discriminazione nel mondo del lavoro
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discriminazione nel mondo del lavoro
Ministero del Lavoro Provincia di Avellino e delle Politiche Sociali Ufficio Consigliera di Parità DISCRIMINAZIONE NEL MONDO DEL LAVORO a cura di: Domenica Marianna Lomazzo Ufficio della Consigliera di Parità Provincia di Avellino Pubblicato ad Avellino – Giugno 2005 Alle donne cadute sul lavoro. Alle donne portatrici di pace. 2 PREFAZIONE Adottare tutte le misure necessarie, volte ad eliminare ogni forma di discriminazione, equivale a contribuire a realizzare una società più giusta, una società concretamente democratica, una società dove vengano garantiti pari diritti di cittadinanza, pari opportunità, eguaglianza nei diritti, armoniosa collaborazione e solidarietà tra i sessi. E’ al divieto di ogni forma di discriminazione a causa di fattori, quali: la razza, l’età, la lingua, l’etnia, la cultura, la religione, l’handicap e il sesso, è alla tutela della dignità della persona e del lavoro che si ispirano i principi fondamentali della nostra Carta costituzionale, la legislazione europea e la Carta dei diritti fondamentali dell’uomo. E’ sotto la spinta fondamentale di direttive e raccomandazioni europee che sono state introdotte nel nostro ordinamento leggi significative di contrasto alle discriminazioni e finalizzate alla promozione di azioni positive, tese al raggiungimento di un riequilibrio della presenza di uomini e donne in tutti gli ambiti della vita sociale, a partire da quello del lavoro. Contribuire a realizzare la democrazia sostanziale significa agevolare l’applicazione delle normative recepite nel nostro ordinamento, significa diffonderne la conoscenza ed avere come obiettivo un modello di società organizzata sulle esigenze della famiglia, degli uomini e delle donne, dei bambini e degli anziani, delle donne madri, mogli, figlie . Ciò presuppone una rivoluzione culturale, un abbattimento delle barriere dei pregiudizi e delle ironie, che ancora permangono in troppi ambienti e in larghissimi strati della nostra società, attorno alle tematiche delle pari opportunità. L’obiettivo della realizzazione dell’uguaglianza sostanziale tra tutti i soggetti, uomini e donne, richiede un percorso di impegno costante da parte di tutti: istituzioni, organismi di parità, associazioni di genere, organizzazioni sindacali ed imprenditoriali.. In ossequio ai compiti, che in virtù del Dlgs.196/2000 vengono affidati alla Consigliera di parità, nella nostra provincia è stato avviato un percorso di diffusione e di approfondimento delle conoscenze sulle problematiche delle pari opportunità tra uomini e donne, sul concetto di discriminazione di genere, sulle normative di contrasto alle discriminazioni sui luoghi di lavoro. La prima tappa di questo percorso è stata l’elaborazione e la diffusione di una brochure descrittiva dei casi più ricorrenti di discriminazione, che si possono verificare sui luoghi di lavoro, certo non esaustiva, ma sufficiente a dare utili informazioni agli uomini e soprattutto alle donne, che sono le più interessate al fenomeno. 3 La seconda tappa è stata quella di dotare l’ ufficio della Consigliera di un elenco di legali giuslavoristi, esperti in materie di parità e pari opportunità . Nel corso di queste iniziative si è avuto modo di registrare la scarsa attenzione, da parte di diversi studiosi del diritto e degli operatori del diritto in particolare, verso le problematiche relative alle discriminazioni sui luoghi di lavoro, soprattutto a quelle dovute al genere. Perciò si è ritenuto necessario realizzare Seminari di studio e di approfondimento sulle varie tipologie di discriminazioni , con l’obiettivo, quindi, sia di rilanciare con forza una politica di conoscenza e di ampliamento dottrinario e giurisprudenziale sulle normative e sulle prassi europee e nazionali di contrasto alle discriminazioni sui luoghi di lavoro sia di promuovere, attraverso gli organismi deputati, la effettiva realizzazione dell’ uguaglianza sostanziale, sancita nella nostra Carta costituzionale. Ad oggi c’è, purtroppo, da registrare una non cospicua giurisprudenza in materia di discriminazioni nel mondo del lavoro dovute soprattutto al genere, e ciò in contrasto anche con una realtà dove esse sono molto evidenti e dove permangono non solo dislivelli retributivi tra uomini e donne pure a fronte di uguale lavoro, ma anche difficoltà di carriera e l’impiego delle donne in settori tipici e con tipologie contrattuali, che offrono minori garanzie di permanenza nel mondo del lavoro con la conseguente amplificazione del lavoro sommerso. Le statistiche sono chiare, eppure le donne continuano ed essere restie ad intentare procedure giudiziarie anche a fronte di palesi e sofferte discriminazioni. Sicuramente ciò é dovuto sia alla scarsa conoscenza, che esse hanno delle forme di tutela esistenti, sia, temo , alla scarsa fiducia nei confronti degli organismi che dovrebbero tutelarle. Certamente il nostro ordinamento, con lo Statuto dei lavoratori, era riuscito a garantire una tutela ampia in materia di lavoro, perché, probabilmente, il ricorso alle norme in esso contenute erano esaustive pure nel contrastare le eventuali discriminazioni sui luoghi di lavoro. Ma, ora, dalla riforma del mercato del lavoro, realizzata con la Legge 30 del 2003 e con il relativo decreto attuativo, il D.lgs. 276 del 2003 ( che introduce tipologie contrattuali flessibili a carattere temporaneo e atipico, sicuramente in risposta alle esigenze della produzione), sono derivate attenuazione di forme di tutela, minori garanzie e debolezza contrattuale da parte dei lavoratori, per cui si può ipotizzare una crescita dei fenomeni di discriminazione sui luoghi di lavoro, e ciò soprattutto dove il mercato del lavoro è già debole, per cui è probabile un ricorso maggiore, rispetto al passato, agli strumenti di tutela giudiziale, previsti dalle normative specifiche e oggetto dei seminari di studio realizzati. 4 Inoltre credo che siano maturi i tempi perché si affermi una cultura di genere nei tribunali e soprattutto una nuova coscienza sulle donne. Come credo che sia giunto il momento di dare concreta attuazione alla cospicua produzione di normative, che sanciscono l’uguaglianza sostanziale attraverso la promozione di azioni positive e che vengono ancora, tranquillamente, ignorate in troppi ambiti della nostra società, a partire da quello del lavoro La legge 53/2000, soprattutto per quanto riguarda l’armonizzazione dei tempi della città, è l’esempio emblematico di come tante normative siano rimaste solo delle mere enunciazioni. Promuovere, quindi, una conoscenza approfondita delle norme di contrasto alle discriminazioni sui luoghi di lavoro equivale a fornire gli strumenti idonei affinché i soggetti discriminati possano difendersi. Chiarire il concetto di discriminazione significa renderlo conoscibile a tutti. La legge 125/91 ne ha delineato una definizione particolarmente forte, operando una precisa distinzione tra discriminazione diretta ed indiretta. La prima consiste in “atti, patti o comportamenti che producono un effetto pregiudizievole discriminando, anche in via indiretta, i lavoratori in ragione del sesso”. Ai fini della sussistenza della fattispecie discriminatoria è rilevante, quindi, l’effetto del comportamento adottato, mentre è irrilevante l’ intento discriminatorio. La conseguenza sul piano pratico e sull’azionabilità del diritto è rilevante, in quanto non occorre un’indagine mirante alla individuazione di uno specifico atteggiamento psicologico del soggetto, che mette in atto il comportamento discriminatorio. Ancora più pregnante appare il concetto di discriminazione indiretta, che consiste in “ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore lavoratori dell’uno o dell’altro sesso e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa” . In pratica si ha discriminazione indiretta ogni volta che si adotta un trattamento uguale e apparentemente neutro a soggetti diversi (gli uomini e le donne) e che, quindi, produce effetti proporzionalmente più negativi per l’uno o per l’altro sesso. Dopo il trattato di Amsterdam, elevato il principio antidiscriminatorio a principio fondamentale dell’ordinamento giuridico comunitario, principio consacrato successivamente nella Carta di Nizza, vengono emanate tre importanti direttive in materia antidiscriminatoria. Con l’emanazione del decreto legislativo 216 del luglio 2003,in attuazione della direttiva 78 /2000 e riguardante la parità di trattamento in materia di 5 occupazione e di condizioni di lavoro, indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale, vengono disposte le misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di discriminazione sia per l’accesso all’ occupazione e al lavoro autonomo o dipendente, sia per la progressione nella carriera, la retribuzione e le condizioni di licenziamento, l’accesso a tutti i tipi di orientamento e formazione prof.le ecc. ecc. . E’ l’emanazione del Dlgs. 215/2003, in attuazione della direttiva 43/2000, ad evidenziare la parità di trattamento tra le persone, indipendentemente dall’origine etnica e dalla razza. Questo decreto considera discriminatorie anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati e posti in essere con lo scopo o l’effetto di violare la dignità umana di una persona. La terza direttiva 73/2002, recentemente recepita nel nostro paese, che modifica la direttiva 76/207/CEE ,e relativa al divieto delle discriminazioni in base al sesso,è da ritenersi rivoluzionaria in quanto legittima l’adozione delle misure di azione positiva finalizzate all’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne ,per quanto riguarda l’accesso al lavoro ,alla formazione ,alla promozione professionale e le condizioni di lavoro. E’ un provvedimento che sicuramente va a migliorare la legge 125/91 in materia di azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro. Le direttive, recepite nel nostro paese attraverso i su richiamati decreti legislativi, hanno modificato notevolmente il concetto di discriminazione indiretta : infatti, mentre per quella operata in base al sesso, si faceva riferimento allo svantaggio proporzionalmente maggiore, cioè ad una disparità statisticamente significativa che richiedeva, quindi, il ricorso alla prova statistica ( ampiamente e agevolmente usata dai giudici americani , ma poco usuale nella nostra realtà), secondo questa nuova accezione ( e a partire da queste nuove forme di discriminazione ) si è ritenuto sufficiente che si verifichi un particolare svantaggio . Ciò significa, condividendo l’autorevolissima riflessione della professoressa Barbera, che si sta andando verso una definizione del concetto di discriminazione, che tende a superare il suo carattere tradizionale di giudizio di comparazione. Secondo il nuovo approccio si è discriminati non solo se si viene trattati peggio degli appartenenti al gruppo di maggioranza ( gli eterosessuali, la razza maggioritaria , la confessione religiosa prevalente e il sesso), ma anche quando si è svantaggiati a causa della propria condizione soggettiva tout court. 6 Una ulteriore novità, introdotta dalla nuova direttiva, è rappresentata dal comprendere tra i casi di discriminazione anche le molestie sessuali e le molestie, distinguendo tra le due fattispecie. Le vittime hanno diritto al risarcimento del danno anche non patrimoniale. Il problema delle discriminazioni sui luoghi di lavoro non si esaurisce con le fattispecie di discriminazioni dovute al sesso, ma comprende sicuramente quel fenomeno in larghissima espansione anche nel nostro paese che, privo di una fattispecie tipica, viene definito mobbing. A questo fenomeno il legislatore deve dare una risposta sicuramente più puntuale e concreta in termini di tutela. L’unica legge sul mobbing, ma dichiarata incostituzionale per difetto di competenza, è stata emanata dalla regione Lazio nel 2002, sicché ad oggi si può realizzare opera di prevenzione al fenomeno istituendo sui luoghi di lavoro i comitati paritetici, previsti dai contratti collettivi. I seminari di studio realizzati hanno approfondito le problematiche ricordate sia abbracciando tutti gli aspetti delle discriminazioni che possono verificarsi nel mondo del lavoro, compreso il lavoro minorile sia evidenziando il concetto di uguaglianza con l’offrire argomentazioni e strumenti giuridici di contrasto quando questo viene violato in ambito lavorativo. Pertanto ringrazio i docenti per l’impegno profuso e soprattutto per la stimolante ricerca di soluzioni al contrasto delle discriminazioni e per la realizzazione dell’effettiva uguaglianza tra uomini e donne sui luoghi e nel mondo del lavoro.Un ringraziamento particolare va alla instancabile e brillante prof.ssa Staiano per la preziosa collaborazione, agli estensori delle riflessioni che sono oggetto della presente pubblicazione , al Presidente dell’ordine degli avvocati della provincia di Avellino Avv.De Lucia, al già assessore al lavoro dott. Luigi Cardillo. Lungo questo percorso, per approfondire ulteriormente la ricerca di soluzioni, dobbiamo tutti sentirci impegnati, intellettuali, istituzioni, organismi di parità, associazioni sindacali e datoriali, ricordandoci sempre che i diritti delle donne sono diritti umani e che l’approdo ai diritti fondamentali consiste nell’assicurare agli uomini e alle donne le pari opportunità di partecipazione in maniera libera e dignitosa alla realizzazione della democrazia sostanziale, che è a fondamento del nostro contratto sociale. Il progetto, che è stato realizzato e che ha visto la partecipazione attenta di centoventi tra avvocati e funzionari della direzione provinciale del lavoro, rappresenta un dato che ci ha fatto comprendere di aver intrapreso la strada giusta per intessere una collaborazione proficua con gli operatori del diritto ed in particolare con i legali giuslavoristi, perché, attraverso lo scambio di 7 esperienze e dati, si possono più facilmente fare emergere le condotte giuridicamente censurabili dei datori di lavoro e prevedere politiche del lavoro tese ad evitare conflitti. Promuovere la necessaria cultura sulle pari opportunità partendo proprio dalla diffusione della conoscenza dei diritti delle donne e degli uomini nel mondo del lavoro, sanciti nella nostra legislazione vigente, è uno dei compiti principali della Consigliera di parità. Su questa strada continueremo il percorso avviato, con la consapevolezza che la tutela della dignità umana sui luoghi di lavoro e nel mondo del lavoro deve essere un principio inviolabile, al quale una società civile, democratica, come vuole essere la nostra società, deve dare concreta attuazione. Consigliera di Parità Domenica Marianna Lomazzo 8 INTRODUZIONE Con il presente volume, che si avvale del contributo di tante persone impegnate nella pubblica amministrazione, ritengo si creino le basi per approfondire il ragionamento su come il problema delle discriminazioni debba essere posto ed affrontato. Emerge la necessità di predisporre interventi mirati a superare condizioni di disagio che non debbono appartenere alla nostra società. Del resto non possiamo consentire che un fenomeno come il mobbing continui a restituire dati allarmanti. Bisogna, allora, modificare il sistema di relazioni umane avviato, appunto, nel mondo del lavoro, i cui limiti sono talmente evidenti da non potere essere più tollerati. Il dettato costituzionale, uno dei più avanzati ancora oggi, è molto chiaro nel punto in cui fa riferimento ai principi che tutelano la dignità della persona e del lavoro. E’ di tutta evidenza, però, la scarsa presenza delle donne nei luoghi decisionali, siano essi le istituzioni elettive, le istituzioni culturali, le amministrazioni dello Stato, il managment pubblico e privato. In Italia le percentuali di scolarizzazione e di conseguimento dei diplomi e delle lauree hanno visto le donne, nel corso del tempo, superare gli uomini sia dal punto di vista numerico che di livello di votazione raggiunta. A fronte di ciò, però, non vi è analogo riscontro né nel mondo del lavoro né in quello delle rappresentanze istituzionali. La Costituzione italiana ha affermato importanti principi che non hanno ancora trovato piena applicazione. Il dettato è tanto avanzato e innovativo che la legislazione successiva ha stentato a mantenersi su un pari livello. Ad esempio, l’art. 13 afferma che libertà della persona umana è inviolabile e che a nessuno può essere tolta e in nessuna forma. La legislazione ordinaria per decidere che il reato di violenza sessuale è reato contro la persona e non contro il buon costume ha atteso il 1996. Ancora, l’art. 29 sancisce l’assoluta pari dignità dei coniugi nella famiglia, ma per ottenere un diritto di famiglia non più fondato sul principio che l’uomo è il capofamiglia e la moglie lo deve seguire ove lui desideri stabilire la residenza, nonché per fondare la famiglia sul principio dell’uguaglianza giuridica e del pari rispetto e pari opportunità dei coniugi, il legislatore ha atteso il 1975. Sebbene poi all’art. 3 comma 2 si affermi che bisogna fare in modo che non vi sia nell’accesso alle cariche di lavoro ed elettive alcuna differenza di sesso, di religione, di razza, quindi, alcuna discriminazione, una legge 9 elettorale approvata dal Parlamento che stabiliva azioni positive a questo fine fu dichiarata incostituzionale. Da allora il Parlamento è andato avanti, approvando, prima in Commissione bicamerale all’unanimità la dizione “ pari accesso alle donne” poi, al termine della passata legislatura, vi è stata a larghissima maggioranza la modifica dell’art. 51 della Costituzione che interviene sul problema dell’esigua rappresentanza femminile, segnale di una carenza di autentica democrazia nel nostro paese, promuovendo con appositi provvedimenti le pari opportunità. La democrazia italiana si priva dell’apporto del soggetto della riproduzione e della produzione. La donna ha una sensibilità pari, per dignità, a quella degli uomini, ma anche diversa perché è madre e, pertanto, ha un legame con la vita che l’uomo non ha. Anche per questo il mio impegno da sempre è volto a favorire azioni positive attraverso le quali dare risposte concrete alla forte richiesta di occupazione che viene dall’Irpinia e dall’intero Mezzogiorno. In questa logica rientra le decisione di creare tre PIL (Punti incontro lavoro) a Solofra, Atripalda e Baiano in grado di fornire soluzioni immediate e promuovendo una capillare informazione. Oggi possiamo contare su una legislazione che dispone di misure importanti a contrastare forme di discriminazione e che consentano di realizzare una democrazia sostanziale in cui, a cominciare dal mondo del lavoro, uomini e donne possono realmente avere pari diritti, pari doveri e pari opportunità. Essa va resa ancora più efficace per assicurare alle donne di uscire dai ruoli marginali ai quali sono state relegate. Sono ancora troppe le persone, per la maggior parte donne, che subiscono, impotenti, per paura, ricatti e soprusi sui luoghi di lavoro. Ciò dipende anche dalla scarsa conoscenza di quelli che sono gli strumenti di cui avvalersi per tutelare se stessi non solo come lavoratori ma anche come persone. Vanno poste in essere azioni di contrasto delle condizioni di esclusione delle donne dal mercato del lavoro attraverso iniziative specifiche di formazione e favorendo politiche culturali di genere. In questo senso è meritoria l’opera di informazione che l’ufficio della Consigliera di pari opportunità ha voluto predisporre per rendere consapevoli le donne e anche gli uomini dei propri diritti e doveri. Presidente della Provincia On. Alberta De Simone 10 INDICE – SOMMARIO Prefazione dell’opera……………………………. pag. 3 di Domenica Marianna Lomazzo –Consigliera di parità Introduzione ……………………………………………pag.9 di On. Alberta De Simone-Presidente Provincia di Avellino *** Discriminazioni sul lavoro e principi costituzionali di Gerardo Sola 1. Introduzione…………………………………..pag.15 2. Il “lavoro” come fondamento dello Stato…….pag. 16 3. Principio di uguaglianza formale, pari dignità Sociale e discriminazioni sul lavoro………… pag. 17 3.1 Principio di uguaglianza sostanziale e discriminazioni sul lavoro…………………………………… . pag.20 4. Conclusioni……………………………………pag. 22 La “pari” retribuzione di Marco Alaia…………………………………….. pag.24 Casi specifici di discriminazione di Filomena Ferrara………………………………...pag.31 11 Divieto di licenziamento, dimissioni e diritto al rientro nel testo unico per la tutela della maternità e della paternità di Chiara Lensi 1. Aspetti problematici del divieto di licenziamento per maternità …………………………………………. pag.40 2. Profili di invalidità delle dimissioni rassegnate in conseguenza dello Stato di gravidanza…………….pag.48 3. Il diritto al rientro ed alla conservazione del posto di lavoro tra tutela della professionalità e diritto alla “stabilità geografica”……………………………………….. pag.52 Il lavoro minorile: fonti normative internazionali, nazionali ed europee di Roberta Caragnano…………………………… .pag.54 Il lavoro minorile in Italia e le prospettive d’intervento di Franco Elio Castellucci 1. Le definizioni e il campo di applicazione.….. …pag.62 2. I requisiti: età, istruzione e sanitari…………. …pag.63 3. Il rapporto di lavoro…………………………….pag.65 4. I lavori vietati…………………………………...pag.67 5. Conclusioni……………………………………..pag.69 Le azioni positive nella pubblica amministrazione di Francesco Fasolino 1. La riforma della pubblica amministrazione e le pari opportunità…………………………………….pag.74 2. Dalla legge n. 125/1991 al d.lgs. n. 196/2000.. pag.78 2.1. La Consigliera di parità: compiti e funzioni…..pag.82 3. Il piano di azioni positive……………………..pag.84 3.1 Gli obiettivi………………………………… pag.84 3.2 I contenuti e gli strumenti…………………….pag.86 3.3 L’attuazione del piano: i soggetti, il controllo in itinere e il controllo ex post. 12 Art. 57 del D. Lgs. 165/2001: PARI OPPORTUNITA’ NEL P.I. di Cristina De Rose………………………………. pag.88 Il TAR è competente in materia di lavoro di Francesco Guadieri……………………………..pag.94 Discriminazione diretta ed indiretta nel diritto comunitario di Paola Somma 1. Introduzione………………………………… ..pag.96 3. Il principio di parità retributiva……………….pag..98 4. Le discriminazioni retributive………………...pag.101 5. La parità di trattamento……………………….pag.103 6. Le discriminazioni indirette…………………..pag.106 Il mobbing in Italia tra dottrina e giurisprudenza di Marco Dibitonto 1. Il “mobbing”, definizione, soluzioni e teorie dottrinali …………………………………………………pag.109 2. La giurisprudenza sul mobbing: la prima sentenza Italiana sul mobbing………………………… pag.112 3. L'azione da mobbing ha natura contrattuale……pag.115 3.1. Mobbing e il risarcimento diventa privilegiato..pag.120 3.2. La responsabilità civile del datore di lavoro…..pag.124 3.3. La responsabilità civile dei colleghi di lavoro ..pag.125 3.4. La responsabilità penale………………………pag.125 3.5. Il danno risarcibile e conclusioni……………..pag.126 I profili penali del mobbing di Carlo Longobardo 1. Necessità di un inquadramento del fenomeno……...pag.128 2. Il mobbing nella giurisprudenza penale…………… pag.131 3. Opportunità di una criminalizzazione del mobbing?.pag.135 13 Il mobbing e la Pubblica Amministrazione: i c.d. codici anti-mobbing di Rocchina Staiano 1. Premessa………………………………………….pag.140 2. Codice di condotta dell’USL 10 di Firenze………pag.141 3. Regolamento anti-mobbing della Provincia di Ragusa ……………………………………………………pag.143 4. Codice Etico dell’Azienda Sanitaria Ospedaliera OIRM – S. Anna di Torino………………………pag.144 Il mobbing in Europa di Fausto Troilo 1. Mobbing nei Paesi Scandinavi……………………pag.147 2. Mobbing in Svizzera……………………………...pag.149 3. Harcèlement moral in Belgio e in Francia………..pag.151 *** APPENDICE Rassegna giurisprudenziale della Corte di Giustizia CE sulla discriminazione indiretta di Rocchina Staiano ………………………………..pag.153 Allegati Rassegna di giurisprudenza italiana di Rocchina Staiano…………………………… pag.160 Normativa di Domenica Marianna Lo mazzo…………….. pag.168 14 DISCRIMINAZIONI SUL LAVORO E PRINCIPI COSTITUZIONALI di Gerardo Sola (Cultore di Dir. Amministrativo-Università di Salerno) 1. Introduzione La nostra Carta fondamentale – com’é noto- rinviene le sue radici istituzionali in una congiuntura storica di crisi irreversibile, successiva alla dissoluzione del ventennale modello di Stato autoritario. Siffatto modello fondava il proprio equilibrio e -dunque- il proprio cardine nella funzione preponderante dello Stato, i cui precipui obiettivi erano immedesimabili -in estrema sintesi- nella tutela della libertà e proprietà dei privati e nella individuazione del titolo attributivo del potere di partecipazione politica -subordinato al possesso del censo o della cultura- reputato indispensabile allo status di cittadino provvisto dell’autonomia necessaria ad esimersi dalle suggestioni di interessi particolaristici e sottratto, viceversa, al lavoratore subordinato. Infine, a completare il quadro concorreva il divieto di ogni forma d’intermediazione fra i singoli e lo Stato, considerata di intralcio al rapporto di immediatezza che deve connetterli, e non richiesta per i cittadini ma esclusivamente per i titolari delle cariche di direzione politica. Al Costituente fu ben viva la coscienza di tale dissonanza e l’urgenza di tracciare il percorso funzionale al suo superamento, che colse la sua magistrale espressione nell’articolo 3 del dettato costituzionale allorquando si alloca il lavoro come base della costituenda Repubblica democratica. Il lavoro, perciò, assurge a valore da acquisire come elemento essenziale al ripristino di un processo di progressiva ricomposizione della base sociale, conditio sine qua non per l’emersione di una corrispondente struttura organizzativa di un nuovo tipo di correlazione fra comunità e Stato. Si deve, quindi, ritenere che la formula “fondata sul lavoro”, consacrata nella nostra Costituzione, corrisponda all’esigenza di individuare il valore che sarebbe necessario assumere per conferire concretezza al principio costituzionale medesimo. Il lavoro, dunque, si erge ad elemento fondamentale e caratterizzante la nuova forma dello Stato. 15 2. Il “lavoro” come fondamento dello Stato. Alla luce di quanto testé asserito, risulta - sine ulla dubitationecondivisibile l’opinione secondo cui la Costituzione non ha inteso ingenerare uno Stato classista, monopolizzato cioè dalla sola classe dei lavoratori manuali. Tutto ciò -per altro- coincide con la constatazione di come, il movimento che ha condotto alla convocazione della costituente, non ha elevato a protagonista il solo proletariato, ma forze sociali miste. L’esistenza di classi disgregate da interessi giustapposti e tali da determinare fra loro una situazione di eterogeneità, ha condotto ad abbinare a norme strumentali volte alla progressiva emancipazione delle classi più deboli -in linea con il metodo evolutivo- norme finalistiche relative all’assetto da conseguire onde azzerare la contrapposizione e concretare, così, una solidarietà fondata sul principio del lavoro. La Costituzione, orbene, propende al superamento del classismo, non nel senso di instaurare un generale pareggiamento di trattamento retributivo che esuli dai meriti di ognuno, bensì in quello di neutralizzare un contrasto fra classi, cagionato dall’esistenza di situazioni di vantaggio non corrispondenti al senso di giustizia avvertito dalla coscienza sociale. Ed in egual misura propugna la realizzazione di un’uguaglianza di posizione sociale tale da deprecare non solo una deminutio di diritti in relazione al genere di attività esercitata, ma altresì una disparità di considerazione sociale. Il diritto alla «pari dignità sociale» assegnata dall’art. 3 -accanto all’uguaglianza di fronte alla legge- a tutti i cittadini, intende giust’appunto attribuire la pretesa a che l’apprezzamento sociale si indirizzi all’uomo in quanto tale, prescindendo dall’attività di lavoro svolta. Ne scaturisce, pertanto, l’esclusione non solo di quelle qualificazioni -si pensi, ad esempio, ai titoli nobiliari- le quali, mentre non si basano su gerarchie di valori personali, sono inclini a dar vita a caste chiuse contraddistinte da modi di vita con cui presuppongono di imprimere la propria superiorità, ma di ogni altra diversificazione di trattamento nel campo dei rapporti intersubiettivi. L’affermazione di una parità di dignità affrancata da ogni riferimento alle condizioni sociali acquista il suo più ragguardevole significato di fronte ai lavoratori1 , poiché per essi si presenta de facto un’inferiorità di 1 Così più diffusamente U. Prosperetti U., La posizione professionale del lavoratore subordinato, in Giur. It., 1954, I, p. 37 e G. 16 considerazione sociale, oltre che economica e politica. Ora la Costituzione intende, pur tuttavia, escludere dalle relazioni umane ogni divario -anche esteriore- di considerazione sociale ai danni del lavoratore. 3.Principio di uguaglianza formale, pari dignità sociale e discriminazioni sul lavoro. Individuando nella prima norma della Costituzione la volontà di riconoscere alle categorie dei lavoratori subordinati il ruolo di classe generale e predominante, si richiede -ad un tempo- una ponderazione su tale convincimento in forza delle disposizioni del successivo art. 3. Il disegno di assetto politico-sociale, che colloca le basi della Repubblica nel lavoro, implica la realizzazione, anche da parte delle categorie sottoprotette -essenzialmente ravvisate nelle classi lavoratrici-, di condizioni di effettiva libertà ed eguaglianza. Ed a tale scopo si ritiene che sia predisposto l’impegno della Repubblica di «eliminare gli ostacoli di ordine economico-sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i la voratori all’organizzazione politico-economica e sociale del Paese». Ma il fine di reintegrare la posizione delle categorie vincolate al privilegio economico-sociale, consentendo a coloro che ne fanno parte di esplicare pienamente la propria personalità, ed in special modo ai lavoratori di far sentire la propria influenza nella gestione del Paese, potrebbe raggiungersi -qui risiede il punctum dolens- solo a condizione di attribuire alla classe lavoratrice, che massimamente appare in grado di esprimere e soddisfare le istanze delle categorie sottoprotette, un ruolo di forza trainante e di guida della Repubblica2 . Occorre, ad ogni modo, tenere in debito conto che la norma oggetto del presente studio appartiene pur sempre al gruppo delle disposizioni fondamentali della Costituzione, delle quali si deve presumere che ciascuna assuma un suo ruolo e significato autonomo, per cui concorre a determinare l’assetto generale del Paese. Cosicché gli sforzi dell’interprete debbono volgersi, prima e piuttosto che ad identificarne Abbamonte., Osservazioni sul diritto al lavoro, in Rass. Dir. Pubb., 1954, p. 103. 2 Per una lettura in tal senso della norma cfr. U. Natoli U., Limiti costituzionali dell’autonomia privata nel rapporto di lavoro, Milano 1955, p. 71 e ss. e U. Romagnoli, Principi fondamentali, sub art. 3. 2° c., G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna Roma, 1975, vol. V. 17 le implicazioni negli altri principi, all’individuazione del contenuto specifico, che ne determina anche la collocazione e l’incidenza nell’ambito del sistema. Si potrebbe soggiungere che un siffatto criterio di approccio alla decodificazione della volontà legislativa si raccomanda vieppiù nel caso di una disposizione articolata e complessa, quale è l’art. 3 Cost., che solleva in primo luogo l’esigenza di profilarne una costruzione unitaria, procedendo alla considerazione coordinata delle sue proposizioni. Alla luce di tale criterio la disamina deve prendere le mosse dalla prima disposizione che consacra il principio, già acquisito dalle costituzioni liberali, dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, conferendogli peraltro un nuovo contenuto sostanziale. L’impegno di attribuire un valore di effettività al principio, che altrimenti potrebbe esaurirsi in una statuizione formale, di incontrovertibile importanza sul piano dell’attività legislativa ma non altrettanto apprezzabile rispetto a quello della giustizia sociale, rinviene una prima, significativa attuazione in quella parte strettamente connessa al nucleo centrale del 1° comma, secondo cui l’eguaglianza vale -così come la pari dignità, di cui si dirà appresso«senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Questo designa che la legge non solo non può essere disparata, o diversamente applicata, a danno o a vantaggio di singoli cittadini di categorie, producendo inammissibili situazioni di privilegio, ma anche, se non precipuamente, che non può disporre un trattamento discriminatorio nei confronti di coloro che pure versano in condizioni personali o hanno propensioni differenti che sono state in altri regimi considerate idonee a giustificare l’emanazione di norme speciali3 . Di guisa che deve solo ammettersi, ed altrimenti sarebbe impedita o gravemente ostacolata l’adeguata regolamentazione legislativa delle molteplici e multiformi situazioni reali, che le norme disciplinatrici possono differenziarsi, ove ricorrano circostanze od elementi 3 Ovviamente sfavorevoli a tali soggetti. Ci si vuol riferire, più in particolare, alle recenti esperienze legislative della Repubblica Federale tedesca ed in particolare a quella normativa emanata per impedire l’accesso alle carriere pubbliche agli aderenti a movimenti che si ispirano a principi contrari all’ordinamento costituzionale tedesco. Sul punto v. la posizione critica di U. Natoli, Il c.d. “Berufsverbot” e diritti fondamentali nella Repubblica Federale tedesca, in Riv. Giur. Lav., 1976, I, p. 3. 18 peculiari, e come tali ragionevolmente apprezzati dal legislatore, nelle situazioni regolate 4 . Ma la prima proposizione dell’art. 3 fa riferimento, come già preannunciato, ad un altro criterio preannunciato, ad un altro criterio precede a quello ormai tradizionale dell’uguaglianza di fronte alla legge, ed è il criterio della pari dignità sociale di tutti i cittadini. Quest’altro principio, più in particolare, si perfeziona rigorosamente con quello dell’uguaglianza e contribuisce ad affermare il carattere sostanziale, varrebbe a dire che tutti i cittadini possono considerarsi effettivamente uguali solo in quanto ad essi sia riconosciuta una pari dignità nell’ambito delle relazioni sociali» 5 . Si profila altresì -sotto questo aspetto- il modello di un ordinamento, che ridimensiona lo Stato di diritto incardinato esclusivamente sulla uniformità del trattamento giuridico, per volgersi all’attuazione degli obiettivi sostanziali della giustizia sociale. Ed affiora, alla medesima stregua, una valida chiave di lettura della seconda disposizione dell’art. 3, in quanto sancisce le direzioni da percorrere per il raggiungimento degli obiettivi medesimi. A quest’ultimo proposito è d’uopo rimarcare ancora che, mentre per attuare l’uguaglianza giuridica o formale occorre l’emanazione di una direttiva vincolante di tale contenuto, le condizioni effettive di uguaglianza, di libertà e dignità sociale di tutti i cittadini possono conseguirsi, sia pure in linea di tendenza, solo attraverso un’azione costante che mobiliti le forze ordinatrici dell’assetto politico-sociale, allo scopo di eludere -anche se non è consentito rimuoverli totalmente- gli ostacoli persistenti e sopravvenienti a che tutti i cittadini siano messi in grado di esplicare la propria personalità e di partecipare all’organizzazione del Paese. Nella medesima prospettiva la regola dettata dal 2° comma dell’art. 3 si configura come un momento ulteriore di sviluppo, e si erge altresì ad un valore strumentale, nella costruzione di una società che si dirige verso i traguardi della giustizia sociale ed economica erga omnes. Nella coscienza, mutuata dall’esperienza storica, che nelle società moderne, governate in larga parte dagli eventi e dalle leggi dell’economia di mercato, sorgono ineluttabilmente nuovi privilegi a vantaggio dei detentori della produzione e della ricchezza a cui corrispondono le condizioni di sfruttamento degli estraniati, si rende impellente -onde evitare i più gravi sconvolgimenti sociali e politici- un’azione complessiva del paese per abbattere, o quanto meno ammansire, 4 Come è stato più volte affermato dalla Corte costituzionale. Sul principio di uguaglianza cfr. A. S. Agrò, Commentario alla Costituzione, sub. art. 3, 2° e 123 ss. 5 19 situazioni ingiustificate e discriminanti per estese categorie di cittadini. 3.1. Principio di eguaglianza sostanziale e discriminazioni sul lavoro. Il secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione è stato la base di appoggio per coloro che hanno affermato che, nell’esperienza contemporanea, le condizioni denunziate di discriminazioni6 appaiono interessare soprattutto le categorie lavoratrici7 , a sostegno delle quali principalmente si giustifica e si attua l’azione di tutela dell’ordinamento, che si fa tanto più effettiva ed efficace quanto maggiore diviene la forza politica delle categorie interessate. Ma -è d’uopo ribadirlo- l’impegno sociale dello Stato contemporaneo non può giustamente manifestarsi negli esclusivi confronti di coloro che lavorano alle altrui dipendenze, e tanto meno può rinvenire la sua coerente e felice attuazione nella creazione di nuove classi di potere e politicamente privilegiate, per l’appunto le categorie lavoratrici. Al fine di rintuzzare un siffatto ordine di affermazioni, svelandone il carattere unilaterale e di parte, si può di già ritenere che la norma costituzionale fa riferimento, in linea di principio, a tutti gli ostacoli economici e sociali, che provocano la menomazione personale e sociale di categorie variamente estese di cittadini. Talché, se è inoppugnabile, e più volte se ne è dato prova, che l’impedimento, di gran lunga più consistente e diffuso, tra quelli che nella vita contemporanea di relazione possono osteggiare la piena esplicazione della personalità umana e la partecipazione alla lealtà sociale, è costituito dal vincolo di subordinazione nel lavoro, non è meno assiomatico che anche altre situazioni di sottoprotezione possono aver luogo e legittimare analogamente -ed anzi esigere- l’impegno della Repubblica per porvi rimedio. Basterebbe menzionare, per focalizzare al meglio lo stato dell’arte, la condizione di svantaggio -ben più rilevante ed incombente- di tutti gli indigenti, tra i quali si potrebbero annoverare anche i cittadini bisognosi in cerca di occupazione. Ed ancora, in una prospettiva più ampia, la condizione delle donne, dei fanciulli e degli anziani 6 Osserva Giannini (Cfr. M. S. Giannini, Rilevanza costituzionale del lavoro, op. cit., p. 7) come il riconoscimento dello stato di sottoprotezione del proletariato e della necessità della sua emancipazione segna l’implicito accoglimento dell’istanza politica fondamentale del marxismo. 7 In special modo i lavoratori subordinati. 20 gravemente disagiati. Ad ulteriore smentita dell’interpretazione criticata si deve tenere ben presente, del resto, che l’impegno della Repubblica a sostegno delle categorie sottoprotette, riguardo agli impedimenti che la realtà economico-sociale può introdurre alla piena realizzazione della personalità di tali soggetti, postula per l’appunto l’esistenza di situazioni economiche e sociali di privilegio e di sfruttamento, alle quali si vuol rimediare, impiegando adeguate tutele e garanzie 8 . Contestualmente, l’auspicabile esito proficuo di tale politica nei riguardi delle categorie lavoratrici potrà produrre situazioni tali, di tutela e di garanzia, per cui -in tutto o in partecoloro che profondano il proprio lavoro alle dipendenze di altri non debbano più essere considerati sottoprotetti o sfruttati. Ma un siffatto obiettivo non potrebbe mai conseguirsi, nell’osservanza del precetto costituzionale, percorrendo la direzione del tutto diversa di un sistema che, assegnando alle forze rappresentative dei lavoratori la pienezza ed esclusività dei poteri politici ed economici, eliminerebbe certamente lo sfruttamento economico dell’uomo sull’uomo, ma creerebbe inevitabilmente - come già si ha avuto modo di costatarenuove e questa volta probabilmente irrimediabili9 situazioni di sottoprotezione ed emarginazione dei soggetti ritenuti non appartenenti alle categorie lavoratrici o, addirittura, in posizione di dissidio rispetto alle forze al potere, ed un nuovo -possibilesfruttamento da parte dello Stato e delle sue strutture burocratiche, a carico delle stesse masse la voratrici. Lato sensu, recuperando i nessi di collegamento tra i due fondamentali principi della Costituzione fin qui vagliati, è d’uopo -piuttosto- riaffermare il ruolo del lavoro, ampiamente inteso, di fattore essenziale, e di principale se non esclusiva garanzia, di attuazione di un regime politico-sociale di effettive democrazia e giustizia. 8 Esattamente il Mazziotti, (Cfr. F. Mazziotti, voce Lavoro (diritto cost.), in Enc. Dir., 1995, p. 343) addita nell’art. 3, 2° comma, la fonte del diritto sociale nella Costituzione. 9 Secondo Scognamiglio, (Cfr. R. Scognamiglio, Il lavoro nella Costituzione italiana, Milano, 1978, p. 33) probabilmente irrimediabili, a ragion veduta, perché i sistemi politici, in cui il potere politico-economico passa nelle mani dei rappresentanti dei lavoratori (beninteso ove questo avvenga, sopprimendo il sistema del pluralismo politico e della libertà economica), reputando assiomaticamente e del resto per una imprescindibile ragione di coerenza di avere eliminato definitivamente lo sfruttamento economico dell’uomo in tutte le sue implicazioni, non possono contraddittoriamente svolgere un’azione adeguata, e tanto meno assumere un impegno costituzionale, che si volgano alla realizzazione di tale obiet tivo. 21 Solo nel lavoro può scorgersi, infatti, un elemento di continuità e di comunione tra gli uomini ed i gruppi sociali, che in esso realizzano una esigenza elementare ed insopprimibile della propria persona, e con essa attuano gli interessi e gli obiettivi essenziali della collettività. Cosicché il pieno e assoluto riconoscimento del lavoro, come fondamento della Repubblica, postula l’attribuzione a tutti i cittadini di pari dignità sociale, libertà ed eguaglianza reali, uguali possibilità di partecipazione alla realtà sociale, ed esige l’eliminazione degli ostacoli che inevitabilmente e correntemente si frappongono al raggiungimento di tali traguardi. La Repubblica, contrassegnata da tale fondamento, si rivela -in tal senso- come un modello di Stato necessariamente impegnato per la realizzazione di un assetto di giustizia sociale ma anche, più di ogni altro, idoneo a soddisfarne le esigenze e gli auspici. 4. Conclusioni Il disegno costituzionale, che si profila negli articoli 1 e 3 della Carta fondamentale, pare rinvenire la sua logica e storica integrazione nel disposto dell’art. 4 della medesima. La considerazione vale soprattutto per la prima parte della norma che, in termini incisivi, afferma: «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto». Questa affermazione di principio, che segna una assoluta innovazione rispetto al precedente assetto costituzionale, propone un tipo di risposta al nodo forse più avviluppato, e tuttora irrisolto, delle società moderne, che conservano i diritti e le libertà dei privati nelle relazioni economiche: edificare, con la massima approssimazione, condizioni di ottimale occupazione per tutti i cittadini senza alcuna sorta di discriminazione. Ciò vale ad argomentare come l’attenzione e la sensibilità dei giuristi siano state caldeggiate, fin dai primi studi sulla Costituzione, dalla proclamazione del diritto al lavoro; in funzione della quale è stata prevalentemente interpretata anche la seconda disposizione dell’art. 410 , ponendo soprattutto l’accento sulla libertà 10 Sulla natura meramente programmatica dell’art. 4 v. tra gli altri, A. Amorth, La Costituzione italiana. Commento sistematico, Milano, 1948, p. 76; A. Ceretti, Corso di diritto costituzionale, Torino, 1949, p. 112; P. Calamandrei, Introduzione storica alla Costituzione, in Calamandrei e Levi (a cura di), Commentario Sistematico alla Costituzione italiana, Firenze, 1960; CXXXII; F. Crosa, Corso di diritto costituzionale, Torino, 1951, p. 82; G. Balladore-Pallieri, Diritto costituzionale, Milano, I953, p. 353; De Litala, Il contratto di 22 professionale o di scelta di una occupazione appropriata alle possibilità e alle attitudini di ciascuno11 . Ciò nondimeno, non deve sembrare incongruo o -peggio- escludersi, rebus sic stantibus, che la legge fondamentale dello Stato persegua i suoi obiettivi, anche mediante l’imposizione degli obblighi di comportamento che configurano l’altro termine della dia lettica dispositiva di ogni ordinamento giuridico. Si deve ammettere -perciò che tali obblighi, per la fonte da cui derivano, assumano inevitabilmente il carattere della giuridicità 12 . La portata precettiva dell’articolo in esame si rinviene -tuttavia- nella medesima statuizione del dovere di condotta che, a tale stregua, da dovere sociale o morale, quale è naturalmente, acquisisce altresì l’entità di un dovere giuridico. Una rilevanza di tal fatta, per concludere, consiste in ciò che la norma costituzionale propone, vale a dire un valore ed un obbiettivo all’azione del legislatore ordinario, invocato quanto meno per sostenere l’uguaglianza dei lavoratori. Inoltre, fissa per i cittadini medesimi un criterio di comportamento a cui debbono ispirarsi, onde concorrere alla realizzazione di tale scopo perseguito dallo Stato e segna, infine -sia pure per implicito- il divieto di qualsivoglia discriminazione. lavoro, Torino, 1956, p. 6; F. Pergolesi, Introduzione al diritto del lavoro, in Borsi - Pergolesi (a cura di), Trattato di diritto del lavoro, vol. I, Padova, 1960, p. 231. 11 Sulla vasta problematica scaturita dall’art. 4 Cost. cfr.. F. Mazziotti, Il diritto del lavoro, cit.; V. Crisafulli, Appunti preliminari sul diritto al lavoro nella Costituzione, in La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Milano, 1952; F. Mancini, Commentario della Costituzione, cit., sub art. 4; U. Natoli, Diritto al lavoro, inserzione del lavoratore nell’impresa e recesso ad nutum , in Riv. Giur. Lav., 1951; U. Prosperetti, Sul diritto al lavoro , in Giur. It., 1953, IV, p. 177. 12 Cfr. R. Scognamiglio, Il lavoro nella Costituzione italiana, op. cit., p. 54. 23 LA “PARI” RETRIBUZIONE di Marco Alaia (Cultore di Dir. Costituzionale -Università di Salerno) La legislazione del periodo precostituzionale presenta sin dagli inizi caratteri dominanti che informano l’intera disciplina del lavoro femminile di quegli anni. In primo luogo la tutela opera secondo una duplice direttiva: da un lato si sottolinea l’esigenza della difesa della salute contro i danni fisici derivanti da determinate modalità di lavoro, ed in questo senso il lavoro della donna viene assimilato a quello dei fanciulli. Dall’altro emerge un elemento intrinseco di debolezza della lavoratrice, inteso come naturale e logica inferiorità rispetto al lavoratore. In secondo luogo la protezione della maternità, sembra riconoscere implicitamente la preminenza nel ruolo familiare della donna, fattore questo di definitiva espulsione della stessa dall’attività lavorativa esterna. Il terzo elemento caratterizzante concerne il limitato ambito di applicazione delle leggi, il cui effetto protettivo investe esclusivamente il lavoro industriale. Questa linea di politica del diritto fortemente penalizzante ed espulsiva dal mercato del lavoro della manodopera femminile viene iniziata con la legge Carcano, n. 242 del 1902 ed accentuata nell’ambito della legislazione corporativa. E’ solo con l’emanazione della Costituzione Italiana del 1948 che si assiste ad una inversione di tendenza verso un assetto giuridico e di fatto, più equilibrato nei rapporti uomo donna in ambito sociale e lavorativo. La caduta del regime corporativo e l’emanazione della Costituzione costituiscono le premesse per un radicale mutamento, non solo sul piano legislativo, ma anche sul piano sociale e del costume. In particolare, l’art. 3 Cost. pone le basi per una netta rottura con il passato e con le norme di eccessiva tutela del periodo precedente. Il divieto di discriminazione crea i presupposti per una tutela positiva della condizione della donna nel lavoro. In tale contesto, particolare rilevanza assume l’art. 37 Cost., il quale recita, al 1° comma: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti, e a parità di lavoro le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre ed al bambino una speciale e adeguata protezione”. La norma che specifica il dettato 24 costituzionale dell’art. 3, ribadendo nel campo del lavoro il principio generale di uguaglianza e dignità sociale, senza alcuna distinzione sulla base del sesso, può essere suddivisa in due parti. La prima sancisce il diritto di parità di trattamento a favore della lavoratrice, mentre la seconda ne prevede le possibili eccezioni in relazioni a determinate finalità. Viene così, con chiarezza, ribadita e rafforzata l’indicazione della prevalenza del principio di eguaglianza sostanziale, laddove la parità formale viene subordinata a regole differenziate volte a sopprimere quegli ostacoli menzionati al secondo comma dell’art. 3 Cost. Sembrerebbe, pertanto, realizzarsi un doppio legale, in base al quale l’art. 37, da un lato specifica il dettato costituzionale dell’articolo 3, ribadendo rispetto al lavoro il principio di uguaglianza e pari dignità sociale, senza distinzioni di sesso, dall’altro prevede una parità di diritti della lavoratrice solo in quanto inserita in un quadro costituzionale atto ad assicurare alla donna una condizione di uguaglianza sostanziale, nel momento in cui la diversità tra i due sessi appare più evidente, e cioè il periodo della maternità. Non esistendo, dunque, alcuna contraddizione tra i due principi enunciati, poiché quello della tutela è finalizzato ad assicurare, in accordo con il primo comma dell’art. 3 la pari dignità sociale della donna, eventuali perplessità sembrano semmai derivare dall’ambigua formulazione “l’essenziale funzione familiare”, come obiettivo esplicito rispetto al quale il principio di tutela assume valore strumentale. Di fronte alla dizione testuale della norma, che sembrerebbe imporre una obbligatoria compatibilità tra condizione di lavoro e funzione familiare “essenziale”, l’unica risposta interpretativa in grado di fornire una soluzione non squilibrata al problema del doppio ruolo famiglia – lavoro è quella di porre sullo stesso piano entrambe le dimensioni di vita, rispetto alle quali la donna, libera da condizionamenti, possa esercitare la propria libera scelta, resa possibile dall’intervento dello Stato, che attraverso una legislazione riformista promuova gli opportuni cambiamenti nel mondo del lavoro, nella sfera sociale, culturale, del costume. In uno stato democratico, quindi, il principio di parità è basilare per una corretta evoluzione sociale e culturale. Tutti gli individui hanno il diritto di compiere scelte e sviluppare le loro abilità senza limitazioni imposte dall’appartenenza al genere maschile o femminile. I bisogni e le aspirazioni di ogni uno devono essere valutati ed incoraggiati in pari misura, soprattutto nei termini di legge, quindi nel sociale, come uguaglianza di diritti e doveri. 25 Ciò presso su un piano generale, va rilevato che il principio di uguaglianza viene riferito dall’art. 37 Cost. anche al campo della retribuzione, assumendo, così, importanza centrale la definizione della misura e del suo ambito di operatività in relazione all’inciso “a parità di lavoro” . Un significato unitario del concetto può essere rielaborato alla luce del combinato disposto costituzionale degli artt. 37 e 36, norma quest’ultima che fissa gli elementi determinanti di una equa retribuzione. Essendo il lavoro la manifestazione più alta della personalità umana, e come tale garantito dall’art. 37, simile presupposto sarà assicurato allorquando si avranno eguaglianza o equivalenza delle prestazioni della lavoratrice rispetto a quelle del lavoratore, senza possibilità di distinzione sulla base dei risultati ottenuti. Appare, dunque, inaccettabile la tesi secondo cui il riferimento al rendimento sarebbe implicito nella stessa formula della “parità di lavoro” e stabilirebbe, pertanto, la parità retributiva in funzione all’utilità economica prodotta dalla donna. L’interpretazione, infatti, più recente della norma costituzionale intende il richiamo alla “essenziale funzione familiare della donna” non tanto come salvaguardia dei ruoli maschili e femminili tradizionali all’interno della famiglia e del mercato del lavoro, quanto come promozione dell’eguaglianza di opportunità, attraverso interventi che rendano possibile al riconciliazione tra vita familiare e vita lavorativa. In realtà, ci sono voluti ben trent’anni perché questo principio costituzionale dell’art. 37 trovasse, con la L. 903/1977 e, poi, nella L. 125/1991 la sua piena applicazione normativa. Il principio della parità ha ispirato la L. 903/1977 fra donne ed uomini in materia di lavoro, che ha eliminato una serie di discriminazioni ed ha esteso, per la prima volta, il diritto di assentarsi dal lavoro ed il trattamento economico previsti dalla legge sulla tutela delle lavoratrici madri, anche al padre lavoratore in alternativa alla madre lavoratrice. Solo l’8 marzo 2000 con il varo della L. 53/2000, nota come legge sui congedi parentali, si modifica l’impostazione di naturale discriminazione, ponendosi in una prospettiva di parificazione il padre e la madre nella cura dei minori. La L. 53/2000 guarda anche ad un’altra importante prospettiva, quella dell’intervento in favore della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, intervenendo sulla flessibilità dell’orario di lavoro, affidando alle regioni ed ai comuni il compito di sviluppare dei piani territoriali degli orari. 26 Emerge con forza, quindi, il concetto di discriminazione, intendendosi per discriminazione diretta, in base alla normativa italiana ed europea, qualsiasi atto, patto, o comportamento che produca un effetto pregiudizievole, discriminando i lavoratori in ragione del sesso; irrilevante è l’intento discriminatorio, occorre, invece, verificare l’effetto del comportamento adottato. Ancora più incisivo è il concetto di discriminazione indiretta che consiste in ogni trattamento pregiudizievole, conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore lavoratori dell’uno e dell’altro sesso e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa. In pratica, si ha discriminazione indiretta ogni volta che si adotta un trattamento uguale e, apparentemente neutro a soggetti diversi (uomini e donne) e che, quindi, produce effetti in proporzione più negativi per i soggetti femminili. Da ultimo il contenuto di tutte le norme disciplinanti la materia è stato trasfuso nel Testo Unico per la tutela ed il sostegno della maternità e della paternità, emanato con D. Lgs. 26/3/2001 n. 151, che ha improntato la tutela al principio di un’effettiva parità dei ruoli all’interno della famiglia. Altresì, la Legge costituzionale del 18 ottobre 2001 n. 3, nota per aver rafforzato i poteri delle regioni a statuto ordinario nella direzione del federalismo, interviene anch’essa sul tema delle discriminazioni uomo – donna, dettando una regola di fondo che caratterizza le potestà regionali. Il nuovo art. 117 Cost., infatti, introduce una nuova norma d’azione cui debbono conformarsi le leggi regionali: “Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra uomini e donne alle cariche elettive”. Dai principi degli artt. 36 e 37 Cost., combinati con alcune disposizioni di legge, la giurisprudenza ha, poi, ricavato anche altri importanti principi: si pensi al principio di irriducibilità della retribuzione, ricavato dal combinato disposto degli articoli 36 della Costituzione e 2103 del Codice Civile. Sul principio di parità di trattamento retributivo tra uomini e donne dell’art. 37 Cost. va, altresì, detto che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, lo stesso attribuisce alle lavoratrici un diritto soggettivo alla parità giuridica e salariale con i lavoratori, che spiega i suoi effetti nei contratti collettivi e individuali contenenti clausole contrastanti con il precetto costituzionale: questo diritto di parità, secondo la giurisprudenza, deve ritenersi violato quando la 27 disparità di trattamento non trovi giustificazione in una diversità oggettiva della prestazione di lavoro, dovendosi intendere la parità di lavoro, di cui parla l’art. 37 Cost., non già come parità di rendimento o parità di durata delle prestazioni lavorative, ma come parità di mansioni affidate ai lavoratori dei due sessi. Questo principio costituisce uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento, ma non solo. Anche la giurisprudenza comunitaria ha chiarito quale è la retribuzione da prendere a parametro. Sul punto si segnale la Corte di Giustizia 30 marzo 2000 (proc. C.- 236/1998), secondo cui: a) l’art.119, ora 141 T.U.E., che definisce in ambito comunitario, la nozione di retribuzione -che comprende il salario o trattamento minimo e tutti gli altri vantaggi in contanti o in natura, attuali o futuri, purché siano pagati, sia pure indirettamente dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimoè una norma imperativa e si applica non soltanto alle norme di natura legislativa e regolamentare, ma anche ai contratti di lavoro sia individuali che collettivi; b) il confronto per stabilire se il principio di parità di trattamento retributivo è stato violato, deve riguardare la retribuzione base mensile delle lavoratrici e quella dei lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di eguale valore; c) qualora dal confronto delle retribuzioni base emerga una differenza di trattamento si ha una discriminazione diretta fondata sul sesso; nel caso, invece, che non emerga alcuna differenza, ma la retribuzione, considerando tutti i compensi che rientrano nella nozione di retribuzione di cui all’art. 119 (141) del T.U.E, sia, comunque, inferiore e dai dati statistici risulti una percentuale considerevolmente maggiore di lavoratori di sesso femminile rispetto ai lavoratori di sesso maschile che svolgono quella determinata attività, si ha discriminazione indiretta, se il datore di lavoro non prova che la disparità di trattamento è giustificata da fattori obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso. La tutela dei lavoratori minori prevista dal terzo comma dell’art. 37 Cost. risponde, invece, a finalità differenti rispetto alla tutela accordata alla donna lavoratrice nella stesso art. 37 Cost. e, pertanto, viene attuata con meccanismi diversificati. Infatti, nel caso delle donne lavoratrici, obiettivo prioritario è l’affermazione della parità di trattamento, nel caso dei lavoratori minorenni emerge l’esigenza di salvaguardare lo sviluppo psico-fisico del minore. 28 In applicazione del dettato costituzionale è stata emanata la L. 977/1967 sulla “tutela del lavoro dei fanciulli e degli adolescenti”. Tale normativa è stata profondamente modificata per effetto del D.Lgs n. 345 del 1999, integrato e modificato dal D. Lgs n. 262 del 2000. Per ciò che concerne il terzo comma dell’art. 37 Cost., la parità di retribuzione a parità di lavoro, garantita ai lavoratori minorenni, deve essere intesa, secondo i principali orientamenti giurisprudenziali, alla stesso modo della donna lavoratrice, come parità di qualifica e di mansioni e non come parità di rendimento; nell’attribuzione di qualifiche e di mansioni può incidere l’attitudine lavorativa in base anche all’età. A fondamento di tale ragionamento, è stabilito che, fissate le mansioni e la qualifica, si ha parità retributiva indipendentemente dalla parità di rendimento del lavoratore minorenne rispetto al maggiorenne. Inoltre, le clausole dei contratti collettivi che prevedono discriminazioni retributive basate sull’età dei lavoratori sono nulle 13 . La Corte di Cassazione ha, altresì, ritenuto che il trattamento paritario sancito dall’articolo 37 della Costituzione deve ritenersi comprensivo non soltanto dei minimi salariali, ma dell’intero trattamento spettante ai lavoratori maggiorenni; pertanto, anche gli scatti di anzianità che vanno a contribuire, periodicamente all’aumento del corrispettivo della prestazione lavorativa, debbono essere considerati14 . Sempre la Suprema Corte ha esteso il principio garantista, sancito nel terzo comma dell’articolo 37 della Costituzione, ai lavoratori minori degli anni ventuno, pur dopo l’abbassamento della minore età al diciottesimo anno (L. n. 39 del 1975), persistendo, però, la rilevanza del ventunesimo anno ai fini specifici della tutela protettiva del lavoro. La Cassazione, anche in tal caso, ha chiarito che il principio garantista è comprensivo dell’intero trattamento lavorativo spettante ai lavoratori maggiorenni, giustificando una più bassa retribuzione solo nel caso in cui ai lavoratori minorenni siano attribuite mansioni meno impegnative di quelle assegnate ai lavoratori maggiorenni, non essendo in altro modo giustificabile la diversità di trattamento tra essi15 . Le clausole contrattuali collettive che prevedono discriminazioni salariali o che negano scatti di anzianità per i lavoratori minorenni sono ritenute nulle a meno che le differenziazioni non derivino da obiettive e dimostrate incidenze dell’età, sulla qualità e quantità dell’apporto di collaborazione all’attività dell’impresa. Se le clausole contrattuali collettive che prevedono differenze di trattamento 13 14 15 Cass., sez. I, 11.08.1981, n. 4901. Cass., sez. lav., 10.08.1993, n. 9451. Cass., sez. lav., 9.12.1992, n. 11988. 29 non si fondano su obiettive differenze di qualità e quantità del lavoro sono nulle perché in contrasto con il principio di proporzionalità della retribuzione, a norma dell’articolo 36 della Costituzione 16 . 16 Cass., sez. lav., 2006.1990, n. 6180. 30 CASI SPECIFICI DI DISCRIMINAZIONE di FILOMENA FERRARA (cultore di Diritto Processuale Civile -Università di Salerno) La discriminazione sui luoghi di lavoro è tutt’altro che un fenomeno debellato e colpisce ancora centinaia di milioni di lavoratori in tutto il mondo. Se è vero che alcune delle forme più violente di repressione dei diritti sono scomparse in molti paesi, tuttavia, sono comparsi nuovi abusi meno percepibili e, in quanto tali, più subdoli delle più ricorrenti ipotesi di discriminazione. Ancora allarmante è il divario causato in ambito lavorativo dalla discriminazione basata sul sesso, il colore della pelle, la religione, le opinioni politiche, l’origine sociale e su qualsiasi altro connotato particolare che distingua l’identità personale quali l’età, l’alcolismo, la tossicodipendenza e le condizioni di salute. Si manifesta una discriminazione in tutti i casi in cui l’ingresso al lavoro, l’attribuzione delle mansioni e la progressione in carriera, l’accesso ai percorsi formativi, il trattamento retributivo e previdenziale, l’estinzione del rapporto stesso vengano pregiudicati dal tipo di valutazioni anzidette nei confronti dei lavoratori. Il principio di parità di trattamento sul lavoro trova molteplici referenti normativi nella Costituzione; oltre che dal principio di uguaglianza formale e sostanziale sancito dall’art. 3, infatti, esso scaturisce dai dettati costituzionali di cui all’ art. 4 che detta, una direttiva in forza della quale il legislatore è abilitato a circoscrivere di garanzie e temperamenti le ipotesi di licenziamento; all’art. 31 che affida alla Repubblica il compito di agevolare la formazione della famiglia e, quindi, di intervenire laddove sia anche indirettamente ostacolata; all’art. 35, primo comma, che tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni; all’art. 37, che stabilendo che le condizioni di lavoro devono consentire alla donna l’adempimento della sua essenziale funzione familiare, presuppone che le sia assicurata la libertà di diventare sposa e madre. Il tema della parità di trattamento tra le persone per quanto attiene all’occupazione ed alle condizioni di lavoro è sempre stato, d’altra parte, al centro dell’interesse della dottrina e della giurisprudenza che, nell’intento di dare piena attuazione alle succitate norme, hanno 31 contribuito, nel tempo, fortemente all’affermazione del principio di non discriminazione nel lavoro. Sin dagli anni cinquanta, è, inoltre, intervenuta un’importante e cospicua attività di legislazione ordinaria, nonché, da ultimo, comunitaria, finalizzata ad attuare i principi costituzionali di non discriminazione nel mondo del lavoro. In questa direzione, di fondamentale importanza la pionieristica L. 26.8.1950, n. 860, sulla tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri, che oltre ad introdurre limitazioni al potere di licenziamento, ha ampliato i periodi di astensione dal lavoro obbligatoria e facoltativa. In quegli anni molti datori di lavoro, al fine di evitare gli oneri conseguenti agli eventi di gravidanza e puerperio normalmente derivanti dal matrimonio, erano soliti introdurre nei contratti le c.d. clausole di nubilato che, subordinando la durata del rapporto alla permanenza dello stato di nubilato, venivano a configurare il matrimonio come condizione risolutiva del rapporto stesso.Tale situazione di fatto ha indotto il legislatore ad emanare la L. 9.1.1963, n. 7 che ha sancito la nullità delle c.d. clausole di nubilato e la nullità dei licenziamenti attuati a causa del matrimonio.La legge, sollevando la lavoratrice dal difficile onere di provare il nesso di causalità tra il matrimonio ed il licenziamento, ha stabilito che si presume intimato per causa di matrimonio il licenziamento intervenuto nel periodo compreso tra il giorno della richiesta delle pubblicazioni e l’anno dalla celebrazione del matrimonio. Nella stessa direzione sono intervenute la L. 9.12.1977, n. 903, sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, e la L. 10.4.1991, n. 125, sulle azioni positive per la realizzazione delle parità uomo-donna nel lavoro. Ai sensi delle predette leggi costituisce discriminazione qualsiasi comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando anche in via indiretta i lavoratori in ragione del sesso, inoltre, costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente alla adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori dell’uno o dell’altro sesso e riguardino i requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa. Si segnalano, altresì, il D.Lgs. 26.3.2001, n. 151 sul Testo unico sulla maternità e sulla paternità, il D.Lgs 25.7.1998, n. 286, contenente il Testo unico delle disposizioni sull’immigrazione e la L 12.3.1999, n. 68, sulla disciplina dei disabili. 32 Significativamente le pietre miliari di quella che si potrebbe definire la legislazione di non discriminazione sul lavoro sono state poste a tutela delle lavoratrici, sono, cioè, intervenute in un’area in cui la discriminazione è sempre stata e, per troppi aspetti, continua ad essere per così dire presupposta. La ratio sottesa a tali misure legislative è chiaramente quella di sollevare la donna dal dilemma di dover sacrificare il posto di lavoro per salvaguardare la propria libertà di dar vita ad una nuova famiglia o, viceversa, di dover rinunciare a tale fondamentale diritto per evitare la disoccupazione. Nonostante notevoli progressi siano stati compiuti nell’aumentare il livello di partecipazione delle donne nella forza lavoro, in Europa ed in Italia la discriminazione legata al sesso continua ad essere presente. Se è vero, infatti, che molte più donne rispetto a 50 anni fa guadagnano uno stipendio, tuttavia, nella maggior parte dei casi, esse sono relegate a svolgere lavori meno qualificati; anche nei paesi dove le donne hanno un livello di istruzione pari o superiore a quello degli uomini “il tetto di cristallo” spesso impedisce la loro scalata ai vertici della gerarchia. E ovunque la maggior parte delle donne continua a guadagnare meno degli uomini, nonostante si sia ridotto il divario nei salari tra uomini e donne. Le donne non possono accedere in maniera proporzionale ai lavori meglio retribuiti, e non sono equamente rappresentate in uno dei più dinamici settori nel mercato del lavoro: la tecnologia dell’informazione. A ben vedere, quindi, l’ordinamento giuridico italiano è fortemente permeato da principi in grado di dare un giusto valore allo status personale, vietando qualsiasi forma discriminatoria. Specie nel corso degli ultimi anni, si è andata sempre più rafforzando la tutela contro il mobbing, realizzabile, tra l’altro, anche in forma discriminatoria verso le situazioni personali di che trattasi. Con due recenti decreti legislativi, il legislatore ha dato attuazione a due direttive comunitarie in materia di parità di trattamento. Si tratta del D. Lgs. 9.7.2003, n. 215, attuazione della Direttiva n. 2000/43/Ce per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, e del D. Lgs. 9.7.2003, n. 216, attuazione della Direttiva n. 2000/78/Ce per la parità in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Il D. Lgs. 9.7.2003, n. 215 viene ad attuare la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, disponendo le misure necessarie affinché le differenze di razza o di origine etnica non siano causa di discriminazione anche in un’ottica 33 che tenga conto dell’esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso. Agli effetti del D. Lgs. 9.7.2003, n. 215, per principio di parità di trattamento si intende l’ assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica. Inoltre, il D. Lgs. n. 215/2003 fissa le nozioni di discriminazione diretta ed indiretta, ricorrendo la prima quando per la razza o l’origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga; laddove ricorre la seconda quando una disposizione , un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri e, dunque, formalmente ineccepibili, possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone. Il D. Lgs. n. 215/2003 definisce, altresì, le molestie come comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo. Il principio di parità di trattamento senza distinzione di razza e di origine etnica trova applicazione secondo il citato D. Lgs. in nove aree specificamente individuate: a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione; b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento; c) affiliazione e attività nell’ambito di organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni; d) protezione sociale, inclusa la sicurezza sociale; e) assistenza sanitaria; f)prestazioni sociali; g) istruzione; h) accesso a beni e servizi, incluso l’alloggio. Per espressa previsione normativa, non costituiscono atti di discriminazione nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività d’impresa quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla razza o all’origine etnica di una persona, nel caso in cui, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono 34 un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima. Non costituiscono, inoltre, atti di discriminazione quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati necessari. Particolarmente significativa appare la tutela giurisdizionale dei diritti derivanti dalle disposizioni di legge in esame, secondo cui, quando il comportamento di un privato o di una pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice può, su istanza di parte, provvedere al risarcimento del danno (anche non patrimoniale) nonché ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione. Il D. Lgs. 9.7.2003, n. 216, nel recepire, a sua volta, la Direttiva n. 2000/78/Ce, viene invece ad attuare la parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale, per quanto attie ne all’occupazione ed alle condizioni di lavoro. Si tratta di un provvedimento più calato nella realtà e nel mondo del lavoro e, quindi, più vicino all’auspicata tutela contro il mobbing. La struttura del decreto legislativo in esame è parallela a quella del provvedimento precedente, essendo per certi versi parallele le due direttive, chiaramente “gemelle”, la cui ratio è quella di fare fronte comune contro le discriminazioni. Agli effetti del decreto legislativo in esame, in un’ottica che tiene conto anche del diverso impatto che le fonti di discriminazione possono avere su donne e uomini, per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale. Ricorre discriminazione diretta quando per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga; si ha, invece, discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto alle altre. 