffusa da
parte di ogni socio a far valere il diritto leso dell’ente. Società e socio, nella rispettiva veste di
sostituito e sostituto, sarebbero dunque la stessa parte giuridica, con conseguente normale
estraneità della prima rispetto al giudizio (Trib. Milano 30 giugno 2009, in Giust. a Milano,
2009, 7-8, 53). Altro argomento, che viene solitamente speso, fa leva sul dato testuale della
mancata riproduzione nell’art. 2476 c.c. dell’onere della chiamata in giudizio della società, che
è invece previsto dall’art. 2393 bis, comma 3, c.c. per le s.p.a. Da ciò viene inferita la volontà
legislativa di escludere un contraddittorio integrato con la partecipazione necessaria della società (Trib. Genova 28 febbraio 2008, in Riv. dir. comm., 2010, 1, II, 19; e Trib. Marsala 15
marzo 2005, in Giur. it., 2005, 1468. Si assesta su posizioni originali il Trib. Napoli 20 ottobre
2005, in questa Rivista, 2006, 5, 625, il quale afferma che l’attore agirebbe anche in nome della società, in quanto direttamente investito dalla legge delle funzioni gestorie e rappresentative
della s.r.l., analogamente a quanto previsto dagli artt. 2257, comma 1, e 2266, comma 2, c.c.).
Maggioritario è comunque l’orientamento opposto (Trib. Roma 6 giugno 2007, in Corr. mer.,
2007, 11, 1259; Trib. Treviso, ord., 16 gennaio 2006, in Giur. it., 2006, 10, 1878; Trib. Milano, ord., 21 dicembre 2005, n. 1009, in questa Rivista, 2007, 193; e Trib. Piacenza 23 agosto 2004, in Corr. mer., 2005, 25). Il percorso argomentativo fa leva sul principio generale - di
cui gli artt. 1012, comma 2, 2900, comma 2, e 2393 bis, comma 3, c.c. costituiscono specifica
applicazione - in virtù del quale il giudizio promosso dal legittimato straordinario deve necessariamente svolgersi in contraddittorio col titolare del rapporto litigioso affinché gli effetti della
sentenza possano essergli utilmente opposti (Trib. Roma 4 aprile 2005, in Giur. mer., 2005,
1563, e Trib. S.M. Capua Vetere, decr., 4 gennaio 2005, in DeJure, 2005). Ebbene, posto in
questi termini il problema, è preferibile concludere per la necessaria evocazione della società e
non solo perché in tal guisa si soddisferebbe l’interesse del convenuto a rendere opponibile
nei confronti della società il giudicato di rigetto della domanda, ma anche per ragioni di coerenza agli ineludibili principi del contraddittorio e del diritto di difesa. Nelle ipotesi in cui la legge,
attuando la riserva concessale dall’art. 81 c.p.c., attribuisce a terzi la legittimazione straordinaria a dedurre in giudizio una situazione giuridica altrui, il soggetto del rapporto controverso deve
essere messo in condizione di partecipare al processo di formazione di quella pronuncia. Per
tale motivo, qualora la legge non disponga diversamente, il titolare del diritto controverso è litisconsorte necessario nel relativo giudizio (Attardi, Diritto processuale civile, Padova, 1999,
319, e Proto Pisani, Dell’esercizio dell’azione, in Allorio (diretto da), Commentario del c.p.c., I,
Torino 1973, 1111 s.).
Nomina del curatore
speciale e sua
legitimatio
ad processum
Sussistendo una situazione di incompatibilità in re ipsa tra l’interesse dell’ente a vedere reintegrato il proprio patrimonio e l’interesse personale dell’amministratore a resistere alla pretesa risarcitoria, non potrà stare in giudizio, in nome e per conto della società, lo stesso amministratore convenuto. Il conflitto d’interessi va dunque rimosso a titolo precauzionale, senza necessità che se ne fornisca l’evidenza, mediante la nomina, ex art. 78 c.p.c., di un curatore speciale
che rappresenti provvisoriamente in giudizio la società in luogo dell’amministratore (Trib. Nola
2 novembre 2010, in Giur. mer., 2011, 1834; Trib. Genova, ord., 4 novembre 2005, in questa Rivista, 2007, 1, 76; e Trib. Catania 14 ottobre 2004, in Vita not., 2005, 1001). Diviene allora di fondamentale importanza determinare il contenuto della sua legitimatio ad processum.
