discriminazione nel mondo del lavoro

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discriminazione nel mondo del lavoro
Ministero del Lavoro
Provincia di Avellino
e delle Politiche Sociali
Ufficio Consigliera di Parità
DISCRIMINAZIONE NEL
MONDO DEL LAVORO
a cura di:
Domenica Marianna Lomazzo
Ufficio della Consigliera di Parità
Provincia di Avellino
Pubblicato ad Avellino – Giugno 2005
Alle donne cadute sul lavoro.
Alle donne portatrici di pace.
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PREFAZIONE
Adottare tutte le misure necessarie, volte ad eliminare ogni forma di
discriminazione, equivale a contribuire a realizzare una società più giusta,
una società concretamente democratica, una società dove vengano garantiti
pari diritti di cittadinanza, pari opportunità, eguaglianza nei diritti,
armoniosa collaborazione e solidarietà tra i sessi.
E’ al divieto di ogni forma di discriminazione a causa di fattori, quali: la
razza, l’età, la lingua, l’etnia, la cultura, la religione, l’handicap e il sesso, è
alla tutela della dignità della persona e del lavoro che si ispirano i principi
fondamentali della nostra Carta costituzionale, la legislazione europea e la
Carta dei diritti fondamentali dell’uomo.
E’ sotto la spinta fondamentale di direttive e raccomandazioni europee che
sono state introdotte nel nostro ordinamento leggi significative di contrasto
alle discriminazioni e finalizzate alla promozione di azioni positive, tese al
raggiungimento di un riequilibrio della presenza di uomini e donne in tutti
gli ambiti della vita sociale, a partire da quello del lavoro.
Contribuire a realizzare la democrazia sostanziale significa agevolare
l’applicazione delle normative recepite nel nostro ordinamento, significa
diffonderne la conoscenza ed avere come obiettivo un modello di società
organizzata sulle esigenze della famiglia, degli uomini e delle donne, dei
bambini e degli anziani, delle donne madri, mogli, figlie .
Ciò presuppone una rivoluzione culturale, un abbattimento delle barriere dei
pregiudizi e delle ironie, che ancora permangono in troppi ambienti e in
larghissimi strati della nostra società, attorno alle tematiche delle pari
opportunità.
L’obiettivo della realizzazione dell’uguaglianza sostanziale tra tutti i
soggetti, uomini e donne, richiede un percorso di impegno costante da parte
di tutti: istituzioni, organismi di parità, associazioni di genere,
organizzazioni sindacali ed imprenditoriali..
In ossequio ai compiti, che in virtù del Dlgs.196/2000 vengono affidati alla
Consigliera di parità, nella nostra provincia è stato avviato un percorso di
diffusione e di approfondimento delle conoscenze sulle problematiche delle
pari opportunità tra uomini e donne, sul concetto di discriminazione di
genere, sulle normative di contrasto alle discriminazioni sui luoghi di lavoro.
La prima tappa di questo percorso è stata l’elaborazione e la diffusione di
una brochure descrittiva dei casi più ricorrenti di discriminazione, che si
possono verificare sui luoghi di lavoro, certo non esaustiva, ma sufficiente a
dare utili informazioni agli uomini e soprattutto alle donne, che sono le più
interessate al fenomeno.
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La seconda tappa è stata quella di dotare l’ ufficio della Consigliera di un
elenco di legali giuslavoristi, esperti in materie di parità e pari opportunità .
Nel corso di queste iniziative si è avuto modo di registrare la scarsa
attenzione, da parte di diversi studiosi del diritto e degli operatori del diritto
in particolare, verso le problematiche relative alle discriminazioni sui luoghi
di lavoro, soprattutto a quelle dovute al genere.
Perciò si è ritenuto necessario realizzare Seminari di studio e di
approfondimento sulle varie tipologie di discriminazioni , con l’obiettivo,
quindi, sia di rilanciare con forza una politica di conoscenza e di
ampliamento dottrinario e giurisprudenziale sulle normative e sulle prassi
europee e nazionali di contrasto alle discriminazioni sui luoghi di lavoro sia
di promuovere, attraverso gli organismi deputati, la effettiva realizzazione
dell’ uguaglianza sostanziale, sancita nella nostra Carta costituzionale.