35 Relativamente a questo tipo di discriminazione, si segnala li parere reso, in data 30.11.1994, dal Collegio del Comitato Nazionale Pari Opportunità, costituito in seno al Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, secondo il quale la prassi apparentemente neutra di richiedere ai fini della progressione in carriera, basata di norma su un sistema semiautomatico, dei lavoratori con regime orario a tempo parziale una maggiore anzianità di servizio, in ragione del ridotto orario di servizio degli stessi, ricorre un’ipotesi di discriminazione indiretta in danno delle donne. Il rapporto a tempo parziale, infatti, è un istituto applicato per la stragrande maggioranza alle donne, in quanto è uno degli strumenti più utilizzati per rendere possibile l’armonizzazione della vita familiare e professionale delle lavoratrici. La prassi del c.d. <<riproporzionamento al rialzo>> dei tempi richiesti per la progressione in carriera, secondo il citato parere, finisce, di fatto, per produrre effetti proporzionalmente più svantaggiosi e pregiudizievoli per le lavoratrici di sesso femminile, rappresentanti la quasi totalità dei lavoratori a tempo parziale per intuitive ragioni socio-familiari, tanto più che il criterio del prolungamento dell’anzianità di servizio richiesta non è <<essenziale>> ai fini della maturazione della professionalità necessaria per l’avanzamento di carriera. Agli effetti del D. Lgs. n. 216/2003, costituiscono, inoltre, atti discriminatori le molestie, ovvero, quei comportamenti indesiderati aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e ricreare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo. Un posto a parte tra le molestie perpetrate sui luoghi di lavoro è occupato dalle molestie sessuali che possono definirsi come qualsiasi comportamento indesiderato a connotazione sessuale, offensivo della dignità delle donne e degli uomini nel mondo del lavoro, che produce discriminazione sessuale, perché il fattore determinante è rappresentato dal sesso di chi lo subisce. La rilevanza dei comportamenti è condizionata ad un giudizio di valore, afferente all’accettabilità da parte della vittima, alla cui libera valutazione soggettiva il giudizio è demandato; conseguentemente non possono essere stabiliti criteri oggettivi per distinguere lo scherzo amichevole dall’abuso a sfondo sessuale . Le molestie sessuali, danneggiando la salute delle vittime, che continuano ad essere principalmente ancora donne, ed incidendo sulla qualità delle prestazioni lavorative, ostacolano la partecipazione al lavoro ed impediscono il godimento di pari opportunità nella vita professionale. 36 Agli effetti del decreto legislativo in esame, costituisce, altresì, discriminazione l’ordine di discriminare persone a causa della religione, delle convinzioni personali, dell’handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale A ben vedere, quindi, le attuali situazioni di mobbing, in tutte le sue variabili, orizzontale, verticale, bossing, rientrano nella previsione che la legge vieta. Non costituiscono, ex adverso, atti di discriminazione: - nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività d’impresa quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, nel caso in cui, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima; - la valutazione delle appena indicate caratteristiche ove le stesse assumano rilevanza ai fini dell’idoneità allo svolgimento delle funzioni che le forze armate e i servizi di polizia, penitenziari o di soccorso possono essere chiamati ad esercitare; - le differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali che siano praticate nell’ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private, nel caso in cui tali caratteristiche, per la natura delle attività professionali svolte da detti enti o organizzazioni ovvero per il contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività; - le differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari. Le aree nelle quali il principio di parità di trattamento previsto dal decreto legislativo in esame trova applicazione sono le quattro seguenti: - accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente , compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione; - occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni di licenziamento; - accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali; 37 - affiliazione e attività nell’ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni. La tutela giurisdizionale dei diritti derivanti dalle disposizioni di legge in esame è del tutto speculare a quella precedentemente vista per il D. Lgs. n. 215/2003. Come si accennava il decreto legislativo in esame appare ben calato in una realtà del mondo del lavoro nelle quale i fattori di discriminazione cui fa riferimento sono tutt’altro che scomparsi. Attualmente la discriminazione basata sulla religione, per esempio, sembra essere addirittura, aumentata, dal momento che il clima politico mondiale ha favorito la diffusione della paura e l’aumento della discriminazione tra gruppi religiosi, minacciando di destabilizzare le società e di generare atti di violenza. Sul posto di lavoro, la discriminazione in funzione della religione può assumere diverse forme: comportamento aggressivo da parte di colleghi o dirigenti, verso individui appartenenti a minoranze religiose; mancanza di rispetto e ignoranza delle usanze religiose; mancanza di imparzialità al momento dell’assunzione o della promozione; rifiuto di rilascio di licenze professionali e mancanza di rispetto delle abitudini di abbigliamento. La discriminazione nei confronti delle persone colpite da AIDS, ancora, costituisce motivo di preoccupazione crescente, in particolare tra le donne. Questo tipo di discriminazione può assumere diverse forme, per esempio un test al momento dell’assunzione suscettibile di provocare una negazione di impiego, un test al momento dell’entrata in un paese imposto ai visitatori che intendono rimanere per un lungo periodo e, in certi casi, un test obbligatorio per i lavoratori migranti. Anche i disabili subiscono abusi; la forma più comune di discriminazione è l’impossibilità di avere prospettive certe sia sul mercato del lavoro, sia in materia di educazione e formazione.Il tasso di disoccupazione dei disabili raggiunge secondo l’OIL ( Ufficio internazionale del lavoro) l’80% e oltre in numerosi paesi in via di sviluppo. I disabili sono relegati ad occupare impieghi subalterni con pochissima o addirittura senza alcuna protezione sociale. La preoccupazione per le forme di discriminazione in base all’età è anch’essa in aumento. Nel 2050, sempre secondo una stima dell’OIL, il 33% della popolazione dei paesi industrializzati e il 19% di quella dei paesi in via di sviluppo raggiungerà 60 anni o più e per la maggior parte si tratterà di donne. La discriminazione può essere apertamente attuata, come nel fissare un limite di età per un impiego; può anche 38 assumere forme più subdole, ad esempio, limitando l’accesso alla formazione o imponendo condizioni di pensionamento anticipato. La discriminazione in base all’età non colpisce esclusivamente le persone in età vicino all’età pensionabile. In alcuni casi, i datori di lavoro esercitano una discriminazione nei confronti delle donne in età più avanzata, dando più opportunità alle giovani al di sotto dei trenta anni. Il dilagare di queste nuove forme di discriminazione sul lavoro impone la necessità di passare dalla formulazione di principi, che come si è avuto modo di vedere non mancano né nella legislazione comunitaria, né in quella nazionale, all’attuazione dei principi. Per agire in questa direzione occorre passare, in definitiva, dal piano delle norme materiali al presidio delle fattispecie concrete. 39 DIVIETO DI LICENZIAMENTO, DIMISSIONI E DIRITTO AL RIENTRO NEL TESTO UNICO PER LA TUTELA DELLA MATERNITÀ E DELLA PATERNITÀ di Chiara Lensi (Dott. in giurisprudenza) 1. Aspe tti problematici del divieto di licenziamento per maternità. La legge n. 53/2000- così come risistemata dal T.U. delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, emanato con D. Lgs. 151/2001- rappresenta un indiscutibile traguardo per le lavoratrici madri. Com’è noto, essa garantisce alla madre naturale tutta una serie di diritti a tutela della salute fisica e psichica durante la gravidanza ed i primi mesi di vita del bambino ed offre opportunità analoghe anche ai genitori adottivi ed al padre lavoratore per consentire un'adeguata cura dei figli. Tuttavia, va rilevato fin d'ora che le disposizioni della nuova disciplina non avrebbero avuto ragion d'essere se il legislatore non avesse accompagnato ad esse un preciso sistema di tutele e garanzie del posto di lavoro. Se, in altre parole, il legislatore non si fosse preoccupato di impedire qualsiasi forma di ritorsione collegata all'uso dei congedi, sarebbero state vanificate anche le misure di tutela predisposte, giacché i timori per le possibili conseguenze sul rapporto di lavoro avrebbero forse indotto il genitore lavoratore a rinunciare a quei benefici che la legge, invece, gli riserva 17 . In particolare, il Capo IX del D.Lgs. 151/2001 disciplina un quadro normativo chiaro e sistematico delle garanzie e delle tutele del posto di lavoro, individuando tali misure in tre tipologie di interventi (art. 54: divieto di licenziamento; art. 55: dimissioni; art. 56: diritto al rientro e alla conservazione del posto). Il D.Lgs. 151/2001 ha riconosciuto il diritto di assentarsi dal lavoro ad ogni genitore che fruisca di una delle forme di congedo previste dal nostro ordinamento. L'esercizio di tale diritto è, di regola, rimesso all’iniziativa dei soggetti cui è stato concesso (è il caso del congedo parentale, ex astensione facoltativa), tuttavia ciò non toglie che, talvolta, il diritto di assentarsi 17 In tal senso, si veda R. Del Punta, La sospensione del rapporto di lavoro. Malattia, infortunio, maternità, servizio militare, in Commentario , diretto da P. Schlesinger, Milano, 1992, p. 584. 40 dal lavoro sia soltanto un aspetto del più generale divieto di lavorare che è riconosciuto alle lavoratrici madri in una determinata fase della vita (è questo, invece, il caso del congedo di maternità, ex astensione obbligatoria). Riconoscere, però, alle lavoratrici un diritto di non lavorare (o, comunque, assoggettarle ad un divieto di lavorare) impedisce soltanto che l'assenza dal lavoro possa essa stessa causare la perdita del posto di lavoro, senza che ciò scongiuri anche l’intimazione di un licenziamento immotivato con preavviso. Perché quindi si possa mettere una lavoratrice al riparo da qualsiasi forma di ritorsione (e, in particolare, dal licenziamento per maternità) è necessario accompagnare alle norme che giustificano o rendono addirittura obbligatoria l'astensione dal lavoro, altre norme che implichino un diritto alla conservazione del posto in senso forte, intendendo il conservare nel suo significato più pregnante di mantenere qualcosa in modo che non subisca alterazioni, o mantenere qualcosa nello stato originario, o assicurare la continuità, far durare, mantenere, o ancora in quello di preservare proteggendo18 . Di ciò sembra essersi perfettamente reso conto il D.Lgs. n. 151/2001 che, nel disciplinare il divieto di licenziamento per maternità, legittima la conservazione del posto di lavoro tanto per le lavoratrici in stato di gravidanza e puerperio, quanto per i lavoratori padri che fruiscano del congedo di paternità (non, quindi, per tutti i lavoratori padri), nonché per i genitori lavoratori adottivi ed affidatari che si siano avvalsi, a loro volta, del congedo di maternità e di paternità. Tale divieto di licenziamento che, in linea generale, cerca di tutelare il figlio nel primo anno di vita o di inserimento nella famiglia adottiva, subisce un temperamento in alcune ipotesi tassativamente indicate dalla legge (art. 54, 3º comma, del T.U.), ossia nel caso di colpa grave, di cessazione dell'attività dell'azienda, di scadenza del termine del rapporto, di esito negativo della prova. L’articolo 54 del D.Lgs. 151/2001 non si limita, quindi, ad impedire il licenziamento discriminatorio (si veda il 6º comma), ma mira soprattutto a garantire stabilità economica e psicologica alla madre lavoratrice impedendo -eccezion fatta per le ipotesi tassativamente previste- al datore di lavoro di esercitare il potere di recesso anche per delle ragioni che, se non ci fosse il divieto, potrebbero giustificarlo. L’attenzione riservata dal nostro ordinamento al divieto di licenziamento della lavoratrice madre è dunque funzionale alla 18 Così, R. Del Punta, op. cit., p. 607. 41 costituzione di una speciale tutela degli aspetti della maternità strettamente collegati alla diversità fisiologica della donna rispetto all'uomo. Ciò si desume sia a livello costituzionale (artt. 3, 31, 37: si tende a tutelare la maternità in quanto tale per il suo valore eticosociale, nonché la donna inserita nel mondo del lavoro, sia a livello legislativo, ove la specialità delle norme a tutela della lavoratrice madre induce ad esonerare quest'ultima dalla disciplina generale sul licenziamento del lavoratore, ex L. 604/66 e L. 300/70, art. 18. La finalità sottesa alla L. 1204/71, prima, ed al T.U. 151/2001, poi, è quindi diretta ad evitare che nel periodo protetto intervengano, in relazione al rapporto di lavoro, comportamenti che possano turbare ingiustificatamente la condizione della donna ed alterare il suo equilibrio psicofisico, con serie ripercussioni sulla gestazione o, successivamente, sullo sviluppo del bambino. Tale finalità spiega pertanto la nullità del licenziamento ingiustificato operato in violazione del suddetto divieto e chiarisce anche perché la legge riconosca alla lavoratrice licenziata durante il periodo protetto il diritto ad ottenere il ripristino del rapporto di lavoro mediante la presentazione di un certificato che accerti la gravidanza esistente al momento del licenziamento. Pur non potendo, in questa sede, ripercorrere tutta l'evoluzione giurisprudenziale e dottrinale che ha condotto all'adozione di tale previsione, è opportuno precisare che oggi la presentazione del certificato attestante lo stato di gravidanza assolve ad una funzione esclusivamente probatoria, trattandosi della comunicazione di un fatto cui la legge ricollega automaticamente certe conseguenze 19 . Il divieto di licenziamento opera infatti in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza ed il certificato che lo attesta è funzionale alla sola prova dello stato interessante della lavoratrice, dal momento che l'inizio del divieto di licenziamento non è più collegato alla presentazione di tale certificato, bensì all'inizio della gestazione. Tale certificato può quindi trovare un equipollente nella prova della conoscenza dello stato di gravidanza da parte del datore di lavoro al momento del licenziamento. Semmai il problema giuridico che rimane aperto è quello del quid iuris nel caso in cui una lavoratrice faccia valere la nullità del licenziamento comminatole, a distanza di anni (l'azione di nullità è, secondo le regole generali, imprescrittibile), facendo così precipitare nel baratro dell'incertezza giuridica i datori di lavoro che, in tal modo, 19 Cfr. art. 54, 5º e 6º comma, del D.Lgs. 151/2001. 42 corrono il rischio di sentirsi contestare licenziamenti intimati tempo addietro senza avere adeguate possibilità di difesa. Tale problematica ha senso soprattutto considerando che il T.U., a differenza della L. 1204/1971, non si richiama più al termine di decadenza di 90 giorni per la presentazione di tale certificato. Sebbene la norma in esame faccia riferimento alla sola ipotesi di chi sia stata licenziata senza aver prodotto il certificato di gravidanza, ragioni di opportunità inducono a ritenere la norma applicabile anche al caso in cui la lavoratrice sia stata licenziata in seguito alla presentazione del certificato. Il divieto di licenziamento opera fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro (ossia tre mesi dopo il parto), nonché fino al compimento di un anno di età del bambino. La doppia previsione serve a coprire i casi in cui il bambino nasca morto o muoia durante i tre mesi di interdizione dal lavoro e risponde alla volontà di non turbare ulteriormente la lavoratrice madre in un periodo così delicato dal punto di vista emotivo. Quanto, poi, all'interruzione della gravidanza, essa viene considerata come parto o come malattia, a seconda che sia avvenuta successivamente o anteriormente al centottantesimo giorno dal suo inizio. Pertanto, nel caso in cui debba essere assimilata al parto, opererà il divieto di licenziamento; viceversa, nel caso in cui l'interruzione della gravidanza debba essere qualificata come aborto, opererà il divieto di recesso per malattia. Tra le parti più interessanti della norma, v’è senz'altro il disposto di cui al 3º comma dell’art. 54 T.U., circa le deroghe al divieto di licenziamento. Tra esse, di particolare interesse è l'ipotesi di colpa grave della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto. In dottrina si sostiene che molto opportunamente il legislatore richiama il duplice parametro della colpa grave e della giusta causa, dal momento che con il rinvio alla sola colpa grave della lavoratrice si sarebbe potuta ammettere la sussistenza della deroga al divieto di licenziamento non solo nel caso di giusta causa, ma anche in quello di giustificato motivo soggettivo di cui all'articolo 3, L. 604/66. La giurisprudenza ha affermato che la nozione di giusta causa prevista per il licenziamento della lavoratrice assume aspetti caratteristici rispetto a quella ricavabile dall'articolo 2119 c.c., richiedendo una colpa più qualificata, dal punto di vista soggettivo, in ragione delle specifiche condizioni psicofisiche in cui versa la donna madre, e 43 comprendente situazioni più complesse rispetto ai comuni schemi, dal punto di vista oggettivo20 . Il licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza è perciò ammissibile soltanto per colpa grave, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro. Tale “colpa grave” non è integrata dalla semplice colpa richiesta per le altre ipotesi di licenziamento, essendo necessaria -appunto- la gravità di essa. Ciò implica che non è sufficiente accertare la sussistenza di una situazione prevista dalla contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva, ma è invece necessario verificare -con accertamento riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato- se sussista quella colpa specificamente prevista dalla norma e diversa (per l'indicato connotato di gravità) da quella prevista dalla disciplina pattizia per generici casi di inadempimento del lavoratore sanzionati con la risoluzione del rapporto21 . Ci si può, semmai, chiedere se tale nozione più qualificata di giusta causa (che fa riferimento alle condizioni psicofisiche in cui versa la donna madre) possa valere anche qualora tali condizioni non sussistano, come nel caso dei padri o dei genitori adottivi, garantendo anche ad essi una tutela più intensa o se debbano, invece, applicarsi gli usuali criteri esegetici. Del pari, il divieto di licenziamento non è applicabile nel caso in cui cessi l'attività dell'azienda in cui la lavoratrice è addetta. L'orientamento maggioritario ritiene configurabile tale deroga non solo in caso di cessazione totale dell'attività dell'azienda, ma anche nel caso in cui la cessazione dell'attività sia parziale, purché riguardi un ramo di attività o un reparto autonomo dell'azienda. Si è tuttavia precisato che incombe sul datore l'onere di provare che la lavoratrice non può essere collocata altrove all'interno dell'azienda, con ciò dimostrando che il licenziamento è effettivamente l'unica strada possibile 22 . La cessazione dell'attività, sia pur parziale, non può però consistere in una mera riduzione di attività, in un semplice cambiamento di luogo della stessa o nella ristrutturazione dell'unità di appartenenza della lavoratrice, essendo necessario che la vicenda che ha colpito l’azienda abbia comunque determinato la definitiva soppressione di un reparto 20 In tal senso, Cass., 21.09.2000, n. 12503, in Foro It., 2001, I, p. 111. Cass., 18.02.1993, n. 1973, in Lav. Prev. Oggi, 1993, p. 1039. 22 Cfr., Cass., 26.03.1982, n. 1897, in Riv. It. Dir. Lav., 1983, II, p. 91. 21 44 autonomo della stessa23 . Costituiscono altresì eccezioni al divieto di licenziamento, l'ipotesi di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o la risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine; nonché il caso di licenziamento per esito negativo del patto di prova. Sotto un profilo sanzionatorio, il licenziamento intimato in violazione delle suddette norme imperative è nullo alla stregua dei normali principi civilistici in tema di nullità dei negozi. D’altra parte, la scelta di sanzionare con la nullità -e non con una mera inefficacia temporanea- il recesso viziato è oggi imposta dalla Corte Costituzionale che, con la storica sentenza n. 61/9124 , ha definitivamente posto fine al dibattito circa il tipo di sanzione con cui colpire il licenziamento illegittimo a danno della lavoratrice madre. L’art. 2 della L. 1204/1971 non precisava, infatti, quale fosse la sanzione da applicare al recesso viziato e la Corte di Cassazione 25 , in via interpretativa, aveva ritenuto che esso dovesse essere sanzionato con l'inefficacia temporanea (operante sino alla cessazione del divieto, cioè sino ad un anno dal momento del parto). Entrando in collisione con le Sezioni Unite della Cassazione 26 , la Corte Costituzionale ha invece esteso la sanzione della nullità, prevista espressamente per il licenziamento a causa di matrimonio, al licenziamento della lavoratrice madre, dichiarando incostituzionale la consolidata qualificazione giurisprudenziale di mera inefficacia temporanea del recesso sino allo scadere del periodo di divieto. La Corte ha motivato la sua decisione affermando che la lavoratrice madre alla quale sia intimato un licenziamento, seppur con efficacia differita, ne resterebbe comunque turbata ed è, pertanto, compito del diritto garantirle una serenità che sia funzionale alle esigenze psicofisiche del bambino, e forse più ancora a quelle del feto durante la gestazione. 23 Così, Cass., 2.04.1992, n. 4034, in Mass. Giur. Lav., 1992, p. 364; Cass., 26.10.1986, n. 6236, in Giust. Civ., 1987, I, p. 62; Cass., 16.11.1985, n. 5647, in Giust. Civ., 1986, I, p. 1074; Cass. n. 1897/1982, op. cit.. Per i rapporti tra questa eccezione al divieto di licenziamento e la disciplina sui licenziamenti collettivi, si rinvia a R. Del Punta, I licenziamenti collettivi per riduzione di personale, in Giust. Civ., 1983, II, p. 55. . 24 Corte Cost., 8.02.1991, n. 61, in Mass. Giur. Lav., 1991, p. 4. 25 Cass., 20.10.1987, n. 7747, in Giust. Civ., 1988, I, p. 428; Cass., 14.12.1981, n. 6611, in Orient. Giur. Lav., 1982, p. 1413. 26 Per l’avallo definitivo nel senso della inefficacia del recesso viziato, Cass., S.U., 21.08.1990, n.8535, in Foro It., 1990, I, p. 2481. 45 Le argomentazioni testé svolte consentono, inoltre, di rispondere alla controversa questione circa la modifica del rapporto di lavoro una volta che sia decorso il periodo dei congedi parentali, ossia dopo un anno di età del figlio. Da parte di alcuni è stato, infatti, obiettato che il T.U. sarebbe mal formulato nella parte in cui consente al datore di adottare -in maniera libera- provvedimenti che incidono sul rapporto di lavoro dopo che sia decorso il periodo protetto dalla legge. In sostanza, ci si è chiesti se fosse legittimo tutelare la lavoratrice madre nel primo anno di vita del figlio, per poi consentire al datore di licenziarla immediatamente dopo, magari facendo valere motivi riconducibili a fatti o situazioni verificatesi durante il periodo di operatività del divieto. Nell'opinione di chi scrive, non solo ciò è perfettamente lecito ma, se vogliamo, anche ovvio. Anche se volessimo trascurare che ogni testo di legge introduce necessariamente un “prima” e un “dopo” e che se intendessimo interpretare questo confine a nostro piacimento finiremmo solo con il frustrare il principio di certezza del diritto, resta tuttavia il fatto che il T.U., almeno nelle sue intenzioni, ha voluto proteggere in maniera rafforzata un periodo di vita della lavoratrice durante il quale è parso più opportuno garantire stabilità e sicurezza, senza però che ciò equivalesse né ad assoggettarla ad una tutela speciale per tutta la vita (e quindi anche quando fosse terminata la ragione che ne aveva legittimato la previsione, ossia la tenerissima età del bambino), né tanto meno a privarla della tutela prevista dalle regole generali in tema di licenziamento illegittimo e discriminatorio (che pertanto resteranno perfettamente valide laddove ne sia dimostrata la fondatezza). Diversamente avremmo un eccesso di tutela che contrasterebbe proprio con le motivazioni che a tale tutela avevano spinto. Peraltro, la questione è stata esaminata dalla già citata Corte Costituzionale (61/91), la quale ha sostenuto che, allo scadere del periodo protetto, il datore di lavoro riacquista l'integrità del suo potere di recesso, nel rispetto dei limiti previsti dalla legge e dalle regole da essa imposte. Quanto alla causa giustificatrice, nulla esige che la stessa sia nuova, essendo invece necessario che essa sussista (ancora) al momento in cui il licenziamento viene legittimamente intimato (il che, semmai, lo rende piuttosto difficile nell'ipotesi di licenziamento dovuto ad inadempimento della lavoratrice madre, mentre la perdurante attualità della ragione verificatasi durante il periodo di divieto sembra piuttosto probabile nel caso di ragioni organizzative e tecnico - produttive). 46 Si discute, infine, se a tale licenziamento illegittimo possa o meno applicarsi l'art. 18 S.L. in tema di reintegrazione nel posto di lavoro, con condanna del datore alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno previsto dalla stessa norma in relazione al periodo di tempo che va dal licenziamento alla sentenza. Sembra preferibile escludere l'applicabilità dell'art. 18 anche a tale ipotesi in quanto, nonostante tale norma possieda una forza espansiva tale da renderla applicabile anche a casi diversi da quelli espressamente contemplati, la violazione del divieto di licenziamento della lavoratrice madre è assoggettato ad una diversa, specifica disciplina. Senza contare che, ai fini pratici, l'applicazione della disciplina comune sulla mora credendi ex artt. 1418 e 1223 c.c. -che consegue alla declaratoria di nullità, secondo il diritto comune- consente di pervenire al medesimo risultato, giacché alla lavoratrice spetteranno comunque a titolo risarcitorio le retribuzioni maturate e maturande fino all'effettivo ripristino del rapporto. Quanto, infine, al divieto di sospensione dal lavoro -previsto dal 4º comma dell'art. 54 del T.U.- la scelta normativa è stata quella di farlo coincidere con il divieto di licenziamento, nel senso che durante il periodo nel quale opera quest'ultimo, la lavoratrice non può nemmeno essere sospesa da lavoro, salvo il caso in cui sia sospesa l'attività dell'azienda o del reparto cui essa è addetta, sempre che il reparto stesso abbia autonomia funzionale. La lavoratrice non può altresì essere collocata in mobilità a seguito di licenziamento collettivo ai sensi della legge 23 luglio 1991, n. 223, e successive modificazioni, salva l'ipotesi di collocamento in mobilità a seguito della cessazione dell'attività dell'azienda cui essa è addetta. La giurisprudenza ha interpretato questa norma in senso funzionale al divieto di licenziamento ed ha pertanto ritenuto sussistente il divieto di sospensione dal lavoro anche nel caso in cui la gravidanza della lavoratrice sia sopravvenuta alla sospensione, facendo venire meno, a partire da quel momento, gli effetti del provvedimento. L’atto compiuto in violazione del suddetto divieto è da considerarsi nullo, con conseguente ripristino del rapporto. Divieto di licenziamento e divieto di sospensione dal lavoro rispondono, quindi, alla medesima finalità di garantire alla lavoratrice madre non una platonica conservazione del posto di lavoro, bensì la sopravvivenza di un rapporto pieno e completo a tutti gli effetti, non ultimi quelli di natura patrimoniale. 47 2. Profili di invalidità delle dimissioni rassegnate in conseguenza dello stato di gravidanza Una delle principali preoccupazioni del legislatore è stata quella di evitare che il divieto di licenziamento potesse essere aggirato con false dimissioni, sostanzialmente imposte alla lavoratrice madre. Pertanto, per garantire che le dimissioni non siano state provocate da eventuali pressioni del datore di lavoro, il legislatore ha previsto specifiche regole in caso di maternità. Le dimissioni involontarie altro non sono che una forma mascherata di licenziamento illegittimo, giacché ad esse la lavoratrice perviene non per libera scelta, bensì perché indotta a ciò dal datore di lavoro. Questi, non accettando determinate condizioni in cui viene a trovarsi la lavoratrice (fra le quali spicca, appunto, lo stato di gravidanza), tenta di aggirare la legge costringendo la propria dipendente a dimettersi, o chiedendoglielo espressamente o rendendole l'ambiente di lavoro impossibile (tematica questa che si intreccia con quella, altrettanto complessa, del mobbing) oppure, fatto non infrequente, obbligandola a sottoscrivere lettere di dimissioni già preparate dal datore di lavoro e minimamente volute dalla lavoratrice, spesso approfittando dello smarrimento e della debolezza genericamente conseguenti allo stato di gravidanza della dipendente. Ogni volta che si verificano episodi del genere le lavoratrici sono gravemente lese nel loro diritto ad una libera manifestazione della loro volontà e vengono, di conseguenza, discriminate in ragione del loro stato di gravidanza, il che evidentemente rientra nella più ampia categoria delle discriminazioni per ragione di sesso. Per proteggere il genitore lavoratore da un datore che voglia indurlo a dimissioni fittizie, l’art. 55 del D.Lgs. n. 151/2001 utilizza diverse tecniche. Innanzitutto, il decreto riconosce al genitore lavoratore -che si sia dimesso durante il periodo in cui è previsto il divieto di licenziamento- il diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento. Nel caso di dimissioni avvenute in tale periodo protetto, la lavoratrice o il lavoratore non sono tenuti al preavviso. 48 La giurisprudenza maggioritaria riconosce, pertanto, al/alla lavoratore/lavoratrice dimissionario/a la spettanza dell'indennità di anzianità e dell'indennità sostitutiva del preavviso27 . Attribuire ai lavoratori dimissionari per maternità o paternità tanto l'indennità di preavviso, quanto l'esonero dal medesimo, mira a sostenere quegli individui che, indipendentemente dal motivo del recesso, abbiano deciso di porre fine al rapporto di lavoro. La legge si è, cioè, fatta carico di una situazione estremamente delicata e difficile nella vita di un lavoratore e, ancor più, di una lavoratrice; pertanto si è scelto di garantire - a chi si dimette - un piccolo aiuto economico, anche se al limite il datore di lavoro non abbia commesso nessun comportamento illecito. Viceversa, nel caso in cui il datore abbia inteso obbligare un/una suo/a dipendente a rassegnare le dimissioni, la norma in esame, almeno nelle sue intenzioni, potrebbe fungere da freno a tali iniziative. Autorevole dottrina ha perciò sottolineato che il fatto che le garanzie a protezione del posto di lavoro operino oggettivamente, ossia a prescindere dai motivi che hanno determinato la fine del rapporto di lavoro, dovrebbe far respingere la tesi per cui non avrebbe diritto all'indennità di preavviso la lavoratrice che si sia dimessa non per dedicarsi alla gravidanza o al bambino, ma per passare ad altro impiego28 . In secondo luogo, le dimissioni presentate dalla lavoratrice madre o dal lavoratore padre, durante il periodo in cui sussiste il divieto di licenziamento, devono essere convalidate dal Servizio Ispettivo territoriale del Ministero del Lavoro. Tale convalida non è, ovviamente, in grado di evitare che dietro dimissioni apparentemente volontarie si nascondano invece casi di volontà viziata; tuttavia non si può non riconoscere che essa assolve ad una fondamentale funzione di filtro tra ciò che realmente si è voluto (per le più disparate ragioni) e ciò che invece si è state costrette a volere (per una ragione spesso univoca). A tal proposito, la versione odierna della disciplina delle dimissioni del genitore lavoratore ha l'indiscutibile pregio di aver posto fine all'annosa querelle che, per lungo tempo, ha avvolto i rapporti tra la L. 27 Fra le tante pronunce a riguardo, si veda Cass., 14.05.1985, n. 2999, in Foro It., 1985, I, p. 1979; Cass., 9.03.1976, n. 810, in Giur. It., 1976, I, 1, p. 1093; Cass., 22.10.1975, n. 3475, in Foro It., 1976, I, p. 1956. 28 V.: R. Del Punta, op. cit., p. 660. 49 n. 1204/1971 ed il suo regolamento di esecuzione (D.P.R. 25 novembre 1976, n. 1026). L’art. 11 del D.P.R. n. 1026/1976 subordinava infatti la validità delle dimissioni, presentate dalla lavoratrice, alla convalida di esse dell'Ispettorato del Lavoro, al pari di quanto fa oggi l’art. 55 del D.Lgs. n. 151/2001. Il problema, allora, fu che la L. 1204/1971 non conteneva alcuna disposizione in tal senso e ciò indusse la Corte di Cassazione a ritenere illegittimo l'art. 11 per aver ecceduto i limiti della competenza regolamentare, nonché per aver dettato una disciplina in contrasto con il principio dell'immediata validità ed efficacia delle dimissioni ai fini della risoluzione del rapporto29 . Per quanto nemmeno prima le conclusioni della Suprema Corte sembrassero da condividere (più che una norma contra legem, l’art. 11 era, infatti, da considerare una norma praeter legem, con finalità integrativa, e non contraddittoria, rispetto al senso della legge; inoltre non si capiva bene perché la previsione di una convalida, sia pur condizionante la risoluzione del rapporto di lavoro, avrebbe dovuto in qualche modo vincolare l'autonomia negoziale della lavoratrice), certamente oggi devono ritenersi del tutto superate. L’art. 55 del D.Lgs. 151/2001 dispone, infatti, che “la richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice, durante il periodo di gravidanza, e dalla lavoratrice o dal lavoratore durante il primo anno di vita del bambino o nel primo anno di accoglienza del minore adottato o in affidamento, deve essere convalidata dal servizio ispettivo del Ministero del Lavoro, competente per territorio. A detta convalida è condizionata la risoluzione del rapporto di lavoro”. Assimilate al licenziamento quanto al profilo indennitario e dispensate dall'obbligo del preavviso, le dimissioni involontarie sono trattate quali dimissioni per giusta causa. Pertanto, la convalida delle dimissioni da parte dell'Ispettorato del Lavoro fa venire meno il diritto della lavoratrice alla retribuzione fin dalla dichiarazione di recesso; viceversa, nel caso in cui l'Ispettorato accerti la fittizietà delle dimissioni inoltrate, alla lavoratrice spetteranno le retribuzioni arretrate. Dopo aver analizzato il quadro normativo rela tivo alle dimissioni per maternità, resta -de iure condendo- un’ultima riflessione da fare. Troppo spesso, in questi anni, si è assistito a dimissioni (involontarie), quale “generosa concessione” di aziende che intendono invece 29 Cass., 15.11.1985, n. 5612, in Riv. It. Dir. Lav., 1986, II, p. 815. 50 procedere a mirate riduzioni di personale. Quando le imprese si trovano a dover rivedere la loro organizzazione interna, usano le dimissioni quasi fossero una sorta di strategia aziendale, inducendo malcapitati dipendenti a sottoscriverle in cambio dell'affermata rinuncia del datore di lavoro ad esercitare il potere di risoluzione del rapporto di lavoro (potere che -nella maggioranza dei casi- non avrebbe comunque potuto esercitare) e di un modesto incentivo economico. Laddove esigenze di efficienza e produttività rendono necessario eliminare lavoratori/trici “ingombranti”, ecco che enfatizzare in modo esagerato banali mancanze del dipendente o anche mancanze disciplinarmente rilevanti, ma non sanzionabili con il licenziamento, costringe il dipendente ad accettare quello che ritiene il male minore, ossia sottoscrivere la lettera di dimissioni. Senza contare che in queste circostanze il lavoratore si trova a dover decidere in tempi estremamente brevi, spesso senza l'aiuto di personale qualificato, in grado di renderlo edotto sulla realtà della sua situazione. Per quanto non sia infrequente che, in seguito, il lavoratore si renda conto di aver agito contro la propria volontà e soprattutto senza valutare strade alternative alle dimissioni, ciò non di meno dimostrare giudizialmente di aver prestato un consenso né libero né consapevole finisce per tradursi in una sorta di probatio diabolica che di rado vede vittorioso il dipendente. Di qui la condivisione del pensiero di chi auspica come urgente la riforma della disciplina delle dimissioni, intervenendo sul testo dell'attuale articolo 2118 c.c. per rafforzare la posizione del lavoratore dimissionario30 . In particolare, sarebbe opportuno subordinare la validità e l'efficacia delle dimissioni all'assenza di un atto di revoca, da esercitarsi entro un termine breve (7 o 15 giorni), al pari di quanto già avviene per la vendita a domicilio o per quella effettuata al di fuori degli esercizi commerciali. Accordare al lavoratore dimissionario il diritto di recesso di fronte ad una scelta ben più importante dell'acquisto di un'enciclopedia o di un corso di lingue - ossia la decisione di rinunciare al posto di lavoro non è, nell'opinione di chi scrive, una tappa ulteriormente procrastinabile per un ordinamento, il nostro, che ha fatto della libera 30 In tal senso, M. Meucci, L’annullabilità delle dimissioni estorte, in Lav. Prev. Oggi, 1996, n. 12, p. 2081. 51 manifestazione di volontà un principio regolatore delle obbligazioni sinallagmatiche 31 . 3. Il diritto al rientro ed alla conservazione del posto di lavoro tra tutela della professionalità e diritto alla “stabilità geografica”. Superfluo appare, invece, il disposto dell'art. 56 T.U. sul diritto al rientro ed alla conservazione del posto di lavoro. Anche volendo trascurare che è la stessa previsione di un diritto (nella specie, del diritto al congedo) a comportare il riconoscimento a non subire un recesso fondato sullo stesso motivo per cui tale diritto è stato fruito, resta il fatto che il diritto alla conservazione del proprio posto di lavoro è già attribuito al dipendente pubblico e privato da norme inderogabili. Ad ogni modo, l’art. 56 T.U. prevede che al termine dei periodi di divieto di lavoro previsti dal Capo II e III, le lavoratrici hanno diritto di conservare il posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinuncino, di rientrare nella stessa unità produttiva ove erano occupate all'inizio del periodo di gravidanza o in altra ubicata nel medesimo comune, e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino; hanno altresì diritto di essere adibite alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti. La disposizione di cui al comma 1 si applica anche al lavoratore al rientro al lavoro dopo la fruizione del congedo di paternità. Negli altri casi di congedo, di permesso o di riposo disciplinati dal presente testo unico, la lavoratrice e il lavoratore hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinuncino, al rientro nella stessa unità produttiva ove erano occupati al momento della richiesta, o in altra ubicata nel medesimo comune; hanno altresì diritto di essere adibiti alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche in caso di adozione e di affidamento. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano fino a un anno dall'ingresso del minore nel nucleo familiare. L'inosservanza delle disposizioni contenute nel presente articolo è punita con la sanzione amministrativa di cui all’art. 54, comma 8. Non è ammesso il pagamento in misura ridotta di cui all'art. 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689. 31 M. Meucci, op. cit., p. 2082. 52 Se tuttavia il legislatore ha ritenuto opportuno ribadire tale concetto, ci si può sforzare di trovarne la spiegazione nella diffusa prassi di dequalificazione che, di fatto, colpisce le donne al rientro dalle assenze per maternità. Anche se non è da escludere che con questa disposizione si sia voluto coprire il fenomeno dell'adibizione a mansioni superiori (pur non dequalificando un dipendente, si può però gravarlo di impegni incompatibili con le esigenze di vita familiare) o porre un freno alla stipulazione di patti derogatori al divieto di adibire a mansioni inferiori. Se, dunque, la tutela della professionalità conferma un diritto di cui già godono tutti i lavoratori, altrettanto non può dirsi per quel diritto alla stabilità geografica che, salvo non sia oggetto di rinuncia da parte del genitore lavoratore, limita fortemente il potere di trasferimento del datore, almeno per quanto riguarda le fattispecie che rientrano nella previsione dei commi 1 e 2 dell'art. 56. Mentre, i primi due commi della disposizione attribuiscono alla lavoratrice e al lavoratore una garanzia minima di stabilità (il primo compleanno del bambino), il 3° comma dell'art. 56 T.U. lascia il lavoratore -che sia rientrato nella stessa unità produttiva- soggetto al normale potere gestionale del datore di lavoro. Comunque, a seconda del periodo in cui sia stato disposto il trasferimento, questo potrà essere impugnato, ma ciò non toglie che la mancanza di una previsione analoga a quella dei primi due commi appaia piuttosto discutibile, soprattutto perché una sua modifica non è intervenuta nemmeno con il D.Lgs. 115/2003. Per queste e per altre ragioni, sarebbe auspicabile che la materia divenisse oggetto di un’accurata disciplina negoziale in grado di conciliare interessi contrapposti (quello del dipendente al congedo parentale e quello del datore all'organizzazione del lavoro) e di risolvere contraddizioni difficilmente eliminabili, come quella attinente alla possibilità di trasferire una lavoratrice madre in una sede più vicina -e non più lontana- alla sua abitazione, rendendole magari più breve la distanza tra l'abitazione ed il luogo di lavoro. 53 IL LAVORO MINORILE: FONTI NORMATIVE INTERNAZIONALI, NAZIONALI ED EUROPEE di ROBERTA CARAGNANO (Dott. in Giurisprudenza) Il problema del lavoro minorile e dello sfruttamento dello stesso è stato e continua ad essere, nella nostra società, un problema molto delicato in quanto nel processo di mercificazione sociale al “bambinopersona” con propri valori e caratteristiche da tutelare si è andato sostituendo il concetto di minore come “risorsa” per il mondo degli adulti. Ciò si è inserito nel contesto del bambino considerato come “oggetto” di sfruttamento. Le cause poste alla base del lavoro minorile sono diverse e vanno dalla povertà materiale dei Paesi poveri e sottosviluppati dove il lavoro, anche dei minori, diventa un mezzo di sopravvivenza, alla povertà culturale nei Paesi economicamente più avanzati. Il lavoro minorile, pur tendenzialmente protetto con norme sempre più attente alla prevenzione e repressione del fenomeno, non può totalmente considerarsi arginato in quanto sono carenti gli strumenti di verifica dell’applicazione delle norme stesse. La disciplina del lavoro minorile gravita intorno ad un nucleo di disposizioni tese a salvaguardare i diritti fondamentali della persona quali integrità, salute e sviluppo fisico, psichico, morale, culturale, professionale. Sono numerose, sia in ambito internazionale che interno le norme che predispongono specifiche tutele dirette a disciplinare orari, pause e riposi dei giovani lavoratori, in deroga alla regolamentazione generale dell’orario di lavoro. Il Patto internazionale ONU del 16 dicembre 1966 relativo ai diritti economici, sociali e culturali, sottolinea la stretta connessione tra lavoro, famiglia, maternità e figli. L’art. 10 é dedicato al rapporto lavoro-famiglia intesa quale nucleo fondamentale della società, non che alla speciale tutela lavoristica dei suoi componenti più deboli, le madri e i figli minori. In relazione a questi ultimi si afferma che “i fanciulli e gli adolescenti devono essere protetti contro lo sfruttamento economico e sociale” e si proibisce il loro “impiego in lavori pregiudizievoli per la loro salute, pericolosi per la loro vita, tali da nuocere al loro normale sviluppo”. 54 Sulla stessa linea si indirizzano la Carta Socia le Europea32 firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e la Carta Comunitari dei Diritti sociali fondamentali dei lavoratori firmata a Strasburgo nel 198933 , nonché il Trattato istitutivo della Comunità Europea e il Trattato di Amsterdam. Per contrastare il fenomeno in maniera più efficace si è ritenuto necessario inserire il lavoro minorile in un ampio contesto di tutela internazionale ed in una strategia finalizzata alla maggiore promozione dei diritti dell’infanzia. L’organizzazione internazionale del Lavoro (OIL)34 , sin dal 1919, anno della sua costituzione ad opera del Trattato di Versailles, ha svolto un ruolo significativo nella lotta contro lo sfruttamento del lavoro minorile, infatti nella Costituzione dell’Oil si riconosce tale obiettivo come “essenziale al perseguimento della giustizia sociale e della pace universale”. L’Oil, in primis ha operato mediante la individuazione e la predisposizione di testi di Convenzioni e Raccomandazioni, volte ad incidere sulla regolamentazione ad opera del lavoro minorile, ponendo dei principi e delle regole minime di protezione in grado di costituire modello e stimolo per gli ordinamenti nazionali. 32 L’art. 7 della Carta Sociale Europea fa riferimento all’orario di lavoro e ai riposi dei minori: fissata la regola di protezione speciale contro i pericoli fisici e morali derivanti dal lavoro (p.to 10) e quella dell’età minima di accesso al lavoro (p.ti 1, 2, 3 ), la norma sancisce il principio di compatibilità della durata della prestazione dei giovani al disotto dei 16 anni con le esigenze dello viluppo e della formazione professionale (p.to 4) quello della necessaria computabilità come lavoro effettivo delle ore dedicate dagli adolescenti, con il consenso del datore di lavoro, alla formazione professionale durante la giornata lavorativa (p,to 6), quello della durata minima di tre settimane delle ferie annuali retribuite (p.to 7) ed infine il divieto di lavoro notturno, con le eccezioni stabilite dalla legislazione nazionale per determinati lavori. 33 La Carta di Strasburgo nella sezione dedicata alla protezione dell’infanzia e degli adolescenti, ribadendo che l’età minima per l’ammissione al lavoro non deve essere inferiore a quella in cui termina l’obbligo scolastico, né comunque ai 15 anni (art. 20) , stabilisce che la durata del lavoro dei minori di 18 anni deve essere limitata e che il lavoro notturno, salvo casi eccezionali , deve essere vietato. Infine, l’art. 23 prescrive che, una volta terminata la scuola dell’obbligo, il giovane benefici di una formazione professionale di congrua durata, da realizzarsi durante l’orario di lavoro. 34 Le politiche, la struttura e l’attività dell’Oil sono contenute in Adam, Attività normativa e di controllo dell’Oil e evoluzione della Comunità Internazionale, Milano, 1993 e P. Assanti, Il ruolo delle forze sociali dell’Oil nel quadro della costruzione giudiziaria dell’Europa, in Riv. Giur. Lav., 1994, I, p. 103. 55 Successivamente, la stessa organizzazione ha indirizzato la propria attività orientandosi in una direzione caratterizzata da un notevole grado di pragmatismo, che ha visto nel 1992 la creazione del programma internazionale per l’eliminazione del lavoro minorile IPEC. Questo programma vedeva impegnati e coinvolti, sotto la direzione dei Paesi economicamente più avanzai del mondo, coordinati dall’Organizzazione internazionale del Lavoro, diversi Stati con l’obiettivo di operare una progressiva eliminazione del lavoro minorile. La strategia utilizzata era suddivisa in più fasi quali: ü motivazione di un ampio gruppo di partners affinché prendessero coscienza del problema e si adoperassero per contrastarlo; ü effettuazione dell’analisi della situazione in un determinato Paese; ü creazione di opere di sensibilizzazione, sia a livello nazionale che nelle comunità e sui luoghi di lavoro; ü collaborazione alla formulazione e all’attuazione di politiche nazionali mirate alla predisposizione di un certo numero di azioni programmate; ü potenziamento delle organizzazioni esistenti e creazione di meccanismi istituzionali; ü promozione della formulazione e dell’applicazione di leggi di tutela, nella convinzione che ogni azione normativa che tendesse a sconfiggere lo sfruttamento minorile dovesse, necessariamente, accompagnarsi ad efficaci politiche di sviluppo. Nel 1992 la Conferenza adottò anche la Convenzione n. 182 relativa alla proibizione delle forme più gravi ed intollerabili di sfruttamento del lavoro minorile ed all’azione immediata per la loro eliminazione. Tale documento, pur non essendo vincolante in modo automatico, costituiva, per il futuro, un nuovo e fondamentale punto di riferimento, per gli Stati che avrebbero voluto fare propri i principi e le garanzie ivi previste attraverso la ratifica35 . Nell’individuazione dei soggetti tutelati, il testo specificava che, ai priori fini, il termine “bambino” era riferibile ad ogni soggetto minore di anni 18, facendo propria la nozione a suo tempo adottata dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti dell’Infanzia del 1989 e delimitando con chiarezza l’ambito di applicazione delle proprie disposizioni sgombrando il campo da possibili incertezze interpretative. 35 Seychelles e Malati sono stati i primi Paesi ad aver ratificato la Convenzione che è entrata in vigore il 19 Novembre 2000. 56 La Convenzione individuava nella concertazione unilaterale tra istituzioni governative, associazioni dei datori di lavoro e organizzazioni sindacali lo strumento più idoneo ed adeguato per progettare ed implementare programmi di azione diretti ad eliminare in via prioritaria le più gravi forme di sfruttamento (art. 6). Inoltre, agli Stati parte si chiedeva l’impegno, non solo a stabilire sanzioni (penali o e di altra specie) per garantire l’effettività delle previsioni convenzionali, ma, in un’ottica preventiva e riabilitativa, anche l’impegno ad adottare misure effettive per prevenire l’impiego di bambini nelle forme di sfruttamento individuate come “intollerabili”a rimuovere gli stessi da attività di tal tipo e a promuoverne la riabilitazione e l’integrazione sociale. Nel 1996, si inserisce la proposta dell’Oil per la predisposizione di una Nuova Convenzione sul lavoro minorile pericoloso e sulla eliminazione delle sue forme intollerabili. Nel 1997 la raccomandazione n. 1336 attuata nell’ambito della Strategia Europea a favore dei bambini, evidenziava il crescente tasso di sfruttamento di lavoro minorile non solo in molti Paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America latine, ma anche in Europa costituendo in quest’ultima un rilevante problema sociale ed una vera e propria questione paneuropea. Le politiche del lavoro minorile, stando alla Raccomandazione, dovevano essere in armonia con il principio dell’interesse superiore del bambino. Inoltre, la regolamentazione del lavoro tramite la legislazione e l’ispezione, era considerata importante in molti Paesi, al fine di stabilire standards cui dovevano attenersi i datori di lavoro. L’assemblea aveva appoggiato la proposta dell’Oil circa l’adozione, da parte di tutti gli Stati, di una dichiarazione che difendesse i principi e i diritti fondamentali universalmente riconosciuti e che rappresentasse un serio impegno da parte gli Stati membri nella regolamentazione della materia de quo indipendentemente dalla ratifica delle Convenzioni sul lavoro minorile. A riguardo sarebbero stati adeguati dei codici di condotta che, senza danneggiare il mercato, avrebbero dovuto salvaguardare gli interessi dei bambini. I Paesi della Ue potevano, inoltre, porre un argine alla diffusione del fenomeno attraverso dei programmi di cooperazione internazionale aventi lo scopo di aiutare i bambini sfruttati. L’assemblea raccomandava che il Comitato dei Ministri richiedesse a tutti gli Stati membri di combattere lo sfruttamento economico dei bambini: 57 1. adottando una chiara politica nazionale e un programma di azione, i quali dovevano essere esaurienti, coerenti e coordinati, interdisciplinari e di carattere preventivo ai quali si sarebbero dovute destinare le risorse necessarie per la loro realizzazione; 2. intraprendendo ricerche sistematiche e finalizzate all’intervento in tutti gli ambiti che riguardavano il lavoro minorile; 3. riesaminando la legislazione nazionale per meglio rafforzare la tutela dei bambini, in particolare per conformarsi agli standard sociali posti dal Consiglio d’Europa, dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dei bambini e dalle inerenti Convenzioni dell’Oil, in particolare dalla convenzione sull’età minima d’ammissione all’impiego, n. 138 del 1973; 4. migliorando l’efficacia dei servizi ispettivi scolastici e del lavoro; 5. mediante un maggiore coinvolgimento, tramite la consultazione di tutte le parti interessate quali i sindacati, i datori di lavoro, le organizzazioni non governative gli stessi bambini e i genitori; 6. aumentando la consapevolezza della società, nel suo insieme considerata, circa l’impatto del lavoro minorile precoce, educando i consumatori a prestare attenzione ai diritti basilari del lavoro acquistano dei prodotti. L’assemblea, inoltre, invitava il Comitato dei Ministri a dimostrate a livello europeo la sua volontà politica circa la lotta allo sfruttamento economico dei bambini e, quale seguito alla Strategia Europea per i bambini, dava priorità: a) ad una valutazione, in ogni Stato membro, della situazione del lavoro minorile, al fine di individuarne le forme più intollerabili, per analizzare le cause e definire le proposte circa le modalità attraverso le quali tali forma di sfruttamento potevano essere controllate; b) alla definizione di una ampia politica europea sul lavoro minorile, tenendo in considerazione gli standard sociali posti dal Consiglio d’Europa e al fine di conformarsi ciò, in cooperazione con l’Oil, l’Unicef, le organizzazioni non governative interessate e le parti sociali e, in consultazione con i bambini che lavorano allo scopo di assicurare che sia data al giusta considerazione alle loro opinioni. Il Governo Italiano nel 1998, raccogliendo l’invito della Ue e delle organizzazioni sindacali, istituì un Tavolo di concertazione ad hoc, coordinato dal Ministero della Solidarietà Sociale, On Livia Turco, cui parteciparono diversi Ministri e le parti sociali. Lo scopo era quello di 58 giungere ad una “Carta degli Impegni36 ” che sancisse non solo una comune condanna del fenomeno ma una valutazione dei profili del problema, sia sul piano nazionale che internazionale con precisi impegni sulle iniziative da promuovere in riferimento alla conoscenza del fenomeno, alla prevenzione, alla vigilanza, alle sanzioni dei comportamenti illegali, alla promozione e costituzione di sedi per l’elaborazione concordata tra istituzioni e forze sociali delle necessarie politiche. Alla base di ogni iniziativa di intervento doveva esserci, comunque, una nuova concezione del minore, non più come bambinooggetto ma come risorsa della società cui dovevano essere offerti spazi e servizi per l’orientamento, l’informazione, il sostegno ai bambini e alle famiglie rispetto al mondo del lavoro. La “Carta degli Impegni” del 1998 si proponeva di essere un documento teso ad individuare nuove forme sostanziali di tutela e nuove politiche sociali a favore dei minori e dell’infanzia in generale, al fine di eliminare ogni forma di sfruttamento del lavoro minorile. La suddetta Carta 37 fu il frutto di un accordo sottoscritto dall’Italia nella Conferenza Internazionale svoltasi ad Oslo nel 1997 in cui si ribadì che lo sfruttamento dei minori era causa e conseguenza della povertà, che l’utilizzo dei fanciulli rallentava la crescita economica, lo sviluppo sociale e costituiva una violazione grave dei diritti elementari delle persone umane. Il documento de quo rappresentava il punto di partenza e la pietra miliare per una nuova cultura che arginasse ogni forma di abuso e tendesse a eliminare progressivamente ogni forma di sfruttamento. Gli obiettivi che si intendevano perseguire erano: 1. la realizzazione di una nuova Convenzione Internazionale contro lo sfruttamento del lavoro minorile, che definisse con sufficiente certezza la nozione di sfruttamento, l’età minima di 36 Carta degli impegni per promuovere i diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza ed eliminare lo sfruttamento del lavoro minorile, sottoscritta a Roma il 16 aprile del 1998, in http//www.cepadu.unipd.it. 37 Secondo la Carta degli Impegni “il Ministero della P.I., assume l’impegno … a partire dall’anno scolastico 1998/99” di “aprile la scuola ala cultura del lavoro, rendendo il lavoro una componente dell’esperienza formativa, offrendo ai giovani informazioni sulle opportunità professionali che si potranno presentare loro. Le imprese possono essere chiamate a partecipare a questo processo di indirizzo mediante esperienze lavorative infrascolastiche e stages formativi, strumenti utili a mettere in contatto il giovane con il mondo del lavoro”. 59 ingresso nel mondo del lavoro, i diritti essenziali da garantire senza eccezioni di sorta; 2. la previsione, a livello comunitario, di un Codice38 per le imprese che obbligasse queste ultime a rispettare la normativa internazionale sui diritti del minore; 3. la imposizione di sanzioni economiche alle imprese che commercializzavano prodotti per i quali non vi fosse un marchio di garanzia sui diritti del minore; 4. l’adozione di nuove politiche sociali a prevenzione del disagio; 5. l’istituzione di nuove figure poste a tutela dei diritti del minore e dell’adolescente. Gli intenti e gli obiettivi delle Carta degli Impegni sottoscritta dall’Italia nel 1998 sono stati rivisti e rivisitati recentemente dal Libro Bianco sul Mercato del Lavoro in Italia presentato nell’ottobre 2001 dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, al punto II. 4.2 E’ opportuno sottolineare che nel Libro Bianco il Ministero del Lavoro aveva conferito all’ISTAT, in collaborazione con l’OIL, l’incarico di una ricerca sulle “forme peggiori di lavoro minorile” 39 , in seguito ai dati preoccupanti emersi riguardo al fenomeno della illegalità minorile. 38 I codici di buona condotta sono documenti adottatati dalle imprese i via unilaterale (talora dopo una consultazione delle organizzazioni sindacali) che esplicitano, in via generale, l’intenzione delle imprese interessate di garantire il rispetto di standards internazionali di tutela dei diritti sociali dei lavoratori, mentre i soli marchi sociali sono strumenti diretti a rendere noto pubblicamente l’impegno sul pano sociale dell’impresa, assicurando i consumatori, attraverso un particolare segno distintivo, che i beni e/o servizi acquistati sono prodotti secondo modelli di gestione equi e rispettosi dei diritti fondamentali. Perulli, Brevi note sulla certificazione di conformità sociale dei prodotti in Dir. Rel. Ind., 2000, p. 27. 39 La Convenzione Oil n. 182 sulle “forme peggiori di lavoro minorile” è stata adottata il 17 giugno 1989 in Ginevra nella Sessione n.- 87 e può essere letta in una traduzione italiana non ufficiale sul sito www. Ilo.org; il testo ufficiale in lingua inglese è presente in Gazzetta Ufficiale n. 135 del 12 giugno 2000. Nella Convenzione all’art. 3 sono definite tali tutte le forma di schiavitù, quali la vendita alla tratta dei minori, la servitù per debiti, il lavoro forzato o obbligatorio, l’impiego, l’ingaggio o l’offerta di minori a fini di prostituzione o per la produzione di materiale pornografico, utilizzo ai fini di attività illecite quali il traffico di droga e qualsiasi altro lavoro che, per sua natura o per le circostanze in cui si svolge, rischia di compromettere la salute, la sicurezza o la moralità del minore. 60 In Italia 40 , le azioni istituzionali finalizzate alla promozione della legalità sono state caratterizzate da un ruolo attivo del sindacato. Nella più recente inchiesta sul lavoro minorile condotta dalla CGIL41 la stima complessiva di bambini di età inferiore ai 14 anni occupati si attestava intorno ai 509.000 bambini occupati di cui 326.000 impiegati a tempo pieno, 183.000 impiegati solo stagionalmente , 57.000 bambini lavoratori presso parenti42 . Secondo le indagini, l’ingresso precoce nel mondo del lavoro è determinato da una serie di fattori quali l’estrazione della famiglia di origine, l’area geografica di residenza. Il Governo italiano, a partire dagli inizi degli anni ’90, ha avviato un processo legislativo avente l’obiettivo di adeguare le proprie leggi alle Direttive Europee e di porre un freno al fenomeno del lavoro minorile, attraverso un rapido recepimento della Direttiva Europea sulla protezione dei Giovani nel Mondo del lavoro (l. n. 128/1998) sia per, migliorare l’applicazione delle leggi in materia di lavoro minorile (d.p.r. n. 365/1994) che per il rafforzamento e il coordinamento degli interventi ispettivi e repressivi. 40 Il Cnel nel Rapporto sulle politiche di coesione sociale del luglio 1998 stimava l’economia sommersa in questi termini: 530.000 miliardi di ricchezza prodotta, 10 miliardi di ore di lavoro, 5 milioni di lavoratori in nero (22,5 % del totale degli occupati), 300.000 minori lavoratori, 250.000 clandestini. LEOPARDI -OTERI, I contratti di riallineamento retributivo: profili giuridici e primi bilanci, in Lav. Inf., 1998, n. 15-16, p. 14 e ss. 41 Indagine della CGIL riferisce dell’esistenza di un mondo italiano di occupazione infantile diffuso in modo trasversale in tutti i settori (poiché funzionalmente connesso a mansioni di bassa manovalanza), caratterizzato da una assenza di qualità del percorso scolastico del minore e di un mondo cinese di occupazione infantile, preadolescenziale strettamente connesso alle esigenze economiche della famiglia. Lavoro e lavori minorili. L’inchiesta CGIL in Italia, Roma, 2000, p. 142. 42 Dati ricavati da Lavoro minorile che si può consultare collegandosi con il sito www.cgil.it/ufficiostampa 61 IL LAVORO MINORILE IN ITALIA PROSPETTIVE D’INTERVENTO di FRANCO ELIO CASTELLUCCI (Responsabile dell'Ufficio Lavoratori Autonomi e Parasubordinati-INPS di Milano Fiori) E NUOVE 1. Le definizioni e campo di applicazione L’ art. 2 del D.Lgs 345/1999 prevede espressamente che nel titolo e nelle disposizioni della L.977/1967 la parola “fanciullo” sia sostituita da quella di “bambino”. In seguito a tale sostituzione, il campo di applicazione della disciplina regolata dall’art. 1, punti a) e b) che comprende tutti i lavoratori minori di età, di ambo i sessi è distinto tra: - bambini, cioè minori che non hanno compiuto i 15 anni o che sono ancora soggetti all’obbligo scolastico; - adolescenti, cioè minori di età compresa tra i 15 e i 18 anni compiuti, non più all’obbligo scolastico. Per orario di lavoro: si intende qualsiasi periodo in cui il minore è al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni; (art. 1, punto c)); per periodo di riposo: si intende qualsiasi periodo che non rientra nell'orario di lavoro (art. 1, punto d)); con il termine “notte”: si intende un periodo di almeno 12 ore consecutive comprendente l'intervallo tra le 22 e le ore 6, o tra le ore 23 e le ore 7 (art. 15, comma 2). Tali definizioni sono state tutte introdotte dal D.lgs 345/1999 e rientrano più in generale nell’ambito di una nuova tecnica di redazione dei testi legislativi che nel primo articolo e/o in quelli successivi definiscono giuridicamente i termini che verranno usati nel testo. Il successivo art. 2 della legge in commento prevede che le disposizioni della L. 977/1967, invece, non si applicano agli adolescenti addetti a lavori occasionali43 o di breve durata concernenti: 43 Circ. n. 1 del 5 gennaio 2000 del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali reperibile sul sito http://www.welfare.gov.it, sezione norme: “la dizione lavori occasionali si intende riferita a prestazioni casuali, sporadiche, saltuarie. La saltuarietà, tuttavia, di per sé non è elemento sufficiente ad escludere la presenza di un rapporto di lavoro; occorre, quindi, distinguere tra continuità di rapporto e continuità di prestazione, in quanto è possibile che alla continuità del rapporto si accompagni l'intermittenza delle prestazioni. I lavori di breve durata 62 - servizi domestici prestati in ambito familiare; - prestazioni di lavoro non nocivo, né pregiudizievole, né pericoloso, nelle imprese a conduzione familiare; - alla lavoratrici minori gestanti, puerpere o in allattamento si applicano le disposizioni del decreto legislativo 25 novembre 1996 n. 645, ove assicurino un trattamento più favorevole di quello previsto dalla presente legge; - per gli adolescenti occupati a bordo delle navi sono fatte salve le specifiche disposizioni legislative o regolamentari in materia di sorveglianza sanitaria, lavoro notturno e riposo settimanale 44 . 2. I re quisiti: età, istruzione e sanitari. La legge 977/1967 originariamente fissava l’età minima per lo svolgimento dell’attività lavorativa in generale a 15 anni, ammettendo tuttavia il più basso limite di anni 14 per lavori agricoli e quelli familiari e per lavori leggeri in attività non industriali. Attualmente l’art. 3 della L. 977/1967, come sostituito dall’art. 5 D.Lgs 345/1999 fissa, invece, l’età minima per l’ammissione al lavoro al momento in cui il minore ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria, stabilendo che essa, comunque, non può essere inferiore ai 15 anni compiuti. Quindi, nell’impianto normativo del D.Lgs 345/1999, il criterio dell’assolvimento dell’obbligo scolastico risulta prevalente su quello meramente anagrafico45 ne consegue che per determinare il limite di età per la legittima instaurazione del rapporto di lavoro con un minore, si devono accertare due requisiti distinti: - che il ragazzo abbia compiuto i 15 anni di età; possono riferirsi a quelle prestazioni nelle quali l'elemento temporale non raggiunge quel minimo necessario perché l'attività svolta possa ricomprendersi in una delle fattispecie tipiche previste dalla legge (es. tutte le ipotesi di contratto a termine)”. 44 Circ. n. 1 del 5 gennaio 2000 del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali reperibile, cit: Per gli adolescenti occupati a bordo delle navi sono fatte salve le specifiche disposizioni legislative o regolamentari in materia di sorveglianza sanitaria, lavoro notturno e riposo settimanale, e ciò in relazione alla peculiarità ed inderogabilità di molte norme sul lavoro marittimo, in vista della sua stretta connessione all'interesse pubblico. L'interesse generale alla sicurezza della navigazione è ritenuto, infatti, prevalente e condiziona la stessa tutela predisposta per il lavoro subordinato. 45 In sostanza è stato introdotto nell’ordinamento il principio per cui l’età minima per l’accesso al lavoro non può collocarsi al di sotto di quella in cui cessa l’obbligo scolastico. 63 - che abbia assolto l’obbligo scolastico46 . Con tale previsione si è poi intrecciata, a doppio filo 47 , la normativa emanata in tema di istruzione: la legge 28 marzo 2003, n.53 recante: Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale In particolare l’art. 7 della legge 53/2003 prevede l’espressa abrogazione della legge 20 gennaio 1999, n, 9, con la quale, si elevava a 10 anni l’obbligo scolastico e transitoriamente a 9 con il D.M. 323/1999. Nelle more dovute alla mancata emanazione dei decreti attuativi della legge 53/2003 l’abrogazione della legge 9/1999 fa si che al momento per <<assolvimento della scuola dell’obbligo>> si intenda di conseguimento della licenza media o la frequentazione per almeno 8 anni. 48 L’art. 24 prevede che i bambini di qualsiasi età, anche se adibiti al lavoro in violazione delle norme sull'età minima di ammissione, hanno diritto alle prestazioni assicurative previste dalle vigenti norme in materia di assicurazioni sociali obbligatorie, ed in tal caso gli istituti assicuratori hanno diritto di esercitare azione di rivalsa nei confronti del datore di lavoro per l'importo complessivo delle prestazioni corrisposte al minore, detratta la somma corrisposta a titolo di contributi omessi, quindi la tutela previdenziale che è riconosciuta non solo ai minori impiegati in un regolare rapporto di lavoro ma anche a quelli occupati in attività lavorative in violazione alle disposizioni sulla minima età. La disposizione costituisce l’attuazione del principio generale formulato nell’art. 212649 c.c. nel senso che se il lavoro è prestato in violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro questo conserva tuttavia il diritto alle prestazioni corrispettive e quanto ne consegue. Si tratta del principio secondo cui la tutela 46 Per le istruzioni di dettaglio si veda Circ. n. 1 del 5 gennaio 2000 del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, op. cit. 47 La legge n. 53 del 2003 ha infatti abrogato la precedente disciplina, cioè quella in materia di istruzione: la legge 10 febbraio 2000, n. 30, e in tema di formazione professionale: la legge 20 gennaio 1999, n. 9, che prevedevano l’elevazione a 10 anni dell’obbligo scolastico e l’obbligo di seguire attività formative fino al diciottesimo anno di età. 48 Pertanto anche quanto previsto dall’art. 1 della legge 977/1967 modificato dal citato D.Lgs. 345/99 circa l’assolvimento dell’obbligo scolastico è subordinato alla riforma del sistema scolastico. 49 L’ art. 2126 c.c. , comma 2, prescrive: “se il lavoro è prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione”. 64 inderogabile di ordine pubblico non deve ritorcersi contro il lavoratore. I bambini, nei casi in cui siano eccezionalmente autorizzati a prestare l’attività lavorativa, e gli adolescenti, possono essere ammessi al lavoro purché siano riconosciuti idonei a svolgere la specifica prestazione oggetto del contratto sia prima l’assunzione sia dopo, in relazione all’attività lavorativa cui saranno adibiti, l’art. 8 detta la disciplina riguardante la visita medica preventiva e periodica, in particolare, stabilisce che i minori possono essere occupati solo a seguito di una visita eseguita a spese del datore di lavoro, da un da un medico del Servizio Sanitario nazionale volta ad accertare la possibilità di utilizzarli in quel determinato lavoro. L’idoneità all’attività lavorativa dei minori deve permanere per tutta la durata del rapporto, per cui essi dovranno sottoporsi a visite periodiche ad intervalli non superiori a un anno. Il giudizio sull’inidoneità temporanea, parziale o totale del minore, che deve essere comunicato per iscritto dal datore di lavoro al lavoratore e ai titolari della potestà genitoriale, impedisce che egli possa essere adibito all’attività lavorativa e fa sorgere l’obbligo immediato di sospensione dalla stessa, qualora il rapporto di lavoro abbia già avuto corso. Con la previsione di tali norme il legislatore ha cercato di intervenire in un ambito legislativo di estrema importanza soccorrendo alle nuove esigenze della medicina del lavoro nei suoi aspetti della prevenzione delle malattie da lavoro e del controllo della idoneità dei minori ai compiti lavorativi ai quali sono avviati o ai quali già attendono. In armonia con le convenzioni internazionali n. 77 e n. 78 dell’I.L.O. è stabilito che il giudizio di idoneità deve essere rilasciato da medici qualificati che la legge 977/1967 definiva di particolare competenza in medicina del lavoro (ex art. 11). 3. Il rapporto di lavoro Lo svolgimento del rapporto di lavoro del minore, ritenuto idoneo alla specifica attività lavorativa, avviene secondo la disciplina normativa del lavoro vigente per la generalità dei lavoratori50 , salvo deroghe ed 50 A tal proposito si ricorda che nell’ambito dei rapporti di lavoro speciali, l’apprendist ato, e in parte il contratto di formazione e lavoro, recentemente ridisciplinati con il D.Lgs 276/2003, rivestono una particolare importanza per il lavoro minorile in relazione alla loro frequente applicazione. 