Nell’assenza di un’esplicita disciplina la giurisprudenza riconosce che è nella disponibilità del
curatore il potere di chiedere l’accoglimento o il rigetto della domanda principale, dedurre argomenti e produrre o articolare prove, ma che gli è d’altro canto preclusa la facoltà di valutare
autonomamente l’opportunità di esercitare l’azione sociale. Il curatore - viene spiegato - non
sostituisce l’organo amministrativo di emanazione assembleare, come invece fa l’amministratore giudiziario, ma ha solo la rappresentanza processuale della società in ragione della situazione di contingente conflitto d’interessi. Precipitato di tale impostazione è che solo a seguito
della deliberazione assembleare, in analogia con quanto previsto dagli artt. 2393, comma 1, e
2393, comma 5, c.c., il curatore può assumere la relativa iniziativa processuale (Trib. Roma 17
dicembre 2008, cit.).
Revoca cautelare
dell’amministratore
di s.r.l. e tesi della sua
natura anticipatoria
Nel regime previgente, stante il rinvio operato dall’art. 2487 c.c. alla disciplina di cui all’art.
2393, comma 3, c.c., l’amministratore convenuto decadeva automaticamente dalla carica in
presenza della sola deliberazione assembleare. In luogo di tale strumento e del rimedio della
denunzia al Tribunale, l’art. 2476, comma 3, c.c. stabilisce che, in ipotesi di gravi irregolarità gestionali, può altresı̀ essere chiesto dal socio un provvedimento cautelare di revoca dell’amministratore. È noto come l’equivoca formulazione della norma e la sua anomala collocazione nel
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Itinerari della giurisprudenza
contesto di un’azione risarcitoria abbia dato adito a interpretazioni differenti, specialmente per
ciò che riguarda i presupposti della revoca e il rapporto tra la tutela di merito e la tutela interinale; profili questi che involgono la problematica della natura giuridica e del diritto oggetto della
cognizione cautelare. Al riguardo sembrano potersi delineare due generali e opposti orientamenti. Secondo una prima opzione interpretativa, l’azione sociale e l’azione cautelare di revoca, pur nella diversità del petitum processuale e sostanziale, si fonderebbero su una fattispecie
costitutiva parzialmente simile, ove la «inosservanza dei doveri» e le «gravi irregolarità nella
gestione» descriverebbero un’analoga causa petendi, consistente nella violazione dei doveri
giuridici posti dalla legge o dall’atto costitutivo. Le due fattispecie divergerebbero invece per il
fatto che mentre l’azione sociale presuppone un danno attuale al patrimonio, l’azione cautelare
postula un inadempimento che non deve essere, neppure in via potenziale, già foriero di danni
effettivi. Con la revoca si colpirebbero cosı̀ comportamenti anche non pregiudizievoli, purché
costituenti gravi irregolarità gestionali (Trib. Salerno 4 luglio 2006, in Corr. giur., 2007, 5,
703). Ne discende che ricorrerà il presupposto del fumus boni iuris qualora vi sia un probabile
inadempimento di non lieve entità agli obblighi legali o convenzionali. Il periculum in mora consisterà poi nel rischio che l’amministratore, rimanendo in carica, commetta ulteriori atti illeciti o
che diventi addirittura impossibile ripristinare la regolarità amministrativa violata (Trib. S.M. Capua Vetere, ord., 15 novembre 2004, in questa Rivista, 2005, 4, 477). Alla revoca viene riconosciuta da questo indirizzo una natura anticipatoria, anche se in seno allo stesso si registra
una divisione intorno all’individuazione del provvedimento principale rispetto al quale è strumentale. Ed invero, se alcune corti, nell’accogliere il ricorso proposto ante causam, non hanno
ritenuto di dover fissare il termine per l’instaurazione del giudizio di merito in considerazione
della natura anticipatoria dell’azione di responsabilità (Trib. Roma, ord., 31 luglio 2004, in Vita
not., 2005, 295, che vi scorge addirittura una forma di tutela in forma specifica, e Trib. Roma,
ord., 31 marzo 2004, in Giur. mer., 2004, 2254), non è mancato chi, valorizzando la disomogeneità tra la tutela risarcitoria e quella cautelare, si è spinto a sostenere che la revoca anticiperebbe gli effetti di una corrispondente azione costitutiva di merito (Trib. Salerno 4 luglio
2006, cit., e Trib. S.M. Capua Vetere, ord., 15 novembre 2004, cit.). A sostegno della tesi
viene spesso citato l’obiter dictum della Corte Cost. 29 dicembre 2005, n. 481 (in questa Rivista, 2006, 451) in cui il Giudice delle leggi afferma di intendere la qualificazione «cautelare»
nel senso di «strumentale (ed anticipatoria rispetto) ad un’azione volta ad ottenere una sentenza di revoca degli amministratori, perciò solo che nella gestione della società sono presenti
gravi irregolarità e v’è mero pericolo di danno per la medesima».