Ad oggi c’è, purtroppo, da registrare una non cospicua giurisprudenza in
materia di discriminazioni nel mondo del lavoro dovute soprattutto al genere,
e ciò in contrasto anche con una realtà dove esse sono molto evidenti e dove
permangono non solo dislivelli retributivi tra uomini e donne pure a fronte di
uguale lavoro, ma anche difficoltà di carriera e l’impiego delle donne in
settori tipici e con tipologie contrattuali, che offrono minori garanzie di
permanenza nel mondo del lavoro con la conseguente amplificazione del
lavoro sommerso.
Le statistiche sono chiare, eppure le donne continuano ed essere restie ad
intentare procedure giudiziarie anche a fronte di palesi e sofferte
discriminazioni.
Sicuramente ciò é dovuto sia alla scarsa conoscenza, che esse hanno delle
forme di tutela esistenti, sia, temo , alla scarsa fiducia nei confronti degli
organismi che dovrebbero tutelarle.
Certamente il nostro ordinamento, con lo Statuto dei lavoratori, era riuscito a
garantire una tutela ampia in materia di lavoro, perché, probabilmente, il
ricorso alle norme in esso contenute erano esaustive pure nel contrastare le
eventuali discriminazioni sui luoghi di lavoro.
Ma, ora, dalla riforma del mercato del lavoro, realizzata con la Legge 30 del
2003 e con il relativo decreto attuativo, il D.lgs. 276 del 2003 ( che introduce
tipologie contrattuali flessibili a carattere temporaneo e atipico, sicuramente
in risposta alle esigenze della produzione), sono derivate attenuazione di
forme di tutela, minori garanzie e debolezza contrattuale da parte dei
lavoratori, per cui si può ipotizzare una crescita dei fenomeni di
discriminazione sui luoghi di lavoro, e ciò soprattutto dove il mercato del
lavoro è già debole, per cui è probabile un ricorso maggiore, rispetto al
passato, agli strumenti di tutela giudiziale, previsti dalle normative
specifiche e oggetto dei seminari di studio realizzati.
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Inoltre credo che siano maturi i tempi perché si affermi una cultura di
genere nei tribunali e soprattutto una nuova coscienza sulle donne.
Come credo che sia giunto il momento di dare concreta attuazione alla
cospicua produzione di normative, che sanciscono l’uguaglianza sostanziale
attraverso la promozione di azioni positive e che vengono ancora,
tranquillamente, ignorate in troppi ambiti della nostra società, a partire da
quello del lavoro
La legge 53/2000, soprattutto per quanto riguarda l’armonizzazione dei
tempi della città, è l’esempio emblematico di come tante normative siano
rimaste solo delle mere enunciazioni.
Promuovere, quindi, una conoscenza approfondita delle norme di contrasto
alle discriminazioni sui luoghi di lavoro equivale a fornire gli strumenti
idonei affinché i soggetti discriminati possano difendersi.
Chiarire il concetto di discriminazione significa renderlo conoscibile a tutti.
La legge 125/91 ne ha delineato una definizione particolarmente forte,
operando una precisa distinzione tra discriminazione diretta ed indiretta.
La prima consiste in “atti, patti o comportamenti che producono un effetto
pregiudizievole discriminando, anche in via indiretta, i lavoratori in ragione
del sesso”.
Ai fini della sussistenza della fattispecie discriminatoria è rilevante, quindi,
l’effetto del comportamento adottato, mentre è irrilevante l’ intento
discriminatorio.
La conseguenza sul piano pratico e sull’azionabilità del diritto è rilevante, in
quanto non occorre un’indagine mirante alla individuazione di uno specifico
atteggiamento psicologico del soggetto, che mette in atto il comportamento
discriminatorio.
Ancora più pregnante appare il concetto di discriminazione indiretta, che
consiste in “ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di
criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore lavoratori
dell’uno o dell’altro sesso e riguardino requisiti non essenziali allo
svolgimento dell’attività lavorativa” .
In pratica si ha discriminazione indiretta ogni volta che si adotta un
trattamento uguale e apparentemente neutro a soggetti diversi (gli uomini e
le donne) e che, quindi, produce effetti proporzionalmente più negativi per
l’uno o per l’altro sesso.
Dopo il trattato di Amsterdam, elevato il principio antidiscriminatorio a
principio fondamentale dell’ordinamento giuridico comunitario, principio
consacrato successivamente nella Carta di Nizza, vengono emanate tre
importanti direttive in materia antidiscriminatoria.