65 eccezioni più favorevole disposte dalla legge o dalla contrattazione collettiva volte a tutelare o garantire le peculiari esigenze di questa particolare tipologia di lavoratori. Con riferimento al dettato dell’art. 36 della costituzione, ai minori lavoratori, poi, deve essere assicurata la parità di trattamento retributivo o parità di lavoro, non essendo ammessi trattamenti differenziati in base all’età, come invece accadeva in passato. Anche in materia di orario di lavoro, lavoro notturno e riposo settimanale vigono particolari disposizioni. Infatti, per quanto concerne l’orario di lavoro, gli artt. 18 e 19 regolamentano prendendo in considerazione anche le limitazioni dell’orario in rapporto ai lavori pesanti. L’art. 18 prevede per i bambini liberi dagli obblighi scolastici un limite di 7 ore giornaliere e 35 settimanali, mentre per gli adolescenti non si può superare le 8 ore giornaliere e le 40 ore settimanali. L’art. 19, invece limita a 4 ore, per ogni giornata, il periodo durante il quale gli adolescenti possono essere adibiti al trasporto di pesi compresi i ritorni a vuoto, nel secondo comma è previsto il divieto di utilizzazione degli adolescenti nelle lavorazioni effettuate con il sistema dei turni a scacchi. Gli articoli 20 e 21 prevedono disposizioni sui riposi intermedi, in particolare è stabilito che l’orario quotidiano non possa durare senza interruzioni più di 4 ore e mezza; in caso contrario, esso deve essere interrotto da un riposo intermedio di almeno un’ora, che può essere ridotto a mezz’ora dalla contrattazione collettiva o su autorizzazione della Direzione Provinciale del lavoro sentite le competenti associazioni sindacali. In deroga a quanto disposto dall’art. 20, la Direzione provinciale del lavoro può nei casi in cui il lavoro presenti carattere di pericolosità o gravosità, prescrivere che il lavoro dei bambini e degli adolescenti non duri senza interruzione più di 3 ore, stabilendo anche la durata del riposo intermedio. Il successivo art. 22, prescrive che ai minori deve essere assicurato un periodo di riposo settimanale di almeno 2 giorni, se possibile consecutivi e comprendente la domenica. Per comprovate ragioni di ordine tecnico o organizzativo, il periodo minimo di riposo può essere ridotto, ma non può comunque essere inferiore a 36 ore consecutive. Tali periodi possono essere interrotti nei casi di attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati o di breve durata nella giornata. L’art. 15 vieta di adibire al lavoro notturno i minori, bambini e adolescenti, e introduce, definendola, come già ricordato all’inizio, la 66 nozione di lavoro notturno stabilendo che: con il termine notte si intende il periodo di almeno 12 ore consecutive comprendente l’intervallo tra le ore 22 e le ore 6, o tra le 23 e le ore 7. In deroga a tale divieto, l’art. 17, comma 1), tuttavia, prevede che, nel caso in cui il minore sia adibito ad attività lavorative di carattere culturale, artistico, sportivo (art. 4, comma 2), la prestazione lavorativa possa protrarsi non oltre le ore 24, in questo caso il minore deve godere, a prestazione compiuta, di un periodo di riposo di almeno 14 ore consecutive. Una ulteriore deroga è prevista al 2 comma dell’art. 17 stabilendo che gli adolescenti che abbiano compiuto i 16 anni possono essere, eccezionalmente e per il tempo strettamente necessario, adibiti al lavoro notturno quando si verifica un caso di forza maggiore che ostacola il funzionamento dell’azienda, purché tale lavoro sia temporaneo e non ammetta ritardi, non siano disponibili lavoratori adulti e siano concessi periodi equivalenti di riposo compensativo entro tre settimane. Il datore di lavoro, in tale ipotesi, deve dare immediata comunicazione alla Direzione provinciale del lavoro indicando i nominativi dei lavoratori, le condizioni costituenti la forza maggiore e le ore di lavoro effettuate. L’art. 23, in tema di ferie, prescrive che i bambini e gli adolescenti hanno diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite che non può essere inferiore a giorni 30 per coloro che non hanno compiuto i 16 anni e a giorni 20 per coloro che hanno superato i 16 anni di età, ma i contratti collettivi di lavoro possono regolare le modalità di godimento delle ferie. 4. I lavori vietati Negli artt. 6, 7 novellati dal D.Lgs 345/1999 e dal D.Lgs 18 agosto 2000, n. 262, è fatto divieto di adibire gli adolescenti alle lavorazioni e ai lavori potenzialmente pregiudizievoli51 per il pieno sviluppo fisico del minore, tali attività sono indicate tassativamente nell’allegato I. Per effetto dei citati decreti, sono abrogati il D.P.R. 4 gennaio 1971, n. 36 e 20 gennaio 1976, n. 432 i quali elencavano i lavori vietati ai minori, attualmente elencati nel citato allegato I aggiunto alla L. 977/1967. Tale normativa rispetto alla precedente è ancora più 51 Per le istruzioni di dettaglio si consult i la Circ. n.1 del 5 gennaio 2000 del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, op. cit. 67 protettiva in quanto non solo sono vietate le lavorazioni pericolose in sé, ma anche quelle potenzialmente tali, è evidente che con tale aggiunta la sfera delle lavorazioni vietate si allarga. Non solo, queste norme protezionistiche si intrecciano anche con le prescrizioni del D.Lgs. 19 settembre 1996 n. 626 e successive modifiche in tema di sicurezza del lavoro; a tal riguardo il datore di lavoro prima di adibire i minori al lavoro e a ogni modifica rilevante deve effettuare la valutazione dei rischi, con particolare riguardo a i seguenti fattori previsti dall’art. 7: a) sviluppo non ancora completo, mancanza di esperienza e di consapevolezza nei riguardi dei rischi lavorativi, esistenti o possibili, in relazione all’età; b) attrezzature e sistemazione del luogo e del posto di lavoro; c) natura, grado e durata di esposizione agli agenti chimic i, biologici e fisici; d) movimentazione manuale dei carichi; e) sistemazione, scelta, utilizzazione e manipolazione delle attrezzature di lavoro, specificatamente di agenti, macchine, apparecchi e strumenti; f) pianificazione dei processi di lavoro e dello svolgimento del lavoro e della loro interazione sull'organizzazione generale del lavoro; g) situazione della formazione e dell'informazione dei minori. Inoltre, il datore di lavoro deve fornite ai titolari della potestà genitoriale le informazioni di cui all’art. 21 del D.Lgs. 626/1994 riguardanti i minori. Anche per tale tipologia di lavori sono tuttavia previste delle deroghe esplicitate nell’art. 6 che stabilisce che le lavorazioni, i processi e i lavori indicati nell'allegato I possono essere svolti dagli adolescenti per indispensabili motivi didattici o di formazione professionale e soltanto per il tempo strettamente necessario alla formazione stessa, svolta in aula o in laboratorio, adibiti ad attività formativa, oppure svolte in ambienti di lavoro di diretta pertinenza del datore di lavoro dell'apprendista, purché siano svolti sotto la sorveglianza dei formatori competenti, anche in materia di prevenzione e di protezione e nel rispetto di tutte le condizioni di sicurezza e di salute previste dalla vigente legislazione. Fatta eccezione per gli istituti di istruzione e di formazione professionale, l'attività di cui al comma 2 deve essere preventivamente autorizzata dalla Direzione provinciale del lavoro, previo parere dell'Asl competente per territorio, in ordine al rispetto da parte del 68 datore di lavoro richiedente della normativa in materia di igiene e di sicurezza sul lavoro. Mentre per i lavori comportanti esposizione a radiazioni ionizzanti si applicano le disposizioni di cui al D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 230. In caso di esposizione media giornaliera degli adolescenti al rumore superiore a 80 decibel LEP-d il datore di lavoro, fermo restando l'obbligo di ridurre al minimo i rischi derivanti dall'esposizione al rumore mediante misure tecniche, organizzative e procedurali, concretamente attuabili, privilegiando gli interventi alla fonte, fornisce i mezzi individuali di protezione dell'udito e una adeguata formazione all'uso degli stessi. In tale caso, i lavoratori devono utilizzare i mezzi individuali di protezione. 5. Conclusioni Dopo questa brevissima analisi è possibile affermare che ambigua è stata la logica protettiva nella quale trovano radice i primi interventi della legislazione sociale e che poi accompagnerà l'intera evoluzione del sistema giuridico per via della imposizione di limiti alla durata della prestazione di lavoro, di divieti nello svolgimento di alcune attività pericolose. Ed è una logica ambigua perché al fondo di essa è possibile intravedere il diverso obiettivo di tutela del mercato del lavoro degli adulti dalla concorrenza sottosalariale dei minori52 . E’ ambigua ancora la logica paritaria, che pretende di tutelare il minore nel rapporto di lavoro trascurando di considerare la sua posizione nel mercato del lavoro: ed è una posizione che non può non essere subalterna proprio per la scarsa capacità tecnica e la ridotta esperienza professionale dell'adolescente 53 . Sembrerà banale ma 52 A. Viscomi, Minori e lavori. Percorsi di una ricerca su campo, Atti Introduzione Convegno “Testo e "contesto: il difficile incontro tra minori, lavoro e diritto del lavoro , Catanzaro, 24 novembre 2000, in http//www.unicz.it/lavoro testualmente dice: “ C’è da non credere, ma queste -che ora leggerò- sono le parole contenute nella relazione di accompagnamento della legge n. 653 del 26 aprile 1934 (che si può leggere negli Atti parlamentari, XXVIII legislatura, 1929-1934, n. 2042): “nelle presenti contingenze in cui si cerca, con un sistema di molteplici provvedimenti, di dare la più vasta capacità di assorbimento alla massa dei disoccupati, l'interdizione o una maggiore limitazione del lavoro dei fanciulli può contribuire ad alleviare in parte la disoccupazione degli adulti”. Come dire che i limiti al lavoro minorile -ma anche al lavoro femminile- nascono a protezione del maschio adulto e capofamiglia e della sua posizione nel mercato. 53 A. Viscomi, in op. cit., afferma: “tanto che per lungo tempo nonostante e contro quanto proclamato dall'art. 37 Cost.- i contratti collettivi hanno continuato a differenziare i trattamenti salariali dei minori rispetto a quelli degli adulti. Naturalmente non è da pensare che ciò sia espressione di una particolare insensibilità della 69 l’evoluzione della normativa in materia di tutela dei minori è da individuare nel passaggio da queste ambiguità alla centralità del minore e delle sue esigenze socio-educative. In realtà come è stato osservato da alcuni commentatori vi è un problema di frammentazione 54 degli interventi con la mancanza di una “unica cabina di regia” che comporta, in alcuni casi più gravi, che una istituzione non sa cosa fa l’altra, per questo occorre definire e mettere a regime un vero e proprio sistema informativo sul lavoro minorile che, con autorevolezza istituzionale, permetta di avere un quadro attendibile del fenomeno, non solo da un punto di vista quantitativo, ma anche qualitativo. Non solo, si devono implementare le misure e le risorse per un’azione di presidio e di repressione costante sul territorio, con particolare attenzione ai fenomeni di reclutamento da parte della criminalità organizzata e microcriminalità, occorre agire con maggiore incisività in materia di salute e sicurezza del lavoro degli adolescenti, coinvolgendo per esempio di più le Asl. Non è più rinviabile inoltre la definizione di uno strumento nazionale contro la povertà, adeguatamente finanziato, che stimoli l’attivazione di energie familiari ed individuali, con misure a sostegno della scolarità nelle fasce dell’obbligo e con l’accesso gratuito ai servizi sociali e socio-sanitari per i soggetti coinvolti nell’emersione dal lavoro irregolare. Più in generale va sostenuta l’assunzione di una responsabilità diffusa, a partire dagli attori che per la loro attività incontrano i bambini e gli adolescenti (pediatri, educatori, ecc.) al fine di costruire una vera e propria rete sociale territoriale capace di intercettare anche i segnali deboli dello sfruttamento dei minori. In questo quadro, particolare attenzione va riservato al D.Lgs. 23 aprile 2004, n. 124 che introduce nell’ordinamento una organica riforma dei servizi di vigilanza in materia di lavoro, in attuazione della delega legislativa prevista dall’art. 8 L. 30/2003, con particolare contrattazione collettiva; occorre non dimenticare, infatti, che la stessa contrattazione cui ora mi riferisco operava all'interno di un contesto sociale e produttivo che al minore adolescente poneva una precisa alternativa tra studio e lavoro ovvero, se si vuole, tra scuola professionale e scuola superiore, riservando quest'ultima ai meritevoli o agli agiati o, come credo e come credeva don Milani, ai meritevoli perché agiati”. 54 T. Corallini, Minori e lavori. Percorsi di una ricerca su campo, Convegno “Asimmetria cognitiva e frammentazione amministrativa: per una gestione organica degli interventi sui minori il difficile incontro tra minori, lavoro e diritto del lavoro ”, Catanzaro, 24 novembre 2000, in http//www.unicz.it/lavoro. 70 riferimento all’organizzazione complessiva e al coordinamento dell’attività ispettiva di tutti gli organismi competenti in materia di lavoro e legislazione sociale, nonché di quelli comunque impegnati sul territorio in azioni di contrasto al lavoro sommerso e irregolare, per profili diversi da quelli di ordine e sicurezza pubblica. Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, infatti, assume, nel rispetto delle competenze affidate alle Regioni e alle Province autonome, le iniziative di contrasto al lavoro sommerso e irregolare, provvedendo a vigilare su tutto il territorio nazionale in materia di rapporti di lavoro e di livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali, anche promuovendo l’osservanza complessiva della normativa di legislazione sociale e del lavoro, ivi compresa l’applicazione dei contratti collettivi e della disciplina previdenziale. In tale contesto diversificato, molto interessanti risultano alcuni organi previsti dalla legge: la Direzione Generale assume compiti di direzione delle attività ispettive, fornisce direttive operative e svolge attività di coordinamento nella vigilanza della predetta materia, assicurando l’esercizio unitario dell’attività ispettiva di competenza del Ministero del lavoro e degli Enti previdenziali, nonché l’uniformità di comportamento dei relativi organi di vigilanza. La Commissione Centrale di coordinamento, nominata con Decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, presieduta dallo stesso Ministro o da un Sottosegretario delegato e composta dal Direttore della Direzione Generale, dai Direttori Generali degli Enti previdenziali, dal Comandante Generale della Guardia di Finanza, dal Direttore Generale dell’Agenzia delle Entrate, dal Coordinatore Nazionale delle Aziende Sanitarie Locali, dal Presidente del Comitato Nazionale per l’emersione del lavoro non regolare di cui all’art.78, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n.448 e da rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori, spetta il compito di individuare gli obiettivi e gli indirizzi strategici, nonché le priorità degli interventi ispettivi. Alla stessa Commissione, secondo la previsione dell’art.10 del Decreto Legislativo, può essere attribuito il compito di definire le modalità di attuazione della banca dati e di definire le linee per la realizzazione del modello unificato di verbale di rilevazione degli illeciti amministrativi. Tale nuova incisività di azione è rinvenibile anche a livello decentrato in quanto vengono istituite, a livello regionale, la Commissione Regionale di coordinamento, costituita dal Direttore della Direzione Regionale del lavoro, che la presiede, dai Direttori Regionali 71 dell’INPS e dell’INAIL, dal Comandante Regionale della Guardia di Finanza, dal Direttore Regionale dell’Agenzia delle Entrate, dal Coordinatore Regionale delle Aziende Sanitarie Locali, da rappresentanti dei datori di lavoro e dei la voratori. Il D.Lgs conferisce organicità al controllo ispettivo55 , sono coinvolte più amministrazioni e per di più con un’organizzazione capillare sul territorio che vengono dotate di una banca dati che monitorizza i controlli e gli interventi effettuati da tutte le istituzioni operanti, insomma uno strumento in più che si aggiunge alla lotta contro il lavoro minorile illegale. In conclusione i livelli di intervento dovrebbero essere di due tipi: preventivo e repressivo, basti pensare per esempio alla scoperta del minore che lavora illegalmente in azienda ed alla successiva comunicazione ai servizi sociali affinchè intervengano a sanare la situazione di malessere socio-economico della famiglia di appartenenza del minore. La necessarietà e contestualità dei due interventi è fondamentale per la soluzione del problema. Occorre d’altro canto evitare il comportamento opportunistico delle imprese e degli stessi lavoratori minori, infatti in questi casi, la sanzione amministrativa o penale è solo uno degli strumenti di potenziale controllo di questi fenomeni. Peraltro, limitarsi alla sanzione vuole dire incentivare l’impresa ad un comportamento strategico mirante a individuare un costo di nullificazione della sanzione che sia minore della differenza tra il costo di un comportamento non opportunistico ed il risparmio generato dall’utilizzo opportunistico di lavoro minorile. Dal punto di vista degli economisti, può essere importante costruire schemi di incentivazione capaci di ridurre la probabilità di comportamenti opportunistici. La sanzione può essere uno degli strumenti, ma altrettanto importante è l’impatto che complessivamente un più alto livello formativo può avere sulla produttività dell’impresa. All’impresa è opportuno riconoscere un "ruolo formativo", ma allo stesso tempo è necessario incentivarla a considerare i vantaggi derivanti dall’avvio all’attività lavorativa del giovane apprendista. Ciò è probabilmente persino più facile per le imprese di ridotte 55 Per un approfondimento si consultino la Circ. n. 24 del 24 giugno 2004 del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali e la Circ. n. 132 del 20 settembre 2004 dell’INPS, amdedue reperibili sul sito http://www.inps.it/, sezione Normativa. 72 dimensioni, dove il rapporto tra imprenditore e lavoratore è basato su una relazione di fiducia 56 . 56 In tal senso F. Timpano, Minori e lavori. Percorsi di una ricerca su campo, Atti Convegno Conoscere per agire: servizi e politiche per l’impiego per i minori, Catanzaro, 24 novembre 2000, in http//www.unicz.it/lavoro. 73 LE AZIONI POSITIVE NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE di Francesco Fasolino (Ricercatore-Università degli Studi di Salerno) 1. La riforma della pubblica amministrazione e le pari opportunità. Negli ultimi anni la Pubblica Amministrazione è stata al centro di grandi cambiamenti che hanno portato alla semplificazione dei procedimenti amministrativi, alla ridefinizione delle strutture organizzative interne e ad una continua evoluzione dei servizi per l´utenza. Questa nuova cultura della Pubblica Amministrazione ha altresì valorizzato il principi di pari opportunità inteso nel senso più ampio, alla cui concreta attuazione sono stati diretti svariati interventi del legislatore. La legge n. 421/1992 di "Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale" stabiliva, all'art. 2, co. 1º, lett. hh), che il Governo dovesse "prevedere criteri e progetti per assicurare l'attuazione della legge 10 aprile 1991, n. 125, in tutti i settori del pubblico impiego". Tale disposizione ha trovato una prima parziale attuazione nell'originaria stesura degli artt. 7, co. 1º , e 61 d. lgs. n. 29/1993, ora, rispettivamente art. 7, co. 1, e 57 del D.lgs. 30.3.2001, n. 165, recante Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche (c.d. Testo Unico sul pubblico impiego). L'art. 7 si inserisce, quale criterio generale ribadito dal legislatore nell'avviare la riforma, fra i principi generali della nuova disciplina del pubblico impiego (Titolo I), e più precisamente si colloca nell'area della gestione delle risorse umane. Secondo il principio espresso da tale disposizione, "le amministrazioni pubbliche garantiscono parità e pari opportunità tra uomini e donne per l'accesso al lavoro ed il trattamento sul lavoro" ("condizioni di lavoro", secondo la più corretta ed usuale espressione desumibile dalle stesse direttive comunitarie). Vengono così espressamente ribaditi obblighi già esistenti in capo alle amministrazioni, e derivanti dalla legge n. 903/1977, dalla legge n. 125/1991 nonché, naturalmente, dalla stessa Costituzione L'obbligo di garantire pari opportunità non configge con il dovere di imparzialità 74 dell'amministrazione (art. 97, co. 1º, Cost.), poiché imparzialità significa fedeltà al principio di legalità, ma anche al principio di eguaglianza, formale e sostanziale. Appare opportuno segnalare che l'attuale testo - ex art. 6 d. leg. 31 marzo 1998, n. 80 - dell'art. 7 sembra avere adeguatamente sviluppato il "criterio ispiratore" della riforma, là dove prevede (co. 3°) che "le amministrazioni pubbliche individuano criteri certi di priorità nell'impiego flessibile del personale, purché compatibile con l'organizzazione degli uffici e del lavoro, a favore dei dipendenti in situazioni di svantaggio personale, sociale e familiare", ed ancor più là dove prevede (co. 4°) che, nella formazione e nell'aggiornamento del personale, esse debbano garantire "l'adeguamento dei programmi formativi, al fine di contribuire allo sviluppo della cultura di genere della pubblica amministrazione". Il d. lgs. n. 165/2001 dedica poi l'intero art. 57 alle "pari opportunità". L'obiettivo esplicitato nel co. 1º è quello di "garantire pari opportunità tra uomini e donne per l'accesso al lavoro ed il trattamento sul lavoro". Al fine di perseguire tale obiettivo, nella stesura originaria del testo erano previste due misure strumentali alle politiche di pari opportunità. La prima (lett. a)) introduceva una riserva alle donne di almeno un terzo dei posti di componenti delle commissioni di concorso, fermo restando il principio della "provata competenza" dei membri delle commissioni giudicatrici (art. 8, co. 1º, lett. d), testo originario). Questa particolare "azione positiva indiretta" è stata mantenuta sostanzialmente immutata nella riscrittura dell’art. 61 del d.lgs. n. 29/93 (ex art. 43, co. 8°, d. lgs. n. 80/1998, che tra l'altro introduce, fra i criteri ai quali si devono conformare le pubbliche amministrazioni nelle procedure di reclutamento del personale, il "rispetto delle pari opportunità tra lavoratori e lavoratrici"), nella quale è stato inserito l'inciso, limitativo della riserva, "salvo motivata impossibilità", che tiene conto dell’eventuale oggettiva impossibilità di individuare esperti donne in determinate materie di concorso ma che al contempo impone alle pubbliche amministrazioni di giustificare il mancato rispetto della riserva. La seconda misura strumentale (lett. c)) garantisce la partecipazione delle dipendenti ai corsi di formazione e di aggiornamento professionale in rapporto proporzionale alla loro presenza nelle amministrazioni interessate ai corsi medesimi. Tale previsione può essere letta come una timida applicazione di un sistema di quote, una forma di quota indiretta di opportunità di (ri)qualificazione e, 75 conseguentemente, di carriera, in particolare dopo la modifica del testo (ex art. 17 d. lgs. n. 387/1998) che, al fine di consentire "la conciliazione fra vita professionale e vita familiare", ha previsto che le pubbliche amministrazioni adottino "modalità organizzative" atte a favorire la concreta possibilità per le lavoratrici di sfruttare tale opportunità. Ricca di potenziali interessanti sviluppi appare poi la prescrizione di adottare "propri atti regolamentari per assicurare pari opportunità fra uomini e donne sul lavoro" sancita alla lett. b) dell’art. 57, co. 1, del T.U. Fra gli obiettivi sicuramente riconducibili alla tutela della dignità delle lavoratrici rientrano infatti le politiche di intervento contro le molestie sessuali nell'ambiente di lavoro, secondo le indicazioni emergenti in sede comunitaria (es. Dichiarazione del Consiglio del 19 dicembre 1991 92/C 27/01), che hanno trovato una prima, parziale attuazione presso alcune amministrazioni che hanno adottato codici di comportamento contro le molestie sessuali, così come nei contratti collettivi nazionali (es. art. 40, comma 3, lett. f) CCNL1998-2001 per il personale del comparto Università) che hanno specificamente previsto e sanzionato, fra i doveri dei dipendenti, l'obbligo di mantenere una condotta informata a principi di correttezza, astenendosi da comportamenti lesivi della dignità della persona. Il nuovo testo (ex art. ex art. 17 d. lgs. n. 387/1998) della lett. b) ha, peraltro, ampliato la materia oggetto di possibili atti regolamentari rispetto al precedente che contemplava esclusivamente “la pari dignità” di uomini e donne sul lavoro, fornendo così alle pubbliche amministrazioni l'opportunità per interventi incisivi e ad ampio raggio, al di là delle specifiche prescrizioni già contenute in altre disposizioni di legge. Importante appare il ruolo che è chiamato a svolgere il Dipartimento della funzione pubblica, al quale viene riconosciuto il compito di impartire direttive in merito alla adozione di "atti regolamentari per assicurare pari opportunità di uomini e donne sul lavoro" (co. 1º, lett. b)) e di fornire disposizioni in merito alla adozione di "tutte le misure per attuare le direttive della Comunità europea in materia di pari opportunità" (co. 2º). La successiva Circolare 23 marzo 1993, n. 12 dell'ufficio condizione femminile del Dipartimento della funzione pubblica, dichiarando esplicitamente di volersi adeguare ad un "modello europeo del ruolo del lavoro", ribadiva la volontà di "ridefinire iniziative in tema di parità e di pari opportunità" volte a tutelare "la dignità della persona", ma soprattutto a conseguire "efficienza (...) attraverso la più efficace e sensibile valorizzazione di 76 tutte le risorse umane". In questa prospettiva di necessaria "continua e costante collaborazione tra amministrazioni e comitati" per le pari opportunità, ai comitati veniva affidato il compito di "mettere a fuoco i problemi concreti inerenti le tematiche delle pari opportunità, di formulare proposte (...) ai fini della flessibile gestione delle risorse umane". L'apporto consultivo dei comitati era infine richiesto per "assicurare le condizioni che (...) rendano effettiva la partecipazione" ai corsi di formazione e/o aggiornamento professionale delle lavoratrici "in rapporto proporzionale alla loro presenza nelle amministrazioni interessate ai corsi medesimi". L'obiettivo sembrava dunque quantomeno quello di rivalutare e (ri)attivare i Comitati per le pari opportunità, là dove già costituiti. La materia delle pari opportunità era peraltro da tempo penetrata nel settore del pubblico impiego grazie all'attività dell'autonomia collettiva. Chiamata ad individuare "misure e meccanismi atti a consentire una reale parità uomo-donna nell'ambito del pubblico impiego" (art. 16 accordo intercompartimentale 1988-90 - d.p.r. 23 agosto 1988, n. 395), la contrattazione collettiva di comparto aveva risposto all'invito impegnandosi a completare il processo di istituzione dei comitati paritetici per le pari opportunità già avviato in quasi tutti i comparti con la tornata contrattuale dell'87. La previsione non aveva dato i risultati auspicati, ma aveva aperto le porte ad una contrattualizzazione della materia, configurando - secondo l'interpretazione prevalente - un obbligo a trattare in materia. Le prescrizioni contenute nell'art. 61 del d. lgs. n. 29/1993 sembravano muoversi in una direzione diversa, ignorando qualsiasi confronto con le organizzazioni sindacali prima dell'adozione degli atti regolamentari previsti alla lett. b) del co. 1º e limitandosi a prevedere un "previo eventuale esame con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale" per l'adozione "di tutte le misure per attuare le direttive della Comunità europea in materia di pari opportunità" (co. 2º art. 61 testo originario). Se all'indomani dell'entrata in vigore non era chiaro quale fosse lo spazio per ricondurre la questione delle pari opportunità nell'alveo delle materie devolute alla contrattazione collettiva, di comporto e decentrata (oggi nazionale e integrativa), le incertezze sono state superate dalla stessa contrattazione collettiva, che, in forza dell'art. 45 d. lgs. n. 29/1993, "si svolge su tutte le materie relative al rapporto di lavoro ed alle relazioni sindacali". Già nella prima "tornata contrattuale", i contratti collettivi hanno generalmente assunto le "misure per favorire pari opportunità nel lavoro" tra le materia oggetto 77 di contrattazione decentrata (si veda, ad es., l’art. 14, co. 3°, CCNL 1998-2001 comparto Università). Coerentemente con la progressiva omogeneizzazione della disciplina del rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni e nel settore privato, la lett. d) dell'art. 61 del d. lgs. n. 29/1993(aggiunta dall'art. 17, co. 3°, d. lgs. n. 387/1998), ora integralmente riprodotta nella lett. d) dell’art. 57 del T.U., prevede espressamente che le pubbliche amministrazioni "possono finanziare programmi di azioni positive e l'attività dei Comitati pari opportunità nell'ambito delle proprie disponibilità di bilancio", garantendo in tal modo la legittimità dell'impiego di risorse a tali fini. La possibilità espressamente prevista di finanziare l'attività dei Comitati pari opportunità dovrebbe consentire il definitivo decollo delle iniziative, già avviate in molte amministrazioni pubbliche, che, pur più volte sollecitate dallo stesso Dipartimento per la funzione pubblica, hanno sempre incontrato molte difficoltà concrete, in particolare colle gate all'incerto ruolo affidato a questi soggetti - a seconda della fonte istitutiva, dei poteri affidati, della composizione - ed alla carenza di appositi stanziamenti di bilancio. 2. Dalla legge n. 125/1991 al d.lgs. n. 196/2000. L'art. 2, co. 6°, della l.n. 125/1991 ("Azioni positive per la realizzazione della parità tuomo-donna nel lavoro") prevedeva che "entro un anno dalla data di entrata in vigore" della legge, "le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le regioni, le province, i comuni e tutti gli enti pubblici non economici, nazionali, regionali e locali, sentiti gli organismi rappresentativi del personale di cui all'articolo 25, della legge 29 marzo 1983, n. 93, o in loro mancanza, le organizzazioni sindacali locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, sentito inoltre, in relazione alla sfera d'azione della propria attività, il Comitato di cui all'articolo 5 o il consigliere di parità di cui all'articolo 8", adottassero "piani di azioni positive tendenti ad assicurare, nel loro ambito rispettivo, la rimozione degli ostacoli che, di fatto, impediscono la piena realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel lavoro tra uomini e donne". Tale disposizione si contraddistingueva per un significativo scostamento dall'ispirazione volontaristica che caratterizza l'intera legge: coerentemente, infatti, con l'orientamento comunitario, che raccomanda un impegno attivo ed un intervento diretto 78 dell'amministrazione pubblica nella promozione di azioni positive, il legislatore aveva introdotto nella l. n. 125/1991 un vero e proprio obbligo per tutte le amministrazioni pubbliche di adottare piani di azioni positive. La scelta di un modello obbligatorio risultava - e risulta - giustificata dalla particolare posizione in cui si colloca la pubblica amministrazione come datore di lavoro nei confronti dei propri e delle proprie dipendenti, nonché dal particolare ruolo sociale che le stesse amministrazioni possono svolgere in un più ampio contesto istituzionale, coerentemente con gli orientamenti comunitari ed internazionali. L'ambito di operatività di ciascuna amministrazione, al quale si riferisce la disposizione, può infatti legittimare l'adozione di piani di azioni positive non necessariamente rivolti alle sole dipendenti, ma allargati ad una più ampia utenza femminile e comunque finalizzati all'obiettivo del precetto normativo: rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la piena realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel lavoro tra uomini e donne. I datori di lavoro pubblici erano esclusi (ex art. 2, co. 1º, l. n. 125/1991 testo originario) dal novero dei beneficiari dei finanziamenti per progetti di azioni positive regolati dalla stessa legge. L'apparente incongruenza della loro esclusione dai benefici finanziari risultava giustificata dalla sussistenza dell'obbligo di cui sopra. La "via" all'adozione di progetti, programmi, iniziative di azioni positive, per le amministrazioni pubbliche non passava - secondo l'intenzione attribuibile alla l. n. 125/1991 - attraverso il finanziamento pubblico, ma si sarebbe dovuta inserire in una politica delle pari opportunità che permeasse la gestione delle amministrazioni pubbliche. La recente novella dell'art. 2 (ex art. 7, co. 1, d.lgs. n. 196/2000: cfr. infra) ha invece inserito i datori di lavoro pubblici fra i soggetti che possono accedere al finanziamento di progetti di azioni positive, proseguendo nel cammino di assimilazione tra datori di lavoro pubblici e privati. La carenza di un apparato sanzionatorio a presidio dell'obbligo di adottare piani di azioni positive ha depotenziato sensibilmente la teorica incisività dell'art. 2, co. 6°, della legge n. 125/1991, nei fatti largamente sottovalutata e disattesa dalle amministrazioni pubbliche. E' tuttavia opportuno ricordare che, se l'obiettivo, almeno indiretto, del 6° comma dell'art. 2 era quello di indurre le pubbliche amministrazioni ad adottare comportamenti conformi agli obiettivi di effettiva eguaglianza espressi dalla legge, tale obiettivo è stato successivamente almeno in parte riproposto in occasione della riforma della disciplina del pubblico impiego attuata, a partire dalla legge delega 23 ottobre 1992, n. 421, con il d. lgs. n. 29/1993. 79 La c.d. privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, o più correttamente l'applicazione ai rapporti di lavoro presso le pubbliche amministrazioni delle disposizioni del codice civile "e delle leggi sui rapporti subordinati nelle imprese" (art. 2 d. lgs. n. 29/1993), ha indotto il legislatore ad assimilare la posizione delle pubbliche amministrazioni alla posizione dei datori di lavoro privati, anche per quanto concerne la materia delle pari opportunità. L'obbligo (non rispettato) di adottare piani di azioni positive si è perciò trasformato, nell'odierna previsione (art. 61, co. 1, lett. d), d. lgs. n. 29/1993, aggiunta dall'art. 17, co. 3, d. lgs. n. 387/1998) in forza della quale le pubbliche amministrazioni "possono finanziare progetti di azioni positive (...) nell'ambito delle proprie disponibilità di bilancio". Sembra così segnato il passaggio da un modello obbligatorio, rivelatosi inefficace, ad un modello volontario di adozione di azioni positive, ispirato ad una logica prettamente "privatistica", che se pure è coerente con la progressiva omogeneizzazione tra lavoro pubblico e lavoro privato, rischia di lasciare nell'ombra il ruolo "trainante" che il datore di lavoro pubblico potrebbe - o dovrebbe - svolgere al fine di realizzare obiettivi che il legislatore ordinario si è prefisso in attuazione di principi costituzionali. La logica originaria dell'art. 2, co. 6, l.n. 125/1991, coniugata con l'esigenza di riaffermare un ruolo trainante delle pubbliche amministrazioni nelle politiche di pari opportunità, sembra tuttavia riemergere nel d.lgs. 23 maggio 2000, n. 196, emanato in attuazione della delega conferita al Governo dal Parlamento con l'art. 47 della l. 17 maggio 1999, n. 144 al fine di "migliorare l'efficienza delle azioni positive". L'art. 7, co. 5°, prevede infatti che le amministrazioni pubbliche, sentite le rappresentanze del personale ovvero, in mancanza, le organizzazioni rappresentative del comparto o dell'area di interesse, nonché, in relazione alla sfera operativa delle rispettive attività, il Comitato nazionale per le pari opportunità e la consigliera nazionale ovvero il Comitato pari opportunità eventualmente previsto dal contratto e la consigliera di parità territorialmente competente, "predispongono piani di azioni positive tendenti ad assicurare, nel loro ambito rispettivo, la rimozione degli ostacoli che, di fatto, impediscono la piena realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel lavoro tra uomini e donne". La forma indicativa del verbo (qui "predispongono", nel testo dell'art. 2, co. 6, l. n. 125/1991 "adottano") è ancora una volta chiaramente prescrittiva e - giova segnalarlo - il mancato rispetto dell'obbligo è oggi sanzionato con l'applicazione 80 dell'art. 6, co. 6°., del d. lgs. n. 29/1993, (ora, art. 6, co. 6, T.U.) che esclude la possibilità di assumere nuovo personale per le amministrazioni che non provvedano agli adempimenti imposti dal legislatore. Un significativo passo avanti viene segnato anche per quanto concerne l'indicazione dei contenuti dell'obbligo. Le finalità dei piani sono chiaramente indicate: "al fine di promuovere l'inserimento delle donne nei settori e nei livelli professionali nei quali esse sono sottorappresentate" i piani di azioni positive devono, "fra l'altro, favorire il riequilibrio della presenza femminile nelle attività e nelle posizioni gerarchiche ove sussiste un divario fra generi non inferiore ai due terzi". La strumentazione per realizzare tali obiettivi è anch'essa indicata nello schema di decreto legislativo, là dove si prevede che "in occasione tanto di assunzioni quanto di promozioni, a fronte di analoga qualificazione e preparazione professionale tra i candidati di sesso diverso, l'eventuale scelta del candidato di sesso maschile è accompagnata da un'esplicita ed adeguata motivazione". L'esplicita abrogazione (ex art. 10, co. 3 dello stesso d.lgs. n. 196/2000) del co. 6 dell'art. 2 l.n. 125/1991 sembra, in definitiva, avallare la chiave di lettura qui suggerita: l'abbandono del "modello obbligatorio" di azioni positive nelle amministrazioni pubbliche del testo originario è infatti sostituito da un diverso "modello obbligatorio" di comportamento delle amministrazioni pubbliche. Il nuovo modello si fonda sui piani (triennali) che, in sede di prima applicazione, avrebbero dovuto essere predisposti entro il 30 giugno 2001. I tredici mesi di tempo previsti dal legislatore delegato avrebbero dovuto, almeno in teoria, consentire il necessario mutamento di mentalità e la creazione di modalità di selezione del personale trasparenti, al fine di permettere la piena applicazione del meccanismo di superamento della sottorappresentazione femminile, che per molti versi può essere assimilato ad un sistema flessibile di quote. La scelta del legislatore delegato delinea infatti una sorta di sistema di quote flessibili, ancorate a due presupposti: la forte sottorappresentazione delle donne nei settori e nei livelli ove si svolge la selezione e l'analoga qualificazione e preparazione professionale dei candidati. Verificati tali presupposti, la scelta del candidato di sesso femminile non è automatica, poiché l'amministrazione può scegliere il candidato di sesso maschile, con motivazione esplicita ed adeguata (ovviamente non discriminatoria), ma l'indicazione tecnico-politica è 81 sufficientemente chiara, ed esplicitamente a favore di un progressivo riequilibrio della presenza dei due sessi nei diversi settori e livelli professionali. La recente disciplina nazionale appare peraltro pienamente conforme al diritto comunitario. Il co. 5° dell'art. 7 del decreto, infatti, non garantisce alcun risultato (rispettando così la limitazione introdotta dalla sentenza Kalanke) garantisce un esame obiettivo delle candidature degli uomini di pari qualificazione (rispettando così la diversa limitazione introdotta dalla sentenza Marschall) e si inserisce in un piano di azioni positive di durata triennale volto a riequilibrare la presenza femminile ove sussista un divario fra generi non inferiore ai due terzi, analogamente a quanto prevede, con modalità ben più "forti", la disciplina tedesca valutata favorevolmente nella sentenza Badeck. 2.1. La Cons igliera di parità: compiti e poteri La legge n. 125/1991 nel quadro complessivo degli interventi per la realizzazione della parità tra uomini e donne nel lavoro, ha previsto l’istituzione di una nuova figura istituzionale, la Consigliera di Parità, per ogni regione e per ogni provincia. Il D.Lgs. n. 196/2000, in particolare, ha previsto la sottoscrizione di una convenzione-quadro tra il Ministro del Lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro delle Pari Opportunità e la Conferenza Unificata StatoRegioni, allo scopo di definire le modalità organizzative e di funzionamento dell'Ufficio delle Consigliere di pari opportunità, nonchè gli indirizzi generali per l'espletamento dei compiti ad esse affidati. Il medesimo decreto ha stabilito, inoltre, che "il Ministro del Lavoro e delle politiche sociali, in conformità ai contenuti della convenzione quadro, provveda alla stipula di altrettante convenzioni con gli enti territoriali nel cui ambito operano le Consigliere ed i Consiglieri di parità". La consigliera ha una specifica competenza ed esperienza in materia di lavoro femminile, di normative sulla parità e pari opportunità e di mercato del lavoro. E' nominata con decreto dal Ministero del Lavoro, di concerto con il Ministero delle Pari Opportunità, su designazione delle Regioni e delle province interessate. Nell'esercizio delle proprie funzioni è pubblico ufficiale ed ha obbligo di segnalazione all'Autorità giudiziaria per i reati di cui viene a 82 conoscenza. Essa è membro a tutti gli effetti, rispettivamente, delle commissioni regionali e provinciali tripartite. Inoltre, partecipa ai tavoli di partenariato locale ed ai comitati di sorveglianza; è componente delle commissioni di pari opportunità del corrispondente livello territoriale. Alla consigliera spettano, inoltre, compiti di controllo del rispetto della normativa antidiscriminatoria e di promozione della parità e pari opportunità. A tale fine essa: - rileva le discriminazioni tra uomini e donne, anche mediante l'intervento del servizio Ispettivo del Lavoro; - promuove le azioni positive e ne verifica i risultati; - promuove il coordinamento tra politiche del lavoro e formazioni locali con gli indirizzi comunitari e nazionali in materia di pari opportunità, anche mediante il collegamento con gli assessorati al lavoro e con gli organismi di parità degli enti locali; - promuove l'attuazione delle pari opportunità da parte di tutti i soggetti attori nel mercato del lavoro; - diffonde la conoscenza e lo scambio di buone prassi sui problemi delle pari opportunità. Più specificamente, l’art. 3 del D.Lgs. n.196/2000 prevede che rientrano tra i compiti della Consigliera di parità: a) la promozione di studi ed analisi relativi alla presenza femminile nel mercato del lavoro; b) la promozione di progetti di interventi finalizzati alla occupabilità e all'occupazione e all'occupazione femminile nell'ambito delle attività previste dal POR (Programma Operativo Regionale); c) l’individuazione di interventi mirati per targets specifici di donne in stato di difficoltà occupazionali o con problemi di reinserimento nel mercato del lavoro; d) la promozione di iniziative tese a facilitare l'incontro fra la domanda di lavoro e l'offerta femminile, anche attraverso modalità individualizzate di orientamento e individuazione delle capacità, attitudini professionali e competenze delle utenti e degli utenti; e) la promozione di azioni rivolte a favorire la conciliazione della vita lavorativa con la vita extraprofessionale; f) la collaborazione con i Servizi all'Impiego per garantire una modalità non discriminatoria di pubblicizzazione della domanda di lavoro e di predisposizione della scheda professionale; g) l’individuazione di linee di intervento per la realizzazione e la diffusione della cultura di mainstreaming di genere; 83 h) la promozione di attività di partneriato in materia di pari opportunità sui temi dello sviluppo locale; i) l’individuazione di metodologie di progettazione di piani di azioni positive, anche sulla base delle situazioni di squilibrio di genere evidenziate dai rapporti ex art. 9 della legge n. 125/91; j) promozione di campagne informative e/o materiale informativo, finalizzati alla divulgazione, alla conoscenza e alla diffusione di progetti di azioni positive e alla promozione degli stessi. Alle Consigliere di parità viene riconosciuta, altresì, una speciale legittimazione a proporre ricorso dinanzi all’Autorità giudiziaria, anche in via d'urgenza, per tutti i casi di discriminazione, diretta ed indiretta, davanti al Tribunale in funzione di giudice del lavoro o al TAR territorialmente competente. In particolare, la Consigliera regionale, in caso di discriminazioni dirette o indirette di carattere collettivo, può ricorrere autonomamente, senza alcuna delega; la Consigliera provinciale deve essere invece delegata dalla lavoratrice/ore interessata/o che si ritiene discriminata/o. Il giudice, con la sentenza che accerta la discriminazione, ordina un piano di rimozione di tale situazione, sentiti i sindacati e la consigliera. L'inottemperanza all'ordine giudiziale costituisce reato e comporta la perdita dei benefici previsti dalla legge e la revoca degli eventuali appalti di opere pubbliche assegnati. È prevista la facoltà per le Consigliere di promuovere conciliazioni presso le Direzioni Provinciali del Lavoro e, per la Consigliera regionale in caso di discriminazione collettiva, presso il proprio ufficio. In quest'ultima ipotesi, il verbale di conciliazione redatto dinanzi alla consigliera regionale diviene titolo esecutivo con decreto del tribunale in funzione di giudice di lavoro. La Consigliera regionale, infine, riceve ogni biennio i rapporti sulla situazione del personale maschile e femminile da parte delle aziende che occupano oltre 100 dipendenti e provvede alla elaborazione dei dati con l'ausilio tecnico della Regione ed al loro controllo mediante l'intervento del Servizio Ispettivo del Lavoro. 3. Il piano di azioni positive 3.1. Gli obiettivi L'obiettivo generale del piano è chiaramente indicato dal legislatore nella "rimozione degli ostacoli che, di fatto, impediscono la piena realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel lavoro tra uomini e 84 donne", coerentemente con l'obiettivo della l.n. 125/1991 (art. 1, co. 1°). Più specifico appare l'obiettivo di "promuovere l'inserimento delle donne nei settori e nei livelli professionali nei quali esse sono sottorappresentate" (art. 1, co. 2, lett. d) l.n. 125/1991). A tal fine i piani devono favorire "il riequilibrio della presenza femminile nelle attività e nelle posizioni gerarchiche ove sussiste un divario fra generi non inferiore a due terzi". Lo strumento imposto dal legislatore per realizzare tale obiettivo è individuato dallo stesso legislatore nell'obbligo di motivare - in modo esplicito ed adeguato - la scelta del candidato di sesso maschile, "in occasione tanto di assunzioni quanto di promozioni, a fronte di analoga qualificazione e preparazione professionale tra candidati di sesso diverso". Entrambi gli obiettivi devono essere letti alla luce dei più recenti interventi normativi comunitari e nazionali che hanno scelto un "doppio binario" di intervento: mainstreaming e azioni positive. A livello comunitario, la Commissione europea ha dichiaratamente scelto la "duplice strategia composta da integrazione orizzontale e azioni specifiche". L'integrazione orizzontale è stata definita, a partire da Pechino, come "la promozione da parte dei governi e degli altri soggetti attivi, di una politica attiva e visibile di mainstreaming in una prospettiva di genere in tutte le politiche e i programmi per assicurare che, prima di prendere decisioni, sia effettuata un'analisi degli effetti che essi hanno sulle donne e sugli uomini rispettivamente". A livello nazionale, l'approccio è stato analogo, con l'emanazione della direttiva volta a realizzare obiettivi di empowerment e di mainstreaming emanata della Presidenza del Consiglio del 1997, e con l'ammodernamento della disciplina delle azioni positive ad opera del d.lgs. n. 196/2000. La Direttiva - documento più politico che tecnico indirizzato ai Ministri - è rivolta ad individuare una serie di obiettivi che dovrebbero essere perseguiti nell'elaborazione delle diverse politiche, economiche e sociali, del Governo. I molti, articolati e talora non chiarissimi obiettivi, esprimono sostanzialmente due meta-obiettivi, peraltro fra loro collegati, entrambi provenienti dai documenti elaborati a Pechino. La prima tipologia di obiettivi è infatti riconducibile all'acquisizione di poteri e responsabilità (empowerment), nel "perseguimento delle condizioni per una presenza diffusa delle donne nelle sedi in cui si assumono decisioni rilevanti per la vita della collettività", in particolare assicurando una presenza significativa delle donne negli "incarichi di responsabilità nell'amministrazione pubblica" e 85 analizzando "l'impatto dei sistemi e dei percorsi formativi". I verbi utilizzati (assicurare, analizzare), uniti ai verbi utilizzati nel prosieguo della Direttiva (promuovere, favorire, sperimentare, incentivare) sono sintomatici di un intervento soft, un atto di indirizzo, appunto, dell'attività istituzionale, che deve essere seguito da una concreta attuazione degli obiettivi da parte di tutte le pubbliche amministrazioni. La seconda tipologia di obiettivi è invece riconducibile al mainstreaming, ovvero alla "integrazione del punto di vista di genere nelle politiche governative" ed alla valutazione dell'impatto di genere delle politiche governative. A fianco di questi obiettivi si collocano azioni volte a formare una cultura della differenza di genere, a promuovere l'occupazione femminile, a realizzare nuove politiche dei tempi e dei cicli di vita, a prevenire e reprimere la violenza (e vengono qui citate, per esempio, le molestie sessuali nel luogo di lavoro). Pare opportuno ricordare che nella Direttiva, fra le azioni programmate sotto il capitolo "Formazione di una cultura della differenza di genere", si trova quella di "favorire le condizioni per l'accesso delle donne alla ricerca e alle cattedre universitarie", così come quella di "introdurre, negli insegnamenti curriculari, lo studio dei diritti fondamentali delle donne". 3.2. I contenuti e gli strumenti per l’attuazione del piano I contenuti del piano di azioni positive sono dunque riconducibili ai diversi obiettivi sopra evidenziati. Essi possono essere articolati nel seguente modo: a) interventi formativi; b) interventi "mirati" per il superamento delle condizioni di sottorappresentazione femminile e per migliorare il ruolo delle donne nell'organizzazione complessiva dell'ente di appartenenza; c) interventi volti a migliorare l'ambiente di lavoro, garantendo condizioni di lavoro prive di comportamenti molesti o mobbizzanti; d) interventi volti ad agevolare la conciliazione delle vita lavorativa e della vita privata/familiare; e) interventi di accompagnamento delle misure adottate, rivolti ad informare e coinvolgere tutte le componenti universitarie; f) partecipazione a ricerche, indagini, volte ad acquisire le conoscenze necessarie per migliorare i progetti che si intende avviare e per programmare gli interventi del successivo triennio; 86 i) politiche di valutazione di impatto di genere delle innovazioni organizzative progettate e avvio di un'attività di gender auditing sugli interventi posti in essere dall’amministrazione; l) interventi di valorizzazione del ruolo e delle competenze del Comitato per le pari opportunità. L'amministrazione, una volta acquisiti i necessari pareri degli organismi previsti dall'art. 47 del d.lgs. n. 29/1993 e della consigliera regionale di parità ed approvato dagli organi competenti il piano di azioni positive, si impegna a rispettarne i tempi e i modi di attuazione. Essa, nella consapevolezza che la rimozione degli ostacoli che si frappongono alla realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel lavoro costituisce un obiettivo primario dell'attività della pubblica amministrazione, deve improntare l'intera sua attività ai principi affermati nel piano e negli strumenti che saranno adottati in attuazione dello stesso piano. Al fine di realizzare gli interventi previsti nel piano, l'amministrazione si impegna, in particolare, ad individuare la/le struttura/e competente/i, al livello appropriato, alla/e quale/i sarà espressamente affidato l'incarico di realizzare il piano, in stretta collaborazione con la segreteria tecnica del CPO e con il CPO stesso. Peraltro, appare necessario che l'amministrazione si impegni altresì a provvedere, insieme al CPO, al controllo in itinere del piano, garantendo la collaborazione delle sue strutture al fine di monitorare e adeguare tempi e modi di attuazione in relazione agli eventuali mutamenti del contesto (normativo e organizzativo). Almeno sei mesi prima della scadenza del triennio, l'amministrazione deve provvedere, insieme al CPO, al controllo ex post del piano, al fine di avviare tempestivamente la progettazione del piano per il successivo triennio, valutato l'impatto delle iniziative intraprese e i risultati conseguiti nel primo triennio. 87 ART. 57 DEL D. LGS. 165/2001: PARI OPPORTUNITA’ E P.I. di CRISTINA DE ROSE (Collaboratore di Istituzione Pubblico Comparato-Università di Salerno) Le pubbliche amministrazioni, al fine di garantire pari opportunità tra uomini e donne per l’accesso al lavoro ed il trattamento sul lavoro, a) riservano alle donne, salva motivata impossibilità, almeno un terzo dei posti di componente delle commissioni di concorso, fermo restando il principio di cui all’art. 57, 3° comma, lett. e); b) adottano propri atti regolamentari per assicurare pari opportunità fra uomini e donne sul lavoro, conformemente alle direttive impartite dalla Presidenza del Consiglio dei ministri Dipartimento della funzione pubblica; c) garantiscono la partecipazione delle proprie dipendenti ai corsi di formazione e di aggiornamento professionale in rapporto proporzionale alla loro presenza nelle amministrazioni interessate ai corsi medesimi, adottando modalità organizzative atte a favorirne la partecipazione, consentendo la conciliazione fra vita familiare e vita professionale; d) possono finanziare programmi di azione positive e l’attività dei Comitati pari opportunità nell’ambito delle proprie disponibilità di bilancio. Le pubbliche amministrazioni, secondo le modalità di cui all’art. 9, adottando tutte le misure per attuare le direttive dell’Unione europea in materia di pari opportunità, sulla base di quanto disposto dalla presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica. Allo scopo di rendere più chiara l’azione rivolta alla realizzazione delle pari opportunità, nonostante fosse stata introdotta la disciplina legislativa con la prima riforma (D.Lgs. 29/93) e pur avendo inteso conferire ai principi di parità e di pari opportunità un valore primario, è stata evidenziata una debolezza strutturale dal punto di vista sia dell’assenza di incentivi finanziari delle azioni positive, sia dallo scarso contenuto delle disposizioni immediatamente precettive, tenendo conto, anche, degli interventi da parte delle Direttive Comunitarie. La recente Direttiva PCM del 27 marzo 1997 adottata a seguito degli atti internazionali e comunitari ed ispirata all’integrazione del punto di 88 vista di genere nelle scelte politiche e amministrative, prefigura una griglia di azioni rivolte ai Ministri, al fine di promuovere l’attribuzione di poteri e responsabilità alle donne, a riconoscere e garantire libertà di scelte e qualità sociale di donne e uomini, alcune delle quali interessano in modo specifico le pubbliche amministrazioni, e riguardano prevalentemente il versante dell’azione amministrativa, benché non manchino misure che interessano anche il rapporto di lavoro. Tra queste ultime si segnalano quelle che consistono nella ricerca delle condizioni per una presenza diffusa delle donne nelle sedi in cui si assumono decisioni rilevanti per la vita della collettività, e impongono, fra l’altro di analizzare modelli organizzativi del settore pubblico nell’ambito della riforma della pubblica amministrazione e di proporre gli opportuni adeguamenti. L’art. 57 D.Lgs. n. 165/2001 in commento, riguarda una pluralità di strumenti che dovrebbero assicurare la realizzazione di azioni positive. Secondo quanto previsto dal 1° comma, lett. b), l’attuazione delle Direttive comunitarie avviene mediante l’adozione da parte delle amministrazioni pubbliche di atti regolamentari per assicurare pari opportunità tra uomini e donne sul lavoro, da adottarsi, appunto conformemente alle direttive impartite dalla presidenza del Consiglio dei Ministri. Resta tuttavia aperto il problema della effettività della disciplina, originato dalla assenza di strumenti sanzionatori specifici in caso di inadempimento o ritardo delle pari opportunità, benché vada sottolineata la responsabilità del dirigente, valutabile nelle sedi appropriate. Il ricorso al Commissario ad acta per sopperire alla carenza di strumenti sanzionatori, può apparire poco opportuno nei fatti. Più consono alla natura degli interessi in gioco sarebbe stata una soluzione che attribuisse agli organismi sindacali oppure ai comitati di p.o. la funzione di rendere esigibile l’obbligo di adempiere. In proposito, la carenza legislativa è colmata, almeno per tutta la fase transitoria, dalle clausole che, nei precedenti accordi di comparto ponevano spesso veri e propri obblighi a trattare in sede decentrata nelle materie connesse alle p.o. e prevedere la costituzione dei Comitati per le p.o. che restano in vigore anche dopo le recenti discipline contrattuali. Una delle poche modifiche introdotte dall’art. 57 riguarda i comitati p.o. disciplinati dai precedenti accordi di comparto e sono caratterizzati da interventi che riguardano il miglioramento della qualità dell’ambiente di lavoro e di valorizzazione delle capacità professionali. 89 A questo proposito il nuovo testo della norma riguarda la possibilità di finanziare l’attività dei comitati p.o., insieme a programmi di azioni positive, secondo le disponibilità di bilancio. Si è così finalmente posto rimedio ad una lacuna che ha condizionato l’attività di tali comitati. Secondo quanto previsto dal 1° comma, lett. c) “di garantire la partecipazione delle proprie dipendenti ai corsi di formazione e di aggiornamento professionale in rapporto alla loro presenza nelle amministrazioni interessate ai corsi medesimi”, và sottolineato la disposizione che riguarda alcune misure rivolte ad istituti rilevanti per le p.o. quali i concorsi e la formazione professionale. Tale disposizione ha previsto il metodo delle quote riservate in materia di concorsi, disponendo “l’art. 57, lett. a)” che un terzo dei posti dei componenti della commissione sia riservata a donne, salvi i casi di motivata impossibilità, e fermo restando il principio di cui all’art. 35, 3° comma, lett. e), grazie al quale deve trattarsi comunque di esperti di provata competenza e nel rispetto del regime di incompatibilità ivi previsto. La norma appare ispirata principalmente agli indirizzi comunitari che, invitano gli Stati a promuovere “la partecipazione attiva delle donne agli organi decisionali”, e “ad incoraggiare la partecipazione ai livelli superiori di responsabilità”. Per quanto riguarda la tematica della formazione professionale, la lett. c) dell’art. 57 impone alle p.a. di garantire la partecipazione ai corsi in rapporto proporzionale alla loro presenza nelle amministrazioni interessate. La seconda riforma ha introdotto alcune limitate modifiche che non riguardano lo sviluppo della carriera, ma soltanto i contenuti e le modalità di partecipazione femminile. Per quanto riguarda i primi è stato introdotti l’obbligo di inserire nei programmi formativi, (ma non è chiaro se in tutti o soltanto in quelli rivolti alle donne), riferimenti alla cultura della Pubblic a Amministrazione. L’altra modifica è costituita dalla esortazione a rendere compatibile le condizioni di svolgimento del corso anche alle donne con responsabilità familiare, adottando modalità organizzative atte a favorire la partecipazione, consentendo la conciliazione tra vita professionale e familiare, con l’intento di superare gli ostacoli che, di fatto, si oppongono alla realizzazione di una situazioni di parità, nonostante la previsione dell’obbligo di rispettare le quote. Secondo quanto previsto dall’art. 57, 2° comma, è contemplato l’obbligo di dare attuazione alle indicazioni Comunitarie relative alla 90 tutela della dignità delle donne sul luogo di lavoro e riguardanti il modo particolare le molestie sessuali, risultanti dalla Risoluzione del Consiglio del 27 giugno 1990, della racc. Ce 27 novembre 1991, accompagnata da un codice di condotta relativo ai provvedimenti da adottare nella lotta contro le molestie sessuali. Si tratta di atti che sottolineano l’importanza della prevenzione e repressione delle molestie quale strumento per la integrazione delle donne nel mercato del lavoro e si collegano alle tematiche della discriminazione di genere e della promozione delle pari opportunità. In applicazione della norma alcune amministrazioni hanno adottato regolamenti che stabiliscono il codice di condotta che deve essere osservato dai dipendenti. Ciò corrisponde all’impostazione derivante dalle prese di posizione comunitarie tendente a porre in primo piano la responsabilità del datore di lavoro, sia pubblico sia privato, nell’eliminazione del fenomeno, alla stregua di quanto avviene nel campo della tutele dell’ambiente di lavoro. Le soluzioni adottate hanno tuttavia fatto discutere, poiché non appaiono del tutto convincenti né coerenti rispetto alle conclusioni del dibattito sviluppatosi nei movimenti delle donne, ove emergono preoccupazioni circa la non corrispondenza fra il codice morale di cui il datore di lavoro sarebbe il difensore e la autoderminazione rivendicata in proposito dalle donne stesse. La scelta di utilizzare i codici di comportamento nell’ambito del rapporto di lavoro corrisponde alla consapevolezza della insufficienza e pericolosità del ricorso all’apparato repressivo penale che, almeno allo stato attuale non sembra garantire a sufficienza la tutela della vittima delle molestie sia nella fase dell’accertamento dei fatti sia per quanto riguarda i rimedi applicabili. Si tratta di tematiche di cui tengono conto gli atti comunitari, che giustamente sottolineano la necessità di focalizzare i proble mi relativi alla definizione della nozione di “molestia”, di attivare procedure anche informali di soluzione dei casi singoli, di potenziare il ruolo riservato alla contrattazione collettiva nel predisporre strumenti di prevenzione delle molestie, di prevedere procedure specifiche e improntate alla riservatezza per lo svolgimento di indagini nonché per l’esperimento dell’azione disciplinare. La definizione delle molestie si incentra sulla possibilità di perseguire i comportamenti lesivi basandosi sul tipo di reazione che viene manifestata dalle vittime nell’ambito del contesto lavorativo (comportamenti indesiderati, sconvenienti o offensivi), più che sulla individuazione di ipotesi specifiche. Nei casi in cui la situazione sia 91 tale che la lavoratrice non possa assumere un atteggiamento di aperto rifiuti per timore di conseguenze negative, si indicano come ulteriori fattispecie perseguibili quelle in cui l’autore sia un superiore gerarchico e la profferta abbia natura ricattatoria, e, quale ipotesi ulteriore, quella in cui siffatti comportamenti creino comportamenti creino un ambiente di lavoro intimidatorio, ostile o umiliante. Tale definizione appare condivisibile nella misura in cui la situazione di dipendenza gerarchica della lavoratrice e il carattere ricattatorio del comportamento portano a qualificare il comportamento non solo come illecito, ma come rientrante nella fattispecie discriminatoria. Si tratta tuttavia di una impostazione non sempre condivisa in giurisprudenza, pur propensa a riconoscere il carattere di illegittimità del comportamento, nei casi in cui non vi siano condizioni di vera minaccia. Sul versante dei rimedi, si sottolinea l’opportunità di individuare soluzioni alternative e/o cumulative a quelle di carattere disciplinare che no sempre sono idonee a tutelare efficacemente la vittima, e non estranee alla sia pure relativa esperienza applicativa che negli anni più recenti è venuta emergendo. Sul tema delle pari opportunità e della conciliazione, in questi anni la regione Lombardia si è molto impegnata, recependo e facendo proprie le indicazioni della Comunità Europea al fine di valorizzare il contributo che le donne danno alla vita sociale e di creare le condizioni giuridiche, amministrative, organizzative e politiche affinché questo contributo possa dispiegarsi in tutta la ricchezza delle sue potenzialità. Questo modo di intendere il principio di pari opportunità significa offrire alle donne maggiore libertà di scegliere, mettendo a loro disposizione più risorse, più formazione, più lavoro, più informazione. La Regione Lombardia è mossa con azioni positive per ridurre la discriminazione, diretta o indiretta, cui le donne sono spesso sottoposte e ampliare il numero di opportunità a loro destinate anche attraverso la predisposizione di un’apposita normativa regionale. In questa direzione sono stati ottenuti i finanziamenti del Fondo Sociale Europeo dell’Obiettivo 3 misura E1 e con la legge regionale 23/99, che incrementano concretamente la libertà dei scelta delle donne, prevedendo interventi per la tutela e la valorizzazione della famiglia. La legge favorisce infatti la nascita ed il potenziamento di servizi pubblici e del privato sociale come i consultori per la famiglia, offre sostegni alle famiglie con figli minorenni attraverso ad esempio la 92 promozione della realizzazione di nidi famiglia, promuove l’associazionismo familiare, come i gruppi di mutuo aiuto. Gli impegni familiari, infatti, rischiano di precludere alla donna la possibilità di assumere un ruolo definitivo e soddisfacente all’infuori dell’ambito domestico nel lavoro e del percorso di carriera. In questo senso, qualsiasi misura che intervenga per facilitare una più equa distribuzione dei compiti tra madre e padre all’interno della famiglia, come quelle illustrate da questo opuscolo, mette la donna nella condizione di conciliare più efficacemente la sfera familiare e quella lavorativa e di perseguire la sua realizzazione personale in entrambi gli ambiti di vita. 93 IL TAR E’ COMPETENTE IN MATERIA DI LAVORO di FRANCESCO GAUDIERI (Consigliere del Tribunale Amministrativo Regionale per Campania, sezione Salerno) la La profonda trasformazione della Pubblica Amministrazione, i cui passi salienti si trovano tratteggiati con grande lucidità, nell’art. 2 l. 23 ottobre 1992 n. 421 (in G. U. 31 ottobre 1992 n. 257 S.O.) recante deleghe al Governo della Repubblica per la predisposizione di più decreti legislativi diretti al contenimento, alla razionalizzazione e al controllo della spesa per il settore del pubblico impiego, al miglioramento dell’efficienza e della produttività, nonché alla sua riorganizzazione, trovano negli artt. 33, 34 e 35 del D. Lgs n. 80/98 il punto di snodo fondamentale relativo alla giurisdizione, le cui previsioni hanno comportato una profonda modifica dell’assetto tradizionale delle attribuzioni del Giudice Amministrativo. Ed infatti, con l’art. 33 del D. Lg.vo 80/98 sono state “devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di pubblici servizi…”. Con l’art. 34 del citato decreto sono state “devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia urbanistica ed edilizia…”. Con l’art. 35, infine, è stato previsto che “il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi degli articoli 33 e 34 dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto.”. L’ampia portata della riforma della giurisdizione amministrativa di cui al D. Lg.vo n. 80/98, con l’attribuzione di materie nuove, introdotte dal legislatore quasi a compensazione della dismissione della giurisdizione del pubblico impiego, storicamente ricadente nella giurisdizione del G.A., è stata quasi subito vanificata dalla Corte costituzionale, ma è stata vieppiù controbilanciata dalla Corte di Cassazione con la storica pronuncia n. 500/1999 del 22 luglio 1999. Con la citata pronuncia, la Corte di Cassazione ha posto fine a quella giurisprudenza della stessa Corte, definita “monolitica” o “pietrificata” dalla dottrina, attestata nel sostenere l’irrisarcibilità degli interessi legittimi o meglio la non configurabilità della responsabilità civile, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., della P.A. per il risarcimento 94 dei danni derivanti ai soggetti privati dalla emanazione di atti o di provvedimenti amministrativi illegittimi, lesivi di una situazione di interesse legittimo. La portata caducatoria della sentenza n. 292/2000 della Corte costituzionale è stata subito tamponata dal legislatore con la novella legislativa della l. n. 205/2000, avente ad oggetto “disposizioni in materia di giustizia amministrativa”. Con l’art. 7 della novella, rubricato “modifiche al decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 80”, vi è stata una riedizione degli artt. 33 – 34 e 35 del D. Lg.vo n. 80/98, con significative modifiche non più ostacolate dai limiti connessi alla delega legislativa. La novella dell’art. 7 risulta vieppiù rilevante se si considera che, per espressa previsione normativa, il giudice amministrativo conosce del risarcimento del danno “nell’ambito della sua giurisdizione” e quindi senza più alcun limite, com’era invece nell’ambito della precedente formulazione. Questa stagione di riforme che ha visto crescere la figura e la funzione della giustizia amministrativa ha trovato, tuttavia, nella sentenza 5 luglio 2004 n. 204 della Corte costituzionale una battuta di arresto atteso che la sentenza sottrae al giudice amministrativo “la cognizione di situazioni paritarie come i rapporti debito. credito correlati all’erogazione dei servizi pubblici e la cognizione di meri comportamenti” (M. Clarich). Ma detta pronuncia è ancora più significativa perché essa incide su quel “processo di ripensamento del ruolo da assegnare al giudice amministrativo e della conformazione strutturale dello stesso processo amministrativo” (R. Garofoli). 95 DISCRIMINAZIONE DIRETTA ED INDIRETTA DIRITTO COMUNITARIO di PAOLA SOMMA (Spec. in Dir. Lav. e Relazioni Ind.-Università di Napoli) NEL 1. Introduzione La nozione di discriminazione diretta e indiretta è riferibile a qualsiasi atto discriminatorio in ragione del sesso che violi, direttamente o indirettamente, il principio di parità tra lavoratori e lavoratrici, in relazione a tutti gli aspetti del rapporto di lavoro. Il divieto di discriminazioni fondate sul sesso ha trovato il suo primo significativo riconoscimento nel diritto comunitario con l’art. 117 del trattato di Roma, imponendosi da subito quale fondamentale strumento di promozione dell’eguaglianza tra lavoratori e lavoratrici. Nella sua accezione retributiva il principio di parità è stato, invece, disciplinato dall’art. 119 del trattato di Roma, poi modificato dal trattato di Maastricht, istitutivo dell’Unione Europea, e dal trattato di Amsterdam mentre la parità di trattamento con riguardo agli elementi essenziali del rapporto di lavoro, quindi condizioni di lavoro in generale, accesso al lavoro e formazione professionale, è stata introdotta dalla direttiva n. 76/207. Successivamente il principio di parità è stato esteso dalla direttiva n. 79/7 anche alla sicurezza sociale. In particolare proprio l’affermazione del principio di parità di trattamento ha segnato un’importante svolta nell’evoluzione del diritto comunitario del lavoro in materia di parità tra lavoratori e lavoratrici, introducendo le azioni positive, importantissimi strumenti di promozione dell’eguaglianza sostanziale e delle pari opportunità tra lavoratori e lavoratrici. Giova, inoltre, precisare che se il principio di parità retributiva ha natura settoriale in quanto si riferisce esclusivamente all’eguaglianza di retribuzione, quello di parità di trattamento ha, invece, un contenuto notevolmente più ampio poiché postula l’assenza di qualsiasi discriminazione che si fondi sul sesso in relazione a tutti gli elementi del rapporto di lavoro57 . 57 Il percorso del diritto comunitario in tema di parità si fonda su di una semplice norma di armonizzazione dei costi di manodopera, l’art.119, che nel corso degli anni è divenuta un principio fondamentale di eguaglianza tra i due sessi, trasformando i diritti 96 Troppo spesso, tuttavia, l’applicazione del principio di parità negli ordinamenti giuridici degli Stati membri ha incontrato la forte opposizione del legislatore e della giurisprudenza nazionali, anche se gli organi comunitari sono comunque riusciti ad imporne il rispetto mediante l’emanazione di direttive e raccomandazioni, sulla cui trasposizione all’interno degli Stati ha vigilato la Corte di Giustizia: ai giudici di Lussemburgo, infatti, va riconosciuto il merito di aver saputo valorizzare l’ispirazione egalitaria sottesa ai singoli enunciati normativi sui quali sono stati chiamati a pronunciarsi. Al riguardo si osserva che la Corte di Giustizia ha tratto implicazioni, assolutamente innovative, dall’interpretazione del principio di eguaglianza di retribuzione, quale prima e significativa accezione della parità, estendendone l’ambito di applicazione ad ipotesi che il legislatore comunitario non aveva assolutamente contemplato. Parimenti, con la successiva elaborazione giurisprudenziale in tema di parità di trattamento ed ancor più di tutela giurisdizionale, il principio di parità ha trovato adeguato sostegno per divenire il fondamentale parametro di valutazione dell’intera disciplina comunitaria del rapporto di lavoro. I provvedimenti normativi più recenti vanno inquadrati, per contro, nella nuova logica del principio di eguaglianza, inteso non più soltanto quale divieto di discriminazioni fondate sul sesso ma anche sull’origine etnica, razza, religione, convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali. In particolare il divieto di siffatte discriminazioni è stato previsto dall’art. 13 del trattato di Amsterdam, cui è stata data piena attuazione con la direttiva n. 2000/43, relativa al principio di parità di trattamento indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica e con la direttiva n. 2000/78, che delinea un quadro generale della parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Le finalità perseguite da entrambe le direttive attengono, in realtà, alla costituzione di un impianto normativo per la lotta alle discriminazioni che, nel progetto del legislatore comunitario, è lo strumento attraverso il quale diviene effettivo il principio di parità di trattamento. Nella medesima ottica va inquadrata la direttiva n. 2002/73, che pone una nuova enfasi sulla tematica delle azioni positive. soggettivi della metà della popolazione europea. Così G. e A. LyonCaen, Droit Social International et Europèen, Dalloz, Paris, 1993 p. 310. 