Tesi della natura
conservativa
della revoca cautelare
Tutt’altra prospettazione è fornita da un secondo filone che muove dall’assunto antitetico secondo cui le «gravi irregolarità nella gestione della società» consisterebbero in un inadempimento non lieve dell’amministratore che sia produttivo di un danno al patrimonio sociale già
concretamente verificatosi. Nonostante l’eterogeneità degli effetti prodotti, il provvedimento
cautelare di revoca, manterrebbe insomma il suo carattere di stretta strumentalità all’azione di
merito in quanto assicurerebbe l’effettività della tutela giurisdizionale del diritto a contenuto patrimoniale, impedendo la verificazione di conseguenze dannose ulteriori rispetto a quelle denunciate con la connessa domanda di responsabilità (Trib. Roma 5 agosto 2004, in questa Rivista, 2004, 1542). Logico risultato dell’assunto di partenza è quindi che il fumus consiste nella
verosimile sussistenza di un danno al patrimonio sociale e il periculum nel rischio che, nelle
more del giudizio di merito, il pregiudizio, supposto come attuale e da provarsi mediante l’istruttoria sommaria propria del procedimento cautelare, sia verosimilmente portato a più gravi
e irrimediabili conseguenze. Tuttavia, se per talune corti il diritto oggetto di cautela è quello al
risarcimento del danno, il cui conseguimento è posto in dubbio dal possibile aggravamento del
pregiudizio (Trib. S.M. Capua Vetere 16 luglio 2004, in Dejure), per altre la cautela non risponde all’urgenza di evitare il pericolo della mancata attuazione della condanna, bensı̀ è volto
a prevenire la reiterazione delle condotte inadempienti e, al contempo, a sanzionare gli amministratori (Trib. Roma 22 maggio 2007, cit.). Stando a questa impostazione la misura cautelare rivelerebbe quindi una natura conservativa rispetto alla sentenza di condanna di guisa che la
mancata proposizione dell’azione di responsabilità, come pure l’estinzione del giudizio di merito, determinerà la decadenza della misura cautelare.