Con l’emanazione del decreto legislativo 216 del luglio 2003,in attuazione
della direttiva 78 /2000 e riguardante la parità di trattamento in materia di
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occupazione e di condizioni di lavoro, indipendentemente dalla religione,
dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento
sessuale, vengono disposte le misure necessarie affinché tali fattori non siano
causa di discriminazione sia per l’accesso all’ occupazione e al lavoro
autonomo o dipendente, sia per la progressione nella carriera, la retribuzione
e le condizioni di licenziamento, l’accesso a tutti i tipi di orientamento e
formazione prof.le ecc. ecc. .
E’ l’emanazione del Dlgs. 215/2003, in attuazione della direttiva 43/2000, ad
evidenziare la parità di trattamento tra le persone, indipendentemente
dall’origine etnica e dalla razza.
Questo decreto considera discriminatorie anche le molestie, ovvero quei
comportamenti indesiderati e posti in essere con lo scopo o l’effetto di
violare la dignità umana di una persona.
La terza direttiva 73/2002, recentemente recepita nel nostro paese, che
modifica la direttiva 76/207/CEE ,e relativa al divieto delle discriminazioni
in base al sesso,è da ritenersi rivoluzionaria in quanto legittima l’adozione
delle misure di azione positiva finalizzate all’attuazione del principio della
parità di trattamento tra gli uomini e le donne ,per quanto riguarda l’accesso
al lavoro ,alla formazione ,alla promozione professionale e le condizioni di
lavoro.
E’ un provvedimento che sicuramente va a migliorare la legge 125/91 in
materia di azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel
lavoro.
Le direttive, recepite nel nostro paese attraverso i su richiamati decreti
legislativi, hanno modificato notevolmente il concetto di discriminazione
indiretta : infatti, mentre per quella operata in base al sesso, si faceva
riferimento allo svantaggio proporzionalmente maggiore, cioè ad una
disparità statisticamente significativa che richiedeva, quindi, il ricorso alla
prova statistica ( ampiamente e agevolmente usata dai giudici americani ,
ma poco usuale nella nostra realtà), secondo questa nuova accezione ( e a
partire da queste nuove forme di discriminazione ) si è ritenuto sufficiente
che si verifichi un particolare svantaggio .
Ciò significa, condividendo l’autorevolissima riflessione della professoressa
Barbera, che si sta andando verso una definizione del concetto di
discriminazione, che tende a superare il suo carattere tradizionale di giudizio
di comparazione.
Secondo il nuovo approccio si è discriminati non solo se si viene trattati
peggio degli appartenenti al gruppo di maggioranza ( gli eterosessuali, la
razza maggioritaria , la confessione religiosa prevalente e il sesso), ma
anche quando si è svantaggiati a causa della propria condizione soggettiva
tout court.
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Una ulteriore novità, introdotta dalla nuova direttiva, è rappresentata dal
comprendere tra i casi di discriminazione anche le molestie sessuali e le
molestie, distinguendo tra le due fattispecie.
Le vittime hanno diritto al risarcimento del danno anche non patrimoniale.
Il problema delle discriminazioni sui luoghi di lavoro non si esaurisce con le
fattispecie di discriminazioni dovute al sesso, ma comprende sicuramente
quel fenomeno in larghissima espansione anche nel nostro paese che, privo
di una fattispecie tipica, viene definito mobbing.
A questo fenomeno il legislatore deve dare una risposta sicuramente più
puntuale e concreta in termini di tutela.
L’unica legge sul mobbing, ma dichiarata incostituzionale per difetto di
competenza, è stata emanata dalla regione Lazio nel 2002, sicché ad oggi si
può realizzare opera di prevenzione al fenomeno istituendo sui luoghi di
lavoro i comitati paritetici, previsti dai contratti collettivi.
I seminari di studio realizzati hanno approfondito le problematiche ricordate
sia abbracciando tutti gli aspetti delle discriminazioni che possono
verificarsi nel mondo del lavoro, compreso il lavoro minorile
sia
evidenziando il concetto di uguaglianza con l’offrire argomentazioni e
strumenti giuridici di contrasto quando questo viene violato in ambito
lavorativo.