97 2. Il principio di parità retributiva Come già ricordato nell’introduzione il principio di parità retributiva tra uomo e donna nel rapporto di lavoro è stato sancito per la prima volta nel diritto comunitario dall’art. 119 del trattato di Roma che riconosce ai lavoratori ed alle lavoratrici che svolgano un lavoro eguale il diritto alla medesima retribuzione. Nella sua formulazione letterale tale norma si riferisce all’ipotesi in cui, tra le mansioni affidate agli uni ed alle altre, sussista identità di compiti e funzioni. Dunque possiamo trarre dall’esame del dettato normativo due rilevanti implicazioni riguardo i criteri di computo della retribuzione: se è prevista a tempo dovrà essere eguale a parità di posto di lavoro, se invece è commisurata a cottimo dovrà essere calcolata sulla base delle medesime unità di risultato. Secondo l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia nella sentenza Defrenne II58 la disposizione in esame persegue un duplice scopo: economico59 , poiché assolve alla funzione di evitare che nel mercato unico si creino situazioni di concorrenza impari tra le imprese degli Stati membri che hanno dato attuazione al principio della parità retributiva e quelle degli altri che non hanno ancora realizzato l’adeguamento alla normativa comunitaria e, allo stesso tempo, sociale in quanto espressione di quel miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della manodopera previsto all’articolo 117 del trattato di Roma. L’articolo 119, osserva la Corte nella sentenza Defrenne III,60 non prescrive invece la parità tra lavoratori e lavoratrici nelle altre condizioni di lavoro diverse dalla retribuzione 61 , in quanto pone 58 Corte di Giustizia 8 Aprile 1976 Causa 43/5, in M. Roccella- G. Civale- D. Izzi , Diritto Comunitario del Lavoro Casi e Materiali, Milano, 1995, p. 394. 59 Le politiche salariali discriminatorie, infatti, possono favorire una riduzione dei costi di produzione e di conseguenza il miglioramento della competitività di un determinato prodotto sul mercato. Così S. Renga, La giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee in materia di parità , in Quad. Dir. Lav. Rel. Ind., 1990, n. 7, p. 139. 60 Corte di Giustizia 15 Giugno 1978 Causa 149/77 in M. Roccella-G. Civale-D. Izzi, op. cit., p. 403. 61 Nella motivazione della sentenza si legge che i diritti fondamentali della persona umana, tra i quali rientra anche quello a non essere discriminati in ragione del sesso, fanno parte dei princip i generali del diritto comunitario di cui la Corte deve garantire l’osservanza; tuttavia, all’epoca dei fatti di causa, per i rapporti di lavoro disciplinati dal diritto nazionale non esisteva alcuna norma comunitaria che vietasse le discriminazioni fondat e sul sesso nelle condizioni di lavoro 98 specificamente il divieto di discriminazioni retributive in ragione del sesso, differendo per tale motivo dagli articoli 117 e 118 che hanno un contenuto essenzialmente programmatico: pertanto si tratta di una norma speciale e come tale non suscettibile di essere estesa a quegli elementi del rapporto di lavoro cui non si riferisca espressamente. La direttiva 75/11762 estende, poi, l’ambito di applicazione del principio di parità retributiva oltre l’originaria ipotesi del lavoro eguale, vietando, all’articolo 1, qualsiasi discriminazione che si fondi sul sesso in tutti gli elementi e le condizioni della retribuzione anche per un lavoro al quale è attribuito valore eguale. La direttiva, inoltre, impone agli Stati membri di rendere inefficaci le norme nazionali legislative, regolamentari ed amministrative che violino il principio di parità retributiva e di adottare le misure necessarie affinché disposizioni discriminatorie contenute in contratti collettivi o individuali di lavoro siano dichiarate nulle. La direttiva sancisce, infine, l’obbligo degli Stati membri di garantire ai lavoratori il diritto di agire in giudizio contro le discriminazioni retributive che si fondino sul sesso, al fine di assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale e, nel contempo, impone agli Stati membri di proteggere i lavoratori contro licenziamenti che costituiscano una reazione del datore di lavoro ad una rimostranza presentata a livello aziendale o ad un’azione giudiziaria volta all’accertamento di eventuali disparità concernenti il trattamento retributivo. La delicata questione interpretativa inerente alla nozione di lavoro uguale o di valore uguale, quale termine essenziale di riferimento dell’operatività del principio della parità retributiva, è stata poi affrontata dai giudici di Lussemburgo in numerose sentenze. Si richiama, a tal proposito, la sentenza Enderby63 relativa alla causa promossa da una logopedista, dipendente del National Health Service inglese, la quale aveva affermato che la retribuzione prevista per la sua categoria professionale, in prevalenza costituita da donne, era inferiore a quella riservata ai farmacisti che svolgevano, alle dipendenze del medesimo datore di lavoro, mansioni di eguale valore. La Corte ha statuito che, qualora sia accertata una notevole differenza retributiva tra due funzioni di valore uguale, delle quali l’una è esercitata esclusivamente da uomini e l’altra principalmente da donne, differenti dalla retribuzione, cui si riferisce in modo esclusivo l’articolo 119. 62 Direttiva del Consiglio, 10 febbraio 1975, n.75/117 in M. RoccellaG. Civale-D. Izzi, op. cit., p. 361. 63 Corte di Giustizia 27 Ottobre 1993 Causa 127/92, in Foro It., 1995, p. 168. 99 l’articolo 119 impone al datore di lavoro di motivare il trattamento diversificato mediante elementi obiettivi ed estranei ad una discriminazione che si fondi sul sesso. A tal fine non costituirà valida giustificazione il fatto che le differenti retribuzioni siano state determinate con due accordi collettivi autonomi intercorsi tra le medesime parti che, considerati separatamente, non hanno di per sé alcun effetto discriminatorio. Difatti, se una tale giustificazione fosse ammessa, il datore di lavoro potrebbe facilmente eludere il principio di parità retributiva avvalendosi di distinti contratti collettivi per discriminare una determinata categoria di lavoratori. Per quanto attiene, invece, alla tematica dei sistemi di classificazione professionale il secondo comma dell’articolo 1 della direttiva 75/117 specifica che, qualora lo strumento prescelto per determinare il livello retributivo inerente a ciascun tipo di lavoro siano i sistemi de quo, il parametro di ogni valutazione dovrà essere costituito da criteri comuni ai lavoratori ed alle lavoratrici: il diritto comunitario vieta, infatti, di classificare certe attività lavorative, cui sono preposte in prevalenza le donne, in maniera deteriore rispetto ad altre, tipicamente maschili, che richiedano qualifiche professionali equivalenti. Sebbene ogni Stato membro sia libero di far dipendere la valutazione dell’equivalenza di un determinato lavoro ad un altro dalla previa definizione di un sistema di classificazione professionale, per contro l’adozione del sistema de quo non potrà essere rimessa alla discrezione del datore di lavoro. Proprio questa situazione ha determinato l’intervento della Corte nel giudizio deciso con la sentenza del 6 luglio 198264 , giudizio relativo ad un ricorso65 promosso dalla Commissione Europea contro il Regno Unito per inottemperanza agli obblighi comunitari. La Commissione, infatti, riteneva che il Regno Unito non si fosse conformato alla direttiva che imponeva a tutti gli Stati membri di adottare disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative per l’attuazione del principio di parità retributiva tra lavoratori di sesso diverso. Orbene secondo l’Equal Pay Act inglese del 1970, modificato dal successivo Sex Discrimination Act del 1975, il sistema di classificazione professionale era l’unico strumento disponibile per 64 Corte di Giustizia 6 Luglio 1982 Causa 61/81 in M. Roccella-G. Civale-D. Izzi, op. cit., p. 420. 65 Si tratta del ricorso, proponibile dalla Commissione o da uno Stato membro previa consultazione della stessa, diretto a far accertare la violazione di norme comunitarie. Lo Stato membro contro cui è inoltrato non potrà sottrarsi al giudizio della Corte e, se dichiarato inadempiente, sarà obbligato ad adottare tutti i provvedimenti derivanti dall’esecuzione della sentenza. 100 determinare l’equivalenza di un lavoro ad un altro, subordinato altresì, quanto all’adozione, al consenso del datore di lavoro. Ove tale consenso non fosse stato prestato, come era accaduto nel caso in esame, era perciò stesso impedita la verifica dell’equivalenza, divenendo di conseguenza impossibile intervenire su eventuali discriminazioni al di fuori dell’ipotesi di identità di lavoro. Pertanto, secondo la Corte, il Regno Unito era venuto meno agli obblighi che la direttiva gli imponeva, omettendo di introdurre nel proprio ordinamento giuridico quei provvedimenti normativi atti a consentire a qualsiasi lavoratore che si ritenesse leso dalla mancata applicazione del principio di parità retributiva di ottenere la dichiarazione dell’equivalenza del proprio lavoro ad un altro di eguale valore, in assenza di un sistema di classificazione professionale. 3. Le discriminazioni retributive Nella sentenza Defrenne II i giudici di Lussemburgo hanno distinto le discriminazioni retributive in dirette e palesi da un lato, indirette ed occulte dall’altro. Soltanto rispetto alle prime, la Corte ha riconosciuto, all’art. 119, l’efficacia diretta 66 , vale a dire la sua immediata applicabilità indipendentemente da provvedimenti d’attuazione, comunitari o nazionali. Ne consegue che il giudice nazionale, mediante un esame meramente giuridico condotto con l’ausilio dei due criteri indicati dall’articolo stesso cioè l’identità di lavoro e la parità di retribuzione, potrà venire in possesso di tutti gli elementi di fatto necessari all’accertamento dell’eventuale discriminazione. Per le indirette, invece, l’interpretazione dell’articolo 119 non consente, comunque, di attribuire al legislatore nazionale competenza esclusiva per la realizzazione del principio di parità retributiva, che potrà viceversa affermarsi mediante la concorrenza di norme nazionali e comunitarie. Le discriminazioni dirette, indica la Corte, potranno avere origine da disposizioni legislative, da contratti collettivi di lavoro o da una differente retribuzione corrisposta ai lavoratori ed alle lavoratrici che svolgono lo stesso lavoro nella medesima azienda o ufficio, pubblico o privato; in quest’ultima ipotesi 66 Si tratta dunque di una norma self-executing, cioè esattamente determinata e perciò direttamente applicabile negli ordinamenti degli Stati membri. Per la Corte di Giustizia, quindi, il divieto di discriminazioni retributive in ragione del sesso vincola non solo gli Stati membri ma anche i datori di lavoro pubblici e privati, poiché l’articolo 119 è fonte di situazioni giuridiche attive che possono essere fatte valere di fronte agli organi nazionali della tutela giurisdizionale. 101 decisiva sarebbe l’identità di mansioni affidate agli uni ed alle altre. Tuttavia diverse sono le situazioni che concretamente possono verificarsi e spesso non è agevole ricondurle a criteri puntuali. In effetti i termini di comparazione potrebbero non presentarsi contemporaneamente nella medesima impresa: la sentenza Macarthys 67 descrive esattamente questa fattispecie. Qualora tali siano i presupposti del caso concreto sarà necessario accertare l’esistenza di un trattamento retributivo differenziato in ragione del sesso, mediante il riferimento alla natura delle prestazioni che, in quanto criterio meramente qualitativo, non potrà essere limitato a quelle situazioni in cui i lavoratori e le lavoratrici svolgono contemporaneamente mansioni eguali alle dipendenze del medesimo datore di lavoro. A giudizio della Corte, dunque, esiste una discriminazione retributiva diretta anche nel caso in cui sia accertato che una lavoratrice abbia percepito una retribuzione inferiore a quella corrisposta ad un lavoratore che abbia svolto, antecedentemente, identiche mansioni presso lo stesso datore di lavoro. Nella successiva sentenza Jenkins 68 , invece, l’orientamento giurisprudenziale manifestato in precedenza subisce un significativo mutamento: abbandonata la distinzione tra discriminazioni dirette ed indirette i giudici di Lussemburgo riconoscono l’efficacia diretta dell’articolo 119 rispetto a qualsiasi forma di discriminazione retributiva. La causa in esame verte sul ricorso presentato da una lavoratrice inglese contro un’impresa operante nel settore delle confezioni per signora. La ricorrente, impiegata part-time, sosteneva di aver ricevuto una retribuzione oraria inferiore a quella corrisposta ai suoi colleghi che svolgevano il suo stesso lavoro ma a tempo pieno. Secondo la Corte la prassi che attribuisce una differente retribuzione oraria in funzione del numero di ore lavorative settimanali configura un’ipotesi di discriminazione indiretta solo se, all’atto pratico, è un mezzo indiretto, appunto, per ridurre il livello retributivo dei lavoratori part-time in ragione del fatto che tale categoria è costituita in prevalenza da donne. Ad ogni modo spetta al giudice nazionale procedere ad una valutazione caso per caso, tenuto conto delle circostanze di fatto e delle ragioni addotte dal datore di lavoro, per decidere se una determinata prassi retributiva rappresenti in realtà una discriminazione indiretta che si fonda sul sesso; tuttavia, ove tale 67 Corte di Giustizia 27 Marzo 1980 Causa 129/79 in M. Roccella-G. Civale-D. Izzi, op. cit., p. 410. 68 Corte di Giustizia 31 Marzo 1981 Causa 96/80. 102 indagine risulti positiva, al caso concreto l’articolo 119 sarà direttamente applicabile. A partire dagli anni novanta la problematica delle discriminazioni indirette è divenuta molto attuale. Nella sentenza Nimz69 la questione sottoposta all’attenzione dei giudici di Lussemburgo riguarda una disposizione di un contratto collettivo nazionale per il pubblico impiego che, ai fini dell’accesso ad un livello retributivo superiore, considera integralmente l’anzianità dei dipendenti che prestino servizio almeno per i 3\4 dell’orario normale di lavoro, in prevalenza uomini, mentre solo per metà quella degli altri il cui orario di lavoro sia compreso tra la metà ed i 3\4 di quello normale, categoria quest’ultima costituita in maggioranza da donne. Secondo la Corte questa norma, in realtà, dissimula una discriminazione indiretta in ragione del sesso, che potrebbe essere esclusa soltanto se il datore di lavoro, onerato della prova, dimostrasse che è giustificata da altri fattori la cui obiettività dipende dal rapporto tra la natura delle mansioni e l’esperienza che il loro svolgimento consente di acquisire dopo un certo numero di ore di lavoro. Il giudice nazionale, riconosciuto il carattere indirettamente discriminatorio di una disposizione di un contratto collettivo, sarà tenuto a disapplicarla, senza dover richiedere o attendere che sia caducata mediante la contrattazione collettiva o qualsiasi altro procedimento, e ad assoggettare i lavoratori, in danno dei quali la discriminazione opera, al regime più favorevole che viene, invece, riservato agli altri. Infatti, tale regime, in difetto di una corretta trasposizione dell’art. 119 nell’ordinamento nazionale, resta l’unico sistema di riferimento valido. 4. La parità di trattamento Il principio di parità di trattamento, come già ricordato nell’introduzione, è stato sancito per la prima volta dalla direttiva 76/207 che ne prescrive l’attuazione negli Stati membri per quanto riguarda l’accesso al lavoro, la formazione professionale e le condizioni di lavoro in generale. Il suo ambito di operatività riguarda, quindi, gli aspetti più significativi del rapporto di lavoro, dall’assunzione sino al licenziamento, e talvolta anche quelli esterni, quali l’orientamento e la formazione professionale. 69 Corte di Giustizia 7 Febbraio 1991 Causa 184/89, in M. Roccella-G. Civale- D. Izzi, op. cit., p. 538. 103 Più che soffermarsi sull’analisi dei singoli enunciati normativi contenuti in tale direttiva merita di esserne approfondita l’interpretazione resa dalla Corte di Giustizia: anche in questo caso, infatti, il diritto comunitario vivente è tributario degli orientamenti dei giudici di Lussemburgo. Per quanto attiene alla fattispecie dell’accesso al lavoro, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2 e 3 primo comma della direttiva 76/207, il principio di parità di trattamento tra lavoratori e lavoratrici vieta qualsiasi discriminazione che si fondi direttamente o indirettamente sul sesso, specie per quanto concerne lo stato matrimoniale o di famiglia, rispetto alle condizioni di accesso al lavoro, compresi i criteri di selezione, in qualunque settore si svolga l’attività lavorativa ed a tutti i livelli della gerarchia professionale. La portata delle disposizioni normative dianzi richiamate è stata precisata dalla Corte nella sentenza 08.11.1990, causa n. 177/88. Per i giudici di Lussemburgo, infatti, agisce direttamente in contrasto con tali disposizioni il datore di lavoro che neghi l’assunzione ad una candidata, giudicata idonea alle mansioni da svolgere, perché in stato di gravidanza, anche quando il rifiuto non sia determinato da un intento discriminatorio ma dalla volontà di sottrarsi agli oneri connessi all’assenza per maternità equiparata, dalla normativa nazionale in materia di inabilità al lavoro, a quella per malattia, che comporta la corresponsione della relativa indennità giornaliera a suo carico. L’aspetto più rilevante della decisione, tuttavia, va colto nella concezione di discriminazione fatta propria dal giudice comunitario per il quale, al trattamento penalizzante riservato ad una lavoratrice, non deve necessariamente corrispondere l’attribuzione di un vantaggio ad un lavoratore. La Corte, in altre parole, ha ritenuto che il diniego di assunzione motivato dalla gravidanza può opporsi solo ad una donna e, per ciò solo, rappresenta una discriminazione diretta in ragione del sesso che non cessa di essere tale neppure nel caso in cui nessun candidato di sesso maschile si sia presentato per occupare l’impiego da attribuire. I Giudici di Lussemburgo hanno precisato che, sebbene la direttiva demandi agli Stati membri la scelta del regime sanzionatorio più idoneo a punire la violazione del divieto di discriminazione in essa enunciato, qualora sia prescelta una sanzione che rientra in un regime di responsabilità civile, l’atto discriminatorio è di per sé sufficiente a determinare la responsabilità dell’autore, senza che possano essere invocate le eventuali esimenti previste dal diritto nazionale. Il rispetto del principio di parità di trattamento si impone anche in riferimento all’atto risolutivo del rapporto di lavoro. Al riguardo, l’art. 104 5, 1° comma, della direttiva 76/207 impone agli Stati membri la garanzia del riconoscimento dei medesimi diritti ai lavoratori ed alle lavoratrici, senza discriminazioni che si fondino sul sesso. Sotto quest’ultimo profilo di particolare importanza è la questione pregiudiziale rimessa ai giudici di Lussemburgo nella Sentenza P.70 . La causa in esame, infatti, ha ad oggetto il caso di P., dipendente presso un pubblico istituto di insegnamento in qualità di amministratore, che un anno dopo l’assunzione, aveva informato il suo datore di lavoro dell’intenzione di sottoporsi ad un ciclo di trattamenti medici e ad alcune operazioni chirurgiche per mutare la propria identità sessuale; a distanza di alcuni mesi P. veniva licenziato con la formale motivazione dell’esubero di personale. La Corte si è preliminarmente rifatta alla definizione dei transessuali adottata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale essi sono persone che, pur presentando le caratteristiche fisiche proprie di un sesso, hanno la sensazione di appartenere all’altro e quindi cercano di accedere ad un’identità più coerente e meno ambigua, sottoponendosi a cure mediche e ad interventi chirurgici allo scopo di adeguare il corpo al loro stato psichico71 . Il collegio ha poi ricordato che la direttiva 76/207 è espressione di uno dei principi fondamentali del diritto comunitario, quello di eguaglianza e che il diritto a non essere discriminato in ragione del proprio sesso è uno dei valori essenziali ed irrinunciabili dell’individuo sulla cui osservanza la Corte è preposta a vigilare. Di conseguenza, hanno affermato i giudici di Lussemburgo, la sfera di applicazione della direttiva non può essere circoscritta esclusivamente alle discriminazioni relative all’appartenenza all’uno o all’altro sesso ma, tenuto conto del suo scopo e della natura dei diritti che intende garantire, va estesa anche alle discriminazioni che hanno origine, come nel caso considerato, nel mutamento di sesso. L’adozione di siffatta soluzione si rende necessaria in quanto anche tali discriminazioni sono basate sul sesso di chi le subisce, dal momento che al soggetto licenziato, o più genericamente discriminato, in conseguenza del mutamento della propria identità sessuale, è stato riservato un trattamento deteriore rispetto alle persone del sesso al quale era considerato appartenere prima dell’operazione chirurgica: tollerare un comportamento discriminatorio di tal fatta equivarrebbe a non riconoscere il rispetto della dignità e della libertà cui ogni individuo ha diritto. Quindi, ad avviso della Corte, la fattispecie non 70 Corte di Giustizia 30 Aprile 1996 Causa 13/94, in Dir. Lav., 1997, p. 318. 71 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 17 Ottobre 1986. 105 solo rientra nella sfera di applicazione della direttiva ma viene ad essere tipizzata in una specifica e puntuale disposizione della stessa, l’art. 5, che sancendo l’illegittimità del licenziamento comminato per motivi attinenti al sesso, vieta il recesso intimato a chi abbia scelto di modificare la propria identità sessuale originaria. La sentenza in questione, come facilmente prevedibile, ha determinato un ampliamento della portata oggettiva e soggettiva della direttiva tale da consentirne l’applicazione a fattispecie prima non contemplate né tanto meno ipotizzabili. Tuttavia il valore di questa decisione va colto sicuramente al di là della lettura che i giudici di Lussemburgo hanno dato alla disposizione comunitaria; l’operazione compiuta dalla Corte non deve, infatti, essere considerata come mera interpretazione estensiva ma viceversa come interpretazione evolutiva della normativa comunitaria costituendo prova, per la direttiva stessa, della sua capacità di essere estesa a tutte quelle ipotesi di discriminazioni fondate sul sesso che il progresso e l’evoluzione delle necessità individuali possono prospettare72 . 5. Le discriminazioni indirette La tematica delle discriminazioni indirette, già trattata in materia di parità retributiva, deve essere ora affrontata in relazione agli altri aspetti del principio paritario. Il termine discriminazione indiretta è entrato a far parte del lessico del legislatore comunitario solo a partire dalla direttiva 76/207 che, tuttavia, ne conteneva un semplice accenno, peraltro vago; è d’obbligo, quindi, sottolineare che si tratta di una nozione costruita in via quasi esclusiva dalla giurisprudenza della Corte che ha ricavato dall’esiguo materiale normativo sul quale è stata chiamata a pronunziarsi il massimo potenziale di integrazione. Essa si richiama implicitamente alla teoria americana del “disparate impact”73 , in base alla quale qualsiasi prassi adottata nell’ambito del 72 Questa sentenza, oltre a confermare l’attività di creazione del diritto che la Corte ha svolto spesso, sin dalla sua istituzione, sembra ineluttabilmente aprire la via ad analoghe pronunce in materia di discriminazioni fondate non sull’appartenenza ad un determinato sesso ma sulle tendenze sessuali dei lavoratori. Essa rappresenta una novità di non poco rilievo nel panorama giurisprudenziale comunitario che non ha mancato di sviluppare un ampio dibattito, consentendo riflessioni più approfondite su questa nuova tematica. Così L. Calafà e A. Rivara, La sentenza P. :una nuova frontiera dell’uguaglianza?, in Dir. Lav., 1996, p. 582. 18. Questa dottrina fu proposta per la prima volta dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1971. Si fonda sulla valutazione del risultato, o effetto di sproporzione, che una pratica di impiego solo esteriormente egalitaria è in grado di generare per un gruppo di persone di un 106 rapporto di lavoro che, pur ispirandosi in apparenza a criteri neutri e formalmente corretti, produca effetti pregiudizievoli nei confronti di un gruppo di persone appartenenti ad un determinato sesso integra gli estremi di una discriminazione indiretta 74 . Nella sentenza RuziusWilbrink75 i giudici di Lussemburgo hanno avuto modo di pronunciarsi su questa importante problematica. La causa in esame verte sull’interpretazione di una disposizione legislativa olandese che, nell’ambito della disciplina generale delle prestazioni previdenziali per inabilità al lavoro, limita l’importo di tale beneficio, per coloro che abbiano lavorato ad orario ridotto, alla retribuzione percepita precedentemente. Dagli atti di causa risulta, infatti, che questa norma riconosce a tutti gli assicurati, ad eccezione dei lavoratori part-time, il diritto ad un assegno il cui importo è pari al minimo sociale ed è indipendente dai redditi percepiti nell’anno precedente l’insorgere della causa dell’invalidità; tuttavia dall’esame delle circostanze di fatto emerge che il lavoro a tempo parziale in Olanda è svolto da una percentuale di donne molto più elevata rispetto a quella degli uomini. La disposizione in esame quindi, ad avviso della Corte, discrimina indirettamente le lavoratrici e la constatazione che sarebbe ingiusto concedere loro un assegno superiore alla retribuzione non può costituire una giustificazione obiettiva di tale disparità di trattamento, in quanto per le altre categorie l’importo dell’assegno è comunque superiore al reddito percepito dai beneficiari. Successivamente, nella sentenza Roks 76 , la Corte si è pronunciata su di un caso analogo a quello dianzi esaminato. In particolare la questione rimessa alla Corte riguardava la disciplina del sistema previdenziale che, per l’ipotesi di sopraggiunta incapacità lavorativa, subordinava l’attribuzione della corrispondente prestazione ad un requisito di reddito da lavoro percepito nell’anno precedente all’evento causa dell’inabilità. Il requisito legale del reddito, fissato in misura indifferenziata per le donne e per gli uomini e comunque determinato sesso e per la quale non è necessario provare l’intento discriminatorio, come invece avviene per le ipotesi di trattamento differenziale. 74 Il concetto di discriminazione indiretta, quindi, si riferisce agli effetti differenziati di un trattamento uniforme riservato sia ai lavoratori che alle lavoratrici. Per stabilire l’esistenza di un effetto differenziato la posizione dei soggetti deve essere considerata a livello pratico e non viceversa teorico; v.: M. Rubenstein, Teorie sulla discriminazione, in Quad. Dir. Lav. Rel. Ind., 1990, n. 7, p. 90. 75 Corte di Giustizia 13 Dicembre 1989 Causa 102/88. 76 Corte di Giustizia 24 Febbraio 1994 Causa 343/92, in Rac. Giur. Corte Giust., 1994, p. 250. 107 piuttosto elevata, in realtà secondo la Corte discriminava in via indiretta proprio le lavoratrici, in virtù dei livelli mediamente più bassi dei loro salari. I giudici comunitari hanno negato alle ragioni di bilancio la possibilità di assurgere a giustificazione del trattamento penalizzante riservato alle lavoratrici giacché la loro legittimazione comporterebbe che l’applicazione del principio di parità possa variare, nel tempo e nello spazio, a seconda della condizione delle finanze pubbliche negli Stati membri. La nozione di discriminazione indiretta, unitamente a quella diretta, è stata, da ultimo, ulteriormente precisata con le direttive nn. 2000/43 e 2000/78. Secondo la definizione adottata da entrambe le direttive sussiste discriminazione diretta quando, in ragione di una delle motivazioni contemplate, vale a dire sesso, razza, religione, convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali, una persona è trattata meno favorevolmente di un’altra in una situazione analoga; sussiste invece discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente “neutri” creano una situazione di svantaggio per determinate persone in ragione delle motivazioni indicate. Le direttive, inoltre, introducono un elemento di novità di indiscusso rilievo, equiparando alla condotta discriminatoria sia l’ordine di discriminare che le molestie, ampliano così il novero dei comportamenti vietati. Completa il quadro normativo in tema di parità la direttiva n. 2002/73, che ha accolto il così detto “mainstreaming”, orientamento adottato dalla Commissione europea a far data dal 1996. In base a tale dottrina le pari opportunità sono garantite dall’integrazione orizzontale delle politiche sociali e degli atti normativi. In particolare la direttiva de quo indica la parità tra uomo e donna come il fine che gli Stati membri devono perseguire nel formulare ed attuare le leggi, i regolamenti e gli atti amministrativi dei propri ordinamenti giuridici nonché nell’elaborare politiche di promozione con riguardo agli aspetti essenziali del rapporto di lavoro. In conclusione possiamo affermare che la tematica della parità potrebbe aprirsi a nuovi scenari anche nel nostro ordinamento, soprattutto grazie all’opera fortemente innovativa del diritto comunitario. Speriamo che, comunque, ogni giorno venga attuato uno sforzo da parte di tutti, ciascuno con il suo contributo personale, al raggiungimento della parità sostanziale tra lavoratori e lavoratrici. 108 IL MOBBING IN ITALIA TRA DOTTRINA GIURISPRUDENZA di M ARCO DIBITONTO (Cultore di Diritto del Lavoro-Università di Foggia) E 1. Il “mobbing”, definizione, soluzioni e teorie dottrinali “Terrore psicologico sul posto di lavoro”. Uno studioso tedesco ha così definito l’insieme delle azioni e delle pratiche, talvolta molto sottili, volte a emarginare una persona nel proprio ambiente lavorativo. Nessuna categoria sembra immune da questo fenomeno che ha assunto in Italia a partire dagli anni Ottanta il nome inglese di “mobbing”. Che cosa sia, quali siano le ripercussioni psicologiche e materiali sugli individui e sulle aziende, quali siano gli strumenti più idonei per contrastarlo: sono alcune delle domande cui oggi si cerca di dare risposta. In Italia tutto ciò avviene in ritardo, ma una sorta di fronte antimobbing sta muovendo i suoi primi passi. Ne testimoniano alcuni studi, associazioni77 , inchieste e proposte di legge 78 in materia. 77 Un milione e mezzo di persone, secondo le associazioni nate per combattere il fenomeno, un milione e 200 nelle stime più prudenti di alcuni parlamentari: in ogni caso un esercito, quello dei lavoratori vittime del mobbing. Emarginati ingiustamente, trattati senza alcun riguardo, costretti a non far nulla o ad occuparsi di compiti inferiori alla propria qualifica; colpiti nella serenità, schiavi dello stress, facile preda di malattie psicosomatiche varie. Peraltro, ogni impiegato mobbizzato -secondo recenti studi- fa spendere alla collettività il 190 per cento in più del suo salario lordo annuo: la cifra comprende la sua assoluta non produttività sul lavoro, il “prezzo” sociale e familiare della sua depressione, quello per i farmaci, quello dell'eventuale ricorso alla magistratura (v. Convegno sul mobbing tenutosi a Roma il 08.02.2000 alla Sala del Cenacolo, organizzato dal centro studi Europee). 78 In Parlamento giacciono alcune proposte o disegni di legge che prevedono degli strumenti per prevenire e combattere il fenomeno del mobbing. Il DDL Camera 6410 dà una nozione molto ampia di violenza e persecuzione psicologiche, comprendenti tutti gli atti e comportamenti che i datori e lavoratori pongono in essere nei confronti del lavoratore, in maniera sistematica, duratura e predeterrminata, al fine di distruggerlo psicologicamente. Il DDL in questione stabilisce che tali atti devono tradursi in lesione della capacità professionale, o pregiudicare l’autostima o provocare sindrome depressiva. All’art. 2 prevede la possibilità per il danneggiato di richiedere l’annullamento degli atti discriminatori. 109 Ma veniamo alla parola mobbing e al fenomeno che si intende descrivere sotto il profilo sociale e giuridico con tale termine. “Mobbing” è letteralmente quel “comportamento aggressivo messo in atto da alcune specie di uccelli nei confronti dei propri simili”. Il termine in questione difatti deriva dal verbo anglosassone to mob che significa aggredire, circondare per assalire, usato nella etologia per indicare le situazioni di minaccia e di aggressione del branco di animali nei confronti di un membro del gruppo, al fine di ottenerne l’allontanamento. Negli ambienti di lavoro, si parla di “mobbing”, nei casi in cui un soggetto sia costretto a lasciare la propria occupazione, a causa dell’ostilità dei colleghi e della difficoltà di integrazione all’interno della realtà aziendale. Il cosiddetto mobbing può essere definito, quindi, come una particolare forma di violenza psicologica che viene esercitata nell'ambito lavorativo nei confronti della vittima dal datore di lavoro o dai propri colleghi o superiori79 allo scopo di “eliminare” un dipendente o un collega indesiderato, costringendolo a sbagliare per poi licenziarlo o provocarne le dimissioni. Finalità persecutoria degli atteggiamenti e carattere continuativo degli stessi sono le caratteristiche che contraddistinguono il fenomeno. Una nota definizione riassume gli elementi fondamentali del mobbing sui luoghi di lavoro: “Una serie di azioni che si ripetono per un lungo Un certo risalto è data all’opera di prevenzione ed informazione da parte dei datori e i sindacati, anche di concerto tra di essi (art. 3). Inoltre, all’art. 6, il giudice può disporre la pubblicità del provvedimento giurisdizionale di condanna del datore, mediante lettera agli interessati, omettendo il nome del datore medesimo. Le altre proposte di legge sono la n° 6667 e la n° 1813 che creano il reato di mobbing. A queste si affianca il disegno di legge, già in discussione in Parlamento, sul danno biologico in generale. Per concludere, è opportuno aspettare le prime risultanze applicative del D.Lgs 23 febbraio 2000 n. 38, in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. L’art. 13, infatti, definisce in via sperimentale e ai fini della tutela assicurativa, il danno biologico “come la lesione alla integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona. Il risarcimento è dovuto indipendentemente dalla capacità di reddito in concreto del danneggiato”. L’art. 13 prevede che, le menomazioni dal 6% al 16% sono indennizzate dall’INAIL, mediante capitale, dal 16% mediante rendita. E’ prevista, pertanto, una franchigia per le menomazioni inferiori al 6%! 79 Il fenomeno è stato studiato per la prima volta dallo psicologo tedesco Heinz Leymann. 110 periodo di tempo, compiute da uno o più mobber per danneggiare qualcuno, quasi sempre in modo sistematico e con uno scopo preciso. Il mobbizzato viene accerchiato e aggredito intenzionalmente dai mobber, che mettono in atto strategie comportamentali volte alla sua distruzione psicologica, sociale e professionale”80 . A questo punto è però necessario fare chiarezza sulla terminologia utilizzata nella sempre più ricca letteratura giuridica fiorita intorno al mobbing. Per la verità la maggior parte dei comportamenti che danno sostanza a detto fenomeno (molestie, violenze fisiche, torture e pressioni psicologiche, persecuzioni) sono sempre esistiti nel mondo del lavoro, ma soltanto negli ultimi anni è stata analizzata in modo scientifico la possibile ricaduta della ripetizione costante di detti atteggiamenti sull'integrità psico-fisica delle vittime. Generalmente, accanto al mobber (aggressore) e al mobbed (vittima), si pone la figura del sighted mobber, ossia dello spettatore, il più delle volte un collega di lavoro della vittima, che, con il proprio ruolo passivo, collabora implicitamente a rendere ancora più efficace il comportamento persecutorio posto in atto dall'aggressore. Il mobbing può presentarsi all’interno del contesto lavorativo in forme diverse. Solitamente se ne distinguono tre, ognuna caratterizzata da precisi elementi identificativi: • mobbing verticale (cosiddetto bossing, dal verbo inglese “to boss”, ossia “spadroneggiare”): con tale espressione si fa riferimento alle condotte mobbizzanti poste in essere dal datore di lavoro o dai superiori gerarchici; • mobbing orizzontale: ossia quello compiuto dai colleghi di pari grado; • mobbing ascendente: si tratta dei comportamenti realizzati dagli inferiori gerarchici ai danni del proprio superiore. Il maggior numero di casi riguarda comunque condotte mobbizzanti poste in essere dai datori di lavoro o dai superiori gerarchici a danno dei sottoposti per indurre gli stessi alle dimissioni oppure a errori o intemperanze tali da giustificare un provvedimento di licenziamento. 80 Venendo alla elaborazione giurisprudenziale di tali concetti, si ricorda che le prime esperienze di merito che si sono confrontate con la nozione di mobbing risalgono alla fine degli anni 90 (le più citate: Trib. Milano, 9.05.1998; Trib. Torino, 16.11.1999; Trib. Forlì, 15.05.2001; Trib. Pisa, 25.07.2001; Trib. Pisa, 3.10.2001); mentre la prima sentenza di Cassazione che ha esaminato un caso del genere risale al 143/2000. 111 Il mobbing, che come detto ha quale scopo ultimo quello di “eliminare” una persona scomoda, provocandone il licenziamento o spingendola alle dimissioni, può assumere diverse facce, che possono dare luogo a comportamenti differenti, che a loro volta possono anche assommarsi fra di loro. Si va dall’ostacolare le dinamiche relazionali del lavoratore (per esempio, impedendo alla vittima di comunicare con i colleghi di lavoro), all'isolamento (ad esempio collocando il dipendente in una postazione di lavoro difficilmente raggiungibile dagli altri colleghi o particolarmente disagiata, oppure rifiutando allo stesso colloqui chiarificatori), all'attacco diretto o indiretto alla reputazione (relativamente alle opinioni politiche, religiose ecc.) e al modo di essere della persona (famiglia, stile di vita ecc.), fino alla violenza fisica e psichica e alle molestie sessuali81 . La condotta mobbizzante più diffusa consiste poi nel demansionamento (o dequalificazione) del lavoratore (al quale, ad esempio, possono essere assegnate mansioni del tutto inappropriate alla propria qualifica), che viene in tal modo privato della propria dignità professionale. Il minimo comun denominatore delle condotte di mobbing è, comunque, il fatto di essere specificamente dirette ad un fine predeterminato (l'isolamento o l'espulsione della vittima dal contesto lavorativo) e di essere caratterizzate dalla ripetizione costante nel tempo. 2. La giurisprudenza sul mobbing e la prima sentenza italiana sul mobbing. Nel nostro ordinamento, come detto, non esiste una disciplina apposita del fenomeno mobbing, che per lo più è stato definito e disciplinato dalla giurisprudenza, di merito e di legittimità, con una serie di pronunce che ne hanno man mano definito il concetto e l'ambito di applicazione 82 . 81 Di contro, “l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. 82 Si vedano, tra le decisioni di legittimità più recenti: Cass., III sezione penale, 14.02.2002, n. 6010; Cass., sez. lav., 2 gennaio 2002, n. 10; Cass., sez. lav., 2.11.2001, n. 13580; Cass., sez. lav., 23.10.2001, n. 13033; Cass., sez. lav., 21.02.2001, n. 2569; Cass., VI sez. penale, 12.03.2001, n. 10090; Cass., sez. lav., 2.05.2000, n. 5491; Cass., sez. lav., 8.01.2000, n. 143; Cass., sez. lav., 19.11.1999, n. 12903; Cass., sez. lav., 19.01.1999, n. 475. Per le decisioni di merito: 112 Il mobbing è ormai diventato di casa anche presso i tribunali italiani. Dopo un inizio claudicante, dovuto alla difficoltà di riconoscere l'autonomia e la rilevanza giuridica del fenomeno, la giurisprudenza ha, infatti, individuato le basi normative cui ancorarne la disciplina. Pur mancando attualmente una specifica normativa di riferimento, sono ormai numerose le sentenze che hanno riconosciuto alle vittime di condotte vessatorie sui luoghi di lavoro il diritto alla difesa della propria dignità personale professionale e al ristoro dei pregiudizi subiti. Con la sentenza del Tribunale di Torino, sez. lavoro, emessa il 16.11.99, il “mobbing” ha fatto la sua entrata nella giurisprudenza italiana del lavoro. Il giudice torinese rilevava come all’interno delle aziende si verifichi qualcosa di simile al singolare comportamento degli animali, “allorchè il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, a espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora perfino suicidio”. Il caso trattato davanti al giudice del lavoro di Torino era quello di una signora che, dopo aver lavorato in un’azienda per qualc he mese, aveva presentato un ricorso per chiedere il risarcimento del danno biologico dovuto al gravissimo stato di depressione in cui era caduta a seguito dei ripetuti maltrattamenti subiti dal capo reparto che, bestemmiando, inveendo contro di lei, insultandola e deridendola davanti ai colleghi, la criticava per il modo in cui lavorava. Peraltro, la signora faceva presente come l'ambiente in cui era costretta a lavorare (di fatto un ripostiglio) fosse mortificante, dato che la isolava completamente dai compagni di lavoro. La ricorrente lamentava come la conseguenza di questo stato di cose fosse stato l’insorgere di una lunga crisi depressiva. Nel costituirsi in giudizio, l’azienda contestava ogni addebito, in quanto rilevava come, in ogni caso, la causa del disagio dell’ex dipendente fosse il comportamento posto in essere dal caporeparto. Trib. Pisa, 7.10.2001; Trib. Lecce, ordinanza 31.08.2001; Trib. Torino, 10.08.2001; Trib. Como, 22.05.2001; Trib. Milano, 4.05.2001; Tri. Milano, 26.04.2000; Trib. Torino, 30.12.1999 e Trib. Torino 16.11.1999. 113 Il Tribunale di Torino riteneva applicabile l’art. 2087 c.c. che pone in capo al datore di lavoro l’obbligo di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei propri dipendenti. La norma obbliga il datore di lavoro a predisporre all’interno dell’azienda non solo le misure tassativamente imposte dalla legge, ma tutte le altre misure che si rendano in concreto necessarie (cfr.: Cass. 3738/95). Applicando questo elementare principio al caso in esame, il giudice riteneva la responsabilità del datore di lavoro, condannandolo al pagamento della somma di dieci milioni di lire all’ex dipendente, determinando la cifra del risarcimento a titolo equitativo. Non c’è dubbio che questa sentenza senza precedenti possa estendere a dismisura il campo della responsabilità dell’imprenditore che potrà essere chiamato a rispondere a titolo di culpa in eligendo, se non sarà in grado di circondarsi di collaboratori competenti e corretti, e di culpa in vigilando, nel caso in cui ometta di vigilare sui propri dipendenti per evitare che si verifichino lesioni di un diritto soggettivo assoluto: quello alla salute. Da questa importante sentenza, si ricava, sotto il profilo probatorio 83 , che: la persona mobbizzata ha l’onere di provare il nesso eziologico tra l’inadempimento delle misure ex art. 1087 c.c. e il danno biologico ( Cass. Sez. Lav. n° 5491 del 2 maggio 2000 ); essa, però, non è tenuta a provare il mobbing in quanto tale, poiché esso costituisce un fatto notorio, che rientra “nella comune esperienza” e può essere posto a fondamento della decisione ex art. 115 c.p.c., previa allegazione dei fatti costitutivi da parte dell’attore e che, seguendo l’impostazione giuridica delineata dalla Corte torinese, il datore di lavoro, al fine di essere esentato dalla responsabilità civile, deve dimostrare ex art. 1218 c.c. che la mancata adozione delle misure ex art. 2087 c.c. (inadempimento) è stata determinata “da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”. La giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. lav., n. 12339 del 5 novembre 1999) ha ritenuto che le cause naturali sono irrilevanti qualora sussista una causa umana, costituita cioè da un comportamento umano illecito. 83 Il dipendente può limitarsi a dimostrare l'esistenza del nesso di causalità fra esecuzione della prestazione lavorativa e lesioni subite. Spetta al datore di lavoro sostenere di aver adottato tutte le precauzioni necessarie a evitare il danno (Trib. Tempio Pausania, sez. lav., n. 157/03). 114 3. L'azione da mobbing ha natura contrattuale L'azione di risarcimento danni per mobbing ha natura contrattuale. È questo il principio fissato dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione nella sentenza del 4 maggio 2004, n. 843884 , con la quale è stato risolto un contrasto giurisprudenziale che perdurava da diverso tempo. La natura contrattuale di tale domanda di risarcimento discende dalla violazione da parte del datore di lavoro di obblighi che trovano la loro fonte direttamente nel contratto di lavoro (artt. 2087, 2103 c.c.). Quindi, le condotte mobbizzanti sia relativamente ai rapporti di lavoro privato sia relative a quelli di tipo pubblico costituiscono dei veri e propri inadempimenti contrattuali. Gli effetti fondamentali prodotti da questa decisione sono: - l'applicazione a tutte le cause per risarcimento danni derivanti da mobbing, della disciplina codicistica sulla responsabilità contrattuale, con tutte le sue ulteriori conseguenze; - l'attribuzione delle cause per condotte di mobbing di datori di lavoro pubblici relative a periodi anteriori al 30 giugno 1998 al giudice amministrativo, mentre, tutte quelle cause per comportamenti mobbizzanti di datori di lavoro pubblici riguardanti periodi successivi alla predetta data spettano alla giurisdizione del giudice ordinario. Ma veniamo alla situazione concreta. Il caso di specie era quello di un lavoratore dipendente di un istituto pubblico, il quale riteneva di aver subito comportamenti vessatori prima dal direttore generale dell'Istituto, dal direttore amministrativo e dai consiglieri di amministrazione dell'ente (mobbing verticale) e, successivamente, anche dai membri dell'ente stesso (mobbing orizzontale). Presentati degli esposti, la situazione si aggravava per il fatto che veniva privato delle sue funzioni. Il dipendente sosteneva quindi che, in conseguenza di tale situazione, era stato colpito da disturbi psicofisici, accusando una sindrome psiconeurosica ansioso depressiva. Il lavoratore affermava, dunque, di essere stato vittima di un'attività di mobbing, che si era concretizzata nella violazione degli artt. 2087 e 2103 cod. civ., da cui era seguita una menomazione psicofisica, con conseguente responsabilità del datore di lavoro per danno alla capacità lavorativa, danno biologico, danno morale ed esistenziale. Chiedeva il 84 V. M. Dibitonto, L’azione da mobbin g ha natura contrattuale, in Lav. Oggi, ed. Class Professionale, n. 21, 20/05/2004 p. 36-39 ed in www.lavoroprevidenza.com, sezione lavoro, rivista giuridicotelematica sul diritto del lavoro, della previdenza ed assistenza sociale, fondata e diretta dal dott. M. Dibitonto (Studio legale Avv.ti Dibitonto -Foggia-). 115 risarcimento di tali danni e la condanna dell'ente alla reintegrazione nel posto di lavoro spettante. Il Tribunale adito, con una decisione non definitiva, dichiarava la propria giurisdizione. Questa statuizione non veniva condivisa dall'ente, il quale proponeva appello sostenendo il contrario. A seguito del gravame, proposto dall'ente convenuto in primo grado, la Corte di appello dichiarava il proprio difetto di giurisdizione. Ad avviso del giudice dell'appello, con la domanda giudiziale esperita erano stati fatti valere diritti derivanti da responsabilità contrattuale del datore di lavoro, nell'ambito di un rapporto di lavoro alle dipendenze di pubblica amministrazione, per fatti lesivi riferibili a periodo antecedente al 30 giugno 1998. Di conseguenza, la controversia rientrava nella giurisdizione esclusiva dei giudice amministrativo. Contro la sentenza, il dipendente pubblico proponeva ricorso per cassazione essenzialmente per motivi di giurisdizione, ai sensi dell'art. 360 punto 1) del c.p.c., sostenendo la giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria in luogo della affermata giurisdizione amministrativa. La Cassazione decideva la questione di giurisdizione sollevata statuendo che la controversia in esame rientrava nell'ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, trattandosi di una causa avente ad oggetto comportamenti mobbizzanti, qualificati come illeciti contrattuali, che si riferivano a periodi precedenti al 30 giugno 1998, data a partire dalla quale il legislatore con decreto legislativo 80/98 aveva devoluto al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro con la pubblica amministrazione. A questa decisione i supremi giudici pervenivano dopo aver considerato ed analizzato la domanda giudiziale dell'attore, il quale faceva riferimento a comportamenti illeciti denunciati consistenti in demansionamento, in assegnazione di un posto di lavoro in locale angusto, scarsamente illuminato e insalubre, in privazione dell'alloggio prima concessogli a titolo gratuito nell'ambito della struttura dell'Istituto, in un ingiusto comportamento che gli aveva impedito di godere di periodi di riposo ed anche di accedere alla relativa documentazione personale. Ciò posto e considerato che ´la giurisdizione si determina sulla base della domanda, ai fini del riparto tra giudice ordinario e amministrativo' la Corte giungeva all'attribuzione della causa esaminata al giudice amministrativo, data la natura contrattuale dell'azione di risarcimento danni per mobbing. Difatti, la tutela invocata atteneva a diritti soggettivi derivanti direttamente dal 116 medesimo rapporto, lesi da comportamenti che rappresentavano l'esercizio di tipici poteri datoriali, in violazione non solo del principio di protezione delle condizioni di lavoro, ma anche della tutela della professionalità prevista dall'art. 2103 c.c. (in relazione alla quale si chiede il ripristino della precedente posizione di lavoro e della corrispondente qualifica). Il ricorso principale era quindi respinto e veniva dichiarata la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Nella sentenza esaminata si legge che il mobbing ´può essere generalmente riferito ad ogni ipotesi di pratiche vessatorie, poste in essere da uno o più soggetti diversi per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro' e che tali comportamenti altro non sono che violazioni di specifici obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di lavoro, rappresentando dei tipici atti di esercizio del potere datoriale posti in essere in violazione del principio di protezione delle condizioni di lavoro oltre che della tutela della professionalità prevista dall'articolo 2103 c.c. Nel caso di specie relativo ad un rapporto di impiego pubblico, il demansionamento, l'isolamento e le altre vessazioni trovano, secondo gli ermellini, un referente normativo nella disciplina del rapporto. Di qui la facoltà del risarcimento per la violazione degli obblighi che ne derivano. In particola re, la Corte riteneva che le condotte mobbizzanti costituissero violazione degli artt. 2087 e 2103 c.c. Infatti, l'art. 2087 c.c. statuisce che “l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Qualsiasi condotta che non rispetta il principio di protezione delle condizioni di lavoro è un inadempimento contrattuale, come era avvenuto nel caso di specie. D'altro canto, l'art. 2103 c.c. stabilisce che “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. (...) Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo”. Il demansionamento (art. 2103 c.c.) può pregiudicare la personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.), proprio perché ne mina l'immagine e la stessa autostima, e ciò spiega 117 perché le due norme possono essere anche invocate insieme contro il mobbing. Il datore di lavoro privato o pubblico che viola gli obblighi contenuti nelle disposizioni di legge citate commette un illecito contrattuale. Ad essere lesi sono diritti soggettivi del prestatore di lavoro derivanti direttamente dal medesimo rapporto mediante comportamenti che rappresentano l'esercizio di tipici poteri datoriale. A conferma di quanto detto, si legge nella sentenza delle S.u., “si tratta pertanto di atti di gestione dei rapporti di lavoro che, indipendentemente da una concreta correlazione con un disegno di persecuzione reiterata, trovano un diretto referente normativo nella disciplina della regolamentazione del rapporto e ricevono da questa la loro sanzione di illiceità. La fattispecie di responsabilità va così ricondotta alla violazione degli obblighi contrattuali stabiliti da tali norme, indipendentemente dalla natura dei danni subiti dei quali si chiede il ristoro e dai riflessi su situazioni soggettive (quale il diritto alla salute) che trovano la loro tutela specifica nell'ambito dei rapporto obbligatorio”. La pronunzia delle Sezioni unite, con la quale è stata sancita la natura contrattuale di qualsiasi azione di risarcimento dei danni derivanti da mobbing, produce determinati effetti giuridici. Va anzitutto detto che, dalla decisione della Corte, deriva la necessaria, d'ora in poi, applicazione dell'integrale disciplina codicistica sulla responsabilità contrattuale. Ciò, a sua volta, comporta varie conseguenze e cioè che: - il lavoratore-attore si deve limitare a provare il mobbing e il danno prodotto, in quanto la responsabilità del datore di lavoro è presunta: ciò sta a significare che incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, il solo onere di provare l'esistenza di tale danno come pure del rapporto di causalità fra le condotte cosiddette mobbizzanti commissive e/o omissive tenute dal datore di lavoro in occasione e nel corso dell'espletamento della prestazione di lavoro ed il danno predetto. Peraltro, una volta dimostrata la sussistenza dell'inadempimento degli obblighi ex artt. 2087 e 2103 c.c., non occorre, a norma dell'art. 1218 c.c., che il lavoratore dimostri, come invece accade nella responsabilità aquiliana, anche la sussistenza della colpa del datore di lavoro inadempiente. Difatti, grava sul datore di lavoro-convenuto l'onere di provare che l'evento dannoso dipenda da un fatto a lui non imputabile; 118 - la prescrizione della domanda giudiziale per risarcimento danni è ordinaria e, dunque, di dieci anni ed, infine, - sono risarcibili i danni prevedibili e non quelli imprevedibili tranne il caso in cui sussiste il dolo. Nel caso in cui, invece, i giudici avessero ritenuto extracontrattuale la responsabilità del datore di lavoro privato o pubblico per aver tenuto comportamenti commissivi e/o omissivi mobbizzanti, il danneggiato lavoratore avrebbe dovuto provare il fatto e la colpevolezza; sarebbero stati risarcibili anche i danni imprevedibili e l'azione si sarebbe potuta proporre solo e non oltre cinque anni dalla verificazione delle condotte mobbizzanti, cosiddette prescrizione breve. Sempre in ordine agli effetti giuridici della sentenza esaminata, va sottolineato che il contenuto della pronuncia delle S.u. va a interessare soprattutto il rapporto di pubblico impiego o, meglio, le controversie di mobbing nel pubblico impiego. Difatti, il principio è stato pronunciato dalla Corte di cassazione a Sezioni unite proprio in una controversia relativa ad un rapporto di lavoro pubblico dove la scelta tra la natura contrattuale o extracontrattuale del risarcimento del danno da mobbing ha estrema rilevanza ai fini della determinazione del giudice che ha giurisdizione per la cognizione della causa. Trattandosi di azione contrattuale, la cognizione della domanda di risarcimento del danno rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, sempreché la controversia abbia per oggetto una questione relativa a un periodo antecedente al 30 giugno 1998, cioè prima della data a partire dalla quale il D.Lgs. 80/98 ha devoluto al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione. Se, invece, la controversia tra datore di lavoro pubblico e lavoratore concerne comportamenti commissivi e/o omissivi mobbizzanti relativi a periodi successivi alla predetta data, essa rientrerà nella giurisdizione del giudice ordinario. Di contro, qualora fosse stata attribuita natura extracontrattuale all'azione in parola, la giurisdizione sarebbe stata del giudice ordinario per le controversie su condotte di mobbing relative a qualsiasi periodo. Dopo anni di contrasto giurisprudenziale circa la natura contrattuale o extracontrattuale del risarcimento del danno da mobbing, la Corte di cassazione, quindi, condivide l'orientamento di quella parte di giurisprudenza che sostiene che il danno da mobbing abbia natura contrattuale. 119 Quanto, poi, alla determinazione del momento in cui tali eventi lesivi devono considerarsi verificati, la sentenza, ricordando un precedente del 2000 precisa che se la lesione del diritto del lavoratore è prodotta da un atto (con natura di provvedimento o negoziale) deve farsi riferimento al momento della sua emanazione; altrimenti, se la pretesa deriva da un comportamento illecito permanente del datore di lavoro, si deve fare riferimento al momento di realizzazione del fatto dannoso. A tal fine, a dire della Corte, ciò che rileva nel mobbing ´non è il danno, ma il rapporto eziologico tra questo e il comportamento contra ius dell'agente' indipendentemente dal fatto che tali comportamenti o i loro effetti si protraggano nel tempo. 3.1. Mobbing, il risarcimento diventa privilegiato Il credito da mobbing diventa privilegiato85 . Più specificamente, il lavoratore dipendente al quale sia stato riconosciuto, con decisione giudiziale, un credito per demansionamento può farlo valere nei confronti del datore di lavoro come credito privilegiato e non più come credito chirografario. Questo è l'effetto della sentenza n. 113 del 2004 pronunciata dalla Corte costituzionale. Le somme dovute a titolo di risarcimento dei danni per demansionamento subito a causa dell'illegittimo comportamento del datore di lavoro rientrano dunque, d'ora in poi, tra i crediti muniti del privilegio generale sui mobili. Con la sentenza n. 113 del 2004, infatti, la Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 2751-bis, num. 1), c.c., nella parte in cui non munisce del privilegio generale sui mobili il credito del lavoratore subordinato per danni da demansionamento subiti a causa dell'illegittimo comportamento del datore di lavoro. Con questa decisione, la Corte ha così allargato l'elenco dei crediti privilegiati di cui all'art. 2751-bis c.c., aggiungendo, per l'appunto, il credito maturato in capo al lavoratore dipendente a seguito del riconoscimento del demansionamento da lui subito. Si tratta, da un punto di vista tecnico-giuridico, di una sentenza additiva della Corte costituzionale, in quanto la Consulta trovandosi di fronte a una norma di legge che non è incostituzionale per quel 85 V.: M. Dibitonto, Mobbing, il risarcimento diventa privilegiato, in Lav. Oggi, ed. Class Professionale, n. 17 del 22/04/2004, p. 41 e ss. ed in www.lavoroprevidenza.com, sezione lavoro, rivista giuridicotelematica sul diritto del lavoro, della previdenza ed assistenza sociale, fondata e diretta dal dott. M. Dibitonto (Studio legale Avv.ti Dibitonto -Foggia-). 120 statuisce, ma per quel che omette di prevedere, dichiara l'incostituzionalità della legge nella parte in cui non prevede ciò che avrebbe dovuto stabilire e così ne estende la portata. Ma consideriamo, a questo punto, la fattispecie. Un lavoratore dipendente otteneva una sentenza che riconosceva il demansionamento subito e il diritto conseguenziale di percepire determinate somme di danaro a titolo di risarcimento danni nei confronti del proprio datore di lavoro, in seguito fallito. Nel decreto di esecutività dello stato passivo del fallimento della società datrice di lavoro il credito per danno da demansionamento veniva ammesso come credito di rango chirografario. Il lavoratore, dunque, presentava opposizione davanti al Trib. Ferrara proprio avverso tale statuizione del decreto, ritenendo che il predetto credito dovesse essere riconosciuto come credito avente natura privilegiata. In tale procedimento di opposizione al decreto di esecutività dello stato passivo, il Tribunale di Ferrara, con ordinanza, sollevava questione di illegittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 2751-bis, num. 1, cod. civ., “nella parte in cui non munisce di privilegio generale sui mobili il credito del lavoratore subordinato per danni da demansionamento subiti a causa dell'illegittimo comportamento del datore di lavoro”. La questione di illegittimità costituzionale veniva ritenuta dal giudice a quo (Trib. Ferrara), oltreché non manifestamente infondata per il motivo di cui detto, anche rilevante dato che ciò su cui si controverteva in via esclusiva era proprio la graduazione del credito del ricorrente che il giudice delegato aveva ritenuto di rango chirografario. Entrando nel merito della questione, secondo il giudice a quo v’era una oggettiva difficoltà di far rientrare nell'elencazione dei crediti privilegiati di cui all'art. 2751-bis c.c. il credito del lavoratore subordinato per danni da demansionamento subiti a causa dell'illegittimo comportamento del datore di lavoro, neanche se si fosse adottata una interpretazione estensiva dell'articolo in oggetto, dal momento che si tratta di un elenco di ipotesi di privilegio specifiche e tassative ex lege. A sostegno di tale tesi, difatti, veniva affermato dal giudice a quo che “tale credito, infatti, non solo non è assimilabile alla retribuzione (non essendo corrispettivo di una prestazione contrattualmente prevista) o al trattamento di fine rapporto, ma non è certamente neppure affiancabile ai crediti per danni subiti per effetto della mancata 121 corresponsione dei contributi obbligatori, di licenziamento inefficace, nullo o annullabile o di infortunio sul lavoro”. A ciò si aggiunga che “il credito stesso, d'altra parte, non può nemmeno essere inserito in via analogica nell'ambito della norma impugnata, dal momento che le norme sui privilegi non sono suscettibili di tale integrazione, essendo derogatorie rispetto al principio generale della par condicio creditorum di cui all'art. 2740 c. c.”. Ciò posto, secondo il Trib. Ferrara, l'esclusione dal novero dei crediti privilegiati comporta “una disparità di trattamento ingiustificata”, essendo i privilegi accordati “in considerazione della causa del credito” (art. 2745 c.c.). Se, infatti, si comparano, è questo l'argomento giuridico del giudice a quo, le cause dei crediti privilegiati si giunge ad una chiara considerazione e, cioè, che “sussisterebbe” una sostanziale equivalenza tra la funzione sociale dei crediti gia inclusi nell'art. 2751-bis, numero 1, cod. civ., tutti accomunati dalla derivazione da comportamenti illeciti del datore di lavoro incidenti sulla sfera personale e sui bisogni primari del lavoratore subordinato, e, in particolare, tra quella del credito per danni da licenziamento illegittimo e la funzione del credito risarcitorio diretto ad annullare gli effetti del demansionamento del lavoratore subordinato. Dunque, la comunanza di funzione sociale dei crediti privilegiati ex art. 2751-bis e il credito da mobbing costituirebbe, per il Tribunale di Ferrara, il giusto motivo per il quale inserire il credito per demansionamento tra i crediti privilegiati. Il giudice a quo richiedeva alla Corte costituzionale, quindi, un intervento di tipo additivo ritenendo che non sarebbe in contrasto comunque con il ´doveroso rispetto delle scelte economico-politiche riservate alla sfera di discrezionalità del legislatore, in quanto esso avrebbe avuto “la finalità di dare più completa attuazione al fondamentale principio di uguaglianza nella materia dei privilegi”. La Corte costituzionale, al termine di una lunga e articolata motivazione, perveniva alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 2751-bis, numero 1, del codice civile, nella parte in cui non munisce del privilegio generale sui mobili il credito del lavoratore subordinato per danni da demansionamento subiti a causa dell'illegittimo comportamento del datore di lavoro. • In primo luogo, la Consulta chiariva che essa più volte si è trovata a decidere in materia di illegittimità costituzionale delle norme che attribuiscono privilegi ed, in particolare, “sotto il profilo della mancata inclusione di alcuni crediti nella categoria privilegiata”. 122 • Pur fermo il principio secondo il quale spetta al legislatore ed esclusivamente a costui attribuire la natura privilegiata ai crediti e pur fermo il dato che la regola è la par condicio creditorum e che le cause di prelazione sono solo derogatorie di tale regola e, quindi, la scelta di queste spetta solo all'autorità legislativa, la Consulta riteneva che un suo intervento, come quelli fatti in passato, va ritenuto ammissibile. La Corte, difatti, affermava la possibilità di intervenire nella materia dei crediti privilegiati in termini additivi solo ed esclusivamente qualora si fosse riscontrata l'omogeneità funzionale di un credito non privilegiato ed uno dei crediti di rango privilegiato fissati ex lege. • La Consulta condivideva la tesi del Trib. Ferrara secondo cui l'art. 2751-bis num. 1) è illegittimo costituzionalmente, alla luce dell'art. 3 Cost., “in quanto, munendo del privilegio i suindicati crediti risarcitori del lavoratore nei confronti del datore per violazione di doveri nascenti a carico di quest'ultimo dal rapporto di lavoro, non include il credito di risarcimento dei danni da demansionamento, benché tale credito abbia natura e fonte analoghe a quelle di alcuni dei crediti muniti del privilegio già nel testo dell'art. 2751-bis, come introdotto dall'art. 2 della L 29 luglio 1975, n. 426, ed a quelle dei crediti oggetto degli interventi di questa Corte”. • Peraltro, secondo la Corte, l'art. 2103 c.c., nel testo sostituito dall'art. 13 della L. 20 maggio 1970, n. 300, stabilisce nella prima parte del primo comma che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte. “Nell'elaborazione dei giudici ordinari”, continuava la Consulta, “è incontroverso che dalla violazione da parte del datore dell'obbligo di adibire il lavoratore alle mansioni cui ha diritto possono derivare a quest'ultimo danni di vario genere: danni a quel complesso di capacità e di attitudini che viene definito con il termine professionalità, con conseguente compromissione delle aspettative di miglioramenti all'interno o all'esterno dell'azienda; danni alla persona ed alla sua dignità, particolarmente gravi nell'ipotesi, non di scuola, in cui la mancata adibizione del lavoratore alle mansioni cui ha diritto si concretizza nella mancanza di qualsiasi prestazione, sicché egli riceve la retribuzione senza fornire alcun corrispettivo; danni alla salute psichica e fisica. L'attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori a quelle a lui spettanti o il mancato affidamento di qualsiasi mansione, situazioni in cui si risolve la violazione dell'art. 2103 c.c. (c.d. demansionamento), può comportare pertanto, come nelle ipotesi 123 esaminate dalle sentenze n. 326 del 1983 e n. 220 del 2002, anche la violazione dell'art. 2087 c.c.”. Si giungeva, dunque, alla conclusione secondo la quale tra il credito oggetto del giudizio a quo e quelli già muniti del privilegio in questione sussiste l'omogeneità richiesta per ritenere che la mancata inclusione del primo nel novero dei crediti muniti del privilegio generale sui mobili costituisca violazione dell'articolo 3 della Costituzione. Riscontrata tale omogeneità, la Consulta non esitava a dichiarare illegittimo costituzionalmente parte dell'art. 2751-bis facendo rientrare di conseguenza tra i crediti privilegiati il credito da mobbing. 3.2. La responsabilità civile del datore di lavoro E’ questo l'ambito quantitativamente e qualitativamente più interessante, in quanto le condotte di mobbing vengono realizzate per lo più dal datore di lavoro per mettere alle strette i dipendenti ´indesiderati' (cosiddetto mobbing verticale o bossing) 86 . Generalmente la giurisprudenza fa riferimento all'art. 2087 c.c. che, pur essendo stato tradizionalmente letto e interpretato nell'ambito della normativa antinfortunistica, negli ultimi anni è stato eletto a baluardo della salute fisica e psichica dei lavoratori, secondo una lettura costituzionalmente orientata. L'art. 2087 c.c., interpretato nell'ottica del più generale dovere di correttezza e buona fede contrattuale di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., rappresenta quindi una vera e propria norma di chiusura per il sistema di protezione e tutela dei lavoratori. Come si può evincere dagli articoli appena citati, la responsabilità del datore di lavoro per l'integrità psico-fisica del lavoratore è essenzialmente di matrice contrattuale, in quanto legata all'adempimento delle prestazioni cui l'imprenditore è tenuto nei confronti dei propri dipendenti sulla base del contratto di lavoro. La giurisprudenza è ormai orientata in tale direzione, anche se non sono mancati interventi in senso contrario, che propendono per la concorrenza tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. In base agli obblighi derivanti dalla legge e dal contratto, il datore di lavoro è tenuto a non agire volontariamente contro il dipendente allo scopo di arrecargli pregiudizio (mobbing verticale) ed è obbligato, altresì, a vigilare affinché a quest'ultimo non venga arrecato danno 86 V. G. Di Rago, Mobbing, tutela ampia nelle aule giudiziarie, in Lav. Oggi, ed. Class Professionale, n. 11, 11/03/2004, p. 11. 124 durante l'espletamento della prestazione lavorativa (mobbing orizzontale). Infatti l'art. 2087 c.c. è chiaro nello stabilire che il datore di lavoro è tenuto ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e psichica dei propri dipendenti (anche nei confronti di eventuali atteggiamenti tenuti dai colleghi di lavoro). D'altra parte l'art. 2049 c.c. addossa al datore di lavoro la responsabilità per i danni arrecati a terzi (e, quindi, anche ai propri dipendenti) dal fatto illecito dei propri sottoposti. In casi del genere la responsabilità dell'imprenditore è di tipo omissivo (anche se nella maggior parte dei casi di c.d. mobbing orizzontale è possibile riscontrare un tacito accordo tra datore di lavoro e colleghi della vittima, che spesso svolgono il ruolo di sighted mobber), ovvero per culpa in eligendo o in vigilando, per la scelta e il comportamento sul lavoro dei propri dipendenti. A proposito dei comportamenti mobbizzanti realizzati attraverso il demansionamento e la dequalificazione professionale del lavoratore non può non farsi riferimento all’art. 2103 c.c., norma che impone al datore di lavoro di adibire i dipendenti alle mansioni per le quali gli stessi sono stati assunti, sancendo la nullità di ogni patto contrario. 3.3. La responsabilità civile dei colleghi di lavoro Diversamente, la responsabilità civile dei dipendenti per le condotte di mobbing realizzate ai danni dei colleghi (con o senza l'accordo del datore di lavoro o del superiore gerarchico) è di natura squisitamente extracontrattuale , in quanto il rapporto tra di essi avviene al di fuori di qualsiasi impegno contrattuale diretto. Questi ultimi, infatti, pur essendo contrattualmente tenuti a mantenere sul posto di lavoro un comportamento reciprocamente rispettoso, del cui inadempimento risponderanno soltanto nei confronti del datore di lavoro, non sono legati da alcun vincolo contrattuale diretto con gli altri dipendenti, nei confronti dei quali risponderanno ex art. 2043 c.c. per eventuali illeciti. La responsabilità extracontrattuale dei dipendenti potrà poi concorrere con quella di natura contrattuale del datore di lavoro. 3.4. La responsabilità penale Datore di lavoro e colleghi condividono invece lo stesso regime di responsabilità dal punto di vista penale. Le condotte di mobbing, infatti, possono dare luogo anche alla commissione di fattispecie di reato, qualora ne ricorrano i presupposti 125 di legge. Si va dalle ingiurie e la diffamazione (a questo proposito la Suprema corte ha più volte ribadito che “la subordinazione gerarchica del lavoratore non implica l'obbligo di prestare attività lavorativa in una condizione di disprezzo per tale attività e per la persona che la svolge, né comporta l'obbligo di subire ingiurie”) alle minacce e alle percosse, fino alle lesioni personali e alla violenza sessuale (si veda la relativa tabella). 