(Im)proponibilità
ante causam
della domanda
cautelare di revoca
Nettamente diviso si rivela il panorama giurisprudenziale anche in merito alla questione della
proponibilità del ricorso cautelare anteriormente all’instaurazione della causa di merito; argomento su cui gli orientamenti sinora tratteggiati si scompongono e si riallineano in modo del
tutto trasversale. Sulla scorta dell’interpretazione letterale dell’art. 2476, comma 3, c.c., che fa
leva sulla previsione del rimedio cautelare nella stessa sedes materiae dedicata all’azione di responsabilità e immediatamente dopo quest’ultima - la locuzione «altresı̀», impiegata dal legislatore, sembra difatti agganciare sotto il profilo temporale la tutela interinale a quella di merito è prospettata la legittimazione attiva alla proposizione dell’istanza cautelare soltanto a quello
stesso attore che abbia già provveduto a instaurare il giudizio a cognizione piena ed esauriente
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Itinerari della giurisprudenza
(Trib. Vercelli, ord., 28 settembre 2006, in questa Rivista, 2006, 885; Trib. Ravenna, ord., 3
febbraio 2006, in Nuovo dir., 2006, 915; e Trib. S.M. Capua Vetere 20 luglio 2004, in questa
Rivista, 12, 1545. Con un’illazione non poco arbitraria il Trib. Agrigento, ord., 12 gennaio
2006, ivi, 2007, 8, 1009, e il Trib. Genova, ord., 6 settembre 2005, ivi, 2007, 1, 77, hanno ricollegato l’inammissibilità del ricorso ante causam rispettivamente alla natura conservativa e
alla mancanza di carattere strumentale della misura cautelare). Di diverso avviso si sono mostrate quelle corti che non hanno mancato di obiettare come il dato letterale dell’art. 2476,
comma 3, c.c. sia talmente debole da non consentire di essere univocamente interpretato nel
senso della proponibilità della cautela solo in pendenza di lite. Questo indirizzo ha ritenuto assorbente la circostanza che il regime codicistico del procedimento cautelare uniforme, tra cui
v’è anche la disciplina dettata dall’art. 669 ter c.p.c., va applicato, a norma dell’art. 669 quaterdecies c.p.c., a ogni provvedimento cautelare previsto al di fuori del codice di rito, salvo il limite dell’incompatibilità (Trib. Roma 27 luglio 2004, in DeJure). Come anche emerge dal confronto con gli artt. 23 e 2378 c.c., la proponibilità della tutela cautelare ante causam costituirebbe quindi una regola generale suscettibile di deroga solamente mediante un’inequivocabile volontà legislativa (Trib. Roma, ord., 11 giugno 2004, in Corr. giur. 2005, 263). Si è infine affermato che la diversa interpretazione, condizionando la revoca cautelare alla pendenza del giudizio di responsabilità a cognizione piena ed esauriente - che è, per evidenti motivi, incompatibile
con le ragioni di urgenza - si rivelerebbe fortemente riduttiva del potere di controllo del socio, il
quale abbisogna invece di reagire tempestivamente ai gravi illeciti gestori (Trib. Milano, ord.,
12 gennaio 2006, in questa Rivista, 2007, 1009). Ebbene, anche volendo limitarsi al solo dato
letterale, il senso fatto palese dal significato proprio delle parole non sembra consentire interpretazioni derogatorie del regime generale. Quel tormentato avverbio «altresı̀» non sembra dire altro che, oltre all’azione di responsabilità sociale, è concessa all’attore l’azione cautelare a
tutela del diritto fatto valere nel giudizio dichiarativo. Ogni altra esegesi è un’evidente forzatura
del dettato legislativo (non va poi sottaciuta la contraddizione che emerge in seno alla giurisprudenza nel momento in cui ammette la revoca cautelare ante causam degli amministratori
delle società di persone; v. Trib. Catania 19 dicembre 2003, in Vita not., 2004, I, 910, e Trib.
Biella 8 gennaio 2001, in Giur. it., 2001, 978).
Il provvedimento
di revoca come misura
cautelare assicurativa
L’interpretazione letterale non è certo sufficiente a risolvere il rebus della natura del provvedimento cautelare di revoca, verso la cui soluzione ci si può muovere solo mantenendosi saldamente piantati sul terreno della teoria generale. Il nodo problematico sta nell’asimmetria dei
presupposti e degli effetti della misura cautelare rispetto a quelli della decisione di merito che
rende incerta l’individuazione del diritto cautelando e, conseguentemente, del provvedimento
definitivo di cui la tutela interinale dovrebbe in via preventiva assicurare la fruttuosità pratica.