Pertanto ringrazio i docenti per l’impegno profuso e soprattutto per la
stimolante ricerca di soluzioni al contrasto delle discriminazioni e per la
realizzazione dell’effettiva uguaglianza tra uomini e donne sui luoghi e nel
mondo del lavoro.Un ringraziamento particolare va alla instancabile e
brillante prof.ssa Staiano per la preziosa collaborazione, agli estensori delle
riflessioni che sono oggetto della presente pubblicazione , al Presidente
dell’ordine degli avvocati della provincia di Avellino Avv.De Lucia, al già
assessore al lavoro dott. Luigi Cardillo.
Lungo questo percorso, per approfondire ulteriormente la ricerca di
soluzioni, dobbiamo tutti sentirci impegnati, intellettuali, istituzioni,
organismi di parità, associazioni sindacali e datoriali, ricordandoci sempre
che i diritti delle donne sono diritti umani e che l’approdo ai diritti
fondamentali consiste nell’assicurare agli uomini e alle donne le pari
opportunità di partecipazione in maniera libera e dignitosa alla realizzazione
della democrazia sostanziale, che è a fondamento del nostro contratto
sociale.
Il progetto, che è stato realizzato e che ha visto la partecipazione attenta di
centoventi tra avvocati e funzionari della direzione provinciale del lavoro,
rappresenta un dato che ci ha fatto comprendere di aver intrapreso la strada
giusta per intessere una collaborazione proficua con gli operatori del diritto
ed in particolare con i legali giuslavoristi, perché, attraverso lo scambio di
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esperienze e dati, si possono più facilmente fare emergere le condotte
giuridicamente censurabili dei datori di lavoro e prevedere politiche del
lavoro tese ad evitare conflitti.
Promuovere la necessaria cultura sulle pari opportunità partendo proprio
dalla diffusione della conoscenza dei diritti delle donne e degli uomini nel
mondo del lavoro, sanciti nella nostra legislazione vigente, è uno dei
compiti principali della Consigliera di parità.
Su questa strada continueremo il percorso avviato, con la consapevolezza
che la tutela della dignità umana sui luoghi di lavoro e nel mondo del lavoro
deve essere un principio
inviolabile, al quale
una società civile,
democratica, come vuole essere la nostra società, deve dare concreta
attuazione.
Consigliera di Parità
Domenica Marianna Lomazzo
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INTRODUZIONE
Con il presente volume, che si avvale del contributo di tante persone
impegnate nella pubblica amministrazione, ritengo si creino le basi per
approfondire il ragionamento su come il problema delle discriminazioni
debba essere posto ed affrontato. Emerge la necessità di predisporre
interventi mirati a superare condizioni di disagio che non debbono
appartenere alla nostra società. Del resto non possiamo consentire che un
fenomeno come il mobbing continui a restituire dati allarmanti. Bisogna,
allora, modificare il sistema di relazioni umane avviato, appunto, nel mondo
del lavoro, i cui limiti sono talmente evidenti da non potere essere più
tollerati.
Il dettato costituzionale, uno dei più avanzati ancora oggi, è molto chiaro nel
punto in cui fa riferimento ai principi che tutelano la dignità della persona e
del lavoro. E’ di tutta evidenza, però, la scarsa presenza delle donne nei
luoghi decisionali, siano essi le istituzioni elettive, le istituzioni culturali, le
amministrazioni dello Stato, il managment pubblico e privato.
In Italia le percentuali di scolarizzazione e di conseguimento dei diplomi e
delle lauree hanno visto le donne, nel corso del tempo, superare gli uomini
sia dal punto di vista numerico che di livello di votazione raggiunta. A fronte
di ciò, però, non vi è analogo riscontro né nel mondo del lavoro né in quello
delle rappresentanze istituzionali.
La Costituzione italiana ha affermato importanti principi che non hanno
ancora trovato piena applicazione. Il dettato è tanto avanzato e innovativo
che la legislazione successiva ha stentato a mantenersi su un pari livello.
Ad esempio, l’art. 13 afferma che libertà della persona umana è inviolabile e
che a nessuno può essere tolta e in nessuna forma. La legislazione ordinaria
per decidere che il reato di violenza sessuale è reato contro la persona e non
contro il buon costume ha atteso il 1996.
Ancora, l’art. 29 sancisce l’assoluta pari dignità dei coniugi nella famiglia,
ma per ottenere un diritto di famiglia non più fondato sul principio che
l’uomo è il capofamiglia e la moglie lo deve seguire ove lui desideri stabilire
la residenza, nonché per fondare la famiglia sul principio dell’uguaglianza
giuridica e del pari rispetto e pari opportunità dei coniugi, il legislatore ha
atteso il 1975.