3.5. Il danno risarcibile e conclusioni La realizzazione di un comportamento mobbizzante, dal punto di vista civilistico, espone l'autore all'obbligo di risarcire le conseguenze dannose subite dalla vittima. Accanto al risarcimento dei danni patrimoniali (incidenti sulla capacità di guadagno o di lavoro del dipendente), la giurisprudenza ha dato ampio spazio anche al danno esistenziale (o alla vita di relazione), nonché al danno biologico. Per danno esistenziale si intende l'insieme delle ripercussioni di tipo relazionale che contrassegnano in negativo l'esistenza della vittima della condotta illecita, tanto da costringere la stessa a rinunciare a specifiche realizzazioni della propria personalità. In caso di mobbing, l'onere probatorio che grava sul lavoratore è limitato alla prova del nesso di causalità tra l'evento dannoso e l'esecuzione della prestazione lavorativa. Spetta poi al datore di lavoro dimostrare di avere adottato tutte le precauzioni necessarie a proteggere l'integrità psico-fisica del dipendente. In caso di responsabilità extracontrattuale, tuttavia, come anticipato, sarà il lavoratore a dover provare la condotta dei colleghi (o del datore di lavoro) che ha determinato il danno, oltre al nesso causale e alla colpevolezza dell'agente. Da ultimo l'Inail, sulla base del D.Lgs. n. 38/2000, che ha previsto l'indennizzabilità del danno biologico, ha esteso la tutela assicurativa alle malattie psichiche da stress lavorativo, ivi comprese quelle derivanti da comportamenti di mobbing. Con la recente circolare n. 71 del 17/12/03, l'Istituto per l'assicurazione infortuni sul lavoro ha poi individuato con precisione l'ambito oggettivo di applicazione e ha dettato istruzioni per la gestione delle rela tive pratiche. In conclusione, va ribadito ancora una volta che, a fronte di una problematica come il mobbing così forte, preoccupante, incidente e penetrante nei più svariati settori della vita sociale, v’è d’altra parte uno scenario normativo debole ed incompleto. 126 Ebbene, la contrapposizione tra la “forza” che la problematica del mobbing manifesta nel tessuto socio-lavorativo (col suo evidente svilupparsi) e la sua”debolezza” giuridica (che si traduce in un’indefinita collocazione e identità), rendono indispensabile e, quasi un passo obbligato, che si giunga, sollecitamente, a sistemare questo delicato fenomeno giuridico di natura sociale all’interno di una normativa efficace, funzionale e rapida, garantendo la risoluzione certa che merita. I PROFILI PENALI DEL MOBBING 127 di CARLO LONGOBARDO (Ricercatore-Università di Salerno) 1. Necessità di un inquadramento del fenomeno. Il mobbing, lungi dall’essere un evento transitorio, legato a determinate situazioni politico-istituzionali, rappresenta una realtà endemica e di lunga durata. Peraltro, l’attenzione interdisciplinare che ruota attorno a questo fenomeno dimostra che esso affonda le sue radici nei contesti storico-culturali di riferimento rivelando, così, anche il maggiore o minore stato di avanzamento della convivenza civile di una collettività. È necessario, tuttavia, prima di procedere alle considerazioni che seguiranno circa i profili penali del mobbing, darne una definizione. Con l’espressione “Mobbing”, generalmente, si intende una successione di fatti e comportamenti posti in essere dal datore di lavoro con intento emulativo ed al solo scopo di recare danno al lavoratore, rendendone penosa la prestazione, condotto con frequenza ripetitiva e in un determinato arco temporale sufficientemente apprezzabile e valutabile 87 . Lo stesso termine, mutuato dall’inglese to mob (attaccare, assalire), “origina da due significati diversi: un primo significato mediato dall’etologia, il quale si riferisce al comportamento di alcune specie animali, solite circondare minacciosamente un membro del gruppo per allontanarlo; un secondo significato riconducibile all’espressione latina mobile vulgus, riferito all’assalto della gentaglia d’ufficio nei confronti del collega ultimo arrivato, o di quello più capace ed ambizioso della media”88 . Le prime teorizzazioni, dovute agli studiosi svedesi, ed in particolar modo a Heinz Leymann89 , hanno avuto ripercussioni in molti Paesi, ed hanno permesso una catalogazione, seppur generale, dei comportamenti che possono qualificare il fenomeno del mobbing. 87 Così Trib. Milano, 30.09.2002, in Orient. Giur. Lav., 2002, n. 3, p. 532 ss., in part. 533. 88 Sul punto cfr. Monateri, Bona, Oliva, Mobbing. Vessazioni sul lavoro, Milano, 2000, p. 6; Boscati, Mobbing e tutela del lavoratore: alla ricerca di una fattispecie vietata , in Dir. Rel. Ind., 2001, p. 285 ss., in part. p. 285; Soprani, La sindrome da mobbing, in http:// promo.24oreprofessioni. ilsole24ore.com/ ambientesicurezza/ archivio/142000/ articolo1sicurezza.htm. 89 Sul punto, L. Leymann, Mobbing. Psychoterror am Arbeitplatz und wie man sich dagegen wehren kann, Reinbek, Rowohlt, 1993; Id., Der neue Mobbing-Bericht, Reinbek, Rowohlt, 1995; H. Ege, Mobbing, Bologna, 1996. 128 Con riferimento ai soggetti che pongono in essere le condotte mobbizzanti (cd. mobbers) può parlarsi di mobbing verticale o bossing e di mobbing orizzontale. Nel primo caso il mobber è il datore di lavoro o, comunque, un soggetto sovraordinato del mobbizzato; nel secondo caso, le pratiche vessatorie sono tenute da colleghi pari grado della vittima. Si conosce, infine, anche la pratica del mobbing verticale da sott’ordinato a sovraordinato. Infine, non vanno dimenticate le condotte dei cosiddetti side mobber, cioè quei soggetti, colleghi, superiori, addetti all’amministrazione del personale, non direttamente responsabili e autori di condotte persecutorie e discriminatorie, delle quali, peraltro, pur essendone a conoscenza, essi rimangono spettatori silenziosi90 . E’ evidente che le definizioni ora riportate descrivono un fenomeno persecutorio grave, molto sentito e diffuso, che ha originato preoccupazioni finanche in sede europea. Nel 2001, infatti, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione 91 che – tenendo conto di sondaggi che ritengono coinvolti nel fenomeno del mobbing circa dodici milioni di cittadini europei – auspica una armonizzazione delle discipline dei singoli ordinamenti, attesa la diversità oggi esistente. Nel nostro Paese, a fronte di molti progetti di legge presentati in sede parlamentare92 , andava segnalata la normativa regionale del Lazio 93 – recentemente dichiarata incostituzionale 94 – 90 Così V. Matto, Il mobbing fra danno alla persona e lesione del patrimonio professionale, in Dir. Rel. Ind., 1999, p. 491 ss., in part. p. 491. 91 La risoluzione è stata assunta il 20 settembre 2001 – A5-0283/2001. (2001/2339(INI)) – in tema di mobbing. È reperibile sul sito http://www.pegacity.it/giustice/impegno/risoluzione_ue.html. 92 Un primo tentativo in questa direzione è stato compiuto con il disegno di legge Cicu, (d.d.l. n. AC1813) del 9 luglio 1996. Un secondo esperimento diretto a disciplinare penalmente il mobbing è stato effettuato dalla proposta Fiori -rubricata “disposizioni per la tutela della persona da violenze morali e persecuzioni psicologiche”presentata il 5 gennaio 2000 (d.d.l. n. 6667). Anche il disegno di legge d’iniziativa dei senatori Eufemi, Borea, Iervolino e Sodano, rubricato “Norme generali contro la violenza psicologica nei luoghi di lavoro” contiene una fattispecie penale che intende combattere il fenomeno del mobbing. Per una visione complessiva di tali proposte, sia consentito il rinvio a C. Longobardo, Mobbing e diritto penale: un binomio idissolubile?, in Aa.Vv., Mobbing, stress e diritti violati, Napoli, 2003, p. 185 ss., in part. p. 188 ss. 93 Ci riferiamo alla Legge regionale del Lazio, 11 luglio 2002, n. 16, recante «Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del “mobbing” nei luoghi di lavoro». 94 Sul punto cfr. Corte cost., sent. n. 359 del 19 dicembre 2003. Per un commento cfr. M. Oricchio, Il mobbing entra nella giurisprudenza costituzionale, in http:// dirittolavoro.altervista. Org 129 che aveva, all’art. 2, co. 1, L. n. 16/2002, definito il mobbing come “atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore di lavoro o da soggetti posti in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi, e che si caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale”. Nel secondo comma dello stesso articolo, si precisavano i contenuti di questi atti che si concretizzavano in condotte che potevano essere più o meno genericamente definite, come, ad esempio, “critiche immotivate ed atteggiamenti ostili” (art.2. co. 2 lett. e)), ovvero riecheggiare alcune fattispecie di reato, come minacce, ingiurie e maltrattamenti (art. 2, co. 2, lett. a), b), c), d) f), m))95 . Va anche citata una bozza di legge elaborata dalla Commissione per l’analisi e lo studio sulle politiche di gestione delle risorse umane e sulle cause e le conseguenze dei comportamenti vessatori nei confronti dei lavoratori nell’ambito della pubblica amministrazione, che prende in particolare considerazione la violenza morale o psichica in occasione di lavoro, anche con riferimento alle attività di prevenzione e di riscontro delle patologie legate al fenomeno in esame 96 . Alla luce di questo brevissimo quadro introduttivo, ci sembra possibile ravvisare un tratto comune alle varie interpretazioni del termine mobbing nella necessità dell’esistenza di un legame tra una serie di atti tendenti a respingere il lavoratore dal contesto lavorativo. È questo il motivo per cui può dirsi che il mobbing non si identifica, ad esempio, con il fatto ingiusto del demansionamento o del trasferimento o con le molestie sessuali e personali. Semmai, vicende di tal genere costituiscono espressione di mobbing se e a condizione che sia possibile trovare in esse un filo conduttore unitario, segnato dalla volontà perversa di estromissione dal contesto socioprofessionale. “Perciò può ragionevolmente affermarsi che l’orientamento teleologico degli «atti perturbanti» si traduce da tratto funzionale in elemento strutturale e dunque in criterio di /incostituzionale_ mobbing_ lazio. html; NUNIN R., La Consulta boccia la legge anti mobbing della Regione Lazio (Nota a C. Cost., 19.12.2003, n. 359), in Lav. Giur., 2004, p. 358 ss. 95 La lett. b) dell’art. 2, co. 2, della legge regionale faceva riferimento a “calunnie sistematiche”; tuttavia sembrava che il termine non presentasse un carattere giuridico-penale, ex art. 368 c.p., ma gergale. 96 Commissione Piccione, incaricata dall’allora Ministro per la Funzione Pubblica Frattini. Il testo è disponibile su http.//www.pegacity.it.justice/impegno/mobbing_bozza_piccione.html. 130 individuazione della stessa fattispecie, che è tale non già in virtù della mera coesistenza di più «atti perturbanti» ma a motivo della loro coerente finalizzazione verso uno scopo riprovevole consistente nel «nuocere o recare molestia ad altri» (…) ovvero, e in definitiva, nella frantumazione della identità personale e professionale della vittima”97 . Così, la portata mass-mediale dell’evento può spingere il legislatore a travalicare i limiti di una corretta politica del diritto imposta dai principi generali dell’ordinamento e riversare, come troppo spesso è accaduto, anche la risoluzione di tale problema sul diritto penale. Ma, proprio sotto questo profilo, la stessa giurisprudenza di legittimità ha espresso una condivisibile opinione, sentenziando che “il fatto che il mobbing sia stato oggetto di attenzioni sociologiche ed anche televisive non lo rende insensibile alle regole che vigono in campo giuridico allorquando ad esso si vogliono collegare conseguenze in termini di risarcimento del danno98 ”: ciò vale, aggiungiamo noi, anche e soprattutto nel campo del diritto penale. Invero, il problema dell’eventuale controllo penale del mobbing presenta molte difficoltà. E sicuramente questo è uno dei motivi per cui non è stata ancora definita una fattispecie penale di mobbing, anche se i tentativi di positivizzare il fenomeno sono stati numerosi99 , ma per adesso, nessuno ha ancora trovato l’avallo parlamentare. 2. Il mobbing nella giurisprudenza penale. Non essendoci una fattispecie penale ad hoc, le norme che vengono utilizzate quando si presuppone la presenza di un caso di mobbing sono – oltre quelle, per così dire, ‘classiche’ previste in tema di delitti contro l’onore e la persona – i delitti di violenza privata, ex art. 610 c.p. e di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, ai sensi dell’art. 572 c.p100 . 97 Così Viscomi, Il mobbing: alcune questioni su fattispecie ed effetti, in Lav. Dir., 2002, p. 45 ss., in part. p. 53. 98 Così Trib. Milano, 20.05.2000, in Orient. Giur. Lav., 2000, p. 958. Va segnalata, inoltre, la sentenza del Trib. Milano, 22.08.2002, in Orient. Giur. Lav., n. 3, 2002, p. 536 ss., per l’ampia panoramica delle posizioni dottrinali (anche – e soprattutto – di studiosi di scienze sociali non giuridiche) e giurisprudenziali elaborate in tema di mobbing. 99 Sul punto, cfr. supra, nota 6. 100 Si è configurata anche l’applicabilità dell’art. 629 c.p., almeno per quanto concerne la fattispecie conosciuta in giurisprudenza come «estorsione contrattuale». Sul punto cfr. Cass., II pen., 25.10.1999, n. 12444, reperibile in Jurisdata, n. 1/2001. 131 Invero, l’applicabilità dell’art. 610 c.p. non è nuova per il diritto del lavoro: basti pensare che sono state considerate ‘violente’ “le punizioni umilianti, i turni di lavoro continui ed insopportabili, i divieti di riposo finalizzati all’obbedienza all’interno di un’associazione a sfondo religioso” 101 . Ma un caso emblematico di applicazione della fattispecie di violenza privata correlato al mobbing resta quello della Palazzina Laf dell’Ilva di Taranto, su cui ha sentenziato il Tribunale penale di Taranto102 . Il trasferimento in questa ormai famosa Palazzina Laf, indecorosa e fatiscente, era diventata lo spauracchio con cui i dirigenti minacciavano i lavoratori al fine di impedire a questi ultimi di far valere i propri diritti, come, per esempio, proseguire in una causa di lavoro o rifiutare una novazione peggiorativa del contratto di lavoro. Le vessazioni legate al trasferimento erano anche congiunte ad ulteriori umiliazioni e deterioramenti della situazione personale e lavorativa del dipendente, laddove all’ambiente indecoroso si sommava l’assoluta mancanza di qualsiasi mansione con inevitabili peggioramenti delle stesse capacità professionali dei dipendenti stessi. Com’è evidente, è la stessa struttura del delitto di violenza privata che si presta ad essere utilizzato in situazioni come quella ora descritta. Invece, la compatibilità dell’art. 572 c.p. con le condotte del datore di lavoro, consistenti in ripetute e sistematiche violenze fisiche e morali, è stata recentemente decisa dalla VI sezione penale della Corte di Cassazione – 12 marzo 2001 n. 10090. L’applicabilità della norma al caso in esame fa leva sull’assunto che la punibilità del comportamento si fonda soltanto su di un rapporto continuativo dipendente da cause diverse da quella familiare. Così, la Suprema Corte ha ritenuto che “non v’è dubbio che il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, essendo caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore dipendente, pone quest’ultimo nella condizione, specificamente prevista dalla norma penale testé richiamata, di persona sottoposta alla sua autorità, il che, sussistendo gli altri elementi previsti dalla legge, 101 Sul punto cfr. A. Viscomi, Il mobbing: alcune questio ni su fattispecie ed effetti, op. cit., p. 58. 102 Trib. Taranto, sez. pen. II, 7.03.2002 (ud. 12 dicembre 2001), in www.pegacity.it/justice/impegno/sentenza_mobbing_palazzina_laf.pd f. 132 permette di configurare a carico del datore di lavoro il reato di maltrattamenti in danno del lavoratore dipendente”103 . Invero, mentre il codice Zanardelli poneva la norma tra i delitti contro la persona 104 , il codice Rocco ha ritenuto di collocarla tra i delitti contro la famiglia, e, in particolare, in quelli contro l’assistenza familiare. Alla luce di questa diversa sistemazione, si pone, indubbiamente, un profilo problematico inerente il rapporto tra la figura dei maltrattamenti ed il bene giuridico di riferimento: la famiglia. Per quanto ci si voglia sforzare di ricomprendere l’ambiente lavorativo in un ambito più o meno simile a quello familiare, sorgono dei dubbi circa la legittimità dell’applicazione della fattispecie in esame a situazioni conformi a quelle oggetto della decisione della Suprema corte. Ed infatti, una interpretazione fedele alla stessa collocazione della norma 105 , fa prevalere l’interesse alla tutela della famiglia e dei rapporti familiari; in particolar modo, non può ignorarsi la stessa intitolazione del capo IV, “Dei delitti contro l’assistenza familiare”, che pone l’accento su quegli obblighi che soltanto una “società naturale” -per usare le stesse parole della Costituzione, ex art. 29- con quelle caratteristiche può richiedere. Gli stessi obblighi di assistenza reciproca tra i coniugi e, più in generale, di sostegno ai vari componenti della famiglia, nonché quelli più penetranti di mantenere istruire ed educare la prole, disegnano una oggettività giuridica di questa ‘piccola società’ tale da meritare, in certi casi, la tutela sussidiaria del diritto penale. Non va dimenticato, d’altro canto, che anche sotto il diverso profilo della eccezionalità delle norme penali di favore, la famiglia ed i rapporti familiari occupano un posto di rilievo che ne esaltano le peculiarità. Basti pensare, ad esempio, a norme come l’art. 384 c.p., in tema di delitti contro l’amministrazione della giustizia, gli artt. 307 e 418 c.p., in tema di assistenza agli associati, o 103 La sentenza è riportata in Orient. Giur. Lav., 2002, n. 1, p. 195 ss., in part. p. 197. 104 Nel codice Zanardelli, la fattispecie era prevista nel titolo IX, “Dei delitti contro la persona”, capo VI, “Dell’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina e dei maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”, artt. 390-393. Va segnalato che l’abuso su di una persona sottoposta “per … l’esercizio di una professione o di un’arte”, era prevista nell’art. 390 che parlava soltanto di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, mentre per i maltrattamenti, ex art. 391, ci si riferiva soltanto alle “persone della famiglia o verso un fanciullo minore dei dodici anni”. Strano che nel codice Rocco, allo spostamento dei delitti de qua in quelli contro la famiglia sia corrisposto l’ampliamento dei soggetti passivi. 105 Sul punto, cfr. G. D. Pisapia, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in Noviss. Dig. It., op. cit., p. 73. 133 all’art. 649 c.p., in tema di patrimonio, laddove la non punibilità si fonda proprio sulla specificità dell’assetto familiare. In altri termini, il bene giuridico e la particolare collocazione sistematica della norma, le esigenze di sussidiarietà e di frammentarietà dell’intervento penale, dovrebbero far propendere per una interpretazione più restrittiva dell’art. 572 c.p., nella parte in cui il riferimento è ad “una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata (…) per l’esercizio di una professione o di un’arte”. Va segnalato, però, che la dottrina, facendo leva sulla tutela della personalità dei soggetti passivi, concernente anche soggetti diversi da quelli compresi nei rapporti familiari, propende per una certa autonomia del rapporto di autorità, che trovi origine in un formale rapporto giuridico, di diritto pubblico o privato, come il contratto di tirocinio, i rapporti di assistenza, di prestazione d’opera che danno luogo ad una relazione continua ed intima 106 . In altre parole, questa lettura legittima un intervento penale anche fuori dell’ambito familiare laddove il rapporto di autorità si presenta tanto pregnante da consentire pochi margini di reazione al soggetto passivo. La durata del rapporto consente, quindi, una relazione tra i soggetti tale da giustificare una continuazione di condotte pregiudizievoli nel tempo, fino a potere configurare il delitto di maltrattamenti. Ma, anche volendo estendere l’art 572 c.p. a questi particolari tipi di rapporto di lavoro, si deve porre nel debito risalto il dato che, con riferimento al fenomeno del mobbing, la norma potrebbe coprire soltanto quel tipo di maltrattamenti chiamato bossing, di tipo verticale, non trovando tutela il c.d. mobbing orizzontale, perpetrato da colleghi pari grado, o quello posto in essere da subordinati (anche se quest’ultima, continua a sembrare un’ipotesi alquanto scolastica). Invero, potrebbe configurarsi una tutela penale di queste ultime due ipotesi laddove il mobbizzato denunci al datore – od al sovraordinato direttamente competente – i fatti oggetto di mobbing e quest’ultimo non si attivi. Ed infatti, la sentenza 107 prima citata, ha ravvisato un comportamento omissivo penalmente rilevante – ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p. e 610 c.p. – in capo al titolare dell’impresa, per avere costretto i lavoratori ad aumentare l’impegno oltre il tollerabile, avvalendosi del clima di intimidazione creato dai suoi capigruppo ed omettendo di reprimere i loro eccessi. 106 Sul punto cfr. F. Coppi, Maltrattamenti, in Enc. Dir., op. cit., p. 245. 107 Cass., VI sez. pen., 1203.2001, n. 10090, in Orient. Giur. Lav., 2002, p. 196-197. 134 3. Opportunità di una criminalizzazione del mobbing? Nelle pagine precedenti si è cercato di offrire un quadro, seppur sintetico, dei vari aspetti che coinvolgono il diritto penale nel tentativo di fronteggiare il mobbing. Si impone, a questo punto dell’analisi, un interrogativo circa la necessità e l’opportunità di una ‘penalizzazione’ del fenomeno in esame. Possiamo guardare a varie soluzioni: una tutela penale limitata al bossing; una fattispecie – da creare – che tuteli da tutte le manifestazioni di mobbing; ovvero la rinuncia ad una tutela penale diretta. Preliminarmente, va osservato che l’indubbio incremento da parte dei governi della legislazione penale, rispetto ad altri tipi di illecito, è legata al “basso prezzo” dell’incriminazione penale 108 , al «reprimere in apparenza anziché prevenire in termini di politica generale, aumentando le aspettative dello stesso controllo sociale da parte della magistratura»109 . La convenienza politica di questo comportamento può ritrovarsi, da un lato nel simbolismo efficientista legato alle incriminazioni, dall’altro lato nel risparmio di spesa derivante dal mancato adeguamento delle strutture della pubblica amministrazione che, attraverso i suoi controlli, avrebbe dovuto contestare le infrazioni ed irrogare le sanzioni. Invero, si tratta di trovare un punto che rappresenti la felic e sintesi tra necessità emergenti e quelle del modello classico di intervento penale. La soluzione, tuttavia, non deve sacrificare alle esigenze di celerità della risposta sanzionatoria -spesso dettate solo dal contingente e dalla ricerca di consenso politico- quelle istanze tipiche del diritto penale classico – legalità, materialità, offensività 110 , sussidiarietà, 108 Per una descrizione del fenomeno con riferimento alla legislazione emergenziale confronta la preziosa analisi di S. Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, Napoli, 1997, 2a ed., passim. 109 Sul punto cfr. M. Donini, La riforma della legislazione penale complementare: il suo significato «costituente» per la riforma del codice, in Aa.Vv., La riforma della legislazione penale complementare. Studi di diritto comparato , a cura di M. Donini, Padova, 2000, p. 4 ss., p. 7. 110 Il connotato dell’indiscutibile dannosità sociale costituisce la condizione indispensabile, perché, da un lato, la generalità dei consociati possa approvare la criminalizzazione di un fatto e, d’altro canto, il singolo possa legittimamente, nonché, eventualmente, con proficuità essere avviato al recupero sociale: l’azione di risocializzazione o l’effetto di non-desocializzazione, richiede, 135 frammentarietà, funzione di integrazione sociale della pena –, ma essa dovrà fondarsi su questi principi ed utilizzare strumenti compatibili con essi. Ad esempio, il pericoloso, negativo, asservimento della penalità sostanziale al processo, a ben vedere, si ritrova proprio in questo mancato sinolo. Peraltro, non vanno dimenticati i rischi di scivolamento verso un diritto penale sanzionatorio 111 , che vanifica, senza dubbio, il criterio dell’autonomia, secondo il quale la risposta penale deve costituire, in tutti i sensi, il contenuto principale del provvedimento legislativo e non, come spesso avviene, solo una linea secondaria di ripiegamento rispetto alla disciplina giuridica di materie non penali ed alle forme specifiche di responsabilità delle parti interessate che da essa normalmente derivano112 . Le istanze dogmatiche, coniugate con le esigenze politico-criminali, hanno portato al riconoscimento di un sistema penale teleologicamente orientato, inteso quale espressione di una più generale necessità di conformare quest’ultimo ai principi di uno stato sociale di diritto costituzionalmente orientato. In particolare, ai fini della costruzione di una eventuale fattispecie di mobbing, risulta essere fondamentale il rispetto delle istanze politicocriminali che si traducono nei principi di determinatezza e tassatività. Abbiamo già segnalato il mancato rispetto di tali principi nei progetti di legge finora presentati, ma, anche volendo optare per una costruzione, cara alla dottrina d’oltralpe, in termini di reati d’obbligo113 , non avremo una appagabile soluzione dei problemi innanzitutto, che il soggetto percepisca con chiarezza l’antisocialità del proprio comportamento, ovvero l’offesa significativa ad un bene giuridico meritevole di tutela penale»: così, Moccia, Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni: tra illusioni postmoderne e riflussi illiberali, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1995, p. 343 e 344. Sul punto cfr., altresì, Cavaliere, Riflessioni sul ruolo dell’offensività nella teoria del reato costituzionalmente orientata , in Aa.Vv., Costituzione, diritto e processo penale, a cura di Giostra-Insolera, Milano, 1998, p. 133 s. 111 Sul punto cfr. ancora, per tutti, F. Grispigni, Diritto penale italiano, Milano, 1947, 2a ed., vol. I, p. 232 ss. 112 In proposito cfr. A. Baratta, Principi del diritto penale minimo. Per una teoria dei diritti umani come oggetti e limiti della legge penale, in Aa.Vv., Il diritto penale minimo. La questione criminale tra riduzionismo e abolizionismo, a cura di A. Baratta, fascicolo speciale della rivista Dei delitti e delle pene, 1985, n. 3, p. 443 ss., in part. p. 452. 113 Sul punto cfr. Roxin, Kriminalpolitik und Strafrechtssystem (1970), trad. it. a cura di S. Moccia, Politica crimin ale e sistema del diritto penale. Saggi di teoria del reato , Napoli 1998, p. 53, dove si precisa che nel reato d’obbligo “se questi doveri sono determinati, le istanze 136 fintantoché gli obblighi dei soggetti e le violazioni dei diritti non saranno sufficientemente descritti in ambito extrapenale. Infatti, in questa sede non si tratta di sanzionare soltanto alcune violazioni in materia lavoristica e previdenziale, ma un comportamento che tende – attraverso le più disparate modalità più o meno penalmente rilevanti – ad estromettere un soggetto dal mondo del lavoro. Invero, sebbene si riuscisse ad ottenere un risultato rispettoso del il principio di legalità, resterebbe ancora tutto da dimostrare l’ossequio ai canoni della sussidiarietà e della frammentarietà. L’intervento penale, in armonia con il principio di extrema ratio, rappresenta, a nostro avviso, anche una prova di validità circa l’effettività della risposta sanzionatoria in rapporto alle garanzie fondamentali che vengono sacrificate per la salvaguardia di un dato bene giuridico114 . A sua volta, il bene giuridico, in quanto situazione piena di valore115 , decide delle modalità di aggressione -a forma libera o vincolatasecondo l’importanza che riveste nella scala di valori costituzionali. Il nostro assetto costituzionale, privilegiando i diritti dell’uomo -in primis la vita e l’integrità fisica e psicologica- ha condiviso la scelta codicistica, che prevede, per la loro tutela, fattispecie a forma libera ed anche, com’è noto, le corrispondenti figure colpose. Questa attenzione verso i beni della persona, e la scelta della tutela più ampia possibile, rivestono enorme importanza anche sotto il profilo della dottrina del fatto tipico. Il bene giuridico, infatti, svolge una funzione essenziale nell’interpretazione delle fattispecie, concorrendo a definirne i confini ed a distinguerla da altre fattispecie e dalla serie infinita dei fatti penalmente irrilevanti116 . In altri termini, la tipicità, soprattutto nella sua citata funzione politico-criminale, implica una “logica concretizzatrice” dei beni protetti, tale da conseguire l’obiettivo di limitare la protezione penalistica a beni “capaci di tutela e di offesa, e in grado al contempo di tradurre l’offesa in autentici elementi, che del principio del nullum crimen sono completamente soddisfatte da un rinvio che sostituisce la descrizione dell’azione”. 114 Sul punto cfr. Angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano 1983, p. 16 ss. 115 A tale proposito pregnante è l'affermazione di Roxin , per il quale beni giuridici sarebbero delle situazioni piene di valore in cui si concretizzano i presupposti indispensabili della convivenza di un gruppo di uomini in un dato momento storico e sociale. Sul punto cfr. anche S. Moccia, Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni: tra illusioni postmoderne e riflussi illiberali, op. cit., p. 353 ss.; E. Musco, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano 1983, p. 110. 116 Sul punto cfr. C. Fiore, Diritto penale. Parte generale, Torino, 1993, vol. I, p. 156. 137 consentano al bene giuridico di adempiere veramente alla sua funzione limitatrice del fatto, riducendone gli arbitri ricostruttivi” 117 . In questo modo, il ruolo dommatico della tipicità, nell’arricchirsi di compiti politico-criminali, oltre ad individuare specifiche forme di offesa ai beni giuridici, incorpora “verificabili tipologie empiricocriminologiche di forme di offesa, a oggetti capaci di essere offesi, e in grado di apporre al fatto un serio limite garantistico” 118 . Quando le tipologie empirico-criminologiche non sono verificabili, le norme non possono che andare incontro a censure di costituzionalità, come è avvenuto purtroppo per il solo delitto di plagio 119 . Così, con riferimento all’oggetto del nostro studio, l’aggressione all’integrità della persona, eventualmente causata dalle condotte di mobbing, può trovare, a nostro avviso, ampia tutela nelle fattispecie esistenti. Invece, eventuali valutazioni empirico-criminologiche, compiute in tema di violenza psicologica sul luogo di lavoro, non sembrano essere tanto determinabili da potersi tradurre in una fattispecie penale che soddisfi i suesposti requisiti della tipicità. Tuttavia, la definitiva dimostrazione della pericolosità e della inutilità di fattispecie atipiche si trova in tema di funzione della pena. A ben vedere, sotto quest’ultimo profilo -in particolare per quello che concerne l’aspetto della prevenzione generale positiva, in termini di orientamento culturale dei consociati quale espressione dei valori di fondo della coesistenza sociale -, un risultato può essere ottenuto solo se il destinatario delle norme è in grado di conoscere e comprendere il contenuto e le ragioni del divieto. Intorno a norme poco chiare non sarebbe, infatti, possibile “ottenere un’aggregazione di consensi, alla stessa maniera in cui, lo stesso effetto di intimidazione non risulta conseguibile, se la minaccia della sanzione penale non è connessa al divieto di una condotta facilmente individuabile. Le stesse considerazioni valgono, infine, anche sul piano individuale: è palese, infatti, come soltanto la chiara riconoscibilità del precetto -ma anche della relativa sanzione- possa far percepire al reo la norma penale 117 Così G. Marinucci, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1983, p. 1221 (corsivo dell’A.). 118 Ancora G. Marinucci, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, op. cit., p. 1226. 119 Sul punto cfr. S. Moccia, La ‘promessa non mantenuta’. Ruolo e prospettive del principio di determinatezza/tassatività nel sistema penale italiano, Napoli, 2001. 138 come regola di condotta violata, rendendo, in tal modo, accettabile l’intervento punitivo statuale”120 . È alla luce di queste considerazioni che deve decidersi della legittimità di un diretto intervento penale nella materia in esame. Il bossing -che rappresenta il lato più odioso del mobbing anche per la facilità con cui un superiore può maltrattare senza rischi un subordinato- può raggiungere più facilmente quella soglia di offesa che giustifica una sanzione penale. Ma il rapporto con i principi sopra menzionati -in particolare quelli di sussidiarietà e di frammentarietà- potrebbe suggerire di accontentarsi della tutela penale offerta dalle fattispecie esistenti. In altri termini, laddove si raggiunge una soglia di offesa fisica e/o psicologica tale da sconfinare nei tanti delitti che già si occupano di salvaguardare i beni della vita e dell’integrità fisiopsichica di un individuo si attiverà la risposta penale. Lo stesso risultato può raggiungersi in merito al fenomeno del mobbing orizzontale. Rispetto a quest’ultima manifestazione forse sarà più difficile arrivare alla tutela penale tenuto conto della possibilità del lavoratore di difendersi più facilmente e con minore rischio rispetto ad un pari grado. Ed infatti, in questo ambito potrebbe pensarsi come sufficiente una tutela extrapenale, di tipo risarcitorio civile, che magari contempli un licenziamento per giusta causa del mobber, oltre che quella penale, legata, eventualmente, a singole manifestazioni criminose. 120 Così S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore, op. cit., p. 124. Una puntuale ricostruzione in tema di incompatibilità dello schema della norma penale in bianco in un contesto sistematico che privilegi l’integrazione sociale come funzione della pena è proposta da Maiello, Dommatica e politica criminale nelle interpretazioni in tema di riserva di legge: a proposito di un’ipotesi di depenalizzazione «giurisprudenziale», in Arch. Pen., 1988, p. 381 ss. 139 IL MOBBING E LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I C.D. CODICI ANTI-MOBBING di ROCCHINA STAIANO (dottore di ricerca-Università di Salerno) 1. Premessa Il problema del mobbing, anche se non si conosce la reale entità 121 , è presente nel rapporto di lavoro privato e, di recente, è approdato nel Pubblico Impiego “privatizzato”. Tale situazione si è estesa in quest’ultimo settore (P.I. privatizzato), a causa dell’innesto massiccio di logiche e di modelli privatistici nell’organizzazione e nell’operato dell’Amministrazione pubblica122 , avvenuto con il D. Lgs. 30 marzo 2001 n. 165 (T.U. in materia di Pubblico Impiego), che ingloba il D. Lgs. n. 29/1993 ed alcuni decreti legislativi attuativi delle Leggi Bassanini123 . Tale processo di revisione, ha generato nella P.A. condotte vessatorie in alcuni suoi settori: nella Sanità, con particolare riferimento ai rapporti esistenti tra personale medico e paramedico ed alle nomine dei primari dei reparti124 ; nelle autonomie locali, nei confronti dei segretari provinciali e comunali125 ; nelle Scuole, per 121 In Italia, il Rapporto ILO del 1998 ha stimato che i lavoratori vittime del mobbing sono il 4,2%. Ma tale valutazione non tiene conto che molti giovani neo-assunti o avviati al lavoro con forme flessibili (ad esempio: part-time, contratto di formazione e lavoro, contratto a termine, ecc…), spinti dal bisogno di lavorare, sono “ben disposti” a tollerare i piccoli e i grandi soprusi nei luoghi di lavoro. Anche i dati provenienti da ciascun Stato membro dell’Europa sull’incidenza del fenomeno mobbing, presentano visibili variazioni e ciò è dovuto al fatto che alcuni Stati sono poco sensibili verso il mobbing. 122 L’Amministrazione Pubblica è orientata, alla luce delle leggi di riforma, ad una maggiore flessibilità dei ruoli ed ai principi di efficienza, efficacia ed economicità; cfr. R. Staiano, Il mobbing e la P.A.: uno sguardo alle iniziative legislative ed ai CCNL, a cura di (I. De Asmundis), Mobbing: un attacco alla dignità di chi lavora , ESI, Napoli, 2004. 123 D. Lgs. nn. 396/1998, 80/1998 e 387/1998. 124 Art. 26 del D. Lgs. 165/2001. 125 La disciplina relativa al segretario comunale e provinciale è stata modificata dal D.P.R. 465/1997 e dal D. Lgs. 267/2000 (T.U. sull’ordinamento degli enti locali), la quale non lo considera più come “dipendente dello Stato”, ma come “supporto giuridico amministrativo”, in quanto esso viene scelto, tra coloro che sono in possesso dei requisiti professionali più idonei all’attività dell’ente, dal Sindaco e dal Presidente della Provincia; cfr. A. P. Baccarini, Questioni giuridiche in materia di disponibilità e mobilità dei 140 quanto attiene ai professori ed ai bidelli126 ; e gli esempi potrebbero continuare. In Italia, il vuoto legislativo in materia di mobbing ha favorito l’attività di prevenzione attraverso non solo l’intervento del sindacato di prevedere nei CCNL e CCI misure disciplinari o norme di comportamento127 , ma anche l’adozione di codici di condotta, di regolamenti e/o codici etici, vale a dire i c.d. codici anti-mobbing. Dal 2000 ad oggi, nell’ambito della P.A., si è assistito ad una proliferazione di codici anti-mobbing, il cui obiettivo vuol essere quello, appunto, di prevenire qualsiasi forma di violenza morale e persecuzione psicologica e, nel caso in cui esse si verifichino, si garantisce la tempestiva individuazione di procedure adeguate per affrontare il problema. Risulta, quindi, a mio avviso, molto interessante fare un’analisi, nei successivi paragrafi, sia pure sommariamente, di alcuni codici antimobbing, in quanto ciò ci permette di avere un’idea delle direzioni e dei fini ispiratori cui si indirizzano. 2. Codice di condotta dell’USL 10 di Firenze. L’USL 10 di Firenze, su proposta dei Comitati Pari Opportunità, ha adottato il codice di condotta per la prevenzione delle molestie morali nei luoghi di lavoro128 . Con tale codice, l’azienda di Firenze vuole migliorare il clima relazionale nell’ambiente di lavoro tra tutti gli operatori che lavorano all’interno della struttura. Per questo, l’azienda ritiene necessario, per il raggiungimento degli obiettivi aziendali, prevenire l’instaurarsi ed il consolidarsi di quei comportamenti che ledono le fondamentali regole del rispetto e della collaborazione fra le persone e, per il benessere dei lavoratori, garantisce la possibilità di partecipazione dei lavoratori alle politiche aziendali promovendone le motivazioni e valorizzandone la professionalità. Tale codice fornisce la definizione di molestia morale, considerandola come “una qualsiasi condotta impropria che si manifesta attraverso comportamenti, gesti, atti, scritti capaci di arrecare offesa alla segretari comunali e provinciali, in Lav. Pubb. Amm., 2002, n. 2, p. 377 ss. 126 I professori e i bidelli, in base alle nuove leggi di riforma della Scuola, sono soggetti ai poteri decisionali, “dalla più ampia discrezionalità”, del preside, oggi dirigente scolastico. 127 Vedi infra nello stesso capitolo, par. 4. 128 Cfr. Osservatorio mobbing, curato da R. Staiano, in www.diritto.it, sezione Codici anti-mobbing. 141 personalità o all’integrità fisica o psichica di una persona”129 e, poi, individua le sue più diffuse forme che si possono avere in ambito lavorativo, come per esempio, calunniare e diffamare un lavoratore, escludere il lavoratore o boicottarlo o disprezzarlo, esercitare minacce o avvilire la persona, ecc... Per prevenire le molestie morali, il codice di condotta, prevede, nell’art.4, adeguate misure, cui l’azienda deve attenersi. Innanzitutto, l’azienda, riconoscendo che la qualità della prestazione è condizionata dalla professionalità tecnica, etica e deontologica di ogni operatore e dalla valorizzazione della sua dignità professionale e personale, deve adoperarsi a sensibilizzare questi (gli operatori) a tali valori ed a costruire un clima rispettoso delle diverse individualità. In secondo luogo, si impegna ad ostacolare ed a perseguire ogni violenza morale, che ledono i diritti umani, civile, religiosi, culturali e tutto ciò che contrasta con la società civile e democratica. Infine, deve attuare interventi formativi che si rivolgono alla gestione del clima relazionale nell’ambito di singoli settori ed alla valorizzazione delle risorse umane. Nell’ipotesi in cui si verificassero casi di molestia morale, questi dovranno essere segnalati per iscritto al coordinatore della Commissione interdisciplinare per la trattazione dei casi di molestia morale 130 , il quale esaminerà le situazioni e può attivare le proposte, predisporre strategie e percorsi utili alla risoluzione del caso e, qualora, individui responsabilità da parte dei singoli o di gruppi nell’azione di molestia morale, può richiedere l’attuazione di procedimenti di natura disciplinari o sanzioni consequenziali previste dalle norme vigenti. Ove la situazione sia tale da richiedere una consultazione diagnostica-terapeutica sarà compito della Commissione indirizzare il dipendente ad un servizio specialistico, interno o esterno all’Azienda. Infine, il coordinatore della Commissione interdisciplinare per la trattazione dei casi di molestia morale, insieme ai Comitati Pari Opportunità ed ai dirigenti devono dare particolare importanza ai progetti che prevedono prevenzione, formazione ed informazione in riferimento alla tematica di violenza morale e persecuzione psicologica. 129 Art. 2 del Codice di condotta dell’Azienda USL 10 di Firenze. La Commissione interdisciplinare per la trattazione dei casi di molestia morale è nominata dal Direttore Generale e ha durata triennale, v.: art. 7 del Codice di condotta dell’Azienda USL 10 di Firenze. 130 142 3. Regolamento anti-mobbing della Provincia di Ragusa. La Provincia di Ragusa ha approvato, con delibera Commissariale n. 36 del 15 luglio 1991, il Regolamento anti-mobbing131 , il quale mira a tutelare qualsiasi lavoratore e lavoratrice, impiegati “in tutte le tipologie di lavoro …, comprese le collaborazioni, indipendentemente dalla loro natura, mansione e grado”132 , da molestie morali e molestie sessuali. Sono considerate molestie morali tutte quelle azioni (comportamenti, parole, atti, gesti, scritti), attivati da chiunque nell’ambiente lavorativo e capaci di arrecare offesa alla personalità, alla dignità o all’integrità psico-fisica del lavoratore e di mettere in pericolo l’impiego. Mentre, le molestie sessuali sono le discriminazioni che si basano sul sesso nel luogo di lavoro, con lo scopo di ledere la dignità di una persona e/o di creare un ambiente intimidatorio quando il rifiuto o la sottomissione di una persona a tale comportamento vengono usate come base di decisione che riguarda questa persona. Tale Regolamento si differenzia dagli altri codici anti-mobbing che stiamo esaminando, in quanto, nei confronti di coloro che attuano tali comportamenti e di chi denuncia consapevolmente fatti inesistenti, si applicano le misure disciplinari previste dalla contrattazione collettiva. Per tutelare il lavoratore dalle molestie morali, l’art. 5 istituisce una “Commissione di garanzia”, composta dal “Direttore Generale o, in caso di vacanza, dal Segretario Generale, dal medico competente e dallo psicologo nominato dall’Ente” 133 , con il compito di raccogliere le denuncie dei lavoratori, di individuare la manifestazione di maltrattamenti e di discriminazioni e di formulare ogni proposta utile per prevenire e reprimere situazioni vessatorie e persecutorie ed, infine, di fornire all’Amministrazione tutti i dati necessari per l’eventuale avvio del procedimento disciplinare. Inoltre, il lavoratore, sia quando non si rivolge alla Commissione di garanzia e sia quando non è d’accordo con la decisione della succitata Commissione, può avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi o può promuovere il tentativo di conciliazione e, poi, far ricorso alla giustizia ordinaria. 131 Il Regolamento anti-mobbing della Provincia di Ragusa è possibile consultarlo in Osservatorio mobbing, curato da R. Staiano, in www.diritto.it, sezione Codici anti-mobbing. 132 Art. 1, 2° comma, del Regolamento anti-mobbing. 133 Art. 5, 3° comma, del Regolamento anti-mobbing. 143 Infine, il Regolamento individua una serie di azioni di prevenzione per tutelare il lavoratore. Prevede, infatti, che le Rappresentanze Sindacali Aziendali e le Rappresentanze dei Lavoratori per la Sicurezza hanno il diritto di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare i lavoratori da azioni e comportamenti vessatori e persecutori; il lavoratore può denunciare al medico competente il disagio e lo stato psico-fisico in cui si trova per aver subito azioni persecutorie; qualora siano denunciati da parte di singoli o di gruppi di lavoratori tali comportamenti, l’ente ha l’obbligo di porre in essere, attraverso l’ausilio della Commissione di Garanzia, tempestive procedure di accertamento dei fatti denunziati e misure per il loro superamento ed, infine, ai lavoratori è riconosciuto non solo il diritto di riunirsi fuori dell’orario di lavoro, nei limiti di due ore su base annuale, per trattare il tema delle violenze e delle persecuzioni psicologiche nel luogo del lavoro, ma anche di chiedere il trasferimento ad ufficio diverso da quello in cui si è verificata la molestia. 4. Codice Etico dell’Azienda Sanitaria Ospedaliera OIRM-S. Anna di Torino. L’Azienda Ospedaliera OIRM-S. Anna di Torino134 , recependo la Raccomandazione Europea 92/131 sulla tutela della dignità delle donne e degli uomini sul posto di lavoro, ha disposto un suo Codice Etico, che affronta il problema della molestie, intesa sia come molestia sessuale che come violenza morale e persecuzione psicologica. Per molestia sessuale si intende ogni atto o comportamento, anche verbale, a connotazione sessuale che arrechi offesa alla dignità e libertà della persona che lo subisce. Rientrano nella tipologia della molestia sessuale comportamenti tipicizzati quali: richieste esplicite o implicite di prestazioni sessuali o attenzioni a sfondo sessuale non gradite e ritenute sconvenienti e offensive per chi ne è oggetto; minacce, discriminazioni e ricatti, subiti per aver respinto 134 Il Codice Etico dell’Azienda Sanitaria Ospedaliera OIRM-S. Anna di Torino è consultabile in Osservatorio mobbing, curato da R. Staiano, in www.diritto.it, sezione Codici anti-mobbing. 144 comportamenti a sfondo sessuale che incidano, direttamente o indirettamente, sulla costituzione, lo svolgimento o l’estinzione del rapporto di lavoro e la progressione di carriera; apprezzamenti verbali offensivi sul corpo e sulla sessualità; gesti o ammiccamenti provocatori e disdicevoli a sfondo sessuale; ecc… Invece, costituisce violenza morale e persecuzione psicologica ogni atto, patto o comportamento che produca, in via diretta o indiretta, un effetto pregiudizievole alla dignità e alla salute psico-fisica del dipendente nell’ambiente lavorativo. In particolare, fanno parte di tale tipologia le umiliazioni e i maltrattamenti verbali reiterati e persistenti; le immotivate esclusioni o marginalizzazioni dalla ordinaria comunicazione aziendale; gli atti e i comportamenti mirati a danneggiare o discriminare il dipendente; ecc… Il Codice istituisce, inoltre, la figura del/la Consigliere/a di fiducia 135 , la quale, nominata dal Direttore Generale su designazione del Comitato Pari Opportunità, è incaricato di fornire consulenza ed assistenza ai dipendenti oggetto di molestie sessuali o violenza morale e persecuzione psicologica, nonché di intervenire al fine di favorire il superamento della situazione di disagio per ripristinare un sereno ambiente di lavoro. In questo modo si attiva la c.d. procedura informale 136 , in cui il/la Consigliere/a esamina il caso, fornendo all’interessato ogni utile informazione; procede, in via riservata, all’acquisizione degli elementi e delle informazioni necessarie per la trattazione e valutazione del caso; d’intesa con la persona offesa dal comportamento molesto, valuta l’opportunità di un confronto diretto con il/la presunto/a molestatore/trice; può chiedere l’intervento di altri esperti per supportare il proprio giudizio; deve preventivamente comunicare, ad entrambe le parti, ogni iniziativa del procedimento che intende assumere e le proposte conclusive ed, infine, riferisce al Direttore Generale sull’esito della procedura. Tale procedura deve terminare entro 90 giorni dalla richiesta del dipendente, salvo motivate ragioni di proroga per un periodo comunque non superiore ad ulteriori 90 giorni. La persona offesa ha la facoltà in qualsiasi momento di recedere dalla propria richiesta di procedura informale e di avvalersi 135 Tale figura era già stata prevista nella Raccomandazione Europea 92/131, attribuendole il ruolo di “primo ascolto” della vittima di molestia. 136 Art. 6 del Codice Etico dell’Azienda Ospedaliera Sanitaria OIRMS. Anna di Torino. 145 della c.d. procedura formale 137 , con la quale può sporgere denuncia, fatta salva ogni altra forma di tutela giurisdizionale. Infine, per favorire una azione preventiva efficace per informare e sensibilizzare tutti i soggetti sulla gravità del fenomeno della molestia (molestia sessuale e violenza morale e persecuzione psicologica), il Codice Etico prevede che l’Amministrazione adotti tutte le iniziative e le misure organizzative idonee a tutelare la libertà e la dignità della persona. 137 Art. 7 del Codice Etico dell’Azienda Ospedaliera Sanitaria OIRMS. Anna di Torino. 146 IL MOBBING IN EUROPA di FAUSTO TROILO (Dott. in Giurisprudenza) 1. Mobbing nei Paesi Scandinavi. In Svezia, l’Ente nazionale per la Salute e la Sicurezza Svedese ha emanato, in data 21 settembre 1993, una specifica ordinanza 138 , entrata in vigore il 31 marzo 1994, recante misure contro qualsivoglia forma di “persecuzione psicologica” negli ambienti di lavoro, intesa quali “..ricorrenti azioni riprovevoli o chiaramente ostili intraprese nei confronti di singoli lavoratori, in modo offensivo, tali da determinare il loro allontanamento dalla collettività che opera nei luoghi di lavoro”. L’ordinanza affida al datore di lavoro la principale responsabilità riguardo all'organizzazione e programmazione dell'attività di lavoro in modo da prevenire ed impedire il verificarsi di fenomeni di vittimizzazione. Attribuisce, inoltre, particolare importanza, pari a quella dei fattori di ordine fisico o tecnico, agli aspetti psicologici, sociali e organizzativi dell'ambiente di lavoro. Per la prima volta, in un provvedimento con valore normativo, è stato fatto esplicito riferimento al concetto di “mobbing” o “bossing”139 . Il provvedimento fornisce ai datori di lavoro precise indicazioni su come affrontare il problema della persecuzione psicologica in via preventiva attraverso il sostegno dei comitati aziendali e l'interazione continua tra la dirigenza e i dipendenti. In particolare il datore di lavoro è tenuto a pianificare ed organizzare il lavoro in modo da prevenire, per quanto possibile, ogni forma di 138 Ordinanza AFS 1993/17 del 21 settembre 1993, emanata dall'Ente nazionale per la salute e la sicurezza svedese in conformità alla sezione 18 dell'Ordinanza sull'ambiente di lavoro (1977) disponibile sul sito della CGIL alla pagina www.cgil.i/saluteesicurezza/il_mobbing.htm nella traduzione italiana curata da Roberta Clerici. L’ordinanza è allegata in versione integrale nell’appendice alla fine del presente lavoro. 139 Per “bossing” in realtà si intende un’azione persecutoria utilizzata quale strumento attuativo di una politica di riorganizzazione aziendale finalizzata alla riduzione del personale o all’esclusione dei lavoratori “scomodi”. 147 persecuzione nei luoghi di lavoro, informando i lavoratori che queste forme di persecuzione non possono essere assolutamente tollerate nel corso dell'attività lavorativa; Devono, poi, essere previste procedure idonee ad individuare immediatamente i sintomi di condizioni di lavoro che possono costituire il terreno adatto all'insorgere di forme di persecuzione psicologica durante l'attività lavorativa. Qualora poi, nonostante l’attività preventiva, si verifichino ugualmente fenomeni di mobbing, dovranno essere adottate immediatamente efficaci contromisure volte anche ad individuare le eventuali carenze organizzative causa dell’insorgere del fenomeno. Il datore di lavoro dovrà, infine, prevedere forme di aiuto specifico ed immediato per le vittime del mobbing. L'intervento normativo svedese può, dunque, essere considerato un vero e proprio codice comportamentale per la gestione delle relazioni sociali all’interno dei luoghi di lavoro. Diversamente dalla Svezia, la Norvegia ha preferito optare per una tutela a livello legislativo del mobbing attraverso l’introduzione di una specifica previsione nella legge sulla tutela dell'ambiente di lavoro del 1977 ad opera del § 12 della legge 24 giugno 1994, n. 41, che così recita: "..I lavoratori non devono essere esposti a molestie o ad altri comportamenti sconvenienti….."140 . E’ evidente il diverso approccio seguito dai due legislatori: mentre il regolamento svedese menziona espressamente il mobbing, la legge norvegese contiene un riferimento più generico e parla più semplicemente di molestie e comportamenti sconvenienti da cui il lavoratore deve essere difeso. Al riguardo non si è mancato di evidenziare come una previsione così generica rischi di ricomprendere molteplici ipotesi di vessazioni ai danni dei lavoratori non solo di matrice interna all’organizzazione aziendale ma anche quelli derivanti 140 L’art. 12 della legge 24 giugno 1994, n. 41 così come modificata dalla legge 4 febbraio 1997, n. 4 Lov om arbeidervern og arbeidsmiljo , così stabilisce: “Organizzazione del lavoro – 1. Requisiti generali - La tecnologia, l’organizzazione del lavoro, gli orari di lavoro e di sistemi retributivi devono essere predisposti in modo da non esporre i lavoratori a gravosi sforzi fisici o psichici, o da limitare la loro possibilità di prestare attenzione e di osservare le norme di sicurezza. Vanno messi a disposizione dei lavoratori gli ausili necessari per prevenire gli sforzi fisici. I lavoratori non devono essere esposti a molestie o ad altri comportamenti sconvenienti. Le condizioni di lavoro vanno predisposte in modo da fornire ai lavoratori un’opportunità ragionevole per sviluppare la propria professionalità attraverso il lavoro.”. 148 da cause esterne. A queste legittime osservazioni risponde direttamente la relazione di accompagnamento alla legge 141 , nella quale si afferma che l’ampia portata della definizione è il risultato di una precisa scelta legislativa che mira a garantire una tutela a tutto campo del lavoratore sul luogo di lavoro ed in particolare è finalizzata ad “assicurare un ambiente di lavoro che non esponga i lavoratori a sforzi psicologici di entità tali da influire negativamente sul rendimento e sullo stato di salute”. In relazione alla concezione scandinava del mobbing, è importante rilevare come alla categoria delle molestie sia ricondotto anche il fenomeno delle molestie sessuali a differenza di quanto avviene nella normativa di altri stati comunitari, come la Francia 142 e la Germania 143 , che comprendono, invece, le molestie sessuali nella categoria delle discriminazioni in ragione del sesso. La portata discriminatoria del comportamento, infatti, non inerisce alla molestia sessuale in sé, ma all'eventuale comportamento susseguente che possa avere ripercussioni sul rapporto di lavoro (mancata assunzione e licenziamento che sia conseguenza del rifiuto del molestato). In realtà, la peculiarità delle molestie sessuali è tale da richiedere un intervento normativo autonomo, distinto dalle tutele relative all'ambiente di lavoro o alla discriminazione in ragione del sesso. 2. Mobbing in Svizzera. Anche in Svizzera non è stata, per ora, emanata alcuna legge specifica sul mobbing144 . Al lavoratore vittima di comportamenti molesti l’ordinamento svizzero garantisce, comunque, forme di tutela 141 Ot. Prp. Nr. 50 (1993-94) om lov om endringer i lov 4 februar 1977 nr. 4 om arbeidervern og arbeidsmiljo m v, p. 65 come riportata da Cappello Maja, “L’ambiente psicosociale: il c.d. mobbing e le molestie sessuali,” estratto dalla tesi di dottorato “L’ambiente di lavoro tra mercato interno e politica sociale: esperienze scandinave e italiane a confronto”, Università di Firenze, 1997-1998, p. 154. 142 Legge francese 2 novembre 1992, n.92 -1179 relativa all'abuso in materia sessuale sul luogo di lavoro e che modifica il codice del lavoro e il codice di procedura penale. 143 Berliner Landesantidiskriminierungsgesetz, legge regionale del Land Berlin del 31 dicembre 1990. 144 Si segnala, peraltro, che la questione mobbing è già stata portata all’attenzione del Parlamento Federale svizzero attraverso varie iniziative (mozioni, interpellanze, interrogazioni) e in data 5 ottobre 2000 anche con una proposta di legge intitolata “Loi controe le mobbing” depositata da Zisyadis Josep. Il materiale relativo è disponibile on line sul sito del parlamento elvetico all’indirizzo www.parlament.ch. 149 adeguate attraverso l’applicazione di norme generali poste a tutela della sua salute fisica e psichica dalla legge federale sul lavoro, dal codice delle obbligazioni, dalla legge federale sull’uguaglianza tra donne e uomini nonché da alcune disposizioni del codice penale. Prima fra tutte la legge federale svizzera sul lavoro, applicabile sia ai lavoratori delle imprese private sia ai pubblici dipendenti, che al suo art. 6 obbliga il datore di lavoro a prendere tutti i provvedimenti, tecnicamente utilizzabili ed adeguati alle condizioni d’esercizio dell’impresa, che in base all’esperienza si reputano necessari per proteggere la salute dei lavoratori e ad adottare tutte le misure utili a proteggere l’integrità personale dei lavoratori i quali, a loro volta, sono tenuti a collaborare con l’imprenditore all’applicazione delle prescrizioni sulla protezione della salute. L’Ispettorato di Ginevra, denominato “Office Cantonal de l’inspection et des relations du travail” meglio conosciuto con la sigla OCIRT, ha emanato un’apposita “brochure” per regolare le procedure da seguire nei casi di sofferenza psicologica sul lavoro (mobbing), nella quale viene stabilito che ogni qual volta il lavoratore lamenti di aver subito molestie morali sul lavoro, sarà tenuto a specificare, ni un apposito documento, a che tipo di molestia morale, tra i 45 atti di mobbing individuati dal Leymann, è stato sottoposto e, se possibile, dovrà indicare anche la data di accadimento di ognuno di essi. Sulla base della denuncia presentata l’OCIRT procederà, quindi, all’effettuazione di un’inchiesta all’interno dell’azienda incriminata al fine di accertare la fondatezza delle accuse esposte dal lavoratore e di far prendere coscienza ai vertici aziendali delle responsabilità che essi hanno in queste situazioni. Una volta accertata l’offesa alla personalità del soggetto, l’OCIRT potrà richiedere alla direzione aziendale la cessazione dei comportamenti ostili negoziando eventualmente con essa le contro misure da adottare per evitare che simili situazioni si ripetano in futuro. Se, però, l’azienda si rifiuta di collaborare, l’OCIRT di fatto non dispone di alcun potere e il lavoratore per ottenere giustizia sarà costretto a rivolgersi alla Procura della Repubblica. L’OCIRT, in effetti, non può in alcun caso disporre il reintegro del lavoratore licenziato o dimissionario. Oltre a queste forme di tutela pubblicistica, il lavoratore svizzero molestato sul luogo di lavoro dispone anche di forme di tutela privatistica in base ad alcune norme del codice delle obbligazioni (CO) che si occupano di regolare i rapporti tra datore di lavoro e lavoratore. 150 3. Harcèlement moral in Belgio e in Francia. In Belgio il mobbing, o “harcèlement moral” come viene definito in tutti i paesi francofoni, emerge per ora soltanto dalla giurisprudenza in quanto il fenomeno non è ancora regolato legislativamente. In considerazione del vuoto legislativo esistente in materia e della crescente domanda di tutela proveniente dai lavoratori, è stata recentemente presentata al Senato Belga una proposta di legge che si propone di modificare la legge del 4 agosto 1996, sul benessere dei lavoratori nell’esercizio della loro attività, inserendo una disposizione per obbligare tutti i datori di lavoro ad adottare le misure organizzative necessarie per prevenire l’harcèlement moral nei lughi di lavoro. La proposta di legge fornisce una definizione di harcèlement moral che riprende sostanzialmente quella formulata dalla studiosa francese di questi fenomeni, Marie -France Hirigoyen145 : “si intende per mobbing qualsiasi condotta abusiva e ripetuta che si manifesti con comportamenti, parole, atti, gesti o scritti unilaterali che offendono intenzionalmente la personalità, la dignità o l’integrità psicologica di una persona, che mettono in pericolo il suo impiego o degradano il clima lavorativo”. La Francia, a seguito della definitiva approvazione della legge n. 2002-73 sulla modernizzazione sociale il 17 gennaio 2002146 è, dopo la Svezia, il secondo paese comunitario ad essersi dotato di uno strumento legislativo specifico per la lotta contro il mobbing o meglio l’harcèlement moral come è chiamato qui. La nuova legge, approvata in data 19 dicembre 2001 dall’Assemblea Nazionale, dopo aver definito l“harcèlement moral” come “l’insieme di atti ripetuti di molestia morale che hanno per oggetto o per effetto un degrado delle condizioni di lavoro suscettibili di ledere i diritti e la dignità del lavoratore, di alterare la sua salute fisica o mentale o di compromettere il suo avvenire professionale”, vuole evitare che attraverso le molestie morali il lavoratore venga dapprima penalizzato nella sua professionalità e successivamente allontanato o costretto ad allontanarsi volontariamente dal lavoro. Si tratta di una tutela forte contro il mobbing che permette di azzerare tutte quelle conseguenze 145 M. F. Hirigoyen, Molestie morali. La violenza perversa nella vita quotidiana, Torino, 2000. 146 La legge sulla modernizzazione sociale recentemente approvata in Francia è disponibile sul sito internet www.diritto.it, Osservatorio mobbing, curato da R. Staiano. 151 negative sul rapporto di lavoro che normalmente si accompagnano alle molestie morali. La nuova legge prevede, inoltre, l’introduzione di un’apposita figura di reato dedicata al mobbing con l’inserimento nel codice penale francese di una nuova sezione intitolata, per l’appunto, all’harcèlement moral. 152 APPENDICE Rassegna giurisprudenziale della Corte di Giustizia CE sulla discriminazione indiretta di ROCCHINA STAIANO (dottore di ricerca-Università di Salerno) I. Le disposizioni nazionali che disciplinano le date di ammissione ad un tirocinio per le professioni legali, costituendo un necessario presupposto per accedere ad un posto nel pubblico impiego, rientrano nella sfera di applicazione della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/Cee, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro. Disposizioni nazionali come quelle di cui alla causa principale non costituiscono una discriminazione direttamente fondata sul sesso, ma costituiscono, invece, una discriminazione indiretta fondata sul sesso (C. Giustizia CE, 7 dicembre 2000, n. 79, in DPL, 2001, n. 21, 13). II. L’art. 2, n. 1 e 4 della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/Cee, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, e l’art. 141, n. 4, Tr. Ce ostano ad una normativa nazionale in forza della quale un candidato ad un posto nel pubblico impiego appartenente al sesso sottorappresentato ed in possesso di qualifiche sufficienti per ricoprire tale posto debba essere scelto con preferenza rispetto ad un candidato dell’altro sesso, che sarebbe stato designato in assenza di tale normativa, qualora tale misura sia necessaria affinchè ad ottenere la nomina sia un candidato del sesso sottorappresentato e la differenza tra i meriti dei candidati non sia di rilevanza tale da dar luogo ad una violazione del criterio di obiettività che deve essere osservato nelle assunzioni. L’art. 2, n. 1 e 4 della direttiva 76/207 e l’art. 141, n. 4, Tr. Ce ostano ad una normativa nazionale del tipo 153 anzidetto anche nel caso in cui essa trovi applicazione esclusivamente alle selezioni volte ad assegnare un numero di posti preventivamente determinato nonchè ai posti creati nell’ambito di un programma speciale adottato da un singolo istituto di insegnamento superiore, programma che autorizzi l’applicazione di misure di discriminazione positiva (C. Giustizia CE, 6 luglio 2000, n. 407, in CG, 2000, 1382). III. Un’indennità per orario disagiato non deve essere presa in considerazione ai fini del calcolo della retribuzione che funge da parametro per il raffronto delle retribuzioni ai sensi dell’art. 119 del Trattato (gli artt. 117-120 del Trattato Ce sono stati sostituiti dagli artt. 136-143 Ce) e della direttiva del Consiglio 10 febbraio 1975, 75/117/Cee, per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all’applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile. Nel caso in cui una differenza di retribuzione tra le due categorie sia stata accertata e dai dati statistici disponibili emerga l’esistenza di una proporzione assai più rilevante di donne che di uomini nella categoria sfavorita, l’art. 119 del Trattato impone al datore di lavoro di giustificare tale differenza con elementi obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso (C. Giustizia CE, 30 marzo 2000, n. 236, in MGL, 2000, 891, con nota di Gottardi). IV. Costituisce una discriminazione indiretta l’esclusione del godimento di un’indennità straordinaria annuale, disposta in un contratto collettivo, delle persone che svolgono attività subordinate che comportano un orario normale di lavoro inferiore a quindici ore settimanali e una retribuzione normale che non supera una frazione della retribuzione base mensile di riferimento, che si applichi indipendentemente dal sesso del lavoratore, ma colpisca di fatto una percentuale notevolmente più elevata di donne che di uomini (C. Giustizia CE, sez. VI, 9 settembre 1999, n. 281, in RIDL, 2000, II, 3, con nota di Ludovico). V. Per accertare se un provvedimento adottato da uno Stato membro abbia una diversa incidenza sugli uomini e sulle donne, tale da equivalere ad una discriminazione indiretta, ai sensi dell’art. 119 del trattato, il giudice nazionale deve verificare se dai dati statistici a sua disposizione risulti una percentuale considerevolmente più esigua di lavoratori di sesso femminile, rispetto ai lavoratori di sesso maschile, 154 in grado di soddisfare il requisito posto dal detto provvedimento. Se ciò si verifica, sussiste discriminazione indiretta fondata sul sesso, a meno che il provvedimento non sia giustificato da fattori obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso (C. Giustizia CE, 9 febbraio 1999, n. 167, in DL, 2000, II, 191, con nota di Marinelli). VI. L’art. 6 della direttiva 79/7, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, non prescrive che un singolo possa ottenere il pagamento di interessi su importi versati a titolo di arretrati di prestazioni previdenziali, qualora il ritardo nel versamento delle prestazioni sia riconducibile ad una discriminazione vietata dalla direttiva 79/7. Infatti, gli importi dovuti a titolo di prestazioni previdenziali, versati agli interessati dagli enti competenti, ai quali incombe segnatamente verificare la sussistenza delle condizioni stabilite dalle norme vigenti, non hanno affatto natura di risarcimento di un danno subito, talchè non può trovare applicazione il ragionamento svolto dalla Corte nella sentenza 2 agosto 1993, causa C-271/91, Marshall, in ordine ad un risarcimento inteso al ripristino di una parità di trattamento effettiva, secondo il quale la corresponsione di interessi, ai sensi delle pertinenti norme nazionali, è da considerarsi componente essenziale di un tale risarcimento. Di conseguenza, sebbene l’art. 6 della direttiva 79/7 imponga agli Stati membri l’obbligo di adottare i provvedimenti necessari affinchè ogni persona che si ritenga vittima di una discriminazione vietata dalla direttiva per quanto riguarda la concessione di prestazioni previdenziali possa far accettare l’illegittimità di tale discriminazione e ottenere il pagamento delle prestazioni alle quali avrebbe avuto diritto in mancanza della stessa, il pagamento di interessi su arretrati di prestazioni non può considerarsi componente essenziale del diritto così definito (C. Giustizia CE, 22 aprile 1997, n. 66, in IP, 1997, 376). VII. Qualora uno Stato membro decida di punire la violazione del divieto di discriminazione nell’ambito di un regime di responsabilità civile, la direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/Cee, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali, e le condizioni di lavoro, e in particolare gli artt. 2, n. 1, e 3, n. 1, della stessa, ostano a disposizioni legislative nazionali che stabiliscono il presupposto della colpa per il 155 risarcimento del danno subito a causa di una discriminazione basata sul sesso all'atto di un’assunzione (C. Giustizia CE, 22 aprile 1997, n. 180, in LG, 1997, 639, con nota di Izzi). VIII. L’incompatibilità di una normativa nazionale con le disposizioni comunitarie, com’è il caso dell’art. L 213-1 Code du travail francese che vietando il lavoro notturno in industria soltanto alle donne e non agli uomini costituisce una discriminazione contrastante con l’art. 5 della direttiva 76/207/Cee, non viene meno per effetto di mere prassi amministrative conformi al diritto comunitario o perchè, come nel caso, la norma comunitaria è direttamente applicabile e prevale sulla norma interna. Occorre la soppressione tramite disposizioni interne vincolanti che abbiano lo stesso valore giuridico di quelle da modificare, cosicchè cessino sia lo stato di incertezza degli interessati riguardo alla loro posizione giuridica, sia l’esposizione ad ingiustificate azioni penali (C. Giustizia CE, 13 marzo 1997, n. 197, in DPP, 1998, 310). IX. L’art. 4, n. 1, della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, 79/7/Cee, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento fra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, va interpretato nel senso che un regime legale nazionale, come quello istituito dalla legge in materia di assistenza di lavoratori disoccupati anziani e parzialmente inabili al lavoro, che offre prestazioni assistenziali volte a garantire un livello di risorse economiche pari al minimo di sussistenza, l’attribuzione delle quali non dipende dall’esistenza di un patrimonio, ma assoggetta il diritto all’indennità a presupposti concernenti l’anzianità lavorativa dell'interessato e la sua età, non comporta una discriminazione fondata sul sesso, anche se sia pacifico che un numero notevolmente maggiore di uomini che di donne trova in tale regime un modo per aggirare il requisito relativo al patrimonio, imposto invece nell’ambito di un altro regime, quale quello istituito dalla disciplina collettiva sui lavoratori disoccupati che, pur prevedendo una prestazione del medesimo tipo, è meno favorevole, posto che il legislatore nazionale ha potuto a ragione ritenere che il regime di cui trattasi fosse necessario al raggiungimento di un obiettivo di politica sociale, estraneo a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso (C. Giustizia CE, sez. IV, 8 febbraio 1996, n. 8, in RIDPC, 1996, 1073). 156 X. Qualora la categoria dei lavoratori a tempo parziale comprenda un numero notevolmente più elevato di donne che di uomini, il divieto di discriminazione indiretta in materia di retribuzione, come enunciato dall’art. 119 del trattato Ce e dalla direttiva del Consiglio 10 febbraio 1975, 75/117/Cee, per il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all’applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e i lavoratori di sesso femminile, osta a una normativa nazionale la quale, senza essere idonea a conseguire un obiettivo legittimo di politica sociale e necessaria a tale scopo, porti a limitare al loro orario individuale di lavoro la compensazione che i membri delle commissioni interne occupati a tempo parziale debbono ricevere dal loro datore di lavoro, per la loro partecipazione a corsi di formazione che impartiscono le cognizioni necessarie all’attività delle commissioni interne, organizzati durante l’orario di lavoro a tempo pieno vigente nell’impresa, ma che eccedono il loro orario individuale di lavoro a tempo parziale, mentre i membri delle commissioni interne occupati a tempo pieno ricevono una compensazione, per la loro partecipazione agli stessi corsi, entro i limiti del loro orario di lavoro (C. Giustizia CE, 6 febbraio 1996, n. 457, in RIDPC, 1996, 1072). XI. L’art. 4, n. 1 direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978 n. 79/7/Ce, relativa alla graduale attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, deve essere interpretata nel senso che una normativa nazionale la quale escluda dall’obbligo di iscrizione ai regimi legali di assicurazione malattia e vecchiaia le attività dipendenti prestate per un orario settimanale normale inferiore alle quindici ore e per una retribuzione non superiore al settimo della base mensile di riferimento, come pure una normativa nazionale ai sensi della quale le attività dipendenti che per loro natura, o in base a previa pattuizione contrattuale, sono abitualmente limitate a un orario normale inferiore a diciotto ore settimanali, sono escluse dall’obbligo contributivo relativo all’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione, non costituiscono una discriminazione basata sul sesso, anche se interessano un numero notevolmente maggiore di donne che di uomini, allorchè il legislatore nazionale abbia potuto ritenerle ragionevolmente necessarie al raggiungimento di un obiettivo di politica sociale estraneo a qualsiasi discriminazione basata sul sesso (C. Giustizia CE, 14 dicembre 1995, n. 444, in LG, 1997, 373). 