La sua decodificazione impone allora di individuare il thema della cognizione cautelare ossia il
diritto oggetto dell’emananda sentenza e il pericolo di danno giuridico, derivante dal ritardo del
provvedimento principale, dal quale si vuole preservare la pretesa. Impostato il problema in
questi termini e assunto che la caratteristica connotativa delle misure cautelari è la loro strumentalità ipotetica alla tutela di merito, sarà logica conseguenza che il diritto cautelando corrisponda a quello oggetto del correlativo giudizio di cognizione. Ebbene, a differenza di quanto
prefigurato nell’art. 2259, comma 3, c.c., un’azione sociale di revoca non è contemplata in materia di s.r.l. e la sua artificiosa configurazione si traduce nella «pretoria» enucleazione di un
provvedimento costitutivo elusivo del numerus clausus posto dall’art. 2908 c.c. a presidio dell’autonomia privata (Trib. Napoli 20 ottobre 2005, cit.). Non va neppure sottaciuto che il legislatore quando ha voluto richiamare il regime dettato per le società di persone lo ha espressamente fatto, come nell’art. 2475, comma 3, c.c., per cui il tentativo di introdurre un’azione cognitoria di revoca finisce per rivelarsi un arbitrario aggiramento della scelta legislativa (Trib. Genova 28 febbraio 2008, cit., e Trib. S.M. Capua Vetere, decr., 4 gennaio 2005, cit.). Se dunque dalla mera previsione di un provvedimento interinale non può ricavarsi a ritroso l’ammissibilità della stessa azione in sede di merito, bisogna concludere che il diritto cautelato è solo
quello al risarcimento del danno e il provvedimento di cui la revoca agevola e assicura il rendimento pratico è la sentenza di condanna. E non deve stupire che la funzione di garantire l’effettività della condanna possa adeguatamente essere soddisfatta da una misura a contenuto
conservativo o inibitorio giacché la revoca, prevenendo la nascita di più elevati crediti risarcitori, assicura di poter conseguire, in modo effettivo e agevole, il risultato pratico della sentenza
di accoglimento. Chi, all’opposto, ne nega la strumentalità alla condanna risarcitoria, per disconoscerne la natura cautelare e inferirne quella sommaria (cosı̀ Consolo, Note sul potere di revoca fra diritto e processo: è vera misura cautelare? Quale disciplina? Ante causam la revoca
dell’amministrazione ma non la inibitoria delle delibere?, in Corr. giur., 2005, 2, 274), deve però
ammettere che l’impossibilità di opporsi alla sommarietà del rito e di convertirlo quindi in un
processo a cognizione piena solleva delicate questioni di compatibilità con l’art. 24 Cost. Non
assicurando utilità equivalenti a quelle della pronuncia dichiarativa della responsabilità, va insomma esclusa la natura anticipatoria della revoca (cfr. Marinelli, Note in tema di tutela caute-
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Itinerari della giurisprudenza
lare nel nuovo rito societario, in Corr. giur., 2004, 1250). La cautela, prevenendo ulteriori danni,
sembra invece mirare a conservare lo stato di fatto affinché su di esso possa proiettare i propri
effetti la statuizione principale. La misura de qua rivela allora una natura più che altro inibitoria
in funzione assicurativa e ciò rievoca e avvalora l’illustre insegnamento per cui «anche i provvedimenti conservativi possono avere sotto un certo aspetto efficacia innovativa, in quanto
possono costituire una provvisoria inhibitio exercitii iuris» (Calamandrei, Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, Padova 1936, 27, nt. 1). In definitiva, dato che in
sede di merito non possono conseguirsi effetti di contenuto equivalente a quelli costitutivi del
cautelare, non può parlarsi di strumentalità attenuata e va esclusa l’applicabilità dell’art. 669 octies, comma 6, c.p.c. (a sgombrare il campo da un’equivoca terminologia che induce a un’erronea sovrapposizione di differenti profili, va precisato che a essere attenuata è la strumentalità
in senso cronologico del provvedimento ossia la provvisorietà degli effetti e non la sua strumentalità in senso funzionale, la quale non può mancare senza che ne venga meno la stessa
natura cautelare). Pur muovendo da postulati divergenti, gli opposti orientamenti giurisprudenziali hanno fornito soluzioni non dissimili a una serie di altre questioni. Si registra infatti una sostanziale unanimità intorno alla necessità di enunciare nel ricorso l’azione di merito che la parte
intende cautelare. È stato più volte ribadito che la strumentalità in senso cronologico non è
scomparsa, ma è solo stata attenuata, e che, pertanto, non può considerarsi obliterato quell’elemento del ricorso che consente al giudice di scrutinare la sussistenza di una dipendenza strumentale della revoca alla tutela dichiarativa. Se ne è concluso che nell’ambito dell’indicazione
dell’oggetto e delle ragioni del ricorso cautelare deve essere precisata la domanda di merito, la
quale si rivela indispensabile anche sotto altri molteplici profili, quali la valutazione della competenza ex art. 669 ter c.p.c. nonché l’accertamento del fumus e dell’effettiva instaurazione del
giudizio di cognizione ex art. 669 octies c.p.c. (Trib. Roma 22 maggio 2007, cit.).