Sebbene poi all’art. 3 comma 2 si affermi che bisogna fare in modo che non
vi sia nell’accesso alle cariche di lavoro ed elettive alcuna differenza di
sesso, di religione, di razza, quindi, alcuna discriminazione, una legge
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elettorale approvata dal Parlamento che stabiliva azioni positive a questo
fine fu dichiarata incostituzionale.
Da allora il Parlamento è andato avanti, approvando, prima in Commissione
bicamerale all’unanimità la dizione “ pari accesso alle donne” poi, al termine
della passata legislatura, vi è stata a larghissima maggioranza la modifica
dell’art. 51 della Costituzione che interviene sul problema dell’esigua
rappresentanza femminile, segnale di una carenza di autentica democrazia
nel nostro paese, promuovendo con appositi provvedimenti le pari
opportunità.
La democrazia italiana si priva dell’apporto del soggetto della riproduzione
e della produzione.
La donna ha una sensibilità pari, per dignità, a quella degli uomini, ma anche
diversa perché è madre e, pertanto, ha un legame con la vita che l’uomo non
ha.
Anche per questo il mio impegno da sempre è volto a favorire azioni
positive attraverso le quali dare risposte concrete alla forte richiesta di
occupazione che viene dall’Irpinia e dall’intero Mezzogiorno. In questa
logica rientra le decisione di creare tre PIL (Punti incontro lavoro) a Solofra,
Atripalda e Baiano in grado di fornire soluzioni immediate e promuovendo
una capillare informazione. Oggi possiamo contare su una legislazione che
dispone di misure importanti a contrastare forme di discriminazione e che
consentano di realizzare una democrazia sostanziale in cui, a cominciare dal
mondo del lavoro, uomini e donne possono realmente avere pari diritti, pari
doveri e pari opportunità. Essa va resa ancora più efficace per assicurare alle
donne di uscire dai ruoli marginali ai quali sono state relegate. Sono ancora
troppe le persone, per la maggior parte donne, che subiscono, impotenti, per
paura, ricatti e soprusi sui luoghi di lavoro. Ciò dipende anche dalla scarsa
conoscenza di quelli che sono gli strumenti di cui avvalersi per tutelare se
stessi non solo come lavoratori ma anche come persone. Vanno poste in
essere azioni di contrasto delle condizioni di esclusione delle donne dal
mercato del lavoro attraverso iniziative specifiche di formazione e favorendo
politiche culturali di genere. In questo senso è meritoria l’opera di
informazione che l’ufficio della Consigliera di pari opportunità ha voluto
predisporre per rendere consapevoli le donne e anche gli uomini dei propri
diritti e doveri.
Presidente della Provincia
On. Alberta De Simone
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INDICE – SOMMARIO
Prefazione dell’opera……………………………. pag. 3
di Domenica Marianna Lomazzo –Consigliera di parità
Introduzione ……………………………………………pag.9
di On. Alberta De Simone-Presidente Provincia di Avellino
***
Discriminazioni sul lavoro e principi costituzionali
di Gerardo Sola
1. Introduzione…………………………………..pag.15
2. Il “lavoro” come fondamento dello Stato…….pag. 16
3. Principio di uguaglianza formale, pari dignità
Sociale e discriminazioni sul lavoro………… pag. 17
3.1 Principio di uguaglianza sostanziale e discriminazioni
sul lavoro…………………………………… . pag.20
4. Conclusioni……………………………………pag. 22
La “pari” retribuzione
di Marco Alaia…………………………………….. pag.24
Casi specifici di discriminazione
di Filomena Ferrara………………………………...pag.31
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Divieto di licenziamento, dimissioni e diritto al rientro nel
testo unico per la tutela della maternità e della paternità
di Chiara Lensi
1. Aspetti problematici del divieto di licenziamento per
maternità …………………………………………. pag.40
2. Profili di invalidità delle dimissioni rassegnate in
conseguenza dello Stato di gravidanza…………….pag.48
3. Il diritto al rientro ed alla conservazione del posto di lavoro
tra tutela della professionalità e diritto alla “stabilità
geografica”……………………………………….. pag.52
Il lavoro minorile: fonti normative internazionali,
nazionali ed europee
di Roberta Caragnano…………………………… .pag.54
Il lavoro minorile in Italia e le prospettive d’intervento
di Franco Elio Castellucci
1. Le definizioni e il campo di applicazione.….. …pag.62
2. I requisiti: età, istruzione e sanitari…………. …pag.63
3. Il rapporto di lavoro…………………………….pag.65
4. I lavori vietati…………………………………...pag.67
5. Conclusioni……………………………………..pag.69
Le azioni positive nella pubblica amministrazione
di Francesco Fasolino
1. La riforma della pubblica amministrazione e le pari
opportunità…………………………………….pag.74
2. Dalla legge n. 125/1991 al d.lgs. n. 196/2000.. pag.78
2.1. La Consigliera di parità: compiti e funzioni…..pag.82
3. Il piano di azioni positive……………………..pag.84
3.1 Gli obiettivi………………………………… pag.84
3.2 I contenuti e gli strumenti…………………….pag.86
3.3 L’attuazione del piano: i soggetti, il controllo in itinere e
il controllo ex post.