157 XII. Una normativa nazionale che imponga, a parità di qualificazioni, la preferenza dei candidati di sesso femminile a quelli di sesso maschile ai fini della promozione (nei settori lavorativi in cui le donne sono sottorappresentate, ossia costituiscono meno del 50% della forza lavoro) integra la fattispecie di “discriminazione di sesso” in violazione del diritto comunitario, in virtù della direttiva 76/207/Cee all’art. 2 n. 1 (C. Giustizia CE, 17 ottobre 1995, n. 450, in RIDPC, 1996, 671, con nota di Grassi). XIII. Il principio della parità delle retribuzioni fra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile di cui agli artt. 119 del trattato Ce e 1 della direttiva n. 117 del 1975, va interpretato nel senso che, in un sistema di retribuzione a cottimo, la mera constatazione che la retribuzione media di un gruppo di lavoratori costituito prevalentemente da donne che svolgono un determinato tipo di attività è notevolmente inferiore alla retribuzione media di un secondo gruppo di lavoratori costituito prevalentemente da uomini che svolgono un altro tipo di attività lavorativa cui viene attribuito lo stesso valore, non basta a dimostrare l’esistenza di una discriminazione in materia di retribuzione. Se tuttavia, in un sistema di retribuzione a cottimo in cui le retribuzioni individuali sono composte da una quota variabile, che dipende dal risultato individuale dell’opera prestata da ciascun lavoratore, e da una quota fissa, che differisce secondo i gruppi di lavoratori interessati, non è possibile distinguere gli elementi determinanti per la fissazione delle percentuali o delle unità di misura adoperate per il calcolo della quota variabile della retribuzione, può apparire giustificata l’imposizione al datore di lavoro dell’onere di provare che le disparità accertate non derivano da una discriminazione fondata sul sesso (C. Giustizia CE, 31 maggio 1995, n. 400, in NGL, 1995, 968). XIV. Il protocollo n. 2 sull’art. 119 del trattato, allegato al trattato sull’unione europea, concerne tutte le prestazioni fornite da un regime aziendale di previdenza sociale, ma non il diritto di iscrizione a detto regime. La materia dell'iscrizione resta pertanto regolata dalla sentenza 13 maggio 1986, causa 170/84, Bika, secondo la quale un’impresa che, senza una giustificazione obiettiva ed estranea a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, introduca una disparità di trattamento tra uomini e donne escludendo una categoria di dipendenti da un regime pensionistico d'impresa viola l’art. 119 del trattato (C. Giustizia CEE, 28 settembre 1994, n. 128, in NGL, 1995, 338). 158 XV. In mancanza di provvedimenti di attuazione adeguati rispetto all’art. 4 della direttiva 79/7/CEE, alle donne colpite da discriminazione va applicato il medesimo regime che viene applicato agli uomini che si trovino nella medesima situazione. Tale regime rimane, in mancanza di esecuzione della direttiva, il solo valido sistema di riferimento (C. Giustizia CEE, 11 luglio 1991 n. 31, in RIDPC, 1992, 631). XVI. L’art. 119 del trattato CEE deve essere interpretato nel senso che esso si oppone all’applicazione di una disposizione di un contratto collettivo, concluso per i servizi pubblici nazionali, che permetta ai datori di lavoro di escludere dal beneficio di una indennità temporanea in caso di cessazione del rapporto di lavoro i lavoratori a tempo parziale, ove risulti che, di fatto, una percentuale considerevole più bassa di uomini rispetto alle donne lavora a tempo parziale, a meno che il datore non dimostri che la menzionata disposizione sia giustificata da fattori oggettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso. In presenza di una discriminazione indiretta contenuta in una disposizione di un contratto collettivo, i membri del gruppo di fatto sfavorito da tale discriminazione devono essere trattati alla stessa maniera ed essere soggetti allo stesso regime degli altri lavoratori, regime che, in mancanza di una trasposizione corretta dell'art. 119 del trattato CEE nel diritto nazionale, resta l’unico sistema di riferimento valido (C. Giustizia CEE, 27 giugno 1990 n. 33, in DL, 1991, II, 379). 159 Rassegna di giurisprudenza italiana di ROCCHINA STAIANO (dottore di ricerca-Università di Salerno) 1.Principio di uguaglianza I. In base ai principi affermati dalla l. 10 aprile 1991 n. 125 sull'eguaglianza degli uomini e delle donne nell’accesso al lavoro, i Convitti nazionali, che devono accogliere le domande di iscrizione al semiconvitto anche delle donne, devono prevedere posti distinti per gli istitutori e per le istitutrici (Cons. Stato, sez. II, 29 settembre 1999 n. 388, in Riv. Giur. Scuola, 2002, 552). II. Secondo l’art. 5 della direttiva comunitaria 9 febbraio 1976 n. 76/207/Cee del consiglio (che ha formato oggetto di interpretazione pregiudiziale della corte di giustizia, con la sentenza 25 luglio 1991 in causa n. 345/1989 -presente in causa, per intervento, il governo italiano- e che è sufficientemente precisa e incondizionata per poter essere invocata dai privati davanti alle giurisdizioni nazionali, una volta scaduto il termine concesso agli stati membri per adeguarsi alle sue prescrizioni), il principio di uguaglianza applicato alle condizioni di lavoro implica che vengano assicurate agli uomini e alle donne le stesse condizioni, senza alcuna discriminazione fondata sul sesso (senza, però, che la direttiva sia di ostacolo alla protezione della donna, specialmente per quanto riguarda la gravidanza e la maternità, come precisato dall'art. 2, par. 3); conseguentemente è in contrasto con la citata direttiva, e come tale va disapplicata, la norma posta dall'art. 5 l. 9 dicembre 1977 n. 903, che (sia pure con riferimento alle sole aziende manifatturiere anche artigianali e con talune conclusioni) enuncia un principio generale di esclusione delle donne dal lavoro notturno (Cass., sez. lav., 3 febbraio 1995 n. 1271, in Mass., 1995). 2. Licenziamento I. E’ illegittimo il criterio di scelta della “pensionabilità”, in quanto, prevedendo o consentendo di fare riferimento per il personale femminile a un'età inferiore a quella del personale maschile, viola il principio di parità di trattamento sancito dalla l. 10 aprile 1991 n. 125 (e ribadito specificamente dall'art. 8 della l. 19 luglio 1993 n. 236 160 (Pret. Milano, 28 novembre 1996, in Riv. Crit. Diir. Lav., 1997, 377). II. Deve ritenersi ricondotto al motivo discriminatorio in ragione del sesso il licenziamento di una lavoratrice allorché ci sia la prova per presunzioni di comportamenti molesti nei suoi confronti e manchino validi motivi del licenziamento. Infatti il regime della prova presuntiva, che è prova piena quando ricorrono i presupposti di cui all'art. 2729 c.c. è stato adottato dal legislatore in tema di discriminazione sessuale, anche in caso di licenziamento che si basa su un tale motivo discriminatorio - art. 4, comma 5, l. n. 125 del 1991 - imponendo al datore di lavoro un'inversione dell'onere della prova, dato che la prova diretta della discriminazione sessuale, posta in essere con comportamenti molesti, difficilmente può raggiungersi se non con presunzioni sia perché non sempre il comportamento molesto viene perpetrato in modo percepibile da persone diverse dal destinatario, sia perché non è facile raccogliere una testimonianza diretta e precisa in quanto chi ha assistito a tali comportamenti spesso non è in grado di comprenderne la valenza negativa e contraria al diritto ed è perciò restio a riferire su di essi (Pretura Milano, 27 maggio 1996, in Orient. giur. lav. 1996, 654). III. E’ inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, 3º comma, L. 30 dicembre 1971 n. 1204, nella parte in cui non rende applicabile alle lavoratrici addette ai servizi domestici il divieto di licenziamento nel periodo compreso tra l'inizio della gravidanza e il compimento di un anno di età del bambino, in riferimento agli artt. 3, 4, 29, 31, 35 e 37 Cost. (C. Cost., 15 marzo 1994 n. 86, in Foro It., 1994, I, 1318). IV. Può ritenersi «offensivo» il licenziamento che, per la forma o le modalità del suo esercizio, per le conseguenze morali o sociali che ne derivino, per le espressioni contenute o richiamate nell'atto di recesso, sia lesivo della personalità morale del lavoratore; tale licenziamento obbliga il datore di lavoro al risarcimento del danno in base al combinato disposto degli art. 41, 2º comma, cost., e 2043 c.c., essendo ravvisabile un danno-evento, derivante dalla semplice violazione della dignità umana e direttamente risarcibile prescindendo da un’effettiva diminuzione patrimoniale del soggetto leso o dall'esistenza di un danno morale, rilevante solo nell'ipotesi di reato (art. 2059 c.c.). Nel caso, la lavoratrice era stata licenziata, dopo la morte del figlio, per 161 assenza ingiustificata (Pret. Ferrara, 25 novembre 1993, in Riv. It. Dir. Lav., 1994, II, 555). V. Il licenziamento della lavoratrice intimato entro un anno dalla celebrazione del matrimonio e fuori dalle ipotesi previste dalle lett. a), b) e c), 2º comma, art. 3 l. n. 860/1950, non è nullo ma temporaneamente inefficace fino alla scadenza dell'anno sicché alla lavoratrice spetta esclusivamente il risarcimento del danno nella misura delle retribuzioni mancanti (Pret. Milano, 18 novembre 1993, in Orient. Giur. Lav., 1994, 130). 3. Discriminazione indiretta I. Costituisce discriminazione sessuale indiretta di natura collettiva nell'ambito della progressione in carriera, la richiesta, ai fini del conseguimento della qualifica superiore al quarto livello (c.c.n.l. settore metalmeccanico), di un titolo di studio di scuola tecnica superiore, trattandosi di un requisito che, seppure di carattere formalmente neutro, è riferibile solo al personale di sesso maschile, ove non risulti dimostrata l’incidenza di tale requisito sulla capacità a svolgere le mansioni superiori. Nella specie, la società resistente non aveva mosso alcuna contestazione in ordine alle risultanze della prova statistica -fornita dalle ricorrenti ai sensi dell'art. 4 comma 5 l. n. 125 del 1991- nè addotto alcuna prova al fine di dimostrare l'insussistenza della discriminazione (Trib. Catania, 22 novembre 2000, in Foro It., 2001, I, 1778). II. Il criterio adottato dall'amministrazione -secondo cui “tra coloro i quali abbiano manifestato la propria disponibilità ad essere utilizzati in progetti per i lavori socialmente utili, nell’ambito della quota di fondo assegnata, le circoscrizioni provvederanno ad avviare i lavoratori, uomini e donne, in proporzione alle rispettive percentuali di disoccupazione”- rappresenta una forma di discriminazione indiretta, in quanto si traduce in un oggettivo pregiudizio per le lavoratrici di sesso femminile; esso, infatti, costituisce solo apparentemente un criterio neutrale ed egualitario, ma è sostanzialmente discriminante in quanto posseduto dalle donne in misura inferiore agli uomini. Nella maggior parte dei casi, soprattutto nei comuni del sud Italia, la percentuale degli iscritti nelle liste dei disoccupati è maggiore fra gli uomini che fra le donne (T.A.R. 162 Calabria, sez. Reggio Calabria, 10 marzo 1999 n. 312, in Foro Amm., 1999, 1900). III. Nel caso di specie, un’impresa addetta a un servizio di trasporto urbano o metropolitano ha indetto due procedimenti di selezione per mansioni di autista di linea: nel primo -previsto per la scelta di 50 conducenti da assumere con contratti di formazione e a tempo parziale- era richiesto al momento della presentazione della domanda il possesso della patente di abilitazione alla guida D o DE e il certificato di abilitazione professionale; nel secondo -promosso in vista della eventuale copertura dei posti di autista che sarebbero risultati vacanti nel futuro- non erano prescritti i medesimi titoli, che avrebbero dovuto essere documentati dal candidato solo al momento eventuale dell'assunzione con contratto di formazionelavoro. Il giudice ha ravvisato in questo caso una discriminazione indiretta nei confronti delle donne ex art. 4 l. n. 125 del 1991, in quanto, per un verso, i due avvisi di selezione erano differenziati per numero di posti, requisiti di ricevibilità della domanda e tempo di utilizzo delle graduatorie; per altro verso, i dati statistici mostravano che solo dove era stato consentito di poter conseguire il possesso della abilitazione alla guida D o DE e il certificato di abilitazione professionale al momento dell’assunzione, dopo lo svolgimento delle selezioni, il numero delle donne che sono riuscite a diventare “autiste di linea” è stato abbastanza rilevante. In base all'art. 4, comma 5, l. n. 125 del 1991, la legge attribuisce alla prova statistica il valore di elemento presuntivo idoneo a individuare fattispecie di discriminazioni indirette e collettive in ragioni del sesso. A norma dell'art. 15 l. n. 903 del 1977 i Consiglieri regionali di parità sono legittimati a denunciare atti di discriminazione di genere nell'assunzione dei lavoratori: sono essi i principali promotori delle azioni positive volte alla realizzazione della parità uomo donna ex art. 1 l. n. 125 del 1991. Anche alle organizzazioni sindacali, a norma dell'art. 15 l. n. 903 del 1977, è riconosciuta la facoltà di impugnare un provvedimento che si assuma diretto a violare il divieto legislativo di discriminazione fondata sul sesso in materia di accesso sul lavoro (Pret. Bologna, 27 giugno 1998, in Riv. Giur. Lav., 1999, II, 217). IV. Affinchè possa realizzarsi una discriminazione indiretta, ai sensi dell'art. 4 l. 10 aprile 991 n. 125, è necessaria la sussistenza di criteri che pregiudichino i lavoratori di uno dei due sessi e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento della prestazione 163 lavorativa. Nella specie il giudicante ha escluso la ricorrenza di una tale discriminazione nell'accesso alla categoria dirigenziale di una donna, in quanto il datore di lavoro aveva adottato criteri essenziali alla prestazione di la voro del dirigente (Pret. Milano, 16 luglio 1994, in Giur. It., 1995, I, 2, 745). 4. Atti discriminatori I. Costituisce discriminazione ai sensi dell'art. 4 l. n. 223 del 1991e dell'art. 1 l. n. 903 del 1977, sanzionabile ai sensi della procedura sommaria prevista dall'art. 15 l. n. 903 del 1977, il comportamento del datore di lavoro che impedisce ad una lavoratrice in stato di gravidanza la frequenza a un corso di formazione esterna, non avente carattere pericoloso, faticoso o insalubre, adducendo quale motivazione dell'esclusione il divieto di cui all'art. 4 l. n. 1204 del 1971 (Trib. Teramo, 3 dicembre 1999, in Lav. Giur., 2000, 353). II. Ai fini dell’accertamento della discriminatorietà del comportamento del datore di lavoro, ex art. 1 L. 9 dicembre 1977 n. 903 sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, non è sufficiente addurre il mero dato oggettivo della assoluta mancanza di donne tra il personale assunto, essendo invece necessario dimostrare in modo inequivocabile la sussistenza di un intento discriminatorio in capo al datore di lavoro. Nel caso di specie l'azienda aveva assunto con contratto di formazione e lavoro 250 lavoratori tutti di sesso maschile, non convocando in azienda nè sottoponendo a colloquio o altra forma di selezione nessuna, o solo alcuna, delle donne che avevano presentato domanda di assunzione (Pret. Pomigliano D’Arco, 20 marzo 1990, in Giust. civ., 1991, I, p.1065). III. L'art. 1 della L. 9 dicembre 1977 n. 903 (sulla parità di trattamento fra uomini e donne in materia di lavoro), nel vietare qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l'accesso al lavoro, si riferisce non solo all'ipotesi di discriminazione attuata nel corso di un rapporto di lavoro già costituito ma anche all'ipotesi di discriminazione attuata nella fase di assunzione, come evidenziato, in particolare, dalla formulazione dell'ultimo comma dello stesso articolo (che esclude l'operatività del divieto con riguardo alla assunzione per determinate attività), con la conseguenza che il rimedio previsto dall'art. 15 della stessa legge è esperibile anche avverso un atto discriminatorio attuato in fase di assunzione, in relazione al quale il 164 pretore, nell'ambito dell'ordine di rimozione degli effetti lesivi dell'atto medesimo, può anche accertare e liquidare il danno subito dal lavoratore discriminato (Cass. civile, sez. lav., 2 marzo 1989 n. 1168, in Orient. giur. lav., 1989, p. 339). 5. Lavoro notturno I. La norma nazionale che pone il divieto di lavoro notturno femminile (art. 5 l. n. 903 del 1977), in quanto contrastante con il principio comunitario di parità di trattamento fra lavoratori di sesso diverso introdotto dall'art. 5 n. 2, della direttiva 76/207/Cee, deve essere disapplicata dal giudice penale, ferma restando l’applicazione del divieto assoluto per le lavoratrici madri, dall’accertamento della gravidanza fino al compimento di un anno di vita del bambino settimo mese per i fatti avvenuti prima dell'entrata in vigore della l. n. 25 del 1999 (Cass., III sez. penale, 1 luglio 1999 n. 9983, in Foro It., 2000, II, 14). II. La norma nazionale che pone il divieto di lavoro notturno femminile (art. 5 l. n. 903 del 1977), ancorchè contrastante con il principio comunitario di parità di trattamento fra lavoratori di sesso diverso introdotto dall'art. 5 n. 2, della direttiva comunitaria n. 76/207/Cee, non può essere disapplicata dal giudice di merito in sede di risoluzione di una controversia fra le parti private del rapporto di lavoro (Cass., sez. lav., 20 novembre 1997 n. 11571, in Foro It. 1998, I, 444). III. L'art. 1 l. n. 903/1977, sulla parità uomo-donna in materia di lavoro, che vieta qualsiasi discriminazione fondata sul sesso nell'accesso al lavoro, disciplina il momento costitutivo del rapporto, mentre l'art. 5 della stessa legge, recante il divieto per l'imprenditore di adibire il personale femminile a turni di lavoro notturni, presuppone già costituito il rapporto, con la conseguenza che le due disposizioni non presentano interferenze né incompatibilità, operando ciascuna in un ambito diverso: è pertanto illegittimo, nel caso di azienda strutturata con ritmi di lavoro implicanti necessariamente l'inserimento dei dipendenti in turni notturni, il rifiuto del datore di lavoro di assumere personale femminile (Pret. Roma, 20 gennaio 1994, in Giur. lav. Lazio, 1994, 363). 165 IV. L’art. 5 della direttiva comunitaria n. 76/207 che, secondo l'interpretazione della Corte di giustizia, inibisce agli Stati membri l'adozione di una disciplina che vieti il lavoro notturno femminile, anche se temperato dalla previsione di deroghe è applicabile anche nei rapporti fra privati con prevalenza rispetto alla norma interna contrastante (art. 5 L. 903 del 1977), che deve pertanto essere disapplicata (Pret. Matera, 14 settembre 1994, in Riv. it. dir. lav., 1995, II, p. 554 con nota di Carinci). V. Il contratto collettivo (nazionale, provinciale o aziendale), cui l'art. 5, comma 2, della L. 9 dicembre 1977 n. 903 (sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro) riserva in via esclusiva la possibilità di diversa disciplina o di rimozione del divieto (stabilito dal precedente comma 1 in relazione alle aziende manifatturiere, anche artigianali) di adibire le donne (eccettuate quelle che svolgono mansioni direttive e le addette ai servizi sanitari aziendali) al lavoro notturno (dalle ore 24 alle ore 6), è vincolante solo per i soggetti iscritti alla parte sindacale stipulante; ed in tale ambito -una volta esauriti, secondo la dialettica interna propria dell'organismo collettivo, i processi interni di formazione delle scelte negoziali del sindacato- il dissenso dei singoli iscritti, espresso in costanza d'iscrizione al sindacato, è improduttivo di effetti (indipendentemente dalla circostanza che esso sia o non portato a conoscenza della parte datoriale direttamente interessata) sul contratto collettivo, la cui legittimità, in relazione all'esigenza (presupposta dalla norma) di un'organizzazione del lavoro tale da rendere compatibile il lavoro notturno con la tutela della salute e della sicurezza della donna, deve essere di volta in volta verificata dal giudice con apposita indagine di merito (Cass. civile, sez. lav., 24 aprile 1993, n. 4802, in Riv. giur. lav., 1993, II, p. 476 con nota di Assanti). 6. Retribuzione I. Sussistono gravi, precisi e concordanti indizi di discriminazione in base al sesso in danno di una lavoratrice responsabile della comunicazione di marketing, cui non è stata accordata la dirigenza, qualora, fra l'altro, risulti: che tutti i lavoratori come lei dipendenti dall'amministratore delegato «con incarichi di un certo rilievo» erano inquadrati come dirigenti; che lo svolgimento di mansioni attinenti, come quelle a lei affidate, all'immagine della società (comunicazione, 166 pubbliche relazioni ecc.) era riservato nella società del gruppo a dirigenti maschi; che su duemila dipendenti della società solo cento erano donne, fra le quali una sola inquadrata come dirigente a fronte di circa cinquanta dirigenti maschi; una volta accertata la discriminazione in base al sesso, essa deve essere rimossa ope iudicis con pronuncia che dichiari, nella specie, la spettanza della qualifica dirigenziale e condanni la datrice di lavoro al pagamento delle relative differenze retributive (Pret. Milano, 22 novembre 1993, in Riv. It. Dir. Lav., 1994, II, 703). II. La prassi aziendale di corrispondere, in occasione della festa della donna, tre ore aggiuntive di retribuzione alle sole dipendenti di sesso femminile, costituisce uso negoziale legittimo, non assorbibile negli aumenti collettivi, e non inficiato dalla nullità prevista dall'art. 16 l. 20 maggio 1970 n. 300, per i trattamenti economici di maggior favore, aventi carattere discriminatorio (Trib. Milano, 8 settembre 1993, in Riv. Critica Dir. Lav., 1994, 174). III. La norma dell'art. 20 L. 7 dicembre 1959 n. 1083, che riconosce al personale del corpo di polizia femminile l'indennità di servizio speciale e l'indennità speciale di pubblica sicurezza in misura ridotta rispetto al corrispondente personale maschile del corpo delle guardie di p.s., non è stata abrogata dall'art. 2 L. 9 dicembre 1977 n. 903, che stabilisce la parità di retribuzione fra uomini e donne. Siffatta abrogazione, peraltro, è stata espressamente operata dall'art. 144, comma 3 L. 11 luglio 1980 n. 312 (Nuovo assetto retributivofunzionale dei dipendenti civili e militari dello Stato), con la conseguenza che solo a partire dall'entrata in vigore di tale legge le menzionate indennità competono in misura integrale alle donne del corpo di polizia femminile (Cons. Stato, sez.IV, 6 giugno 1983 n. 394, in Riv. giur. lav., 1984, II, p. 433). 7. Competenza I. La giurisdizione di una controversia in materia di discriminazione ex art. 15 l. n. 903 del 1977, insorta dopo il 30 giugno 1998 tra una lavoratrice dipendente dal Ministero di grazia e giustizia appartiene alla cognizione del giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro (Trib. Teramo, 3 dicembre 1999, in Lav. Giur., 2000, 353). 167 NORMATIVA a cura di Domenica Marianna Lomazzo 1) Costituzione della Repubblica Italiana :- Artt. 3, 37,51…pag. 169 2) Legge 9 dicembre 1977 ,n° 903 “Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”……………………………. pag. 170 3) Legge 10 aprile 1991 ,n° 125 “Azioni positive per la realizzazione della parità uomo donna nel lavoro “………………….. pag. 177 4) Legge 8 marzo 2000.,n° 53 :- “Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità , per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi della città “pag. 189 5) Decreto legislativo 23 maggio 2000, n° 196 :- “Disciplina dell’attività delle consigliere e dei consiglieri di parità e disposizioni in materia di azioni positive , a norma dell’art. 47, comma 1 della legge 17 maggio, n.144”………………..pag. 210 6) Decreto legislativo 9 luglio 2003 , n° 215 :- “Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente della razza e dall’origine etnica”…. pag. 226 7) Decreto legislativo 9 luglio 2003, n° 216 :- “ Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro “………………..pag. 249 168 Dalla Costituzione della Repubblica Italiana. Art. 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Art. 37. La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato. La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione. Art. 51. Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini. La legge può, per l’ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica. Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro. 169 Legge 903/77 - LA NORMATIVA SUL LAVORO LEGGE 903/77 "PARITA' DI TRATTAMENTO TRA UOMINI E DONNE IN MATERIA DI LAVORO" Art. 1. E' vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l'accesso al lavoro indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale. La discriminazione di cui al comma precedente è vietata anche se attuata: 1) attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza; 2) in modo indiretto, attraverso meccanismi di preselezione ovvero a mezzo stampa o con qualsiasi altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale l'appartenenza all'uno o all'altro sesso. Il divieto di cui ai commi precedenti si applica anche alle iniziative in materia di orientamento, formazione, perfezionamento e aggiornamento professionale, per quanto concerne sia l'accesso sia i contenuti. Eventuali deroghe alle disposizioni che precedono sono ammesse soltanto per mansioni di lavoro particolarmente pesanti individuate attraverso la contrattazione collettiva. Non costituisce discriminazione condizionare all'appartenenza ad un determinato sesso l'assunzione in attività della moda, dell'arte e dello spettacolo, quando ciò sia essenziale alla natura del lavoro o della prestazione. Art. 2. La lavoratrice ha diritto alla stessa retribuzione del lavoratore quando le prestazioni richieste siano uguali o di pari valore. I sistemi di classificazione professionale ai fini della determinazione delle retribuzioni debbono adottare criteri comuni per uomini e donne. Art. 3. E' vietata qualsiasi discriminazione fra uomini e donne per quanto riguarda l'attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e la progressione nella carriera. 170 Le assenze dal lavoro, previste dagli articoli 4 e 5 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, sono considerate, ai fini della progressione nella carriera, come attività lavorativa, quando i contratti collettivi non richiedano a tale scopo particolari requisiti. Art. 4. Le lavoratrici, anche se in possesso dei requisiti per aver diritto alla pensione di vecchiaia, possono optare di continuare a prestare la loro opera fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali, previa comunicazione al datore di lavoro da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto alla pensione di vecchiaia. Per le lavoratrici che alla data di entrata in vigore della presente legge prestino ancora attività lavorativa pur avendo maturato i requisiti per avere diritto alla pensione di vecchiaia, si prescinde dalla comunicazione al datore di lavoro di cui al comma precedente. La disposizione di cui al primo comma si applica anche alle lavoratrici che maturino i requisiti previsti entro i tre mesi successivi alla entrata in vigore della presente legge. In tal caso la comunicazione al datore di lavoro dovrà essere effettuata non oltre la data in cui i predetti requisiti vengono maturati. Nelle ipotesi di cui ai commi precedenti si applicano alle lavoratrici le disposizioni della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modifiche ed integrazioni, in deroga all'articolo 11 della legge stessa. Art. 5. Nelle aziende manifatturiere, anche artigianali, è vietato adibire le donne al lavoro dalle ore 24 alle ore 6. Tale divieto non si applica alle donne che svolgono mansioni direttive, nonché alle addette ai servizi sanitari aziendali. Il divieto di cui al comma precedente può essere diversamente disciplinato, o rimosso, mediante contrattazione collettiva, anche aziendale, in relazione a particolari esigenze della produzione e tenendo conto delle condizioni ambientali del lavoro e dell'organizzazione dei servizi. Della relativa regolamentazione le parti devono congiuntamente dare comunicazione entro quindici giorni all'ispettorato del lavoro, precisando il numero delle lavoratrici interessate. Il divieto di cui al primo comma non ammette deroghe per le donne dall'inizio dello stato di gravidanza e fino al compimento del settimo mese di età del bambino. 171 Art. 6. Le lavoratrici che abbiano adottato bambini, o che li abbiano ottenuti in affidamento preadottivo, ai sensi dell'articolo 314/20 del codice civile, possono avvalersi, sempre ché in ogni caso il bambino non abbia superato al momento dell'adozione o dell'affidamento i sei anni di età, dell'astensione obbligatoria dal lavoro di cui all'articolo 4, lettera c), della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, e del trattamento economico relativo, durante i primi tre mesi successivi all'effettivo ingresso del bambino nella famiglia adottiva o affidataria. Le stesse lavoratrici possono altresì avvalersi del diritto di assentarsi dal lavoro di cui all'articolo 7, primo comma, della legge di cui sopra entro un anno dall'effettivo ingresso del bambino nella famiglia e sempre ché il bambino non abbia superato i tre anni di età, nonché del diritto di assentarsi dal lavoro previsto dal secondo comma dello stesso articolo 7. Art. 7. Il diritto di assentarsi dal lavoro e il trattamento economico previsti rispettivamente dall'art. 7 e dal secondo comma, dell'art. 15, L. 30 dicembre 1971, n. 1204, sono riconosciuti anche al padre lavoratore anche se adottivo o affidatario ai sensi dell'art. 314/20 del codice civile in alternativa alla madre lavoratrice ovvero quando i figli siano affidati al solo padre. A tal fine, il padre lavoratore presenta al proprio datore di lavoro una dichiarazione da cui risulti la rinuncia dell'altro genitore ad avvalersi dei diritti di cui sopra, nonché nel caso di cui al secondo comma dell'articolo 7 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 il certificato medico attestante la malattia del bambino. Nel caso di cui al primo comma dell'articolo 7 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, il padre lavoratore, entro dieci giorni dalla dichiarazione di cui al comma precedente, deve altresì presentare al proprio datore di lavoro una dichiarazione del datore di lavoro dell'altro genitore da cui risulti l'avvenuta rinuncia. Le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano ai padri lavoratori, compresi gli apprendisti, che prestino la loro opera alle dipendenze di privati datori di lavoro, nonché alle dipendenze delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, delle regioni, delle province, dei comuni, degli altri enti pubblici, anche a carattere economico, e delle società cooperative, anche se soci di queste ultime. Sono esclusi i lavoratori a domicilio e gli addetti ai servizi domestici e familiari (2). 172 (2) La Corte costituzionale con sentenza 14-19 gennaio 1987, n. 1 (Gazz. Uff. 28 gennaio 1987, n. 5 - Serie speciale), ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 7, L. 9 dicembre 1977, n. 903, nella parte in cui non prevede che il diritto all'astensione dal lavoro e il diritto al godimento dei riposi giornalieri, riconosciuti alla sola madre lavoratrice, rispettivamente dagli artt. 6, L. 9 dicembre 1977, n. 903, 4, lett. c), e 10, L. 31 dicembre 1971, n. 1204, siano riconosciuti anche al padre lavoratore ove l'assistenza della madre al minore sia divenuta impossibile per decesso o grave infermità. Con altra sentenza 11-15 luglio 1991, n. 341 (Gazz. Uff. 24 luglio 1991, n. 29 - Serie speciale), la Corte ha dichiarato l'illegittimità del primo comma dell'art. 7, nella parte in cui non consente al lavoratore, affidatario di minore ai sensi dell'art. 10, L. 4 maggio 1983, n. 184, l'astensione dal lavoro durante i primi tre mesi successivi all'effettivo ingresso del bambino nella famiglia affidataria, in alternativa alla moglie lavoratrice. La stessa Corte, con sentenza 2-21 aprile 1993, n. 179 (Gazz. Uff. 28 aprile 1993, n. 18 - Serie speciale), ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 7, nella parte in cui non estende, in via generale ed in ogni ipotesi, al padre lavoratore, in alternativa alla madre lavoratrice consenziente, il diritto ai riposi giornalieri previsti dall'art. 10, legge 30 dicembre 1971, n. 1204, per l'assistenza al figlio nel suo primo anno di vita. Art. 8. Per i riposi di cui all'articolo 10 della legge 30 gennaio 1971, n. 1204, con effetto dal 1° gennaio 1978, è dovuta dall'ente assicuratore di malattia, presso il quale la lavoratrice è assicurata, un'indennità pari all'intero ammontare della retribuzione relativa ai riposi medesimi. L'indennità è anticipata dal datore di lavoro ed è portata a conguaglio con gli apporti contributivi dovuti all'ente assicuratore. All'onere derivante agli enti di malattia per effetto della disposizione di cui al primo comma, si fa fronte con corrispondenti apporti dello Stato. A tal fine gli enti di malattia tengono apposita evidenza contabile. Art. 9. Gli assegni familiari, le aggiunte di famiglia e le maggiorazioni delle pensioni per familiari a carico possono essere corrisposti, in alternativa, alla donna lavoratrice o pensionata alle stesse condizioni e con gli stessi limiti previsti per il lavoratore o pensionato. Nel caso di richiesta di entrambi i genitori gli assegni familiari, le aggiunte di famiglia e le maggiorazioni delle pensioni per familiari a carico debbono essere corrisposti al genitore con il 173 quale il figlio convive. Sono abrogate tutte le disposizioni legislative che siano in contrasto con la norma di cui al comma precedente. Art. 10. Alla lettera b) dell'art. 205 del testo unico delle disposizioni per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, approvate con D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, le parole «loro mogli e figli» sono sostituite con le parole «loro coniuge e figli». Art. 11. Le prestazioni ai superstiti, erogate dall'assicurazione generale obbligatoria, per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, gestita dal Fondo pensioni per i lavoratori dipendenti, sono estese, alle stesse condizioni previste per la moglie dell'assicurato o del pensionato, al marito dell'assicurata o della pensionata deceduta posteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge (3). La disposizione di cui al precedente comma si applica anche ai dipendenti dello Stato e di altri enti pubblici nonché in materia di trattamenti pensionistici sostitutivi ed integrativi dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti e di trattamenti a carico di fondi, gestioni ed enti istituiti per lavoratori dipendenti da datori di lavoro esclusi od esonerati dall'obbligo dell'assicurazione medesima, per lavoratori autonomi e per liberi professionisti. (3) La Corte costituzionale, con sentenza 25-30 gennaio 1980, n. 6 (Gazz. Uff. 6 febbraio 1980, n. 36), ha dichiarato: a) l'illegittimità dell'art. 13, R.D.L. 14 aprile 1939, n. 636, convertito nella L. 6 luglio 1939, n. 1272, sostituito con l'art. 2, L. 4 aprile 1952, n. 218, e con l'art. 22, L. 21 luglio 1965, n. 903, nella parte in cui (comma quinto) stabilisce che «se superstite è il marito la pensione è corrisposta solo nel caso che esso sia riconosciuto invalido al lavoro ai sensi del primo comma dell'art. 10»; b) d'ufficio, ai sensi dell'art. 27, L. 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità dell'art. 11, comma primo, L. 9 dicembre 1977, n. 903, limitatamente alle parole «deceduta posteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge». Art. 12. Le prestazioni ai superstiti previste dal testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le mala ttie professionali, approvato con D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, e della legge 5 174 maggio 1976, n. 248, sono estese alle stesse condizioni stabilite per la moglie del lavoratore al marito della lavoratrice deceduta posteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge (4). (4) La Corte costituzionale, con sentenza 24 aprile 1986, n. 117 (Gazz. Uff. 7 maggio 1986, n. 20 - Serie speciale), ha dichiarato l'illegittimità del presente art. 12 limitatamente alle parole «deceduta posteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge». 13. (5). (5) Sostituisce l'ultimo comma dell'art. 15, L. 20 maggio 1970, n. 300. Art. 14. Alle lavoratrici autonome che prestino lavoro continuativo nell'impresa familiare è riconosciuto il diritto di rappresentare l'impresa negli organi statutari delle cooperative, dei consorzi e di ogni altra forma associativa. Art. 15. Qualora vengano posti in essere comportamenti diretti a violare le disposizioni di cui agli articoli 1 e 5 della presente legge, su ricorso del lavoratore o per sua delega delle organizzazioni sindacali, il pretore del luogo ove è avvenuto il comportamento denunziato, in funzione di giudice del lavoro, nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, se ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, ordina all'autore del comportamento denunciato, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti. L'efficacia esecutiva del decreto non può essere revocata fino alla sentenza con cui il pretore definisce il giudizio instaurato a norma del comma seguente. Contro il decreto è ammessa entro quindici giorni dalla comunicazione alle parti opposizione davanti al pretore che decide con sentenza immediatamente esecutiva. Si osservano le disposizioni degli articoli 413 e seguenti del codice di procedura civile. L'inottemperanza al decreto di cui al primo comma o alla sentenza pronunciata nel giudizio di opposizione è punita ai sensi dell'artic olo 650 del codice penale. Ove le violazioni di cui al primo comma riguardino dipendenti pubblici si applicano le norme previste in materia di sospensione dell'atto dell'art. 21, ultimo comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034. 175 Art. 16. L'inosservanza delle disposizioni contenute negli articoli 1, primo, secondo e terzo comma, 2, 3 e 4 della presente legge, è punita con l'ammenda da lire 200.000 a lire 1.000.000. L'inosservanza delle disposizioni contenute nell'articolo 5 è punita con l'ammenda da lire 20.000 a lire 100.000 per ogni lavoratrice occupata e per ogni giorno di lavoro, con un minimo di lire 400.000 (6). Per l'inosservanza delle disposizioni di cui agli articoli 6 e 7 si applicano le penalità previste dall'articolo 31 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204. (6) A norma dell'art. 27 c.p. le pene proporzionali non hanno limite massimo. Art. 17. Agli oneri derivanti dall'applicazione degli articoli 9 e 11 della presente legge, valutati, in ragione d'anno, rispettivamente in 10 ed in 18 miliardi di lire, si provvede per l'anno finanziario 1977 con un'aliquota delle maggiori entrate di cui al decreto-legge 8 ottobre 1976, n. 691, convertito nella legge 30 novembre 1976, n. 786, concernente modificazioni al regime fiscale di alcuni prodotti petroliferi e del gas metano per autotrazione. Il Ministro per il tesoro è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio. Art. 18. Il Governo è tenuto a presentare ogni anno al Parlamento una relazione sullo stato di attuazione della presente legge. Art. 19. Sono abrogate tutte le disposizioni legislative in contrasto con le norme della presente legge. In conseguenza, cessano di avere efficacia le norme interne e gli atti di carattere amministrativo dello Stato e degli altri enti pubblici in contrasto con le disposizioni della presente legge. Sono altresì nulle le disposizioni dei contratti collettivi o individuali di lavoro, dei regolamenti interni delle imprese e degli statuti professionali che siano in contrasto con le norme contenute nella presente legge. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. 176 Legge 10 aprile 1991, n. 125 Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna ne l lavoro art. 1 (Finalità) 1. Le disposizioni contenute nella presente legge hanno lo scopo di favorire l'occupazione femminile e di realizzare, l'uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro, anche mediante l'adozione di misure, denominate azioni positive per le donne, al fine di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità. 2. Le azioni positive di cui al comma 1 hanno in particolare lo scopo di: a) eliminare le disparità di fatto di cui le donne sono oggetto nella formazione scolastica e professionale, nell'accesso al lavoro, nella progressione di carriera, nella vita lavorativa e nei periodi di mobilità; b) favorire la diversificazione delle scelte professionali delle donne in particolare attraverso l'orientamento scolastico e professionale e gli strumenti della formazione; favorire l'accesso al lavoro autonomo e alla formazione imprenditoriale e la qualificazione professionale delle lavoratrici autonome e delle imprenditrici; c) superare condizioni, organizzazione e distribuzione del lavoro che provocano effetti diversi, a seconda del sesso, nei confronti dei dipendenti con pregiudizio nella formazione, nell'avanzamento professionale e di carriera ovvero nel trattamento economico e retributivo; d) promuovere l'inserimento delle donne nelle attività, nei settori professionali e nei livelli nei quali esse sono sottorappresentate e in particolare nei settori tecnologicamente avanzati ed ai livelli di responsabilità; e) favorire, anche mediante una diversa organizzazione del lavoro, delle condizioni e del tempo di lavoro, l'equilibrio tra responsabilità familiari e professionali e una migliore ripartizione di tali responsabilità tra i due sessi. 3. Le azioni positive di cui ai commi 1 e 2 possono essere promosse dal Comitato di cui all'articolo 5 e dai consiglieri di parità di cui all'articolo 8, dai centri per la parità e le pari opportunità a livello nazionale, locale e 177 aziendale, comunque denominati, dai datori di lavoro pubblici e privati, dai centri di formazione professionale, dalle organizzazioni sindacali nazionali e territoriali, anche su proposta delle rappresentanze sindacali aziendali o degli organismi rappresentativi del personale di cui all'articolo 25 della legge 29 marzo 1983, n. 93. Art. 2 (Attuazione di azioni positive, finanziamenti) 1. Le imprese, anche in forma cooperativa, i loro consorzi, gli enti pubblici economici, le associazioni sindacali dei lavoratori e i centri di formazione professionale che adottano i progetti di azioni positive di cui all'articolo 1, possono richiedere al Ministero del lavoro e della previdenza sociale di essere ammessi al rimborso totale o parziale di oneri finanziari connessi all'attuazione dei predetti progetti ad eccezione di quelli di cui all'articolo 3. 2. Il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sentito il Comitato di cui all'articolo 5, ammette i progetti di azioni positive al beneficio di cui al comma 1 e, con lo stesso provvedimento, autorizza le relative spese. L'attuazione dei progetti di cui al comma 1 deve comunque avere inizio entro due mesi dal rilascio dell'autorizzazione. 3. Con decreto emanato dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro del tesoro, sono stabilite le modalità di presentazione delle richieste, di erogazione dei fondi e dei tempi di realizzazione del progetto. In ogni caso i contributi devono essere erogati sulla base della verifica dell'attuazione del progetto di azioni positive, o di singole parti, in relazione alla complessità del progetto stesso. La mancata attuazione del progetto comporta la decadenza del beneficio e la restituzione delle somme eventualmente già riscosse. In caso di attuazione parziale, la decadenza opera limitatamente alla parte non attuata, la cui valutazione è effettuata in base ai criteri determinati dal decreto di cui al presente comma. 4. I progetti di azioni positive concordate dai datori di lavoro con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale hanno precedenza nell'accesso al beneficio di cui al comma 1. 5. L'accesso ai fondi comunitari destinati alla realizzazione di programmi o progetti di azioni positive, ad eccezione di quelli di cui all'articolo 3, è subordinato al parere del Comitato di cui all'articolo 5. 178 6. Entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le regioni, le province, i comuni e tutti gli enti pubblici non economici, nazionali, regionali e locali, sentiti gli organismi rappresentativi del personale di cui all'articolo 25 della legge 29 marzo 1983, n. 93, o in loro mancanza, le organizzazioni sindacali locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, sentito inoltre, in relazione alla sfera d'azione della propria attività, il Comitato di cui all'articolo 5 o il consigliere di parità di cui all'articolo 8, adottano piani di azioni positive tendenti ad assicurare, nel loro ambito rispettivo, la rimozione degli ostacoli che, di fatto, impediscono la piena realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel lavoro tra uomini e donne. Art. 3 (Finanziamento delle azioni positive realizzate mediante la formazione professionale) 1. Al finanziamento dei progetti di formazione finalizzati al perseguimento dell'obiettivo di cui all'articolo 1, comma 1, autorizzati secondo le procedure previste dagli articoli 25, 26 e 27 della legge 21 dicembre 1978, n. 845, ed approvati dal Fondo sociale europeo, è destinata una quota del fondo di rotazione istituito dall'articolo 25 della stessa legge, determinata annualmente con deliberazione del Comitato interministeriale per la programmazione economica. In sede di prima applicazione la predetta quota è fissata nella misura del dieci per cento. 2. La finalizzazione dei progetti di formazione al perseguimento dell'obiettivo di cui all'articolo 1, comma 1, viene accertata, entro il 31 marzo dell'anno in cui l'iniziativa deve essere attuata, dalla commissione regionale per l'impiego. Scaduto il termine, al predetto accertamento provvede il Comitato di cui all'articolo 5. 3. La quota del Fondo di rotazione di cui al comma 1 è ripartita tra le regioni in misura proporzionale all'ammontare dei contributi richiesti per i progetti approvati. Art. 4 (Azioni in giudizio) 1. Costituisce discriminazione, ai sensi della legge 9 dicembre 1977, n. 903, qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando anche in via indiretta i lavoratori in ragione del sesso. 179 2. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente alla adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori dell'uno o dell'altro sesso e riguardino i requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa. 3. Nei concorsi pubblici e nelle forme di selezione attuate da imprese private e pubbliche la prestazione richiesta deve essere accompagnata dalle parole "dell'uno o dell'altro sesso", fatta eccezione per i casi in cui il riferimento al sesso costituisca requisito essenziale per la natura del lavoro o della prestazione. 4. Chi intende agire in giudizio per la dichiarazione delle discriminazioni ai sensi dei commi 1 e 2 e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il tentativo di conciliazione ai sensi dell'articolo 410 del codice di procedura civile anche tramite il consigliere di parità di cui all'articolo 8, comma 2, competente per territorio. 5. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto - desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti - idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere della prova sulla insussistenza della discriminazione. 6. Qualora il datore di lavoro ponga in essere un atto o un comportamento discriminatorio di carattere collettivo, anche quando non siano individuabili in modo immediato e diretto i lavoratori lesi dalle discriminazioni, il ricorso può essere proposto dal consigliere di parità istituito al livello regionale, previo parere non vincolante del collegio istruttorio di cui all'articolo 7, da allegare al ricorso stesso, e sentita la commissione regionale per l'impiego. Decorso inutilmente il termine di trenta giorni dalla richiesta del parere al collegio istruttorio, il ricorso può essere comunque proposto. 7. Il giudice, nella sentenza che accerta le discriminazioni sulla base del ricorso presentato ai sensi del comma 6, ordina al datore di lavoro di definire, sentite le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, le organizzazioni sindacali locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale, nonché il consigliere 180 regionale per la parità competente per territorio, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. Nella sentenza il giudice fissa un termine per la definizione del piano. 8. In caso di mancata ottemperanza alla sentenza di cui al comma 7 si applica l'articolo 650 del codice penale richiamato dall'articolo 15 della legge 9 dicembre 1977, n. 903. 9. Ogni accertamento di atti o comportamenti discriminatori ai sensi dei commi 1 e 2, posti in essere da imprenditori ai quali siano stati accordati benefici ai sensi delle vigenti leggi dello Stato, ovvero che abbiano stipulato contratti di appalto attinenti all'esecuzione di opere pubbliche, di servizi o di forniture, viene comunicato immediatamente dall'ispettorato del lavoro ai Ministri nelle cui amministrazioni sia stata disposta la concessione del beneficio o dell'appalto. Questi adottano le opportune determinazioni, ivi compresa, se necessario, la revoca del beneficio e, nei casi più gravi o nel caso di recidiva, possono decidere l'esclusione del responsabile per un periodo di tempo fino a due anni da qualsiasi ulteriore concessione di agevolazioni finanziarie o creditizie ovvero da qualsiasi appalto. Tale disposizione si applica anche quando si tratti di agevolazioni finanziarie o creditizie ovvero di appalti concessi da enti pubblici, ai quali l'ispettorato del lavoro comunica direttamente la discriminazione accertata per l'adozione delle sanzioni previste. 10. Resta fermo quanto stabilito dall'articolo 15 della legge 9 dicembre 1977, n. 903. Art. 5 (Comitato nazionale per l'attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici) 1. Al fine di promuovere la rimozione dei comportamenti discriminatori per sesso e di ogni altro ostacolo che limiti di fatto l'uguaglianza delle donne nell'accesso al lavoro e sul lavoro e la progressione professionale e di carriera è istituito, presso il Ministero del lavoro e della previdenza sociale, il Comitato nazionale per l'attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici. 2. Fanno parte del Comitato: 181 a) il Ministro del lavoro e della previdenza socia le o, per sua delega, un Sottosegretario di Stato, con funzioni di presidente; b) cinque componenti designati dalle confederazioni sindacali dei lavoratori maggiormente rappresentative sul piano nazionale; c) cinque componenti designati dalle confederazioni sindacali dei datori di lavoro dei diversi settori economici, maggiormente rappresentative sul piano nazionale; d) un componente designato unitariamente dalle associazioni di rappresentanza, assistenza e tutela del movimento cooperativo più rappresentative sul piano nazionale; e) undici componenti designati dalle associazioni e dai movimenti femminili più rappresentativi sul piano nazionale operanti nel campo della parità e delle pari opportunità nel lavoro; f) il consigliere di parità componente la commissione centrale per l'impiego. 3. Partecipano, inoltre, alle riunioni del Comitato, senza diritto di voto: a) sei esperti in materie giuridiche, economiche e sociologiche, con competenze in materia di lavoro; b) cinque rappresentanti, rispettivamente, dei Ministeri della pubblica istruzione, di grazia e giustizia, degli affari esteri, dell'industria, del commercio e dell'artigianato, del Dipartimento della funzione pubblica; c) cinque funzionari del Ministero del lavoro e della previdenza sociale con qualifica non inferiore a quella di primo dirigente, in rappresentanza delle Direzioni generali per l'impiego, dei rapporti di lavoro, per l'osservatorio del mercato del lavoro, della previdenza ed assistenza sociale nonché dell'ufficio centrale per l'orientamento e la formazione professionale dei lavoratori. 4. I componenti del Comitato durano in carica tre anni e sono nominati dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Per ogni componente effettivo è nominato un supplente. 182 5. Il Comitato è convocato, oltre che ad iniziativa del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, quando ne facciano richiesta metà più uno dei suoi componenti. 6. Il Comitato delibera in ordine al proprio funzionamento e a quello del collegio istruttorio e della segreteria tecnica di cui all'art. 7, nonché in ordine alle relative spese. 7. Il vicepresidente del Comitato è designato dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale nell'ambito dei suoi componenti. Art. 6 (Compiti del Comitato) 1. Per il perseguimento delle finalità di cui all'art. 5, comma 1, il Comitato adotta ogni iniziativa utile ed in particolare: a) formula proposte sulle questioni generali relative all'attuazione degli obiettivi della parità e delle pari opportunità, nonché per lo sviluppo e il perfezionamento della legislazione vigente che direttamente incide sulle condizioni di lavoro delle donne; b) informa e sensibilizza l'opinione pubblica sulla necessità di promuovere le pari opportunità per le donne nella formazione e nella vita lavorativa; c) promuove l'adozione di azioni positive da parte delle istituzioni pubbliche preposte alla politica del lavoro, nonché da parte dei soggetti di cui all'art. 2; d) esprime, a maggioranza, parere sul finanziamento dei progetti di azioni positive ed opera il controllo sui progetti in itinere verificandone la corretta attuazione e l'esito finale; e) elabora codici di comportamento diretti a specificare le regole di condotta conformi alla parità e ad individuare le manifestazioni anche indirette delle discriminazioni; f) verifica lo stato di applicazione della legislazione vigente in materia di parità; 183 g) propone soluzioni alle controversie collettive, anche indirizzando gli interessati all'adozione di piani di azioni positive per la rimozione delle discriminazioni pregresse e la creazione di pari opportunità per le lavoratrici; h) può richiedere all'ispettorato del lavoro di acquisire presso i luoghi di lavoro informazioni sulla situazione occupazionale maschile e femminile, in relazione allo stato delle assunzioni, della formazione e promozione professionale; i) promuove una adeguata rappresentanza di donne negli organismi pubblici nazionali e locali competenti in materia di lavoro e formazione professionale; l) redige il rapporto di cui all'art. 10. Art. 7 (Collegio istruttorio e segreteria tecnica) 1. Per l'istruzione degli atti relativi alla individuazione e alla rimozione delle discriminazioni e per la redazione dei pareri al comitato di cui all'articolo 5 e ai consiglieri di parità, è istituito un collegio istruttorio così composto: a) il vicepresidente del Comitato di cui all'articolo 5, che lo presiede; b) un magistrato designato dal Ministero di grazia e giustizia fra quelli che svolgono funzioni di giudice del lavoro; c) un dirigente superiore del ruolo dell'ispettorato del lavoro; d) gli esperti di cui all'articolo 5, comma 3, lettera a); e) il consigliere di parità di cui all'articolo 8, comma 4. 2. Ove si renda necessario per le esigenze di ufficio, i componenti di cui alle lettere b) e c) del comma 1, su richie sta del Comitato di cui all'articolo 5 possono essere elevati a due. 3. Al fine di provvedere alla gestione amministrativa ed al supporto tecnico del comitato e del collegio istruttorio è istituita la segreteria tecnica. Essa ha compiti esecutivi alle dipendenze della presidenza del Comitato ed è composta di personale proveniente dalle varie direzioni generali del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, coordinato da un dirigente 184 generale del medesimo Ministero. La composizione della segreteria tecnica è determinata con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sentito il Comitato. 4. Il Comitato ha facoltà di deliberare in ordine la stipula di convenzioni per la effettuazione di studi e ricerche. Art. 8 (Consiglieri di parità) 1. I consiglieri di parità di cui al decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863, sono componenti a tutti gli effetti delle rispettive commissioni regionali per l'impiego. 2. A livello provinciale è nominato un consigliere di parità presso la commissione circoscrizionale per l'impiego che ha sede nel capoluogo di provincia, con facoltà di intervenire presso le altre commissioni circoscrizionali per l'impiego operanti nell'ambito della medesima provincia. 3. I consiglieri di parità di cui ai commi 1 e 2 sono nominati dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale su designazione del competente organo delle regioni, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale e devono essere scelti tra persone che abbiano maturato un'esperienza tecnico-professionale di durata almeno triennale nelle materie concernenti l'ambito della presente legge. 4. Il consigliere di parità di cui all'articolo 4, comma 2, della legge 28 febbraio 1987, n. 56, è componente con voto deliberativo della commissione centrale per l'impiego. 5. Qualora si determini parità di voti nelle commissioni di cui ai commi 1, 2 e 4 prevale il voto del presidente. 6. Oltre ai compiti ad essi assegnati dalla legge nell'ambito delle competenze delle commissioni circoscrizionali regionali e centrale per l'impiego, i consiglieri di parità svolgono ogni utile iniziativa per la realizzazione delle finalità della presente legge. Nell'esercizio delle funzioni loro attribuite, i consiglieri di parità sono pubblici funzionari e hanno l'obbligo di rapporto all'autorità giudiziaria per i reati di cui vengono a conoscenza nell'esercizio delle funzioni medesime. I consiglieri di parità, ai rispettivi livelli, sono 185 componenti degli organismi di parità presso gli enti locali regionali e provinciali. 7. Per l'espletamento dei propri compiti i consiglieri di parità possono richiedere all'ispettorato del lavoro di acquisire presso i luoghi di lavoro informazioni sulla situazione occupazionale maschile e femminile, in relazione allo stato delle assunzioni, della formazione e promozione professionale. 8. I consiglieri di parità di cui al comma 2 e quelli regionali competenti per territorio, ferma restando l'azione in giudizio di cui all'articolo 4, comma 6, hanno facoltà di agire in giudizio sia nei procedimenti promossi davanti al pretore in funzione di giudice del lavoro che davanti al tribunale amministrativo regionale su delega della lavoratrice ovvero di intervenire nei giudizi promossi dalla medesima ai sensi dell'articolo 4. 9. I consiglieri di parità ricevono comunicazioni sugli indirizzi dal comitato di cui all'articolo 5 e fanno ad esso relazione circa la propria attività. I consiglieri di parità hanno facoltà di consultare li comitato e il consigliere nazionale di parità su ogni questione ritenuta utile. 10. I consiglieri di parità di cui ai commi 1, 2 e 4, per l'esercizio delle loro funzioni, sono domiciliati rispettivamente presso l'ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione, l'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione e presso una direzione generale del Ministero del lavoro e della previdenza sociale. Tali uffici assicurano la sede, l'attrezzatura, il personale e quanto necessario all'espletamento delle funzioni dei consiglieri di parità. Il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, con proprio decreto, può modificare la collocazione del consigliere di parità nell'ambito del Ministero. 11. Oltre al gettone giornaliero di presenza per la partecipazione alle riunioni delle commissioni circoscrizionali, regionali e centrale per l'impiego, spettano ai consiglieri di parità gettoni dello stesso importo per le giornate di effettiva presenza nelle sedi dove sono domiciliati in ragione del loro ufficio, entro un limite massimo fissato annualmente con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale. L'onere relativo fa carico al bilancio del Ministero del lavoro e della previdenza sociale. 186 12. Il consigliere di parità ha diritto, se lavoratore dipendente, a permessi non retribuiti per l'espletamento del suo mandato. Quando intenda esercitare questo diritto, deve darne comunicazione scritta al datore di lavoro, di regola tre giorni prima. Art. 9 (Rapporto sulla situazione del personale) 1. Le aziende pubbliche e private che occupano oltre cento dipendenti sono tenute a redigere un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni ed in relazione allo stato delle assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell'intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta. 2. Il rapporto di cui al comma 1 è trasmesso alle rappresentanze sindacali aziendali e al consigliere regionale di parità. 3. Il primo rapporto deve essere redatto entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, in conformità alle indicazioni definite, nell'ambito delle specificazioni di cui al coma 1, dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale, con proprio decreto da emanarsi entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. 4. Qualora, nei termini prescritti, le aziende di cui al comma 1 non trasmettano il rapporto, l'Ispettorato regionale del lavoro, previa segnalazione dei soggetti di cui al comma 2, invita le aziende stesse a provvedere entro sessanta giorni. In caso di inottemperanza si applicano le sanzioni di cui all'articolo 11 del decreto del Presidente della Repubblica 19 marzo 1955, n. 520. Nei casi più gravi può essere disposta la sospensione per un anno di benefici contributivi eventualmente goduti dall'azienda. Art. 10 (Relazione al Parlamento) 1. Trascorsi due anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro del lavoro e della previdenza sociale riferisce, entro trenta giorni, alle competenti commissioni parlamentari del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati sull'attuazione della legge stessa, sulla base di un rapporto redatto dal Comitato di cui all'articolo 5. 187 Art. 11 (Copertura finanziaria) 1. Per il funzionamento degli organi di cui agli articoli 5 e 7, a decorrere dal 1991, è autorizzata la spesa di lire 1.000 milioni annui. Per il finanziamento degli interventi previsti dall'articolo 2 è autorizzata, a decorrere dal 1991, la spesa di lire 9.000 milioni annui. Con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro del tesoro, viene stabilita la misura del compenso da corrispondere ai componenti del Comitato nazionale di cui all'articolo 5 e del Collegio istruttorio e della segreteria tecnica di cui all'articolo 7. 2. All'onere di lire 10.000 milioni annui nel triennio 1991-1993 si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 1991-1993, al capitolo 6856 dello stato di previsione del Ministero del tesoro per l'anno 1991 utilizzando l'accantonamento "Finanziamento del Comitato nazionale per la parità presso il Ministero e delle azioni positive per le pari opportunità". 3. Il Ministro del tesoro è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio. 188 LEGGE 8 marzo 2000, n.53 Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città. La Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica hanno approvato; IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Promulga la seguente legge: Capo I PRINCIPI GENERALI Art. 1. (Finalità). 1. La presente legge promuove un equilibrio tra tempi di lavoro, di cura, di formazione e di relazione, mediante: a) l'istituzione dei congedi dei genitori e l'estensione del sostegno ai genitori di soggetti portatori di handicap; b) l'istituzione del congedo per la formazione continua e l'estensione dei congedi per la formazione; c) il coordinamento dei tempi di funzionamento delle città e la promozione dell'uso del tempo per fini di solidarietà sociale. Art. 2. (Campagne informative). 1. Al fine di diffondere la conoscenza delle disposizioni della presente legge, il Ministro per la solidarietà sociale è autorizzato a predisporre, di concerto con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, apposite campagne informative, nei limiti degli ordinari stanziamenti di bilancio destinati allo scopo. 189 Capo II CONGEDI PARENTALI, FAMILIARI E FORMATIVI Art. 3. (Congedi dei genitori). 1. All'articolo 1 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, dopo il terzo comma è inserito il seguente: "Il diritto di astenersi dal lavoro di cui all'articolo 7, ed il relativo trattamento economico, sono riconosciuti anche se l'altro genitore non ne ha diritto. Le disposizioni di cui al comma 1 dell'articolo 7 e al comma 2 dell'articolo 15 sono estese alle lavoratrici di cui alla legge 29 dicembre 1987, n. 546, madri di bambini nati a decorrere dal 1o gennaio 2000. Alle predette lavoratrici i diritti previsti dal comma 1 dell'articolo 7 e dal comma 2 dell'articolo 15 spettano limitatamente ad un periodo di tre mesi, entro il primo anno di vita del bambino". 2. L'articolo 7 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, e' sostituito dal seguente: Art. 7. 1. Nei primi otto anni di vita del bambino ciascun genitore ha diritto di astenersi dal lavoro secondo le modalità stabilite dal presente articolo. Le astensioni dal lavoro dei genitori non possono complessivamente eccedere il limite di dieci mesi, fatto salvo il disposto del comma 2 del presente articolo. Nell'ambito del predetto limite, il diritto di astenersi dal lavoro compete: a) alla madre lavoratrice, trascorso il periodo di astensione obbligatoria di cui all'articolo 4, primo comma, lettera c), della presente legge, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi; b) al padre lavoratore, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi; c) qualora vi sia un solo genitore, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a dieci mesi. 2. Qualora il padre lavoratore eserciti il diritto di astenersi dal lavoro per un periodo non inferiore a tre mesi, il limite di cui alla lettera b) del comma 1 è 190 elevato a sette mesi e il limite complessivo delle astensioni dal lavoro dei genitori di cui al medesimo comma è conseguentemente elevato a undici mesi. 3. Ai fini dell'esercizio del diritto di cui al comma 1, il genitore è tenuto, salvo casi di oggettiva impossibilità, a preavvisare il datore di lavoro secondo le modalità e i criteri definiti dai contratti collettivi, e comunque con un periodo di preavviso non inferiore a quindici giorni. 4. Entrambi i genitori, alternativamente, hanno diritto, altresì, di astenersi dal lavoro durante le malattie del bambino di età inferiore a otto anni ovvero di età compresa fra tre e otto anni, in quest'ultimo caso nel limite di cinque giorni lavorativi all'anno per ciascun genitore, dietro presentazione di certificato rilasciato da un medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato. La malattia del bambino che dia luogo a ricovero ospedaliero interrompe il decorso del periodo di ferie in godimento da parte del genitore. 5. I periodi di astensione dal lavoro di cui ai commi 1 e 4 sono computati nell'anzianità di servizio, esclusi gli effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità o alla gratifica natalizia. Ai fini della fruizione del congedo di cui al comma 4, la lavoratrice ed il lavoratore sono tenuti a presentare una dichiarazione rilasciata ai sensi dell'articolo 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15, attestante che l'altro genitore non sia in astensione dal lavoro negli stessi giorni per il medesimo motivo". 3. All'articolo 10 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, sono aggiunti, in fine, i seguenti commi: "Ai periodi di riposo di cui al presente articolo si applicano le disposizioni in materia di contribuzione figurativa, nonché di riscatto ovvero di versamento dei relativi contributi previsti dal comma 2, lettera b), dell'articolo 15. In caso di parto plurimo, i periodi di riposo sono raddoppiati e le ore aggiuntive rispetto a quelle previste dal primo comma del presente articolo possono essere utilizzate anche dal padre". 4. L'articolo 15 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, è sostituito dal seguente: 191 "Art. 15. 1. Le lavoratrici hanno diritto ad un'indennità giornaliera pari all'80 per cento della retribuzione per tutto il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro stabilita dagli articoli 4 e 5 della presente legge. Tale indennità è comprensiva di ogni altra indennità spettante per malattia. 2. Per i periodi di astensione facoltativa di cui all'articolo 7, comma 1, ai lavoratori e alle lavoratrici e' dovuta: a) fino al terzo anno di vita del bambino, un'indennità pari al 30 per cento della retribuzione, per un periodo massimo complessivo tra i genitori di sei mesi; il relativo periodo, entro il limite predetto, e' coperto da contribuzione figurativa; b) fuori dei casi di cui alla lettera a), fino al compimento dell'ottavo anno di vita del bambino, e comunque per il restante periodo di astensione facoltativa, un'indennità pari al 30 per cento della retribuzione, nell'ipotesi in cui il reddito individuale dell'interessato sia inferiore a 2,5 volte l'importo del trattamento minimo di pensione a carico dell'assicurazione generale obbligatoria; il periodo medesimo e' coperto da contribuzione figurativa, attribuendo come valore retributivo per tale periodo il 200 per cento del valore massimo dell'assegno sociale, proporzionato ai periodi di riferimento, salva la facoltà di integrazione da parte dell'interessato, con riscatto ai sensi dell'articolo 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338, ovvero con versamento dei relativi contributi secondo i criteri e le modalità della prosecuzione volontaria. 3. Per i periodi di astensione per malattia del bambino di cui all'articolo 7, comma 4, è dovuta: a) fino al compimento del terzo anno di vita del bambino, la contribuzione figurativa; b) successivamente al terzo anno di vita del bambino e fino al compimento dell'ottavo anno, la copertura contributiva calcolata con le modalità previste dal comma 2, lettera b). 192 4. Il reddito individuale di cui al comma 2, lettera b), è determinato secondo i criteri previsti in materia di limiti reddituali per l'integrazione al minimo. 5. Le indennità di cui al presente articolo sono corrisposte con gli stessi criteri previsti per l'erogazione delle prestazioni dell'assicurazione obbligatoria contro le malattie dall'ente assicuratore della malattia presso il quale la lavoratrice o il lavoratore è assicurato e non sono subordinate a particolari requisiti contributivi o di anzianità assicurativa". 5. Le disposizioni del presente articolo trovano applicazione anche nei confronti dei genitori adottivi o affidatari. Qualora, all'atto dell'adozione o dell'affidamento, il minore abbia un'età compresa fra sei e dodici anni, il diritto di astenersi dal lavoro, ai sensi dei commi 1 e 2 del presente articolo, può essere esercitato nei primi tre anni dall'ingresso del minore nel nucleo familiare. Nei confronti delle lavoratrici a domicilio e delle addette ai servizi domestici e familiari, le disposizioni dell'articolo 15 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, come sostituito dal comma 4 del presente articolo, si applicano limitatamente al comma 1. Art. 4. (Congedi per eventi e caus e particolari). 1. La lavoratrice e il lavoratore hanno diritto ad un permesso retribuito di tre giorni lavorativi all'anno in caso di decesso o di documentata grave infermità del coniuge o di un parente entro il secondo grado o del convivente, purché la stabile convivenza con il lavoratore o la lavoratrice risulti da certificazione anagrafica. In alternativa, nei casi di documentata grave infermità, il lavoratore e la lavoratrice possono concordare con il datore di lavoro diverse modalità di espletamento dell'attività lavorativa. 