Caducazione
del provvedimento
di revoca
e sostituzione
dell’amministratore
Una volta ottenuta la revoca, è concorde la giurisprudenza nell’escludere la possibilità di nominare un amministratore giudiziario, in quanto, da un lato, non residuerebbe in capo al giudice il
potere di sostituire l’amministratore provvisoriamente rimosso (prerogativa che spetta ai soli
soci ai sensi dell’art. 2479, comma 1, n. 2, c.c., su cui v. Trib. Catania 14 ottobre 2004, cit.)
e, dall’altro, sarebbe inammissibile l’applicazione analogica degli artt. 2409 e 2545 sexiesdecies c.c. attesa la loro natura tipica ed eccezionale (Trib. S. M. Capua Vetere 20 gennaio
2007, in Foro it., 2008, 1, I, 331). Sia detto per inciso che l’art. 2479, comma 1, n. 2, c.c. non
contempla espressamente, tra le competenze rimesse alla decisione dei soci, il potere di revoca degli amministratori, ciò malgrado non si vede a quale altro organo debba spettare siffatta
decisione (Trib. Marsala, ord., 1 aprile 2005, cit., e Trib. S.M. Capua Vetere, ord., 15 novembre 2004, cit., secondo cui occorre una previa deliberazione dei soci, i quali potrebbero
decidere anche di revocare l’amministratore senza alcun automatismo analogo a quello descritto nell’art. 2393, comma 4, c.c.). Resta però da chiarire se, in caso di accoglimento della domanda di merito, il provvedimento di revoca sia destinato a essere caducato o se, quantunque
privo dell’autorità di cosa giudicata, sia ultrattivo. La sentenza non può invero contenere statuizioni sulla permanenza degli amministratori né gli effetti della revoca rimangono assorbiti dal
contenuto del provvedimento che definisce il giudizio di merito. Non sembra allora vi siano alternative ad ammettere che, anche in ipotesi di accoglimento dell’istanza risarcitoria, sono destinati a vanificarsi gli effetti del provvedimento cautelare con il conseguente ripristino, in capo
agli amministratori, della titolarità dell’ufficio gestorio (Trib. Napoli 20 ottobre 2005, cit.). La
soluzione è peraltro conforme alla prospettiva privatistica del controllo disegnato dalla riforma,
che esclude ogni ingerenza giudiziaria esterna ed esalta la regolamentazione contrattuale degli
interessi sociali. L’inconveniente può essere comunque agevolmente evitato con la sostituzione degli amministratori da parte dell’assemblea, che vedrebbe cosı̀ restituito il potere previsto
dall’art. 2479, comma 2, n. 2, c.c. Si consideri altresı̀ che l’eventuale inerzia dell’assemblea va
sanzionata con la liquidazione della società, a norma dell’art. 2484, comma 1, n. 3, c.c., per impossibilità di funzionamento dell’organo preposto alla nomina degli amministratori (Trib. Salerno 29 settembre 2007, in DeJure, e Trib. Napoli 22 marzo 2005, in Corr. giur., 2007, 704, i
quali, peraltro, hanno ritenuto di poter revocare ante causam gli amministratori con l’impiego
del provvedimento d’urgenza, trascurando che quella di cui all’art. 700 c.p.c. è una tutela soltanto residuale. Contra, Trib. Ravenna, ord., 25 novembre 2005, in Giur. comm. 2007, 4, II
874).