2. I dipendenti di datori di lavoro pubblici o privati possono richiedere, per gravi e documentati motivi familiari, fra i quali le patologie individuate ai sensi del comma 4, un periodo di congedo, continuativo o frazionato, non superiore a due anni. Durante tale periodo il dipendente conserva il posto di lavoro, non ha diritto alla retribuzione e non può svolgere alcun tipo di attività lavorativa. Il congedo non è computato nell'anzianità di servizio né ai fini previdenziali; il lavoratore può procedere al riscatto, ovvero al versamento dei relativi contributi, calcolati secondo i criteri della prosecuzione volontaria. 193 3. I contratti collettivi disciplinano le modalità di partecipazione agli eventuali corsi di formazione del personale che riprende l'attività lavorativa dopo la sospensione di cui al comma 2. 4. Entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro per la solidarietà sociale, con proprio decreto, di concerto con i Ministri della sanità, del lavoro e della previdenza sociale e per le pari opportunità, provvede alla definizione dei criteri per la fruizione dei congedi di cui al presente articolo, all'individuazione delle patologie specifiche ai sensi del comma 2, nonché alla individuazione dei criteri per la verifica periodica relativa alla sussistenza delle condizioni di grave infermità dei soggetti di cui al comma 1. Art. 5. (Congedi per la formazione). 1. Ferme restando le vigenti disposizioni relative al diritto allo studio di cui all'articolo 10 della legge 20 maggio 1970, n. 300, i dipendenti di datori di lavoro pubblici o privati, che abbiano almeno cinque anni di anzianità di servizio presso la stessa azienda o amministrazione, possono richiedere una sospensione del rapporto di la voro per congedi per la formazione per un periodo non superiore ad undici mesi, continuativo o frazionato, nell'arco dell'intera vita lavorativa. 2. Per "congedo per la formazione" si intende quello finalizzato al completamento della scuola dell'obbligo, al conseguimento del titolo di studio di secondo grado, del diploma universitario o di laurea, alla partecipazione ad attività formative diverse da quelle poste in essere o finanziate dal datore di lavoro. 3. Durante il periodo di congedo per la formazione il dipendente conserva il posto di lavoro e non ha diritto alla retribuzione. Tale periodo non è computabile nell'anzianità di servizio e non è cumulabile con le ferie, con la malattia e con altri congedi. Una grave e documentata infermità, individuata sulla base dei criteri stabiliti dal medesimo decreto di cui all'articolo 4, comma 4, intervenuta durante il periodo di congedo, di cui sia data comunicazione scritta al datore di lavoro, da' luogo ad interruzione del congedo medesimo. 4. Il datore di lavoro può non accogliere la richiesta di congedo per la formazione ovvero può differirne l'accoglimento nel caso di comprovate 194 esigenze organizzative. I contratti collettivi prevedono le modalità di fruizione del congedo stesso, individuano le percentuali massime dei lavoratori che possono avvalersene, disciplinano le ipotesi di differimento o di diniego all'esercizio di tale facoltà e fissano i termini del preavviso, che comunque non può essere inferiore a trenta giorni. 5. Il lavoratore può procedere al riscatto del periodo di cui al presente articolo, ovvero al versamento dei relativi contributi, calcolati secondo i criteri della prosecuzione volontaria. Art. 6. (Congedi per la formazione continua). 1. I lavoratori, occupati e non occupati, hanno diritto di proseguire i percorsi di formazione per tutto l'arco della vita, per accrescere conoscenze e competenze professionali. Lo Stato, le regioni e gli enti locali assicurano un'offerta formativa articolata sul territorio e, ove necessario, integrata, accreditata secondo le disposizioni dell'articolo 17 della legge 24 giugno 1997, n. 196, e successive modificazioni, e del relativo regolamento di attuazione. L'offerta formativa deve consentire percorsi personalizzati, certificati e riconosciuti come crediti formativi in ambito nazionale ed europeo. La formazione può corrispondere ad autonoma scelta del lavoratore ovvero essere predisposta dall'azienda, attraverso i piani formativi aziendali o territoriali concordati tra le parti sociali in coerenza con quanto previsto dal citato articolo 17 della legge n. 196 del 1997, e successive modificazioni. 2. La contrattazione collettiva di categoria, nazionale e decentrata, definisce il monte ore da destinare ai congedi di cui al presente articolo, i criteri per l'individuazione dei lavoratori e le modalità di orario e retribuzione connesse alla partecipazione ai percorsi di formazione. 3. Gli interventi formativi che rientrano nei piani aziendali o territoriali di cui al comma 1 possono essere finanziati attraverso il fondo interprofessionale per la formazione continua, di cui al regolamento di attuazione del citato articolo 17 della legge n. 196 del 1997. 4. Le regioni possono finanziare progetti di formazione dei lavoratori che, sulla base di accordi contrattuali, prevedano quote di riduzione dell'orario di lavoro, nonché progetti di formazione presentati direttamente dai lavoratori. Per le finalità del presente comma è riservata una quota, pari a lire 30 miliardi annue, del Fondo per l'occupazione di cui all'articolo 1, comma 7, 195 del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236. Il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, provvede annualmente, con proprio decreto, a ripartire fra le regioni la predetta quota, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano. Art. 7. (Anticipazione del trattamento di fine rapporto). 1. Oltre che nelle ipotesi di cui all'articolo 2120, ottavo comma, del codice civile, il trattamento di fine rapporto può essere anticipato ai fini delle spese da sostenere durante i periodi di fruizione dei congedi di cui all'articolo 7, comma 1, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, come sostituito dall'articolo 3, comma 2, della presente legge, e di cui agli articoli 5 e 6 della presente legge. L'anticipazione e' corrisposta unitamente alla retribuzione relativa al mese che precede la data di inizio del congedo. Le medesime disposizioni si applicano anche alle domande di anticipazioni per indennità equipollenti al trattamento di fine rapporto, comunque denominate, spettanti a lavoratori dipendenti di datori di lavoro pubblici e privati. 2. Gli statuti delle forme pensionistiche complementari di cui al decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124, e successive modificazioni, possono prevedere la possibilità di conseguire, ai sensi dell'articolo 7, comma 4, del citato decreto legislativo n. 124 del 1993, un'anticipazione delle prestazioni per le spese da sostenere durante i periodi di fruizione dei congedi di cui agli articoli 5 e 6 della presente legge. 3. Con decreto del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con i Ministri del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, del lavoro e della previdenza sociale e per la solidarietà sociale, sono definite le modalità applicative delle disposizioni del comma 1 in riferimento ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Art. 8. (Prolungamento dell'età pensionabile). 1. I soggetti che usufruiscono dei congedi previsti dall'articolo 5, comma 1, possono, a richiesta, prolungare il rapporto di lavoro di un periodo corrispondente, anche in deroga alle disposizioni concernenti l'età di pensionamento obbligatoria. La richiesta deve essere comunicata al datore di 196 lavoro con un preavviso non inferiore a sei mesi rispetto alla data prevista per il pensionamento. Capo III FLESSIBILITA' DI ORARIO Art. 9. (Misure a sostegno della flessibilità di orario). 1. Al fine di promuovere e incentivare forme di articolazione della prestazione lavorativa volte a conciliare tempo di vita e di lavoro, nell'ambito del Fondo per l'occupazione di cui all'articolo 1, comma 7, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236, e' destinata una quota fino a lire 40 miliardi annue a decorrere dall'anno 2000, al fine di erogare contributi, di cui almeno il 50 per cento destinato ad imprese fino a cinquanta dipendenti, in favore di aziende che applichino accordi contrattuali che prevedono azioni positive per la flessibilità, ed in particolare: a) progetti articolati per consentire alla lavoratrice madre o al lavoratore padre, anche quando uno dei due sia lavoratore autonomo, ovvero quando abbiano in affidamento o in adozione un minore, di usufruire di particolari forme di flessibilità degli orari e dell'organizzazione del lavoro, tra cui par time reversibile, telelavoro e lavoro a domicilio, orario flessibile in entrata o in uscita, banca delle ore, flessibilità sui turni, orario concentrato, con priorità per i genitori che abbiano bambini fino ad otto anni di età o fino a dodici anni, in caso di affidamento o di adozione; b) programmi di formazione per il reinserimento dei lavoratori dopo il periodo di congedo; c) progetti che consentano la sostituzione del titolare di impresa o del lavoratore autonomo, che benefici del periodo di astensione obbligatoria o dei congedi parentali, con altro imprenditore o lavoratore autonomo. 2. Con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con i Ministri per la solidarietà sociale e per le pari opportunità, sono definiti i criteri e le modalità per la concessione dei contributi di cui al comma 1. 197 Capo IV ULTERIORI DISPOSIZIONI A SOSTEGNO DELLA MATERNITA' E DELLA PATERNITA' Art. 10. (Sostituzione di lavoratori in astensione). 1. L'assunzione di lavoratori a tempo determinato in sostituzione di lavoratori in astensione obbligatoria o facoltativa dal lavoro ai sensi della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, come modificata dalla presente legge, può avvenire anche con anticipo fino ad un mese rispetto al periodo di inizio dell'astensione, salvo periodi superiori previsti dalla contrattazione collettiva. 2. Nelle azie nde con meno di venti dipendenti, per i contributi a carico del datore di lavoro che assume lavoratori con contratto a tempo determinato in sostituzione di lavoratori in astensione ai sensi degli articoli 4, 5 e 7 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, come modificati dalla presente legge, è concesso uno sgravio contributivo del 50 per cento. Le disposizioni del presente comma trovano applicazione fino al compimento di un anno di età del figlio della lavoratrice o del lavoratore in astensione e per un anno dall'accoglienza del minore adottato o in affidamento. 3. Nelle aziende in cui operano lavoratrici autonome di cui alla legge 29 dicembre 1987, n. 546, e' possibile procedere, in caso di maternità delle suddette lavoratrici, e comunque entro il primo anno di età del bambino o nel primo anno di accoglienza del minore adottato o in affidamento, all'assunzione di un lavoratore a tempo determinato, per un periodo massimo di dodici mesi, con le medesime agevolazioni di cui al comma 2. Art. 11. (Parti prematuri). 1. All'articolo 4 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, sono aggiunti, in fine, i seguenti commi: "Qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta, i giorni non goduti di astensione obbligatoria prima del parto vengono aggiunti al periodo di astensione obbligatoria dopo il parto. La lavoratrice e' tenuta a presentare, entro trenta giorni, il certificato attestante la data del parto". 198 Art. 12. (Flessibilità dell'astensione obbligatoria). 1. Dopo l'articolo 4 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, è inserito il seguente: "Art. 4-bis. - 1. Ferma restando la durata complessiva dell'astensione dal lavoro, le lavoratrici hanno la facoltà di astenersi dal lavoro a partire dal mese precedente la data presunta del parto e nei quattro mesi successivi al parto, a condizione che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino che tale opzione non arrechi pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro". 2. Il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con i Ministri della sanità e per la solidarietà sociale, sentite le parti sociali, definisce, con proprio decreto da emanare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, l'elenco dei lavori ai quali non si applicano le disposizioni dell'articolo 4-bis della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, introdotto dal comma 1 del presente articolo. 3. Il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con i Ministri della sanità e per la solidarietà sociale, provvede, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, ad aggiornare l'elenco dei lavori pericolosi, faticosi ed insalubri di cui all'articolo 5 del decreto del Presidente della Repubblica 25 novembre 1976, n. 1026. Art. 13. (Astensione dal lavoro del padre lavoratore). 1. Dopo l'articolo 6 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, sono inseriti i seguenti: "Art. 6-bis. 1. Il padre lavoratore ha diritto di astenersi dal lavoro nei primi tre mesi dalla nascita del figlio, in caso di morte o di grave infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre. 2. Il padre lavoratore che intenda avvalersi del diritto di cui al comma 1 presenta al datore di lavoro la certificazione relativa alle condizioni ivi previste. In caso di abbandono, il padre lavoratore ne rende dichiarazione ai sensi dell'articolo 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15. 199 3. Si applicano al padre lavoratore le disposizioni di cui agli articoli 6 e 15, commi 1 e 5, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, e successive modificazioni. 4. Al padre lavoratore si applicano altresì le disposizioni di cui all'articolo 2 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, e successive modificazioni, per il periodo di astensione dal lavoro di cui al comma 1 del presente articolo e fino al compimento di un anno di età del bambino. Art. 6-ter. - 1. I periodi di riposo di cui all'articolo 10 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, e successive modificazioni, e i relativi trattamenti economici sono riconosciuti al padre lavoratore: a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre; b) in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga; c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente". Art. 14. (Estensione di norme a specifiche categorie di lavoratrici madri). 1. I benefici previsti dal primo periodo del comma 1 dell'articolo 13 della legge 7 agosto 1990, n. 232, sono estesi, dalla data di entrata in vigore della presente legge, anche alle lavoratrici madri appartenenti ai corpi di polizia municipale. Art. 15. (Testo unico). 1. Al fine di conferire organicità e sistematicità alle norme in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Governo è delegato ad emanare un decreto legislativo recante il testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia, nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi: a) puntuale individuazione del testo vigente delle norme; b) esplicita indicazione delle norme abrogate, anche implicitamente, da successive disposizioni; 200 c) coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa, anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo; d) esplicita indicazione delle disposizioni, non inserite nel testo unico, che restano comunque in vigore; e) esplicita abrogazione di tutte le rimanenti disposizioni, non richiamate, con espressa indicazione delle stesse in apposito allegato al testo unico; f) esplicita abrogazione delle norme secondarie incompatibili con le disposizioni legislative raccolte nel testo unico. 2. Lo schema del decreto legislativo di cui al comma 1 è deliberato dal Consiglio dei ministri ed e' trasmesso, con apposita relazione cui è allegato il parere del Consiglio di Stato, alle competenti Commissioni parlamentari permanenti, che esprimono il parere entro quarantacinque giorni dall'assegnazione. 3. Entro un anno dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo di cui al comma 1 possono essere emanate, nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi di cui al medesimo comma 1 e con le modalità di cui al comma 2, disposizioni correttive del testo unico. Art. 16. (Statistiche ufficiali sui tempi di vita). 1. L'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) assicura un flusso informativo quinquennale sull'organizzazione dei tempi di vita della popolazione attraverso la rilevazione sull'uso del tempo, disaggregando le informazioni per sesso e per età. Art. 17. (Disposizioni diverse). 1. Nei casi di astensione dal lavoro disciplinati dalla presente legge, la lavoratrice e il lavoratore hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinuncino, al rie ntro nella stessa unità produttiva ove erano occupati al momento della richiesta di astensione o di congedo o in altra ubicata nel medesimo comune; hanno altresì diritto di essere adibiti alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti. 201 2. All'articolo 2 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, è aggiunto, in fine, il seguente comma: "Al termine del periodo di interdizione dal lavoro previsto dall'articolo 4 della presente legge le lavoratrici hanno diritto, salvo che espressamente vi rinuncino, di rientrare nella stessa unità produttiva ove erano occupate all'inizio del periodo di gestazione o in altra ubicata nel medesimo comune, e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino; hanno altresì diritto di essere adibite alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti". 3. I contratti collettivi di lavoro possono prevedere condizioni di maggior favore rispetto a quelle previste dalla presente legge. 4. Sono abrogate le disposizioni legislative incompatibili con la presente legge ed in particolare l'articolo 7 della legge 9 dicembre 1977, n. 903. Art. 18. (Disposizioni in materia di recesso). 1. Il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo di cui agli articoli 3, 4, 5, 6 e 13 della presente legge è nullo. 2. La richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice o dal lavoratore durante il primo anno di vita del bambino o nel primo anno di accoglienza del minore adottato o in affidamento deve essere convalidata dal Servizio ispezione della direzione provincia le del lavoro. Capo V MODIFICHE ALLA LEGGE 5 FEBBRAIO 1992, N. 104 Art. 19. (Permessi per l'assistenza a portatori di handicap). 1. All'articolo 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, sono apportate le seguenti modificazioni: a) al comma 3, dopo le parole: "permesso mensile" sono inserite le seguenti: "coperti da contribuzione figurativa"; b) al comma 5, le parole: ", con lui convivente," sono soppresse; 202 c) al comma 6, dopo le parole: "può usufruire" è inserita la seguente: "alternativamente". Art. 20. (Estensione delle agevolazioni per l'assistenza a portatori di handicap). 1. Le disposizioni dell'articolo 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, come modificato dall'articolo 19 della presente legge, si applicano anche qualora l'altro genitore non ne abbia diritto nonché ai genitori ed ai familiari lavoratori, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assistono con continuità e in via esclusiva un parente o un affine entro il terzo grado portatore di handicap, ancorché non convivente. Capo VI NORME FINANZIARIE Art. 21. (Copertura finanziaria). 1. All'onere derivante dall'attuazione delle disposizioni degli articoli da 3 a 20, esclusi gli articoli 6 e 9, della presente legge, valutato in lire 298 miliardi annue a decorrere dall'anno 2000, si provvede, quanto a lire 273 miliardi annue a decorrere dall'anno 2000, mediante corrispondente riduzione dell'autorizzazione di spesa di cui all'articolo 3 del decreto-legge 20 gennaio 1998, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 marzo 1998, n. 52, concernente il Fondo per l'occupazione; quanto a lire 25 miliardi annue a decorrere dall'anno 2000, mediante corrispondente riduzione dell'autorizzazione di spesa di cui all'articolo 1 della legge 28 agosto 1997, n. 285. 2. Il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio. Capo VII TEMPI DELLE CITTA' Art. 22. (Compiti delle regioni). 203 1. Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge le regioni definiscono, con proprie leggi, ai sensi dell'articolo 36, comma 3, della legge 8 giugno 1990, n. 142, e successive modificazioni, qualora non vi abbiano già provveduto, norme per il coordinamento da parte dei comuni degli orari degli esercizi commerciali, dei servizi pubblici e degli uffici periferici delle amministrazioni pubbliche, nonché per la promozione dell'uso del tempo per fini di solidarietà sociale, secondo i principi del presente capo. 2. Le regioni prevedono incentivi finanziari per i comuni, anche attraverso l'utilizzo delle risorse del Fondo di cui all'articolo 28, ai fini della predisposizione e dell'attuazione dei piani territoriali degli orari di cui all'articolo 24 e della costituzione delle banche dei tempi di cui all'articolo 27. 3. Le regioni possono istituire comitati tecnici, composti da esperti in materia di progettazione urbana, di analisi sociale, di comunicazione sociale e di gestione organizzativa, con compiti consultivi in ordine al coordinamento degli orari delle città e per la valutazione degli effetti sulle comunità locali dei piani territoriali degli orari. 4. Nell'ambito delle proprie competenze in materia di formazione professionale, le regioni promuovono corsi di qualificazione e riqualificazione del personale impiegato nella progettazione dei piani territoriali degli orari e nei progetti di riorganizzazione dei servizi. 5. Le leggi regionali di cui al comma 1 indicano: a) criteri generali di amministrazione e coordinamento degli orari di apertura al pubblico dei servizi pubblici e privati, degli uffici della pubblica amministrazione, dei pubblici esercizi commerciali e turistici, delle attività culturali e dello spettacolo, dei trasporti; b) i criteri per l'adozione dei piani territoriali degli orari; c) criteri e modalità per la concessione ai comuni di finanziamenti per l'adozione dei piani territoriali degli orari e per la costituzione di banche dei tempi, con priorità per le iniziative congiunte dei comuni con popolazione non superiore a 30.000 abitanti. 204 6. Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano provvedono secondo le rispettive competenze. Art. 23. (Compiti dei comuni). 1. I comuni con popolazione superiore a 30.000 abitanti attuano, singolarmente o in forma associata, le disposizioni dell'articolo 36, comma 3, della legge 8 giugno 1990, n. 142, e successive modificazioni, secondo le modalità stabilite dal presente capo, nei tempi indicati dalle leggi regionali di cui all'articolo 22, comma 1, e comunque non oltre un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge. 2. In caso di inadempimento dell'obbligo di cui al comma 1, il presidente della giunta regionale nomina un commissario ad acta. 3. I comuni con popolazione non superiore a 30.000 abitanti possono attuare le disposizioni del presente capo in forma associata. Art. 24. (Piano territoriale degli orari). 1. Il piano territoriale degli orari, di seguito denominato "piano", realizza le finalità di cui all'articolo 1, comma 1, lettera c), ed e' strumento unitario per finalità ed indirizzi, articolato in progetti, anche sperimentali, relativi al funzionamento dei diversi sistemi orari dei servizi urbani e alla loro graduale armonizzazione e coordinamento. 2. I comuni con popolazione superiore a 30.000 abitanti sono tenuti ad individuare un responsabile cui è assegnata la competenza in materia di tempi ed orari e che partecipa alla conferenza dei dirigenti, ai sensi della legge 8 giugno 1990, n. 142, e successive modificazioni. 3. I comuni con popolazione non superiore a 30.000 abitanti possono istituire l'ufficio di cui al comma 2 in forma associata. 4. Il sindaco elabora le linee guida del piano. A tale fine attua forme di consultazione con le amministrazioni pubbliche, le parti sociali, nonché le associazioni previste dall'articolo 6 della legge 8 giugno 1990, n. 142, e successive modificazioni, e le associazioni delle famiglie. 205 5. Nell'elaborazione del piano si tiene conto degli effetti sul traffico, sull'inquinamento e sulla qualità della vita cittadina degli orari di lavoro pubblici e privati, degli orari di apertura al pubblico dei servizi pubblici e privati, degli uffici periferici delle amministrazioni pubbliche, delle attività commerciali, ferme restando le disposizioni degli articoli da 11 a 13 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, nonché delle istituzioni formative, culturali e del tempo libero. 6. Il piano è approvato dal consiglio comunale su proposta del sindaco ed è vincolante per l'amministrazione comunale, che deve adeguare l'azione dei singoli assessorati alle scelte in esso contenute. Il piano e' attuato con ordinanze del sindaco. Art. 25. (Tavolo di concertazione). 1. Per l'attuazione e la verifica dei progetti contenuti nel piano di cui all'articolo 24, il sindaco istituisce un tavolo di concertazione, cui partecipano: a) il sindaco stesso o, per suo incarico, il responsabile di cui all'articolo 24, comma 2; b) il prefetto o un suo rappresentante; c) il presidente della provincia o un suo rappresentante; d) i presidenti delle comunità montane o loro rappresentanti; e) un dirigente per ciascuna delle pubbliche amministrazioni non statali coinvolte nel piano; f) rappresentanti sindacali degli imprenditori della grande, media e piccola impresa, del commercio, dei servizi, dell'artigianato e dell'agricoltura; g) rappresentanti sindacali dei lavoratori; h) il provveditore agli studi ed i rappresentanti delle università presenti nel territorio; 206 i) i presidenti delle aziende dei trasporti urbani ed extraurbani, nonché i rappresentanti delle aziende ferroviarie. 2. Per l'attuazione del piano di cui all'articolo 24, il sindaco promuove accordi con i soggetti pubblici e privati di cui al comma 1. 3. In caso di emergenze o di straordinarie necessità dell'utenza o di gravi problemi connessi al traffico e all'inquinamento, il sindaco può emettere ordinanze che prevedano modificazioni degli orari. 4. Le amministrazioni pubbliche, anche territoriali, sono tenute ad adeguare gli orari di funzionamento degli uffici alle ordinanze di cui al comma 3. 5. I comuni capoluogo di provincia sono tenuti a concertare con i comuni limitrofi, attraverso la conferenza dei sindaci, la riorganizzazione territoriale degli orari. Alla conferenza partecipa un rappresentante del presidente della provincia. Art. 26. (Orari della pubblica amministrazione). 1. Le articolazioni e le scansioni degli orari di apertura al pubblico dei servizi della pubblica amministrazione devono tenere conto delle esigenze dei cittadini che risiedono, lavorano ed utilizzano il territorio di riferimento. 2. Il piano di cui all'articolo 24, ai sensi del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, può prevedere modalità ed articolazioni differenziate degli orari di apertura al pubblico dei servizi della pubblica amministrazione. 3. Le pubbliche amministrazioni, attraverso l'informatizzazione dei relativi servizi, possono garantire prestazioni di informazione anche durante gli orari di chiusura dei servizi medesimi e, attraverso la semplificazione delle procedure, possono consentire agli utenti tempi di attesa più brevi e percorsi più semplici per l'accesso ai servizi. Art. 27. (Banche dei tempi). 1. Per favorire lo scambio di servizi di vicinato, per facilitare l'utilizzo dei servizi della città e il rapporto con le pubbliche amministrazioni, per favorire l'estensione della solidarietà nelle comunità locali e per incentivare le 207 iniziative di singoli e gruppi di cittadini, associazioni, organizzazioni ed enti che intendano scambiare parte del proprio tempo per impieghi di reciproca solidarietà e interesse, gli enti locali possono sostenere e promuovere la costituzione di associazioni denominate "banche dei tempi". 2. Gli enti locali, per favorire e sostenere le banche dei tempi, possono disporre a loro favore l'utilizzo di locali e di servizi e organizzare attività di promozione, formazione e informazione. Possono altresì aderire alle banche dei tempi e stipulare con esse accordi che prevedano scambi di tempo da destinare a prestazioni di mutuo aiuto a favore di singoli cittadini o della comunità locale. Tali prestazioni devono essere compatibili con gli scopi statutari delle banche dei tempi e non devono costituire modalità di esercizio delle attività istituzionali degli enti locali. Art. 28. (Fondo per l'armonizzazione dei tempi delle città). 1. Nell'elaborare le linee guida del piano di cui all'articolo 24, il sindaco prevede misure per l'armonizzazione degli orari che contribuiscano, in linea con le politiche e le misure nazionali, alla riduzione delle emissioni di gas inquinanti nel settore dei trasporti. Dopo l'approvazione da parte del consiglio comunale, i piani sono comunicati alle regioni, che li trasmettono al Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) indicandone, ai soli fini del presente articolo, l'ordine di priorità. 2. Per le finalità del presente articolo è istituito un Fondo per l'armonizzazione dei tempi delle città, nel limite massimo di lire 15 miliardi annue a decorrere dall'anno 2001. Alla ripartizione delle predette risorse provvede il CIPE, sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281. 3. Le regioni iscrivono le somme loro attribuite in un apposito capitolo di bilancio, nel quale confluiscono altresì eventuali risorse proprie, da utilizzare per spese destinate ad agevolare l'attuazione dei progetti inclusi nel piano di cui all'articolo 24 e degli interventi di cui all'articolo 27. 4. I contributi di cui al comma 3 sono concessi prioritariamente per: a) associazioni di comuni; 208 b) progetti presentati da comuni che abbiano attivato forme di coordinamento e cooperazione con altri enti locali per l'attuazione di specifici piani di armonizzazione degli orari dei servizi con vasti bacini di utenza; c) interventi attuativi degli accordi di cui all'articolo 25, comma 2. 5. La Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, è convocata ogni anno, entro il mese di febbraio, per l'esame dei risultati conseguiti attraverso l'impiego delle risorse del Fondo di cui al comma 2 e per la definizione delle linee di intervento futuro. Alle relative riunioni sono invitati i Ministri del lavoro e della previdenza sociale, per la solidarietà sociale, per la funzione pubblica, dei trasporti e della navigazione e dell'ambiente, il presidente della società Ferrovie dello Stato spa, nonché i rappresentanti delle associazioni ambientaliste e del volontariato, delle organizzazioni sindacali e di categoria. 6. Il Governo, entro il mese di luglio di ogni anno e sulla base dei lavori della Conferenza di cui al comma 5, presenta al Parlamento una relazione sui progetti di riorganizzazione dei tempi e degli orari delle città. 7. All'onere derivante dall'istituzione del Fondo di cui al comma 2 si provvede mediante utilizzazione delle risorse di cui all'articolo 8, comma 10, lettera f), della legge 23 dicembre 1998, n. 448. La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.La presente legge munita del Sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta Ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Roma, 8 marzo 2000 CIAMPI D'Alema, Presidente del Consiglio dei Ministri Turco, Ministro per la solidarietà sociale Visto, il Guardasigilli: Diliberto 209 DECRETO LEGISLATIVO 23 maggio 2000, n. 196 "Disciplina dell'attività delle consigliere e dei consiglieri di parità e disposizioni in materia di azioni positive, a norma dell'articolo 47, comma 1, della legge 17 maggio 1999, n.144 VISTI gli articoli 76 ed 87 della Costituzione; VISTA la legge 17 maggio 1999, n. 144, ed in particolare l'articolo 47, comma 1, che, al fine di rafforzare gli strumenti volti a promuovere l'occupazione femminile, nonché a prevenire e contrastare le discriminazioni di genere nei luoghi di lavoro, prescrive l'emanazione di norme intese a ridefinire e potenziare le funzioni, il regime giuridico e le dotazioni strumentali dei consiglieri di parità ed a migliorare l'efficienza delle azioni positive di cui alla legge 10 aprile 1991, n. 125; VISTA la deliberazione preliminare del Consiglio dei ministri, adottata nella riunione del 17 marzo 2000; VISTO il parere reso dalla Conferenza unificata di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281; VISTI i pareri resi dalle competenti Commissioni permanenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica; VISTA la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 19 maggio 2000; SULLA PROPOSTA del Ministro del lavoro e della previdenza sociale e del Ministro per le pari opportunità, di concerto con i Ministri del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, della giustizia, per la funzione pubblica e per gli affari regionali; EMANA Il seguente decreto legislativo: 210 Art.1 (Consigliere e consiglieri di parità) 1. A livello nazionale, regionale e provinciale sono nominati una consigliera o un consigliere di parità. Per ogni consigliera o consigliere si provvede altresì alla nomina di un supplente. 2. Le consigliere ed i consiglieri di parità, effettivi e supplenti, svolgono funzioni di promozione e controllo dell'attuazione dei principi di uguaglianza di opportunità e non discriminazione per donne e uomini nel lavoro. Nell'esercizio delle funzioni loro attribuite, le consigliere ed i consiglieri di parità sono pubblici ufficiali ed hanno l'obbligo di segnalazione all'autorità giudiziaria per i reati di cui vengono a conoscenza. Art. 2 (Procedura di nomina e durata del mandato) 1. Le consigliere ed i consiglieri di parità regionali e provinciali, effettivi e supplenti, sono nominati, con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro per le pari opportunità, su designazione degli organi a tal fine individuati dalle regioni e dalle province, sentite le Commissioni rispettivamente regionali e provinciali tripartite di cui agli articoli 4 e 6 del decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469, ognuno per i reciproci livelli di competenza sulla base dei requisiti di cui al comma 2 e con le procedure previste dal presente articolo. La consigliera o il consigliere nazionale di parità, effettivo e supplente, sono nominati con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro per le pari opportunità. 2. Le consigliere e i consiglieri di parità devono possedere requisiti di specifica competenza ed esperienza pluriennale in materia di lavoro femminile, di normative sulla parità e pari opportunità nonché di mercato del lavoro, comprovati da idonea documentazione. 3. Il relativo decreto di nomina, contenente il curriculum della persona nominata, è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. 4. In caso di mancata designazione dei consiglieri di parità regionali e provinciali entro i sessanta giorni successivi alla scadenza del mandato, o di designazione effettuata in assenza dei requisiti richiesti dal comma 2, il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro per le pari opportunità, provvede direttamente alla nomina nei trenta giorni 211 successivi, nel rispetto dei requisiti di cui al comma 2. A parità di requisiti professionali si procede alla designazione e nomina di consigliere di parità. Si applica quanto previsto dal comma 3. 5. Il mandato delle consigliere e dei consiglieri di cui al comma 1 ha la durata di quattro anni ed è rinnovabile una sola volta. Ai fini dell'eventuale rinnovo non si tiene conto dell'espletamento di funzioni di consigliere di parità ai sensi della normativa previgente in materia. La procedura di rinnovo si svolge osservandosi le modalità previste dal comma 3. Le consigliere ed i consiglieri di parità continuano a svolgere le loro funzioni fino alle nuove nomine. In sede di prima applicazione si procede alle nomine, conformemente ai criteri ed alla procedura previsti dai commi 2, 3 e 4, entro il 31 dicembre 2000. Art. 3 (Compiti e funzioni) 1. Le consigliere ed i consiglieri di parità intraprendono ogni utile iniziativa ai fini del rispetto del principio di non discriminazione e della promozione di pari opportunità per lavoratori e lavoratrici, svolgendo in particolare i seguenti compiti: a) rilevazione delle situazioni di squilibrio di genere, al fine di svolgere le funzioni promozionali e di garanzia contro le discriminazioni previste dalla legge 10 aprile 1991, n. 125; b) promozione di progetti di azioni positive, anche attraverso l'individuazione delle risorse comunitarie, nazionali e locali finalizzate allo scopo; c) promozione della coerenza della programmazione delle politiche di sviluppo territoriale rispetto agli indirizzi comunitari, nazionali e regionali in materia di pari opportunità; d) sostegno delle politic he attive del lavoro, comprese quelle formative, sotto il profilo della promozione e realizzazione di pari opportunità; e) promozione dell'attuazione delle politiche di pari opportunità da parte dei soggetti pubblici e privati che operano nel mercato del lavoro; 212 f) collaborazione con le direzioni provinciali e regionali del lavoro al fine di individuare procedure efficaci di rilevazione delle violazioni alla normativa in materia di parità, pari opportunità e garanzia contro le discriminazioni, anche mediante la progettazione di appositi pacchetti formativi; g) diffusione della conoscenza e dello scambio di buone prassi e attività di informazione e formazione culturale sui problemi delle pari opportunità e sulle varie forme di discriminazioni; h) verifica dei risultati della realizzazione dei progetti di azioni positive previsti dalla legge 10 aprile 1991, n. 125; i) collegamento e collaborazione con gli assessorati al lavoro degli enti locali e con organismi di parità degli enti locali. 2. Le consigliere ed i consiglieri di parità nazionale, regionali e provinciali, effettivi e supplenti, sono componenti a tutti gli effetti, rispettivamente, della Commissione centrale per l'impiego ovvero del diverso organismo che ne venga a svolgere in tutto o in parte le funzioni a seguito del decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469 e delle commissioni regionali e provinciali tripartite previste dagli articoli 4 e 6 del citato decreto legislativo n. 469 del 1997; essi partecipano altresì ai tavoli di partenariato locale ed ai comitati di sorveglianza di cui al regolamento (CE) n. 1260/1999 del Consiglio del 21 giugno 1999. Le consigliere ed i consiglieri regionali e provinciali sono inoltre componenti delle commissioni di parità del corrispondente livello territoriale, ovvero di organismi diversamente denominati che svolgono funzioni analoghe. La consigliera o il consigliere nazionale è componente del Comitato nazionale e del Collegio istruttorio di cui agli articoli 5 e 7 della legge 10 aprile 1991, n. 125. 3. Le strutture regionali di assistenza tecnica e monitoraggio di cui all'articolo 4, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469, forniscono alle consigliere ed ai consiglieri di parità il supporto tecnico necessario: alla rilevazione di situazioni di squilibrio di genere; all'elaborazione dei dati contenuti nei rapporti sulla situazione del personale di cui all'articolo 9 della legge 10 aprile 1991, n. 125; alla promozione e realizzazione di piani di formazione e riqualificazione professionale; alla promozione di progetti di azioni positive. 213 4. Su richiesta delle consigliere e dei consiglieri di parità, le direzioni provinciali e regionali del lavoro territorialmente competenti acquisiscono nei luoghi di lavoro informazioni sulla situazione occupazionale maschile e femminile, in relazione allo stato delle assunzioni, della formazione e promozione professionale, delle retribuzioni, delle condizioni di lavoro, della cessazione del rapporto di lavoro, ed ogni altro elemento utile, anche in base a specifici criteri di rilevazione indicati nella richiesta. 5. Entro il 31 dicembre di ogni anno le consigliere ed i consiglieri di parità regionali e provinciali presentano un rapporto sull'attività svolta agli organi che hanno provveduto alla designazione. La consigliera o il consigliere di parità che non abbia provveduto alla presentazione del rapporto o vi abbia provveduto con un ritardo superiore a tre mesi decade dall'ufficio. Art. 4 (Rete nazionale delle consigliere e dei consiglieri di parità Relazione al Parlamento) 1. Al fine di rafforzare le funzioni delle consigliere e dei consiglieri di parità, di accrescere l'efficacia della loro azione, di consentire lo scambio di informazioni, esperienze e buone prassi, è istituita la rete nazionale dei consiglieri e delle consigliere di parità, coordinata dalla consigliera o dal consigliere nazionale di parità. 2. La rete nazionale si riunisce almeno due volte l'anno su convocazione e sotto la presidenza della consigliera o del consigliere nazionale; alle riunioni partecipano il vice presidente del Comitato nazionale di parità di cui all'articolo 5 della legge 10 aprile 1991, n. 125, e un rappresentante designato dal Ministro per le pari opportunità. 3. Per l'espletamento dei propri compiti la rete nazionale può avvalersi, oltre che del Collegio istruttorio di cui all'articolo 7 della legge 10 aprile 1991, n. 125, anche di esperte od esperti di particolare e comprovata qualificazione professionale nel rispettivo campo di attività. 4. L'entità delle risorse necessarie al funzionamento della rete nazionale e all'espletamento dei relativi compiti, è determinata con il decreto di cui all'articolo 9, comma 2. 5. Entro il 31 marzo di ogni anno la consigliera o il consigliere nazionale di parità elabora, anche sulla base dei rapporti di cui all'articolo 3, comma 5, un 214 rapporto al Ministro del lavoro e della previdenza sociale e al Ministro per le pari opportunità sulla propria attività e su quella svolta dalla rete nazionale. Si applica quanto previsto nell'ultimo periodo del comma 5 dell'articolo 3 in caso di mancata o ritardata presentazione del rapporto. 6. Il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, anche sulla base del rapporto di cui al comma 5, nonché delle indicazioni fornite dal Comitato nazionale di parità, presenta in Parlamento, almeno biennalmente, d'intesa con il Ministro per le pari opportunità, una relazione contenente i risultati del monitoraggio sull'applicazione della legislazione in materia di parità e pari opportunità nel lavoro e sulla valutazione degli effetti delle disposizioni del presente decreto. Art. 5 (Sede e attrezzature) 1. L'ufficio delle consigliere e dei consiglieri di parità regionali e provinciali è ubicato rispettivamente presso le regioni e presso le province. L'ufficio della consigliera o del consigliere nazionale di parità è ubicato presso il Ministero del lavoro e della previdenza sociale. L'ufficio è funzionalmente autonomo, dotato del personale, delle apparecchiature e delle strutture necessarie per lo svolgimento dei loro compiti. Il personale, la strumentazione e le attrezzature necessarie sono assegnati dagli enti presso cui l'ufficio è ubicato, nell'ambito delle risorse trasferite ai sensi del decreto legislativo del 23 dicembre 1997, n. 469. 2. Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro per le pari opportunità, predispone con la Conferenza Unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, una convenzione quadro allo scopo di definire le modalità di organizzazione e di funzionamento dell'ufficio delle consigliere e dei consiglieri di parità, nonché gli indirizzi generali per l'espletamento dei compiti di cui all'articolo 3, comma 1, lettere b), c), d) ed e). Entro i successivi tre mesi il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, in conformità ai contenuti della convenzione quadro, provvede alla stipula di altrettante convenzioni con gli enti territoriali nel cui ambito operano le consigliere ed i consiglieri di parità. 215 Art. 6 (Permessi) 1. Le consigliere ed i consiglieri di parità, nazionale e regionali hanno diritto per l'esercizio delle loro funzioni, ove si tratti di lavoratori dipendenti, ad assentarsi dal posto di lavoro per un massimo di 50 ore lavorative mensili medie. Nella medesima ipotesi le consigliere ed i consiglieri provinciali di parità hanno diritto ad assentarsi dal posto di lavoro per un massimo di 30 ore lavorative mensili medie. I permessi di cui al presente comma sono retribuiti. 2. Le consigliere ed i consiglieri regionali e provinciali di parità hanno altresì diritto, ove si tratti di lavoratori dipendenti, ad ulteriori permessi non retribuiti per i quali verrà corrisposta un'indennità. La misura massima dei permessi e l'importo dell'indennità sono stabiliti annualmente dal decreto di cui all'articolo 9, comma 2. Ai fini dell'esercizio del diritto di assentarsi dal luogo di lavoro di cui al comma 1 ed al presente comma, le consigliere ed i consiglieri di parità devono darne comunicazione scritta al datore di lavoro almeno un giorno prima. 3. L'onere per le assenze dal lavoro di cui al comma 1 delle consigliere e dei consiglieri di parità regionali e provinciali, lavoratori dipendenti da privati o da amministrazioni pubbliche, è a carico rispettivamente dell'ente regionale e provinciale. A tal fine si impiegano risorse provenienti dal Fondo di cui all'articolo 9. L'ente regionale o provinciale, su richiesta, è tenuto a rimborsare al datore di lavoro quanto corrisposto per le ore di effettiva assenza. 4. Le consigliere ed i consiglieri regionali e provinciali di parità, lavoratori autonomi o liberi professionisti, hanno diritto per l'esercizio delle loro funzioni ad un'indennità rapportata al numero complessivo delle ore di effettiva attività, entro un limite massimo determinato annualmente dal decreto di cui all'articolo 9, comma 2. 5. La consigliera o il consigliere nazionale di parità, ove lavoratore dipendente, usufruisce di un numero massimo di permessi non retribuiti determinato annualmente con il decreto di cui all'articolo 9, comma 2, nonché di un'indennità fissata dallo stesso decreto. In alternativa può richiedere il collocamento in aspettativa non retribuita per la durata del mandato, percependo in tal caso un'indennità complessiva, a carico del Fondo di cui all'articolo 9, determinata tenendo conto dell'esigenza di ristoro 216 della retribuzione perduta e di compenso dell'attività svolta. Ove la funzione di consigliera o consigliere nazionale di parità sia ricoperta da un lavoratore autonomo o da un libero professionista, spetta al medesimo un'indennità nella misura complessiva annua determinata dal decreto di cui all'articolo 9, comma 2. Art. 7 (Azioni positive) 1. All'articolo 2 della legge 10 aprile 1991, n. 125, il comma 1 è sostituito dal seguente: "1. A partire dal 1 ottobre ed entro il 30 novembre di ogni anno, i datori di lavoro pubblici e privati, i centri di formazione professionale accreditati, le associazioni, le organizzazioni sindacali nazionali e territoriali possono richiedere al Ministero del lavoro e della previdenza sociale di essere ammessi al rimborso totale o parziale di oneri finanziari connessi all'attuazione di progetti di azioni positive presentati in base al programmaobiettivo di cui all'articolo 6, comma 1, lettera c).". 2. All'articolo 6, comma 1, della legge 10 aprile 1991, n. 125, la lettera c) è sostituita dalla seguente: "c) formula entro il 31 maggio di ogni anno un programma-obiettivo nel quale vengono indicate le tipologie di progetti di azioni positive che intende promuovere, i soggetti ammessi per le singole tipologie ed i criteri di valutazione. Il programma è diffuso dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale mediante pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale;". 3. All'articolo 6, comma 1, della legge 10 aprile 1991, n. 125, la lettera g) è sostituita dalla seguente: "g) propone soluzioni alle controversie collettive, anche indirizzando gli interessati all'adozione di progetti di azioni positive per la rimozione delle discriminazioni pregresse o di situazioni di squilibrio nella posizione di uomini e donne in relazione allo stato delle assunzioni, della formazione e promozione professionale, delle condizioni di lavoro e retributive, stabilendo eventualmente, su proposta del collegio istruttorio, l'entità del cofinanziamento di una quota dei costi connessi alla loro attuazione;". 217 4. All'articolo 7 della legge 10 aprile 1991, n. 125, il comma 4 è sostituito dal seguente: "4. Il Comitato e il Collegio istruttorio deliberano in ordine alle proprie modalità di organizzazione e di funzionamento; per lo svolgimento dei loro compiti possono costituire specifici gruppi di lavoro. Il Comitato può deliberare la stipula di convenzioni nonché di avvalersi di collaborazioni esterne : a) per l'effettuazione di studi e ricerche; b) per attività funzionali all'esercizio dei compiti in materia di progetti di azioni positive previsti dall'articolo 6, comma 1, lettera d). ". 5. Ai sensi degli articoli 1, comma 1, lettera c), 7, comma 1, e 61, comma 1, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le regioni, le province, i comuni e tutti gli enti pubblici non economici, nazionali, regionali e locali, sentiti gli organismi di rappresentanza previsti dall'articolo 47 del citato decreto legislativo n. 29 del 1993 ovvero, in mancanza, le organizzazioni rappresentative nell'ambito del comparto e dell'area di interesse, sentito inoltre, in relazione alla sfera operativa della rispettiva attività, il Comitato di cui all'articolo 5 della legge 10 aprile 1991, n. 125, e la consigliera o il consigliere nazionale di parità, ovvero il Comitato per le pari opportunità eventualmente previsto dal contratto collettivo e la consigliera o il consigliere di parità territorialmente competente, predispongono piani di azioni positive tendenti ad assicurare, nel loro ambito rispettivo, la rimozione degli ostacoli che, di fatto, impediscono la piena realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel la voro tra uomini e donne. Detti piani, fra l'altro, al fine di promuovere l'inserimento delle donne nei settori e nei livelli professionali nei quali esse sono sottorappresentate, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, lettera d, della citata legge n. 125 del 1991, favoriscono il riequilibrio della presenza femminile nelle attività e nelle posizioni gerarchiche ove sussiste un divario fra generi non inferiore a due terzi. A tale scopo, in occasione tanto di assunzioni quanto di promozioni, a fronte di analoga qualificazione e preparazione professionale tra candidati di sesso diverso, l'eventuale scelta del candidato di sesso maschile è accompagnata da un'esplicita ed adeguata motivazione. I piani di cui al presente articolo hanno durata triennale. In sede di prima applicazione essi sono predisposti entro il 30 giugno 2001. In caso di mancato adempimento si applica l'articolo 6, comma 6, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29. 6. In fase di prima attuazione, il programma obiettivo di cui all'articolo 6, comma 1, lettera c), della legge 10 aprile 1991, n.125, come sostituito dal 218 comma 2, è formulato per l'anno 2000 entro due mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto. Art. 8 (Azioni in giudizio) 1. L'articolo 4 della legge 10 aprile 1991, n. 125 è sostituito dal seguente: "Art. 4 ( Azioni in giudizio). 1. Costituisce discriminazione, ai sensi della legge 9 dicembre 1977 n. 903 e della presente legge, qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando anche in via indiretta le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso. 2. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all'adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori dell'uno o dell'altro sesso e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa. 3. Nei concorsi pubblici e nelle forme di selezione attuate, anche a mezzo di terzi, da datori di lavoro privati e pubbliche amministrazioni la prestazione richiesta dev'essere accompagnata dalle parole "dell'uno o dell'altro sesso", fatta eccezione per i casi in cui il riferimento al sesso costituisca requisito essenziale per la natura del lavoro o della prestazione. 4. Chi intende agire in giudizio per la dichiarazione delle discriminazioni ai sensi dei commi 1e 2 e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il tentativo di conciliazione ai sensi dell'articolo 410 del codice di procedura civile o, rispettivamente, dell'articolo 69bis del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, anche tramite la consigliera o il consigliere di parità provinciale o regionale territorialmente competente. 5. Le consigliere o i consiglieri di parità provinciali e regionali competenti per territorio, ferme restando le azioni in giudizio di cui ai commi 8 e 10, hanno facoltà di ricorrere innanzi al tribunale in funzione di giudice del lavoro o, per i rapporti sottoposti alla sua giurisdizione, al tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti, su delega della persona che vi ha interesse, ovvero di intervenire nei giudizi promossi dalla medesima. 219 6. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto - desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti - idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione. 7. Qualora le consigliere o i consiglieri di parità regionali e, nei casi di rilevanza nazionale, il consigliere o la consigliera nazionale, rilevino l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori diretti o indiretti di carattere collettivo, anche quando non siano individuabili in modo immediato e diretto le lavoratrici o i lavoratori lesi dalle discriminazioni, prima di promuovere l'azione in giudizio ai sensi dei commi 8 e 10, possono chiedere all'autore della discriminazione di predisporre un piano di rimozione delle discriminazioni accertate entro un termine non superiore a 120 giorni, sentite, nel caso di discriminazione posta in essere da un datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, le associazioni locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Se il piano è considerato di oneo alla rimozione delle discriminazioni, la consigliera o il consigliere di parità promuove il tentativo di conciliazione ed il relativo verbale, in copia autenticata, acquista forza di titolo esecutivo con decreto del tribunale in funzione di giudice del lavoro. 8. Con riguardo alle discriminazioni di carattere collettivo di cui al comma 7 le consigliere o i consiglieri di parità, qualora non ritengano di avvalersi della procedura di conciliazione di cui al medesimo comma o in caso di esito negativo della stessa, possono proporre ricorso davanti al tribunale in funzione di giudice del lavoro o al tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti. 9. Il giudice, nella sentenza che accerta le discriminazioni sulla base del ricorso presentato ai sensi del comma 8, ordina all'autore della discriminazione di definire un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, sentite, nel caso si tratti di datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, gli organismi locali aderenti alle organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative sul piano nazionale, nonché la consigliera o il consigliere di parità regionale competente per territorio o il consigliere o la consigliera nazionale. Nella 220 sentenza il giudice fissa i criteri, anche temporali, da osservarsi ai fini della definizione ed attuazione del piano. 10. Ferma restando l'azione di cui al comma 8, la consigliera o il consigliere regionale e nazionale di parità possono proporre ricorso in via d'urgenza davanti al tribunale in funzione di giudice del lavoro o al tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti. Il giudice adito, nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, ove ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, con decreto motivato e immediatamente esecutivo ordina all'autore della discriminazione la cessazione del comportamento pregiudizievole e adotta ogni altro provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti delle discriminazioni accertate, ivi compreso l'ordine di definizione ed attuazione da parte del responsabile di un piano di rimozione delle medesime. Si applicano in tal caso le disposizioni del comma 9. Contro il decreto è ammessa entro quindici giorni dalla comunicazione alle parti opposizione avanti alla medesima autorità giudiziaria territorialmente competente, che decide con sentenza immediatamente esecutiva. 11. L'inottemperanza alla sentenza di cui al comma 9, al decreto di cui al comma 10 o alla sentenza pronunciata nel relativo giudizio di opposizione è punita ai sensi dell'articolo 650 del codice penale e comporta altresì la revoca dei benefici di cui al comma 12 ed il pagamento di una somma di lire centomila per ogni giorno di ritardo da versarsi al Fondo di cui all'artic olo 9. 12. Ogni accertamento di atti, patti o comportamenti discriminatori ai sensi dei commi 1 e 2, posti in essere da soggetti ai quali siano stati accordati benefici ai sensi delle vigenti leggi dello Stato, ovvero che abbiano stipulato contratti di appalto attinenti all'esecuzione di opere pubbliche, di servizi o forniture, viene comunicato immediatamente dalla direzione provinciale del lavoro territorialmente competente ai Ministri nelle cui amministrazioni sia stata disposta la concessione del beneficio o dell'appalto. Questi adottano le opportune determinazioni, ivi compresa, se necessario, la revoca del beneficio e, nei casi più gravi o nel caso di recidiva, possono decidere l'esclusione del responsabile per un periodo di tempo fino a due anni da qualsiasi ulteriore concessione di agevolazioni finanziarie o creditizie ovvero da qualsiasi appalto. Tale disposizione si applica anche quando si tratti di agevolazioni finanziarie o creditizie ovvero di appalti concessi da enti pubblici, ai quali la direzione provinciale del lavoro comunica direttamente la discriminazione accertata per l'adozione delle sanzioni previste. Le 221 disposizioni del presente comma non si applicano nel caso sia raggiunta una conciliazione ai sensi dei commi 4 e 7 . 13. Ferma restando l'azione ordinaria, le disposizioni dell'articolo 15 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, si applicano in tutti i casi di azione individuale in giudizio promossa dalla persona che vi abbia interesse o su sua delega da un'organizzazione sindacale o dalla consigliera o dal consigliere provinciale o regionale di parità. 14. Qualora venga presentato un ricorso in via di urgenza ai sensi del comma 10 o ai sensi dell'articolo 15 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, come modificato dal comma 13, non trova applicazione l'articolo 410 del codice di procedura civile.". Art. 9 (Fondo per l'attività delle consigliere e dei consiglieri di parità) 1. E' istituito il Fondo nazionale per le attività delle consigliere e dei consiglieri di parità, alimentato dalle risorse di cui all'articolo 47, comma 1, lettera d), della legge 17 maggio 1999, n. 144. Il Fondo è destinato a finanziare le spese relative alle attività della consigliera o del consigliere nazionale di parità e delle consigliere o dei consiglieri regionali e provinciali di parità, ai compensi degli esperti eventualmente nominati ai sensi dell'articolo 4, comma 4, nonché le spese relative alle azioni in giudizio promosse o sostenute ai sensi dell'articolo 4 della legge 10 aprile 1991, n. 125, come sostituito dal presente decreto. E' altresì destinato a finanziare le spese relative al pagamento di compensi per indennità, rimborsi e remunerazione dei permessi spettanti alle consigliere ed ai consiglieri di parità, nonché quelle per il funzionamento e le attività della rete di cui all'articolo 4 e per gli eventuali oneri derivanti dalle convenzioni di cui all'articolo 5, comma 3, diversi da quelli relativi al personale. Le regioni e le province possono integrare le risorse provenienti dal Fondo con risorse proprie. 2. Con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro per le pari opportunità, sentita la Conferenza Unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, le risorse del Fondo vengono annualmente ripartite tra le diverse destinazioni, sulla base dei seguenti criteri: 222 a) una quota pari al 30% è riservata all'Ufficio del Consigliere nazionale di parità ed è destinata a finanziare, oltre alle spese relative alle attività ed ai compensi dello stesso, le spese relative al funzionamento ed ai programmi di attività della rete delle consigliere e dei consiglieri di parità di cui all'articolo 4; b) la restante quota del 70% è destinata alle Regioni e viene suddivisa tra le stesse sulla base di una proposta di riparto elaborata dalla Commissione interministeriale di cui al comma 4. 3. La ripartizione delle risorse deve comunque essere effettuata in base a parametri oggettivi, che tengono conto del numero dei consiglieri provinciali e di indicatori che considerano i differenziali demografici ed occupazionali, di genere e territoriali, nonché in base alla capacità di spesa dimostrata negli esercizi finanziari precedenti. 4. Presso il Ministero del lavoro e della previdenza sociale è istituita la Commissione interministeriale per la gestione del Fondo di cui al comma 1. La Commissione è composta dalla Consigliera o dal Consigliere nazionale di parità o da un delegato scelto all'interno della rete di cui all'articolo 4, dal vicepresidente del Comitato nazionale di cui all'articolo 5 della legge 10 aprile 1991, n. 125, da un rappresentante della Direzione generale del Ministero del lavoro e della previdenza sociale preposta all'amministrazione del Fondo per l'occupazione, da tre rappresentanti del Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri, da un rappresentante del Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, da un rappresentante del Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonché da tre rappresentanti della Conferenza Unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281. Essa provvede alla proposta di riparto tra le regioni della quota di risorse del Fondo ad esse assegnata, nonché all'approvazione dei progetti e dei programmi della rete di cui all'articolo 4. L'attività della Commissione non comporta oneri aggiuntivi a carico della finanza pubblica. 5. Per la gestione del Fondo di cui al comma 1 si applicano, in quanto compatibili, le norme che disciplinano il Fondo per l'occupazione. 223 Art. 10 (Disposizioni finali) 1. Con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, emanato entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, di concerto con i Ministri del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e per le pari opportunità, in base alle indicazioni del Comitato di cui all'articolo 5 della legge 10 aprile 1991, n. 125, sono stabilite le modalità di presentazione delle richieste di cui all'articolo 2, comma 1, della citata legge n. 125 del 1991, le procedure di valutazione e di verifica e quelle di erogazione, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 123. Con lo stesso decreto sono stabiliti i requisiti di onorabilità che i soggetti richiedenti devono possedere. La mancata attuazione del progetto comporta la decadenza dal beneficio e la restituzione delle somme eventualmente già riscosse. In caso di attuazione parziale, la decadenza opera limitatamente alla parte non attuata, la cui valutazione è effettuata in base ai criteri determinati dal decreto di cui al presente comma. 2. In sede di prima applicazione del presente decreto, i rapporti di cui agli articoli 3, comma 5, e 4, comma 5, sono presentati, rispettivamente, entro il 31 dicembre 2001 e il 31 marzo 2002. 3. Sono abrogati: gli articoli 2, commi 3 e 6, e 8, della legge 10 aprile 1991, n. 125, e l'articolo 18 della legge 7 dicembre 1977, n. 903. 4. Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano adeguano la propria legislazione ai principi desumibili dal presente decreto con le modalità previste dai rispettivi statuti. Fino all'emanazione delle leggi regionali, le disposizioni del presente decreto trovano piena e immediata applicazione nelle regioni a statuto speciale. Per le province autonome di Trento e di Bolzano resta fermo l'articolo 2 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266. Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana.E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare. Dato a Roma, addì 23 maggio 2000 CIAMPI 224 AMATO, Presidente del Consiglio dei Ministri SALVI, Ministro del Lavoro e della previdenza sociale BELLILLO, Ministro per le pari opportunità VISCO, Ministro del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica FASSINO, Ministro della giustizia BASSANINI, Ministro per la funzione pubblica LOIERO, Ministro per gli affari regionali Visto, il Guardasigilli: Fassino 225 DECRETO LEGISLATIVO 9 luglio 2003, n. 215 Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica. IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione; Vista la direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, sull'attuazione del principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica; Visto l'articolo 29 della legge 1° marzo 2002, n. 39, ed in particolare l'allegato B; Visto il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modific azioni; Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 28 marzo 2003; Acquisiti i pareri delle competenti Commissioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica; Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 3 luglio 2003; Sulla proposta del Ministro per le politiche comunitarie, del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità, di concerto con il Ministro degli affari esteri, con il Ministro della giustizia e con il Ministro dell'economia e delle finanze; Emana il seguente decreto legislativo: Art. 1. Oggetto 1. Il presente decreto reca le disposizioni relative all'attuazione della parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica, disponendo le misure necessarie affinché le differenze di razza o di origine etnica non siano causa di discriminazione, anche in un'ottica che tenga conto del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini, nonché dell'esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso. 226 Avvertenza: Il testo delle note qui pubblicato è stato redatto dall'amministrazione competente per materia, ai sensi dell'art. 10, comma 3, del testo unico delle disposizioni sulla promulgazione delle leggi, sull'emanazione dei decreti del Presidente della Repubblica e sulle pubblicazioni ufficiali della Repubblica italiana, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092, al solo fine di facilitare la lettura delle disposizioni di legge alle quali è operato il rinvio. Restano invariati il valore e l'efficacia degli atti legislativi qui trascritti. - Per le direttive CEE vengono forniti gli estremi di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee (G.U.C.E). Nota al titolo: - Il testo della direttiva 2000/43/CE (Direttiva del Consiglio che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica) è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Comunità europea 19 luglio 2000, n. L 180. Note alle premesse: - L'art. 76 della Costituzione regola la delega il Governo dell'esercizio della funzione legislativa e stabilisce che essa non può avvenire se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti. - L'art. 87, comma quinto, della Costituzione conferisce al Presidente della Repubblica il potere di promulgare le leggi e di emanare i decreti aventi valore di legge e i regolamenti. - Per il testo della citata Direttiva 2000/43/CE si veda nota al titolo. - Il testo dell'art. 29 della legge 1° marzo 2002, n. 39 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2001), e' il seguente: «Art. 29 (Attuazione della direttiva 2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica). - 1. Il Governo e' delegato ad emanare, entro il termine e con le modalità di cui all'art. 1, commi 1 e 2, uno o più decreti legislativi al fine di dare organica attuazione alla direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, e di coordinare le disposizioni vigenti in materia di garanzie contro le discriminazioni per cause direttamente o indirettamente connesse con la razza o l'origine etnica, anche attraverso la modifica e l'integrazione delle norme in materia di garanzie contro le discriminazioni, ivi compresi gli articoli 43 e 44 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto 227 legislativo 25 luglio 1998, n. 286, nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: a) assicurare il rispetto del principio della parità di trattamento fra le persone, garantendo che le differenze di razza od origine etnica non siano causa di discriminazione, in un'ottica che tenga conto del diverso impatto che le stesse forme di razzismo possono avere su donne e uomini, dell'esistenza di forme di razzismo e di forme di discriminazione a carattere culturale e religioso mirate in modo particolare alle donne, e dell'esistenza di discriminazioni basate sia sul sesso sia sulla razza od origine etnica; b) definire la nozione di discriminazione come «diretta» quando, a causa della sua razza od origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga; definire la nozione di discriminazione come «indiretta» quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone, salvo che tale disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento siano giustificati da ragioni oggettive, non basate sulle suddette qualità ovvero, nel caso di attività di lavoro o di impresa, riguardino requisiti essenziali alloro svolgimento; nell'ambito delle predette definizioni sono comunque fatte salve le disposizioni che disciplinano l'ingresso ed il soggiorno dei cittadini dei Paesi terzi e il loro accesso all'occupazione e all'impiego; prevedere che siano considerate come discriminazioni anche le molestie quando venga posto in essere, per motivi di razza o di origine etnica, un comportamento indesiderato che persista, anche quando è stato inequivocabilmente dichiarato dalla persona che lo subisce come offensivo, così pregiudic ando oggettivamente la sua dignità e libertà, ovvero creando un clima di intimidazione nei suoi confronti; c) promuovere l'eliminazione di ogni discriminazione diretta e indiretta e prevedere l'adozione di misure specifiche, ivi compresi progetti di azioni positive, dirette ad evitare o compensare svantaggi connessi con una determinata razza od origine etnica; d) prevedere l'applicazione del principio della parità di trattamento senza distinzione di razza od origine etnica sia nel settore pubblico sia nel settore privato, assicurando che, ferma restando la normativa sostanziale di settore, la tutela giurisdizionale e amministrativa sia azionabile quando le discriminazioni si verificano nell'ambito delle seguenti aree: 228 1. condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione, le condizioni di assunzione, nonché gli avanzamenti di carriera; 2. accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali; 3. occupazione e condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione; 4. attività prestata presso le organizzazioni dei lavoratori o dei datori di lavoro e accesso alle prestazioni erogate da tali organizzazioni; 5. protezione sociale, compresa la sicurezza sociale; 6. assistenza sanitaria; 7. prestazioni sociali; 8. istruzione; 9. accesso a beni e servizi e alla loro fornitura, incluso l'alloggio; e) riconoscere la legittimazione ad agire nei procedimenti giurisdizionali e amministrativi anche ad associazioni rappresentative degli interessi lesi dalla discriminazione, su delega della persona interessata; prevedere che, in caso di discriminazione collettiva, anche quando non siano individuabili in modo immediato e diretto le persone lese dalla discriminazione, la domanda possa essere proposta dalle suddette associazioni; f) prevedere criteri oggettivi che dimostrino l'effettiva rappresentatività delle associazioni di cui alla lettera e); g) prevedere che quando la persona che si ritiene lesa dalla discriminazione fornisce all'autorità' giudiziaria elementi di fatto idonei a fondare, in termini gravi, precisi e concordanti, l'indizio dell'esistenza di una discriminazione diretta o indiretta, spetti al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione; tale onere non e' previsto per i procedimenti penali; h) prevedere le misure necessarie per proteggere le persone da trattamenti o conseguenze sfavorevoli, quale reazione a un reclamo o a un'azione volta a ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento; i) prevedere l'istituzione nell'anno 2003 presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri di un ufficio di controllo e di garanzia della parità di trattamento e dell'operatività' degli strumenti di garanzia, diretto da un responsabile nominato dal Presidente del 229 Consiglio dei ministri o da un Ministro da lui delegato, che svolga attività di promozione della parità e di rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull'origine etnica, in particolare attraverso: 1) l'assistenza indipendente alle persone lese dalle discriminazioni nei procedimenti giurisdizionali o amministrativi intrapresi; 2) lo svolgimento di inchieste indipendenti in materia di discriminazione, nel rispetto delle prerogative e delle funzioni dell'autorità' giudiziaria; 3) la promozione dell'adozione, da parte di soggetti pubblici o privati, di misure specifiche, ivi compresi progetti di azioni positive, dirette a evitare o compensare svantaggi connessi con una determinata razza od origine etnica; 4) la formulazione di pareri e la formulazione di proposte di modifica della normativa vigente in materia; 5) la formulazione di raccomandazioni su questioni connesse con le discriminazioni fondate sulla razza o sull'origine etnica; 6) la redazione di una relazione annuale al Parlamento sull'applicazione del principio di parità di trattamento e sull'operatività' dei meccanismi di tutela contro le discriminazioni fondate sulla razza o sull'origine etnica, nonché di una relazione annuale al Presidente del Consiglio dei ministri sull'attività' svolta nell'anno precedente; 7) la diffusione delle informazioni relative alle disposizioni vigenti in materia di parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica; l) prevedere che l'ufficio di cui alla lettera. i) possa avvalersi anche di personale di altre amministrazioni pubbliche, ivi compresi magistrati e avvocati e procuratori dello Stato, nonché di esperti e di consulenti. 2. All'onere derivante dall'istituzione dell'ufficio di cui al comma 1, lettere i) e l), valutato in 2.035.357 euro annui a decorrere dal 2003, si provvede ai sensi dell'art. 21 della legge 16 aprile 1987, n. 183. 3. Fatto salvo quanto previsto dal comma 2, l'applicazione dei criteri e dei principi enunciati nel presente articolo non comporta oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato. 4. Gli schemi di decreto legislativo di cui al presente articolo sono trasmessi alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica perché su di essi sia espresso, entro sessanta giorni dalla data di trasmissione, il parere, dei competenti organi parlamentari. Decorso inutilmente tale termine, i decreti sono emanati anche in mancanza del parere parlamentare.». - Il testo dell'allegato B della citata legge n. 39 del 2002, e' il seguente: 230 «Allegato B (Articolo 1, commi 1 e 3) 93/104/CE del Consiglio, del 23 novembre 1993, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro.m 94/45/CE del Consiglio, del 22 settembre 1994, riguardante l'istituzione di un comitato aziendale europeo o di una procedura per l'informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensioni comunitarie. 96/61/CE del Consiglio, del 24 settembre 1996, sulla prevenzione e la riduzione integrate dell'inquinamento. 1999/31/CE del Consiglio, del 26 aprile 1999, relativa alle discariche di rifiuti. 1999/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 giugno 1999, che istituisce un meccanismo di riconoscimento delle qualifiche per le attività professionali disciplinate dalle direttive di liberalizzazione e dalle direttive recanti misure transitorie e che completa il sistema generale di riconoscimento delle qualifiche. 1999/63/CE del Consiglio, del 21 giugno 1999, relativa all'accordo sull'organizzazione dell'orario di lavoro della gente di mare concluso dall'Associazione armatori della Comunità europea (ECSA) e dalla Federazione dei sindacati dei trasportatori dell'Unione europea (FST). 1999/64/CE della Commissione, del 23 giugno 1999, che modifica la direttiva 90/388/CEE al fine di garantire che le reti di telecomunicazioni e le reti televisive via cavo appartenenti ad un unico proprietario siano gestite da persone giuridiche distinte. 1999/92/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 1999, relativa alle prescrizioni minime per il miglioramento della tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori che possono essere esposti al rischio di atmosfere esplosive (quindicesima direttiva particolare ai sensi dell'art. 16, paragrafo 1, della direttiva 89/391/CEE). 2000/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 marzo 2000, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l'etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità. 2000/26/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 maggio 2000, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e che modifica le direttive 73/239/CEE e 88/357/CEE del Consiglio (quarta direttiva assicurazione autoveicoli). 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'8 giugno 2000, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell'informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («direttiva sul commercio elettronico»). 2000/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 giugno 2000, che modifica la direttiva 93/104/CE del Consiglio concernente taluni aspetti 231 dell'organizzazione dell'orario di lavoro, al fine di comprendere i settori e le attività esclusi dalla suddetta direttiva. 2000/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 giugno 2000, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. 2000/36/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 giugno 2000, relativa ai prodotti di cacao e di cioccolato destinati all'alimentazione umana. 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica. 2000/53/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 settembre 2000, relativa ai veic oli fuori uso. 2000/59/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 novembre 2000, relativa agli impianti portuali di raccolta per i rifiuti prodotti dalle navi e i residui del carico. 2000/75/CE del Consiglio, del 20 novembre 2000, che stabilisce disposizioni specifiche relative alle misure di lotta e di eradicazione della febbre catarrale degli ovini. 2000/77/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 dicembre 2000, recante modifica della direttiva 95/53/CE del Consiglio che fissa i principi relativi all'organizzazione dei controlli ufficiali nel settore dell'alimentazione animale. 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. 2000/79/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, relativa all'attuazione dell'accordo europeo sull'organizzazione dell'orario di lavoro del personale di volo nell'aviazione civile concluso da Association of European Airlines (AEA), European Transport Workers' Federation (ETF), European Cockpit Association (ECA), European Regions Airline Association (ERA) e International Air Carrier Association (IACA). 2001/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2001, che modifica la direttiva 91/440/CEE del Consiglio relativa allo sviluppo delle ferrovie comunitarie. 2001/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio2001, che modifica la direttiva 95/18/CE del Consiglio relativa alle licenze delle imprese ferroviarie.2001/14/CE del Parla mento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2001, relativa alla ripartizione della capacità di infrastruttura ferroviaria, all'imposizione dei diritti per l'utilizzo dell'infrastruttura ferroviaria e alla certificazione di sicurezza. 2001/15/CE della Commissione, del 15 febbraio 2001, sulle sostanze che possono essere 232 aggiunte a scopi nutrizionali specifici ai prodotti alimentari destinati ad un'alimentazione particolare. 2001/16/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 marzo 2001, relativa all'interoperabilità del sistema ferroviario transeuropeo convenzionale. 2001/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 marzo 2001, sull'emissione deliberata nell'ambiente di organismi geneticamente modificati e che abroga la direttiva 90/220/CEE del Consiglio. 2001/19/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 maggio 2001, che modifica le direttive 89/48/CEE e 92/51/CEE del Consiglio relative al sistema generale di riconoscimento delle qualifiche professionali e le direttive 77/452/CEE, 77/453/CEE, 78/686/CEE, 78/687/CEE, 78/1026/CEE, 78/1027/CEE, 80/154/CEE, 80/155/CEE, 85/384/CEE, 85/432/CEE, 85/433/CEE e 93/16/CEE del Consiglio concernenti le professioni di infermiere responsabile dell'assistenza generale, dentista, veterinario, ostetrica, architetto, farmacista e medico. 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti. 2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2001, sull'armonizzazione di taluni aspetti del diritto d'autore e dei diritti connessi nella società dell'informazione. 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 giugno 2001, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull'ambiente. 2001/45/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 giugno 2001, che modifica la direttiva 89/655/CEE del Consiglio relativa ai requisiti minimi di sicurezza e di salute per l'uso delle attrezzature di lavoro da parte dei lavoratori durante il lavoro (seconda direttiva particolare ai sensi dell'art. 16, paragrafo 1, della direttiva 89/391/CEE). 2001/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 luglio 2001, recante modificazione della direttiva 95/53/CE del Consiglio che fissa i principi relativi all'organizzazione dei controlli ufficiali nel settore dell'alimentazione animale e delle direttive 70/524/CEE, 96/25/CE e 1999/29/CE del Consiglio, relative all'alimentazione animale. 2001/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 settembre 2001, che modifica le direttive 78/660/CEE, 83/349/CEE e 86/635/CEE per quanto riguarda le regole di valutazione per i conti annuali e consolidati di taluni tipi di società nonché di banche e di altre istituzioni finanziarie. 2001/77/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 settembre 2001, sulla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità'. 233 2001/84/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 settembre 2001, relativa al diritto dell'autore di un'opera d'arte sulle successive vendite dell'originale. 2001/86/CE del Consiglio, dell'8 ottobre 2001, che completa lo statuto della società europea per quanto riguarda il coinvolgimento dei lavoratori. Il testo del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), e' pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 18 agosto 1998, n. 191, S.O. Art. 2. Nozione di discriminazione 1. Ai fini del presente decreto, per principio di parità di trattamento si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell'origine etnica. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite: a) discriminazione diretta quando, per la razza o l'origine etnica, una persona e' trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in situazione analoga; b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone. 2. E' fatto salvo il disposto dell'articolo 43, commi 1 e 2, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, di seguito denominato: «testo unico». 3. Sono, altresì, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo. 4. L'ordine di discriminare persone a causa della razza o dell'origine etnica è considerato una discriminazione ai sensi del comma 1. Note all'art. 2: - Il testo dell'art. 43, commi 1 e 2 del citato decreto legislativo n. 286 del 1998 e' il seguente: «Art. 43 (Discriminazione per motivi razziali, etnici,nazionali o religiosi). 234 1. Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica. 2. In ogni caso compie un atto di discriminazione: a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell'esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità, lo discriminino ingiustamente; b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità; c) chiunque illegittimamente imponga condizioni piu' svantaggiose o si rifiuti di fornire l'accesso all'occupazione, all'alloggio, all'istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità; d) chiunque impedisca, mediante azioni od omissioni, l'esercizio di un'attività' economica legittimamente intrapresa da uno straniero regolarmente soggiornante in Italia, soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, confessione religiosa, etnia o nazionalità; e) il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dell'art. 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificata e integrata dalla legge 9 dicembre 1977, n. 903, e dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all'adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata 235 confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività' lavorativa.». Art. 3. Ambito di applicazione 1. Il principio di parità di trattamento senza distinzione di razza ed origine etnica si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed e' suscettibile di tutela giurisdizionale, secondo le forme previste dall'articolo 4, con specifico riferimento alle seguenti aree: a) accesso all'occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione; b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento; c) accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali; d) affiliazione e attività nell'ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni; e) protezione sociale, inclusa la sicurezza sociale; f) assistenza sanitaria; g) prestazioni sociali; h) istruzione; i) accesso a beni e servizi, incluso l'alloggio. 2. Il presente decreto legislativo non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e non pregiudica le disposizioni nazionali e le condizioni relative all'ingresso, al soggiorno, all'accesso all'occupazione, all'assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato, né qualsiasi trattamento, adottato in base alla legge, derivante dalla condizione giuridica dei predetti soggetti. 3. Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell'ambito del rapporto di lavoro o dell'esercizio dell'attività' di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla razza o all'origine etnica di una persona, qualora, per la natura di un'attività' lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell'attività medesima. 4. Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente 236 discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari. Art. 4. Tutela giurisdizionale dei diritti 1. La tutela giurisdizionale avverso gli atti e i comportamenti di cui all'articolo 2 si svolge nelle forme previste dall'articolo 44, commi da 1 a 6, 8 e 11, del testo unico. 2. Chi intende agire in giudizio per il riconoscimento della sussistenza di una delle discriminazioni di cui all'articolo 2 e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il tentativo di conciliazione ai sensi dell'articolo 410 del codice di procedura civile o, nell'ipotesi di rapporti di lavoro con le amministrazioni pubbliche, ai sensi dell'articolo 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, anche tramite le associazioni di cui all'articolo 5, comma 1. 3. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio, anche sulla base di dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta ai sensi dell'articolo 2729, primo comma, del codice civile. 4. Con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dell'atto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti. Al fine di impedirne la ripetizione, il giudice può ordinare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. 5. Il giudice tiene conto, ai fini della liquidazione del danno di cui al comma 4, che l'atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento. 6. Il giudice può ordinare la pubblicazione della sentenza di cui ai commi 4 e 5, a spese del convenuto, per una sola volta su un quotidiano di tiratura nazionale. 7. Resta salva la giurisdizione del giudice amministrativo per il personale di cui all'articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Note all'art. 4: - Il testo dell'art. 44 del citato decreto legislativo n. 286 del 1998, e' il seguente: «Art. 44 (Azione civile contro la discriminazione). 237 (Legge 6 marzo 1988, n. 40, art. 42) - 1. Quando il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice può, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione. 2. La domanda si propone con ricorso depositato, anche personalmente dalla parte, nella cancelleria del pretore del luogo di domicilio dell'istante. 3. Il pretore, sentite le parti, omessa ogni normalista non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto. 4. Il pretore provvede con ordinanza all'accoglimento o al rigetto della domanda. Se accoglie la domanda emette i provvedimenti richiesti che sono immediatamente esecutivi. 5. Nei casi di urgenza il pretore provvede con decreto motivato, assunte, ove occorre, sommarie informazioni. In tal caso fissa, con lo stesso decreto, l'udienza di comparizione delle parti davanti a sé entro un termine non superiore a quindici giorni, assegnando all'istante un termine non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. A tale udienza, il pretore, con ordinanza, conferma, modifica o revoca i provvedimenti emanati nel decreto. 6. Contro i provvedimenti del pretore e' ammesso reclamo al tribunale nei termini di cui all'art. 739, secondo comma, del codice di procedura civile. Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737, 738 e 739 del codice di procedura civile. 7. Con la decisione che definisce il giudizio il giudice può altresì condannare il convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale. 8. Chiunque elude l'esecuzione di provvedimenti del pretore di cui ai commi 4 e 5 e dei provvedimenti del tribunale di cui al comma 6 e' punito ai sensi dell'art. 388, primo comma, del codice penale. 9. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza a proprio danno del comportamento discriminatorio in ragione della razza, del gruppo etnico o linguistico, della provenienza geografica, della confessione religiosa o della cittadinanza può dedurre elementi di fatto anche a carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi contributivi, all'assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell'azienda interessata. Il giudice valuta i fatti dedotti nei limiti di cui all'art. 2729, primo comma, del codice civile. 10. Qualora il datore di lavoro ponga in essere un atto o un comportamento discriminatorio di carattere collettivo, anche in casi in cui non siano 238 individuabili in modo immediato e diretto i lavoratori lesi dalle discriminazioni, il ricorso può essere presentato dalle rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale. Il giudice, nella sentenza che accerta le discriminazioni sulla base del ricorso presentato ai sensi del presente articolo, ordina al datore di lavoro di definire, sentiti i predetti soggetti e organismi, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. 11. Ogni accertamento di atti o comportamenti discriminatori ai sensi dell'art. 43 posti in essere da imprese alle quali siano stati accordati benefici ai sensi delle leggi vigenti dello Stato o delle regioni, ovvero che abbiano stipulato contratti di appalto attinenti all'esecuzione di opere pubbliche, di servizi o di forniture, e' immediatamente comunicato dal Pretore, secondo le modalità previste dal regolamento di attuazione, alle amministrazioni pubbliche o enti pubblici che abbiano disposto la concessione del beneficio, incluse le agevolazioni finanziarie o creditizie, o dell'appalto. Tali amministrazioni, o enti revocano il beneficio e, nei casi più gravi, dispongono l'esclusione del responsabile per due anni da qualsiasi ulteriore concessione di agevolazioni finanziarie o creditizie, ovvero da qualsiasi appalto. 12. Le regioni, in collaborazione con le province e con i comuni, con le associazioni di immigrati e del volontariato sociale, ai fini dell'applicazione delle norme del presente articolo e dello studio del fenomeno, predispongono centri di osservazione, di informazione e di assistenza legale per gli stranieri, vittime delle discriminazioni per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi». - Il testo dell'art. 410 del codice di procedura civile, e' il seguente: «Art. 410 (Tentativo obbligatorio di conciliazione). Chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti dall'art. 409 e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti e accordi collettivi deve promuovere, anche tramite l'associazione sindacale alla quale aderisce o conferisca mandato, il tentativo di conciliazione presso la commissione di conciliazione individuata secondo i criteri di cui all'art. 413. La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza. La commissione, ricevuta la richiesta tenta la conciliazione della controversia, convocando le parti, per una riunione da tenersi non oltre dieci giorni dal ricevimento della richiesta. Con provvedimento del direttore dell'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione è istituita in ogni provincia presso l'ufficio provinciale 239 del lavoro e della massima occupazione, una commissione provinciale di conciliazione composta dal direttore dell'ufficio stesso, o da un suo delegato, in qualità di presidente, da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei datori di lavoro e da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei lavoratori, designati dalle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative su base nazionale. Commissioni di conciliazione possono essere istituite, con le stesse modalità e con la medesima composizione di cui al precedente comma, anche presso le sezioni zonali degli uffici provinciali del lavoro e della massima occupazione. Le commissioni, quando se ne ravvisi la necessità, affidano il tentativo di conciliazione a proprie sottocommissioni, presiedute dal direttore dell'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione o da un suo delegato che rispecchino la composizione prevista dal precedente terzo comma. In ogni caso per la validità della riunione e' necessaria la presenza del presidente e di almeno un rappresentante dei datori di lavoro e di uno dei lavoratori. Ove la riunione della commissione non sia possibile per la mancata presenza di almeno uno dei componenti di cui al precedente comma, il direttore dell'ufficio provinciale del lavoro certifica l'impossibilita' di procedere al tentativo di conciliazione.». - Il testo dell'art. 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), è il seguente: «Art. 66 (Collegio di conciliazione). 1. Ferma restando la facoltà del lavoratore di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, il tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all'art. 65 si svolge, con le procedure di cui ai commi seguenti, dinanzi ad un collegio di conciliazione istituito presso la Direzione provinciale del lavoro nella cui circoscrizione si trova l'ufficio cui il lavoratore e' addetto, ovvero era addetto al momento della cessazione del rapporto. Le medesime procedure si applicano, in quanto compatibili, se il tentativo di conciliazione è promosso dalla pubblica amministrazione. Il collegio di conciliazione è composto dal direttore della Direzione o da un suo delegato, che lo presiede, da un rappresentante del lavoratore e da un rappresentante dell'amministrazione. 2. La richiesta del tentativo di conciliazione, sottoscritta dal lavoratore, è consegnata alla Direzione presso la quale è istituito il collegio di conciliazione competente o spedita mediante raccomandata con avviso di ricevimento. Copia della richiesta deve essere consegnata o spedita a cura dello stesso lavoratore all'amministrazione di appartenenza. 240 3. La richiesta deve precisare: a) l'amministrazione di appartenenza e la sede alla quale il lavoratore è addetto; b) il luogo dove gli devono essere fatte le comunicazioni inerenti alla procedura; c) l'esposizione sommaria dei fatti e delle ragioni poste a fondamento della pretesa; d) la nomina del proprio rappresentante nel collegio di conciliazione o la delega per la nomina medesima ad un'organizzazione sindacale. 4. Entro trenta giorni dal ricevimento della copia della richiesta, l'amministrazione, qualora non accolga la pretesa del lavoratore, deposita presso la Direzione osservazioni scritte. Nello stesso atto nomina il proprio rappresentante in seno al collegio di conciliazione. Entro i dieci giorni successivi al deposito, il Presidente fissa la comparizione delle parti per il tentativo di conciliazione. Dinanzi al collegio di conciliazione, il lavoratore può farsi rappresentare o assistere anche da un'organizzazione cui aderisce o conferisce mandato. Per l'amministrazione deve comparire un soggetto munito del potere di conciliare. 5. Se la conciliazione riesce, anche limitatamente ad una parte della pretesa avanzata dal lavoratore, viene redatto separato processo verbale sottoscritto dalle parti e dai componenti del collegio di conciliazione. Il verbale costituisce titolo esecutivo. Alla conciliazione non si applicano le disposizioni dell'art. 2113, commi, primo, secondo e terzo del codice civile. 6. Se non si raggiunge l'accordo tra le parti, il collegio di conciliazione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia. Se la proposta non e' accettata, i termini di essa sono riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti. 7. Nel successivo giudizio sono acquisiti, anche di ufficio, i verbali concernenti il tentativo di conciliazione non riuscito. Il giudice valuta il comportamento tenuto dalle parti nella fase conciliativa ai fini del regolamento delle spese. 8. La conciliazione della lite da parte di chi rappresenta la pubblica amministrazione, in adesione alla proposta formulata dal collegio di cui al comma 1, ovvero in sede giudiziale ai sensi dell'art. 420, commi primo, secondo e terzo, del codice di procedura civile, non può dar luogo a responsabilità amministrativa.». - Il testo dell'art. 2729, del codice civile è il seguente: «Art. 2729 (Presunzioni semplici). - Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti. Le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni.». 241 - Il testo dell'art. 3, del citato decreto legislativo n. 165 del 2001, è il seguente: «Art. 3 (Personale in regime di diritto pubblico). 1. In deroga all'art. 2, commi 2 e 3, rimangono disciplinati dai rispettivi ordinamenti: i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e le Forze di polizia di Stato, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia nonché i dipendenti degli enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate dall'art. 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio 1947, n. 691, e dalle leggi 4 giugno 1985, n. 281, e successive modificazioni ed integrazioni, e 10 ottobre 1990, n. 287. 2. Il rapporto di impiego dei professori e dei ricercatori universitari resta disciplinato dalle disposizioni rispettivamente vigenti, in attesa della specifica disciplina che la regoli in modo organico ed in conformità ai principi della autonomia universitaria di cui all'art. 33 della Costituzione ed agli articoli 6 e seguenti della legge 9 maggio 1989, n. 168, e successive modificazioni ed integrazioni, tenuto conto dei principi di cui all'art. 2, comma 1, della legge 23ottobre 1992, n. 421.». Art. 5. Legittimazione ad agire 1. Sono legittimati ad agire ai sensi dell'articolo 4, in forza di delega, rilasciata, a pena di nullità, per atto pubblico o scrittura privata autenticata, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, le associazioni e gli enti inseriti in un apposito elenco approvato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità ed individuati sulla base delle finalità programmatiche e della continuità dell'azione. 2. Nell'elenco di cui al comma 1 possono essere inseriti le associazioni e gli enti iscritti nel registro di cui all'articolo 52, comma 1, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, nonché le associazioni e gli enti iscritti nel registro di cui all'articolo 6. 3. Le associazioni e gli enti inseriti nell'elenco di cui al comma 1 sono, altresì, legittimati ad agire ai sensi dell'articolo 4 nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione. Nota all'art. 5: - Il testo dell'art. 52, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del testo 242 unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell'art. 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), e' il seguente: «Art. 52 (Registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività a favore degli immigrati). - 1. Presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per gli affari sociali, e' istituito il registro delle associa zioni, degli enti e degli altri organismi privati che svolgono le attività a favore degli stranieri immigrati previste dal testo unico. Il registro è diviso in tre sezioni. a) nella prima sezione sono iscritti associazioni, enti e altri organismi privati che svolgono attività per favorire l'integrazione sociale degli stranieri, ai sensi dell'art. 42 del testo unico; b) nella seconda sono iscritti associazioni ed enti che possono essere ammessi a prestare garanzia per l'ingresso degli stranieri per il loro inserimento nel mercato del lavoro, ai sensi dell'art. 23 del testo unico; c) nella terza sezione sono iscritti associazioni, enti ed altri organismi privati abilitati alla realizzazione dei programmi di assistenza e protezione sociale degli stranieri di cui all'art. 18 del testo unico.». Art. 6. Registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività nel campo della lotta alle discriminazioni 1. Presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le pari opportunità è istituito il registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività nel campo della lotta alle discriminazioni e della promozione della parità di trattamento. 2. L'iscrizione nel registro è subordinata al possesso dei seguenti requisiti: a) avvenuta costituzione, per atto pubblico o per scrittura privata autenticata, da almeno un anno e possesso di uno statuto che sancisca un ordinamento a base democratica e preveda come scopo esclusivo o preminente il contrasto ai fenomeni di discriminazione e la promozione della parità di trattamento, senza fine di lucro; b) tenuta di un elenco degli iscritti, aggiornato annualmente con l'indicazione delle quote versate direttamente all'associazione per gli scopi statutari; c) elaborazione di un bilancio annuale delle entrate e delle uscite con indicazione delle quote versate dagli associati e tenuta dei libri contabili, conformemente alle norme vigenti in materia di contabilità delle associazioni non riconosciute; d) svolgimento di un'attività continuativa nell'anno precedente; e) non avere i suoi rappresentanti legali subito alcuna condanna, passata in giudicato, in relazione all'attività dell'associazione medesima, e non rivestire 243 i medesimi rappresentanti la qualifica di imprenditori o di amministratori di imprese di produzione e servizi in qualsiasi forma costituite, per gli stessi settori in cui opera l'associazione. 3. La Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per le pari opportunità provvede annualmente all'aggiornamento del registro. Art. 7. Ufficio per il contrasto delle discriminazioni 1. E' istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per le pari opportunità un ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull'origine etnica, con funzioni di controllo e garanzia delle parità di trattamento e dell'operatività degli strumenti di tutela, avente il compito di svolgere, in modo autonomo e imparziale, attività di promozione della parità e di rimozione di qualsiasi forma di discriminazione fondata sulla razza o sull'origine etnica, anche in un'ottica che tenga conto del diverso impatto che le stesse discriminazioni possono avere su donne e uomini, nonché dell'esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso. 2. In particolare, i compiti dell'ufficio di cui al comma 1 sono i seguenti: a) fornire assistenza, nei procedimenti giurisdizionali o amministrativi intrapresi, alle persone che si ritengono lese da comportamenti discriminatori, anche secondo le forme di cui all'articolo 425 del codice di procedura civile; b) svolgere, nel rispetto delle prerogative e delle funzioni dell'autorità giudiziaria, inchieste al fine di verificare l'esistenza di fenomeni discriminatori; c) promuovere l'adozione, da parte di soggetti pubblici e privati, in particolare da parte delle associazioni e degli enti di cui all'articolo 6, di misure specifiche, ivi compresi progetti di azioni positive, dirette a evitare o compensare le situazioni di svantaggio connesse alla razza o all'origine etnica; d) diffondere la massima conoscenza possibile degli strumenti di tutela vigenti anche mediante azioni di sensibilizzazione dell'opinione pubblica sul principio della parità di trattamento e la realizzazione di campagne di informazione e comunicazione; e) formulare raccomandazioni e pareri su questioni connesse alle discriminazioni per razza e origine etnica, nonché proposte di modifica della normativa vigente; f) redigere una relazione annuale per il Parlamento sull'effettiva applicazione del principio di parità di trattamento e sull'efficacia dei meccanismi di tutela, 244 nonché una relazione annuale al Presidente del Consiglio dei Ministri sull'attività' svolta; g) promuovere studi, ricerche, corsi di formazione e scambi di esperienze, in collaborazione anche con le associazioni e gli enti di cui all'articolo 6, con le altre organizzazioni non governative operanti nel settore e con gli istituti specializzati di rilevazione statistica, anche al fine di elaborare linee guida in materia di lotta alle discriminazioni. 3. L'ufficio ha facoltà di richiedere ad enti, persone ed imprese che ne siano in possesso, di fornire le informazioni e di esibire i documenti utili ai fini dell'espletamento dei compiti di cui al comma 2. 4. L'ufficio, diretto da un responsabile nominato dal Presidente del Consiglio dei Ministri o da un Ministro da lui delegato, si articola secondo le modalità organizzative fissate con successivo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, con cui si provvede ad apportare le opportune modifiche al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 23 luglio 2002, recante ordinamento delle strutture generali della Presidenza del Consiglio dei Ministri, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 207 del 4 settembre 2002. 5. L'ufficio può avvalersi anche di personale di altre amministrazioni pubbliche, ivi compresi magistrati e avvocati e procuratori dello Stato, in posizione di comando, aspettativa o fuori ruolo, conche di esperti e consulenti esterni. Si applica l'articolo 17, commi 14 e 17, della legge 15 maggio 1997, n. 127. 6. Il numero dei soggetti di cui al comma 5 è determinato con il decreto di cui al comma 4, secondo quanto previsto dall'articolo 29 della legge 23 agosto 1988, n. 400 e dall'articolo 9 del decreto legisla tivo 23 luglio 1999, n. 303. 7. Gli esperti di cui al comma 5 sono scelti tra soggetti, anche estranei alla pubblica amministrazione, dotati di elevata professionalità nelle materie giuridiche, nonché nei settori della lotta alle discriminazioni, dell'assistenza materiale e psicologica ai soggetti in condizioni disagiate, del recupero sociale, dei servizi di pubblica utilità, della comunicazione sociale e dell'analisi delle politiche pubbliche. 8. Sono fatte salve le competenze delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano. Note all'art. 7: - Il testo dell'art. 425 del Codice di procedura civile è il seguente: «Art. 425 (Richiesta di informazioni e osservazioni alle associazioni sindacali). - Su istanza di parte, l'associazione sindacale indicata dalla stessa ha facoltà di rendere in giudizio, tramite un suo rappresentante, informazioni e osservazioni orali o scritte. Tali informazioni e osservazioni possono essere 245 rese anche nel luogo di lavoro ove sia stato disposto l'accesso ai sensi del terzo comma dell'art. 421. A tal fine il giudice può disporre ai sensi del sesto comma dell'art. 420. Il giudice può richiedere alle associazioni sindacali il testo dei contratti e accordi collettivi di lavoro, anche aziendali, da applicare nella causa.». - Il testo dell'art. 17, commi 14 e 17, della legge 15 maggio 1997, n. 127 (Misure urgenti per lo snellimento dell'attività' amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo), è il seguente: «Art. 17 (Ulteriori disposizioni in materia di semplificazione dell'attività' amministrativa e di snellimento dei procedimenti di decisione e di controllo). (Omissis). 14. Nel caso in cui disposizioni di legge o regolamentari dispongano l'utilizzazione presso le amministrazioni pubbliche di un contingente di personale in posizione di fuori ruolo o di comando, le amministrazioni di appartenenza sono tenute ad adottare il provvedimento di fuori ruolo o di comando entro quindici giorni dalla richiesta (Omissis). 17. Al comando si provvede con decreto dei Ministri competenti, sentito l'impiegato.». - Il testo dell'art. 29 della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), è il seguente: «Art. 29 (Consulenti e comitati di consulenza). 1. Il Presidente del Consiglio dei ministri può avvalersi di consulenti e costituire comitati di consulenza, di ricerca o di studio su specifiche questioni. 2. Per tali attività si provvede con incarichi a tempo determinato da conferire a magistrati, docenti universitari, avvocati dello Stato, dirigenti e altri dipendenti delle amministrazioni dello Stato, degli Enti pubblici, anche economici, delle aziende a prevalente partecipazione pubblica o anche ad esperti estranei all'amministrazione dello Stato.». - Il testo dell'art. 9 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303 (Ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, a norma dell'art. 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59), è il seguente: «Art. 9 (Personale della Presidenza). 1. Gli incarichi dirigenziali presso la Presidenza sono conferiti secondo le disposizioni di cui agli articoli 14, comma 2, e 19 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni, relativi, rispettivamente, alle strutture individuate come di diretta collaborazione ed alle altre strutture, ferma restando l'applicabilità, per gli incarichi di direzione di dipartimento, dell'art. 28 della legge 23 agosto 1988, n. 400, come 246 modificato dal presente decreto, e ferma altresì restando l'applicabilità degli articoli 18, comma 3, e 31, comma 4, della legge stessa. 2. La Presidenza si avvale per le prestazioni di lavoro di livello non dirigenziale: di personale di ruolo, entro i limiti di cui all'art. 11, comma 4; di personale di prestito, proveniente da altre amministrazioni pubbliche, ordini, organi, enti o istituzioni, in posizione di comando, fuori ruolo, o altre corrispondenti posizioni disciplinate dai rispettivi ordinamenti; di personale proveniente dal settore privato, utilizzabile con contratti a tempo determinato per le esigenze delle strutture e delle funzioni individuate come di diretta collaborazione; di consulenti o esperti, anche estranei alla pubblica amministrazione, nominati per speciali esigenze secondo criteri e limiti fissati dal Presidente. 3. In materia di reclutamento del personale di ruolo, il Presidente, con proprio decreto, può istituire, in misura non superiore al 20 per cento dei posti disponibili, una riserva di posti per l'inquadramento selettivo, a parità di qualifica, del personale di altre amministrazioni in servizio presso la Presidenza ed in possesso di requisiti professionali adeguati e comprovati nel tempo. 4. Il rapporto di lavoro del personale di ruolo della Presidenza è disciplinato dalla contrattazione collettiva e dalle leggi che regolano il rapporto di lavoro privato, in conformità delle norme del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni e integrazioni, anche per quanto attiene alla definizione del comparto di contrattazione per la Presidenza. Tale regime si applica, relativamente al trattamento economico accessorio e fatta eccezione per gli estranei e per gli appartenenti a categorie sottratte alla contrattazione collettiva, al personale che presso la Presidenza ricopre incarichi dirigenziali ed al personale di prestito in servizio presso la Presidenza stessa. 5. Il Presidente, con proprio decreto, stabilisce il contingente del personale di prestito, ai sensi dell'art. 11, comma 4, il contingente dei consulenti ed esperti, e le corrispondenti risorse finanziarie da stanziare in bilancio. Appositi contingenti sono previsti per il personale delle forze di polizia, per le esigenze temporanee di cui all'art. 39, comma 22, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, nonché per il personale di prestito utilizzabile nelle strutture di diretta collaborazione. Il Presidente può ripartire per aree funzionali, in relazione alle esigenze ed alle disponibilità finanziarie, i contingenti del personale di prestito, dei consulenti ed esperti. Al giuramento di un nuovo Governo, cessano di avere effetto i decreti di utilizzazione del personale estraneo e del personale di prestito addetto ai gabinetti e segreterie delle autorità politiche. Il restante personale di prestito e' restituito entro sei mesi alle amministrazioni di appartenenza, salva proroga del comando o conferma del fuori ruolo disposte sulla base di 247 specifica e motivata richiesta dei dirigenti proposti alle strutture della Presidenza. 6. Il Presidente, con proprio decreto, stabilisce il trattamento economico del Segretario generale e dei vicesegretari generali, nonché i compensi da corrispondere ai consulenti, agli esperti, al personale estraneo alla pubblica amministrazione. 7. Ai decreti di cui al presente articolo ed a quelli di cui agli articoli 7 e 8 non sono applicabili la disciplina di cui all'art. 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, e quella di cui all'art. 3, commi 1, 2 e 3, della legge 14 gennaio 1994, n. 20. Il Presidente può richiedere il parere del Consiglio di Stato e della Corte dei conti sui decreti di cui all'art. 8.». Art. 8. Copertura finanziaria 1. Agli oneri finanziari derivanti dall'istituzione e funzionamento dell'ufficio di cui all'articolo 7, nel limite massimo di spesa di 2.035.357 euro annui a decorrere dal 2003, si provvede ai sensi dell'articolo 29, comma 2, della legge 1° marzo 2002, n. 39. 2. Fatto salvo quanto previo dal comma 1, dall'attuazione del presente decreto non derivano oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato. Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare. Dato a Roma, addì 9 luglio 2003 CIAMPI Berlusconi, Presidente del Consiglio dei Ministri Buttiglione, Ministro per le politiche comunitarie Maroni, Ministro del lavoro e delle politiche sociali Prestigiacomo, Ministro per le pari opportunità Frattini, Ministro degli affari esteri Castelli, Ministro della giustizia Tremonti, Ministro dell'economia e delle finanze Visto, il Guardasigilli: Castelli 248 DECRETO LEGISLATIVO 9 luglio 2003, n.216 Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione; Vista la direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro; Vista la legge 1° marzo 2002, n. 39, ed in particolare l'allegato B; Vista la legge 20 maggio 1970, n. 300, recante «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento»; Visto il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286; Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 28 marzo 2003; Acquisiti i pareri delle Commissioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica; Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 3 luglio 2003; Sulla proposta del Ministro per le politiche comunitarie, del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità, di concerto con il Ministro degli affari esteri, con il Ministro della giustizia e con il Ministro dell'economia e delle finanze; Emana il seguente decreto legislativo: Art. 1. Oggetto 1. Il presente decreto reca le disposizioni relative all'attuazione della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall'età e dall'orientamento sessuale, per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro, disponendo le misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di discriminazione, in 249 un'ottica che tenga conto anche del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini. Avvertenza: Il testo delle note qui pubblicato è stato redatto ai sensi dell'art. 10, commi 2 e 3 del testo unico delle disposizioni sulla promulgazione delle leggi, sull'emanazione dei decreti del Presidente della Repubblica e sulle pubblicazioni ufficiali della Repubblica italiana, approvato con D.P.R. 28 dicembre 1985, n. 1092, al solo fine di facilitare la lettura delle disposizioni di legge modificate o alle quali e' operato il rinvio. Restano invariati il valore e l'efficacia degli atti legislativi qui trascritti. Per le direttive CEE vengono forniti gli estremi di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee (GUCE). Nota al titolo: - Il testo della direttiva 2000/78/CE (Direttiva del Consiglio che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro), è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Comunità europea 2 dicembre 2000, n. L 303. Note alle premesse: - Il testo dell'art. 76 della Costituzione e' il seguente: «Art. 76. - L'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti.». - L'art. 87, comma quinto, della Costituzione conferisce al Presidente della Repubblica il potere di promulgare le leggi e di emanare i decreti aventi valore di legge e i regolamenti. - Per il testo della citata direttiva 2000/78/CE, si veda nota al titolo. - Il testo della legge 1° marzo 2002, n. 39 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2001), e' pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 26 marzo 2002, n. 72, supplemento ordinario. - Il testo dell'allegato B della citata legge n. 39 del 2002, e' il seguente: «Allegato B (Articolo 1, commi 1 e 3) 93/104/CE del Consiglio, del 23 novembre 1993, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro. 94/45/CE del Consiglio, del 22 settembre 1994, riguardante l'istituzione di un comitato aziendale europeo o di una procedura per l'informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensioni comunitarie. 250 96/61/CE del Consiglio, del 24 settembre 1996, sulla prevenzione e la riduzione integrate dell'inquinamento. 1999/31/CE del Consiglio, del 26 aprile 1999, relativa alle discariche di rifiuti. 1999/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 giugno 1999, che istituisce un meccanismo di riconoscimento delle qualifiche per le attività professionali disciplinate dalle direttive di liberalizzazione e dalle direttive recanti misure transitorie e che completa il sistema generale di riconoscimento delle qualifiche. 1999/63/CE del Consiglio, del 21 giugno 1999, relativa all'accordo sull'organizzazione dell'orario di lavoro della gente di mare concluso dall'Associazione armatori della Comunità europea (ECSA) e dalla Federazione dei sindacati dei trasportatori dell'Unione europea (FST). 1999/64/CE della Commissione, del 23 giugno 1999, che modifica la direttiva 90/388/CEE al fine di garantire che le reti di telecomunicazioni e le reti televisive via cavo appartenenti ad un unico proprietario siano gestite da persone giuridiche distinte. 1999/92/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 1999, relativa alle prescrizioni minime per il miglioramento della tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori che possono essere esposti al rischio di atmosfere esplosive (quindicesima direttiva particola re ai sensi dell'art. 16, paragrafo 1, della direttiva 89/391/CEE). 2000/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 marzo 2000, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l'etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità. 2000/26/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 maggio 2000, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e che modifica le direttive 73/239/CEE e 88/357/CEE del Consiglio (quarta direttiva assicurazione autoveicoli). 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'8 giugno 2000, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell'informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («direttiva sul commercio elettronico»). 2000/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 giugno 2000, che modifica la direttiva 93/104/CE del Consiglio concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, al fine di comprendere i settori e le attività esclusi dalla suddetta direttiva. 2000/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 giugno 2000, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. 251 2000/36/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 giugno 2000, relativa ai prodotti di cacao e di cioccolato destinati all'alimentazione umana. 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica. 2000/53/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del1 8 settembre 2000, relativa ai veicoli fuori uso. 2000/59/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 novembre 2000, relativa agli impianti portuali di raccolta per i rifiuti prodotti dalle navi e i residui del carico. 2000/75/CE del Consiglio, del 20 novembre 2000, che stabilisce disposizioni specifiche relative alle misure di lotta e di eradicazione della febbre catarrale degli ovini. 2000/77/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 dicembre 2000, recante modifica della direttiva 95/53/CE del Consiglio che fissa i principi relativi all'organizzazione dei controlli ufficiali nel settore dell'alimentazione animale. 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parita' di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. 2000/79/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, relativa all'attuazione dell'accordo europeo sull'organizzazione dell'orario di lavoro del personale di volo nell'aviazione civile concluso da Association of European Airlines (AEA), European Transport Workers' Federation (ETF), European Cockpit Association (ECA), European Regions Airline Association (ERA) e International Air Carrier Association (IACA). 2001/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2001, che modifica la direttiva 91/440/CEE del Consiglio relativa allo sviluppo delle ferrovie comunitarie. 2001/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2001, che modifica la direttiva 95/18/CE del Consiglio relativa alle licenze delle imprese ferroviarie. 2001/14/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2001, relativa alla ripartizione della capacita' di infrastruttura ferroviaria, all'imposizione dei diritti per l'utilizzo dell'infrastruttura ferroviaria e alla certificazione di sicurezza. 2001/15/CE della Commissione, del 15 febbraio 2001, sulle sostanze che possono essere aggiunte a scopi nutrizionali specifici ai prodotti alimentari destinati ad un'alimentazione particolare. 252 2001/16/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 marzo 2001, relativa all'interoperabilità del sistema ferroviario transeuropeo convenzionale. 2001/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 marzo 2001, sull'emissione deliberata nell'ambiente di organismi geneticamente modificati e che abroga lad irettiva 90/220/CEE del Consiglio. 2001/19/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 maggio 2001, che modifica le direttive 89/48/CEE e 92/51/CEE del Consiglio relative al sistema generale di riconoscimento delle qualifiche professionali e le direttive 77/452/CEE, 77/453/CEE, 78/686/CEE, 78/687/CEE, 78/1026/CEE, 78/1027/CEE, 80/154/CEE, 80/155/CEE, 85/384/CEE, 85/432/CEE, 85/433/CEE e 93/16/CEE del Consiglio concernenti le professioni di infermiere responsabile dell'assistenza generale, dentista, veterinario, ostetrica, architetto, farmacista e medico. 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti. 2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2001, sull'armonizzazione di taluni aspetti del diritto d'autore e dei diritti connessi nella società dell'informazione. 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 giugno 2001, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull'ambiente. 2001/45/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 giugno 2001, che modifica la direttiva 89/655/CEE del Consiglio relativa ai requisiti minimi di sicurezza e di salute per l'uso delle attrezzature di lavoro da parte dei lavoratori durante il lavoro (seconda direttiva particolare ai sensi dell'art. 16, paragrafo 1, della direttiva 89/391/CEE). 2001/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 luglio 2001, recante modificazione della direttiva 95/53/CE del Consiglio che fissa i principi relativi all'organizzazione dei controlli ufficiali nel settore dell'alimentazione animale e delle direttive 70/524/CEE, 96/25/CE e 1999/29/CE del Consiglio, relative all'alimentazione animale. 2001/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 settembre 2001, che modifica le direttive 78/660/CEE, 83/349/CEE e 86/635/CEE per quanto riguarda le regole di valutazione per i conti annuali e consolidati di taluni tipi di società nonché di banche e di altre istituzioni finanziarie. 2001/77/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 settembre 2001, sulla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità. 253 2001/84/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 settembre 2001, relativa al diritto dell'autore di un'opera d'arte sulle successive vendite dell'originale. 2001/86/CE del Consiglio, dell'8 ottobre 2001, che completa lo statuto della società europea per quanto riguarda il coinvolgimento dei lavoratori.». - Il testo della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività' sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 27 maggio 1970, n. 131. - Il testo del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), e' pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 191 del 18 agosto 1998, supplemento ordinario. Art. 2. Nozione di discriminazione 1. Ai fini del presente decreto e salvo quanto disposto dall'articolo 3, commi da 3 a 6, per principio di parità di trattamento si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell'età o dell'orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite: a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga; b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone. 2. E' fatto salvo il disposto dell'articolo 43, commi 1 e 2 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. 3. Sono, altresì, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per uno dei motivi di cui all'articolo 1, aventi lo scopo o l'effetto di violare la 254 dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo. 4. L'ordine di discriminare persone a causa della religione, delle convinzioni personali, dell'handicap, dell'età o dell'orientamento sessuale e' considerata una discriminazione ai sensi del comma 1. Nota all'art. 2: - Il testo dell'art. 43, commi 1 e 2 del citato decreto legislativo n. 286 del 1998, è il seguente: «Art. 43 (Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi). 1. Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica. 2. In ogni caso compie un atto di discriminazione: a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessitò che nell'esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità, lo discriminino ingiustamente; b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità; c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l'accesso all'occupazione, all'alloggio, all'istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità; d) chiunque impedisca, mediante azioni od omissioni, l'esercizio di un'attività' economica legittimamente intrapresa da uno straniero regolarmente soggiornante in Italia, soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, confessione religiosa, etnia o nazionalità; 255 e) il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dell'art. 15 della legge 20 maggio 1970, n 300, come modificata e integrata dalla legge 9 dicembre 1977, n. 903, e dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all'adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività' lavorativa.». Art. 3. Ambito di applicazione 1. Il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall'articolo 4, con specifico riferimento alle seguenti aree: a) accesso all'occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione; b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento; c) accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali; d) affiliazione e attività nell'ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni. 2. La disciplina di cui al presente decreto fa salve tutte le disposizioni vigenti in materia di: a) condizioni di ingresso, soggiorno ed accesso all'occupazione, all'assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato; b) sicurezza e protezione sociale; 256 c) sicurezza pubblica, tutela dell'ordine pubblico, prevenzione dei reati e tutela della salute; d) stato civile e prestazioni che ne derivano; e) forze armate, limitatamente ai fattori di età e di handicap. 3. Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell'ambito del rapporto di lavoro o dell'esercizio dell'attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all'handicap, all'età o all'orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell'attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell'attività medesima. Parimenti, non costituisce atto di discriminazione la valutazione delle caratteristiche suddette ove esse assumano rilevanza ai fini dell'idoneità allo svolgimento delle funzioni che le forze armate e i servizi di polizia, penitenziari o di soccorso possono essere chiamati ad esercitare. 4. Sono, comunque, fatte salve le disposizioni che prevedono accertamenti di idoneità al lavoro per quanto riguarda la necessità di una idoneità ad uno specifico lavoro e le disposizioni che prevedono la possibilità di trattamenti differenziati in merito agli adolescenti, ai giovani, ai lavoratori anziani e ai lavoratori con persone a carico, dettati dalla particolare natura del rapporto e dalle legittime finalità di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale. 5. Non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 le differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali che siano praticate nell'ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private, qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attività professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività. 6. Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari. In particolare, resta ferma la legittimità di atti diretti all'esclusione dallo svolgimento di attività lavorativa che riguardi la cura, l'assistenza, l'istruzione e l'educazione di soggetti minorenni nei confronti di coloro che siano stati condannati in via definitiva per reati che concernono la libertà sessuale dei minori e la pornografia minorile. 257 Art. 4. Tutela giurisdizionale dei diritti 1. All'articolo 15, comma 2, della legge 20 maggio 1970, n. 300, dopo la parola «sesso» sono aggiunte le seguenti: «di handicap, di età o basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali». 2. La tutela giurisdizionale avverso gli atti e i comportamenti di cui all'articolo 2 si svolge nelle forme previste dall'articolo 44, commi da 1 a 6, 8 e 11, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. 3. Chi intende agire in giudizio per il riconoscimento della sussistenza di una delle discriminazioni di cui all'articolo 2 e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il tentativo di conciliazione ai sensi dell'artic olo 410 del codice di procedura civile o, nell'ipotesi di rapporti di lavoro con le amministrazioni pubbliche, ai sensi dell'articolo 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, anche tramite le rappresentanze locali di cui all'articolo 5. 4. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio, anche sulla base di dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta ai sensi dell'articolo 2729, primo comma, del codice civile. 5. Con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dell'atto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti. Al fine di impedirne la ripetizione, il giudice può ordinare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. 6. Il giudice tiene conto, ai fini della liquidazione del danno di cui al comma 5, che l'atto o comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento. 7. Il giudice puoi ordinare la pubblicazione della sentenza di cui ai commi 5 e 6, a spese del convenuto, per una sola volta su un quotidiano di tiratura nazionale. 8. Resta salva la giurisdizione del giudice amministrativo per il personale di cui all'articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Note all'art. 4: 258 - Il testo dell'art. 15, comma 2, della citata legge n. 300 del 1970, come modificato dal presente decreto, e' il seguente: «Art. 15 (Atti discriminatori). - E' nullo qualsiasi patto od atto diretto a: a) subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte; b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero. Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.». - Il testo dell'art. 44 del citato decreto legislativo n. 286 del 1998, è il seguente: «Art. 44 (Azione civile contro la discriminazione) (Legge 6 marzo 1988, n. 40, art. 42). 1. Quando il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice può, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione. 2. La domanda si propone con ricorso depositato, anche personalmente dalla parte, nella cancelleria del pretore del luogo di domicilio dell'istante. 3. Il pretore, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto. 4. Il pretore provvede con ordinanza all'accoglimento o al rigetto della domanda. Se accoglie la domanda emette i provvedimenti richiesti che sono immediatamente esecutivi. 5. Nei casi di urgenza il pretore provvede con decreto motivato, assunte, ove occorre, sommarie informazioni. In tal caso fissa, con lo stesso decreto, l'udienza di comparizione delle parti davanti a sé entro un termine non superiore a quindici giorni, assegnando all'istante un termine non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. A tale udienza, il pretore, con ordinanza, conferma, modifica o revoca i provvedimenti emanati nel decreto. 6. Contro i provvedimenti del pretore è ammesso reclamo al tribunale nei termini di cui all'art. 739, secondo comma, del codice di procedura civile. Si 259 applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737, 738 e 739 del codice di procedura civile. 7. Con la decisione che definisce il giudizio il giudice può altresì condannare il convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale. 8. Chiunque elude l'esecuzione di provvedimenti del pretore di cui ai commi 4 e 5 e dei provvedimenti del tribunale di cui al comma 6 è punito ai sensi dell'art. 388, primo comma, del codice penale. 9. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza a proprio danno del comportamento discriminatorio in ragione della razza, del gruppo etnico o linguistico, della provenienza geografica, della confessione religiosa o della cittadinanza può dedurre elementi di fatto anche a carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi contributivi, all'assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell'azienda interessata. Il giudice valuta i fatti dedotti nei limiti di cui all'art. 2729, primo comma, del codice civile. 10. Qualora il datore di lavoro ponga in essere un atto o un comportamento discriminatorio di carattere collettivo, anche in casi in cui non siano individuabili in modo immediato e diretto i lavoratori lesi dalle discriminazioni, il ricorso può essere presentato dalle rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale. Il giudice, nella sentenza che accerta le discriminazioni sulla base del ricorso presentato ai sensi del presente articolo, ordina al datore di lavoro di definire, sentiti i predetti soggetti e organismi, un pia no di rimozione delle discriminazioni accertate. 11. Ogni accertamento di atti o comportamenti discriminatori ai sensi dell'art. 43 posti in essere da imprese alle quali siano stati accordati benefici ai sensi delle leggi vigenti dello Stato o delle regioni, ovvero che abbiano stipulato contratti di appalto attinenti all'esecuzione di opere pubbliche, di servizi o di forniture, è immediatamente comunicato dal Pretore, secondo le modalità previste dal regolamento di attuazione, alle amministrazioni pubbliche o enti pubblici che abbiano disposto la concessione del beneficio, incluse le agevolazioni finanziarie o creditizie, o dell'appalto. Tali amministrazioni, o enti revocano il beneficio e, nei casi più gravi, dispongono l'esclusione del responsabile per due anni da qualsiasi ulteriore concessione di agevolazioni finanziarie o creditizie, ovvero da qualsiasi appalto. 12. Le regioni, in collaborazione con le province e con i comuni, con le associazioni di immigrati e del volontariato sociale, ai fini dell'applicazione delle norme del presente articolo e dello studio del fenomeno, predispongono centri di osservazione, di informazione e di assistenza legale per gli stranieri, 260 vittime delle discriminazioni per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.». - Il testo dell'art. 410 del codice di procedura civile è il seguente: «Art. 410 (Tentativo obbligatorio di conciliazione). Chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti dall'art. 409 e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti e accordi collettivi deve promuovere, anche tramite l'associazione sindacale alla quale aderisce o conferisca mandato, il tentativo di conciliazione presso la commissione di conciliazione individuata secondo i criteri di cui all'art. 413. La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza. La commissione, ricevuta la richiesta tenta la conciliazione della controversia, convocando le parti, per una riunione da tenersi non oltre dieci giorni dal ricevimento della richiesta. Con provvedimento del direttore dell'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione è istituita in ogni provincia presso l'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, una commissione provinciale di conciliazione composta dal direttore dell'ufficio stesso, o da un suo delegato, in qualità di presidente, da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei datori di lavoro e da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei lavoratori, designati dalle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative su base nazionale. Commissioni di conciliazione possono essere istituite, con le stesse modalità e con la medesima composizione di cui al precedente comma, anche presso le sezioni zonali degli uffici provinciali del lavoro e della massima occupazione. Le commissioni, quando se ne ravvisi la necessità, affidano il tentativo di conciliazione a proprie sottocommissioni, presiedute dal direttore dell'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione o da un suo delegato che rispecchino la composizione prevista dal precedente terzo comma. In ogni caso per la validità della riunione e' necessaria la presenza del presidente e di almeno un rappresentante dei datori di lavoro e di uno dei lavoratori. Ove la riunione della commissione non sia possibile per la mancata presenza di almeno uno dei componenti di cui al precedente comma, il direttore dell'ufficio provinciale del lavoro certifica l'impossibilita' di procedere al tentativo di conciliazione.». 261 - Il testo dell'art. 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), e' il seguente: «Art. 66 (Collegio di conciliazione). 1. Ferma restando la facoltà del lavoratore di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, il tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all'art. 65 si svolge, con le procedure di cui ai commi seguenti, dinanzi ad un collegio di conciliazione istituito presso la direzione provinciale del lavoro nella cui circoscrizione si trova l'ufficio cui il lavoratore è addetto, ovvero era addetto al momento della cessazione del rapporto. Le medesime procedure si applicano, in quanto compa-tibili, se il tentativo di conciliazione è promosso dalla pubblica amministrazione. Il collegio di conciliazione e' composto dal direttore della direzione o da un suo delegato, che lo presiede, da un rappresentante del lavoratore e da un rappresentante dell'amministrazione. 2. La richiesta del tentativo di conciliazione, sottoscritta dal lavoratore, è consegnata alla direzione presso la quale e' istituito il collegio di conciliazione competente o spedita mediante raccomandata con avviso di ricevimento. Copia della richiesta deve essere consegnata o spedita a cura dello stesso lavoratore all'amministrazione di appartenenza. 3. La richiesta deve precisare: a) l'amministrazione di appartenenza e la sede alla quale il lavoratore e' addetto; b) il luogo dove gli devono essere fatte le comunicazioni inerenti alla procedura; c) l'esposizione sommaria dei fatti e delle ragioni poste a fondamento della pretesa; d) la nomina del proprio rappresentante nel collegio di conciliazione o la delega per la nomina medesima ad un'organizzazione sindacale. 4. Entro trenta giorni dal ricevimento della copia della richiesta, l'amministrazione, qualora non accolga la pretesa del lavoratore, deposita presso la direzione osservazioni scritte. Nello stesso atto nomina il proprio rappresentante in seno al collegio di conciliazione. Entro i dieci giorni successivi al deposito, il Presidente fissa la comparizione delle parti per il tentativo di conciliazione. Dinanzi al collegio di conciliazione, il lavoratore può farsi rappresentare o assistere anche da un'organizzazione cui aderisce o conferisce mandato. Per l'amministrazione deve comparire un soggetto munito del potere di conciliare. 5. Se la conciliazione riesce, anche limitatamente ad una parte della pretesa avanzata dal lavoratore, viene redatto separato processo verbale sottoscritto dalle parti e dai componenti del collegio di conciliazione. Il verbale 262 costituisce titolo esecutivo. Alla conciliazione non si applicano le disposizioni dell'art. 2113 commi primo, secondo e terzo del codice civile. 6. Se non si raggiunge l'accordo tra le parti, il collegio di conciliazione deve formulare un proposta per la bonaria definizione della controversia. Se la proposta non e' accettata, i termini di essa sono riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti. 7. Nel successivo giudizio sono acquisiti, anche di ufficio, i verbali concernenti il tentativo di conciliazione non riuscito. Il giudice valuta il comportamento tenuto dalle parti nella fase conciliativa ai fini del regolamento delle spese. 8. La conciliazione della lite da parte di chi rappresenta la pubblica amministrazione, in adesione alla proposta formulata dal collegio di cui al comma 1, ovvero in sede giudiziale ai sensi dell'art. 420, commi primo, secondo e terzo, del codice di procedura civile, non può dar luogo a responsabilità amministrativa.». - Il testo dell'art. 2729 del codice civile è il seguente: «Art. 2729 (Presunzioni semplici). - Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti. Le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni.». - Il testo dell'art. 3 del citato decreto legislativo n. 165 del 2001, è il seguente: «Art. 3 (Personale in regime di diritto pubblico). 1. In deroga all'art. 2, commi 2 e 3, rimangono disciplinati dai rispettivi ordinamenti: i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e le Forze di Polizia di Stato, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia nonché i dipendenti degli enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate dall'art. 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio 1947, n. 691, e dalle leggi 4 giugno 1985, n. 281, e successive modificazioni ed integrazioni, e 10 ottobre 1990, n. 287. 2. Il rapporto di impiego dei professori e dei ricercatori universitari resta disciplinato dalle disposizioni rispettivamente vigenti, in attesa della specifica disciplina che la regoli in modo organico ed in conformità ai principi della autonomia universitaria di cui all'art. 33 della Costituzione ed agli articoli 6 e seguenti della legge 9 maggio 1989, n. 168, e successive modificazioni ed integrazioni, tenuto conto dei principi di cui all'art. 2, comma 1, della legge 23 ottobre 1992, n. 421.». 263 Art. 5. Legittimazione ad agire 1. Le rappresentanze locali delle organizzazioni nazionali maggiormente rappresentative a livello nazionale, in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità, sono legittimate ad agire ai sensi dell'articolo 4, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui e' riferibile il comportamento o l'atto discriminatorio. 2. Le rappresentanze locali di cui al comma 1 sono, altresì, legittimate ad agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione. Art. 6. Relazione 1. Entro il 2 dicembre 2005 e successivamente ogni cinque anni, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali trasmette alla Commissione europea una relazione contenente le informazioni relative all'applicazione del presente decreto. Art. 7. Copertura finanziaria 1. Dall'attuazione del presente decreto non derivano oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato. Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare. Dato a Roma, addiì 9 luglio 2003 CIAMPI Berlusconi, Presidente del Consiglio dei Ministri Buttiglione, Ministro per le politiche comunitarie Maroni, Ministro del lavoro e delle politic he sociali Prestigiacomo, Ministro per le pari opportunità Frattini, Ministro degli affari esteri Castelli, Ministro della giustizia Tremonti, Ministro dell'economia e delle finanze Visto, il Guardasigilli: Castelli 264