L’azione dei soci
di minoranza e la tutela
cautelare di revoca
Prima di concludere la disamina degli orientamenti giurisprudenziali formatisi in tema di revoca
dell’amministratore, affrontando la questione sotto il profilo della modulazione delle tutele e
degli strumenti processuali concessi ai soci di minoranza, sia concessa una digressione con riguardo all’azione sociale ex art. 2393 bis c.c., su cui non si registrano ancora interventi giurisprudenziali. È evidente come la scarsa propensione all’esercizio di questa azione, che nelle intenzioni del legislatore avrebbe dovuto costituire un’altra importante novità della riforma, dipenda dalla presenza di taluni fattori che ne disincentivano l’impiego [a es. il fatto che i benefici
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Itinerari della giurisprudenza
risarcitori siano destinati interamente alla società, che le spese di lite debbano essere anticipate dai soci attori e che non sia previsto il diritto di accesso alla documentazione societaria]. Ma
tornando alla revoca dell’amministratore supposto infedele, si ricordi che mentre nelle s.r.l. il
provvedimento è conseguenza di un’iniziativa cautelare del socio, la disciplina positiva delle
s.p.a., all’opposto, ne prevede la rimozione mediante una ‘‘misura cautelare endosocietaria’’,
automaticamente ricondotta dall’art. 2393, comma 5, c.c. alla delibera assembleare. Un’analoga tutela cautelare non è stata invece prevista dal legislatore in funzione dell’azione di responsabilità promossa dai soci di minoranza ai sensi dell’art. 2393 bis c.c. La lacuna normativa pone
dunque l’interrogativo se l’azionariato di minoranza sia o meno legittimato, alla stregua di quanto previsto dall’art. 2476, comma 3, c.c., all’esperimento di un’azione cautelare di revoca, magari ai sensi dell’art. 700 c.p.c. Al quesito la giurisprudenza ha risposto negativamente sulla base di una serie di argomentazioni. S’è detto, anzitutto, che il legislatore ha consapevolmente
omesso una siffatta cautela proprio allo scopo di evitare la paralisi della gestione sociale a opera di una minoranza che non condivida le scelte imprenditoriali. Essendo concessa ai soci di
minoranza lo strumento della denunzia al tribunale, che prevede non solo l’ispezione, ma, nei
casi più gravi, anche la revoca dell’amministratore, si è aggiunto che sarebbe comunque da
escludere l’ammissibilità della tutela d’urgenza per difetto del requisito di residualità. In terzo
luogo, è stata negata anche l’applicazione analogica del rimedio di cui all’art. 2476, comma 3,
c.c. sostenendo che, essendo la s.r.l. accostabile più alle società di persone che non alle
s.p.a., non ricorrerebbe il presupposto dell’eadem legis ratio (Trib. Mantova 10 luglio 2008, in
Giur. mer., 2009, 716). Va tuttavia replicato che l’esclusione del ricorso all’art. 700 c.p.c., in ragione dell’esistenza del rimedio tipico della denuncia al tribunale, si fonda su un’erronea sovrapposizione di strumenti processuali incomparabili. Se, infatti, la tutela risarcitoria è preordinata a ristorare il danno inferto al patrimonio sociale nell’ambito di una procedura contenziosa,
il controllo esterno ex art. 2409 c.c. è invece espressione di un’attività di volontaria giurisdizione volta a rimuovere gli abusi degli amministratori. Trattandosi dunque di tutele operanti su
piani diversi, non sembra concettualmente corretto invocare il difetto di residualità. Al contrario
nulla esclude che possa ricorrere, anche in caso di azione della minoranza, l’urgenza di assicurare l’utilità della tutela risarcitoria mediante un provvedimento cautelare a contenuto inibitorio
dell’attività dell’amministratore rimasto in carica. A tali argomenti le corti appaiono però insensibili. Nell’ottica giurisprudenziale, infatti, l’ordinamento appresta due rimedi alternativi in ragione della diversa rilevanza e del differente ruolo che assumono i soci nella gestione e nel controllo dei due modelli organizzativi. La modesta dimensione della compagine sociale, il più intenso vincolo fiduciario corrente tra i soci e gli amministratori nonché l’accentuata rilevanza
dell’elemento personalistico non consentirebbero, stando ai primi pronunciamenti, di riconoscere all’azionariato di minoranza, il cui accesso alla tutela giurisdizionale rimane ancorato alla
misura delle singole partecipazioni, gli estesi poteri concessi ai singoli soci di s.r.l. Se la ratio
politica sottesa a questa tutela processuale - cosı̀ mal congegnata - era insomma quella di cedere al mercato la composizione di tali liti sociali per sottrarle alla competenza delle aule di giustizia, l’operazione sembra finora riuscita.
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