12
Art. 57 del D. Lgs. 165/2001: PARI OPPORTUNITA’
NEL P.I.
di Cristina De Rose………………………………. pag.88
Il TAR è competente in materia di lavoro
di Francesco Guadieri……………………………..pag.94
Discriminazione diretta ed indiretta nel diritto
comunitario
di Paola Somma
1. Introduzione………………………………… ..pag.96
3. Il principio di parità retributiva……………….pag..98
4. Le discriminazioni retributive………………...pag.101
5. La parità di trattamento……………………….pag.103
6. Le discriminazioni indirette…………………..pag.106
Il mobbing in Italia tra dottrina e giurisprudenza
di Marco Dibitonto
1. Il “mobbing”, definizione, soluzioni e teorie dottrinali
…………………………………………………pag.109
2. La giurisprudenza sul mobbing: la prima sentenza
Italiana sul mobbing………………………… pag.112
3. L'azione da mobbing ha natura contrattuale……pag.115
3.1. Mobbing e il risarcimento diventa privilegiato..pag.120
3.2. La responsabilità civile del datore di lavoro…..pag.124
3.3. La responsabilità civile dei colleghi di lavoro ..pag.125
3.4. La responsabilità penale………………………pag.125
3.5. Il danno risarcibile e conclusioni……………..pag.126
I profili penali del mobbing
di Carlo Longobardo
1. Necessità di un inquadramento del fenomeno……...pag.128
2. Il mobbing nella giurisprudenza penale…………… pag.131
3. Opportunità di una criminalizzazione del mobbing?.pag.135
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Il mobbing e la Pubblica Amministrazione: i c.d. codici
anti-mobbing
di Rocchina Staiano
1. Premessa………………………………………….pag.140
2. Codice di condotta dell’USL 10 di Firenze………pag.141
3. Regolamento anti-mobbing della Provincia di Ragusa
……………………………………………………pag.143
4. Codice Etico dell’Azienda Sanitaria Ospedaliera
OIRM – S. Anna di Torino………………………pag.144
Il mobbing in Europa
di Fausto Troilo
1. Mobbing nei Paesi Scandinavi……………………pag.147
2. Mobbing in Svizzera……………………………...pag.149
3. Harcèlement moral in Belgio e in Francia………..pag.151
***
APPENDICE
Rassegna giurisprudenziale della Corte di Giustizia CE
sulla discriminazione indiretta
di Rocchina Staiano ………………………………..pag.153
Allegati
Rassegna di giurisprudenza italiana
di Rocchina Staiano……………………………
pag.160
Normativa
di Domenica Marianna Lo mazzo……………..
pag.168
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DISCRIMINAZIONI SUL LAVORO E
PRINCIPI COSTITUZIONALI
di Gerardo Sola
(Cultore di Dir. Amministrativo-Università di Salerno)
1. Introduzione
La nostra Carta fondamentale – com’é noto- rinviene le sue radici
istituzionali in una congiuntura storica di crisi irreversibile, successiva
alla dissoluzione del ventennale modello di Stato autoritario. Siffatto
modello fondava il proprio equilibrio e -dunque- il proprio cardine
nella funzione preponderante dello Stato, i cui precipui obiettivi erano
immedesimabili -in estrema sintesi- nella tutela della libertà e
proprietà dei privati e nella individuazione del titolo attributivo del
potere di partecipazione politica -subordinato al possesso del censo o
della cultura- reputato indispensabile allo status di cittadino provvisto
dell’autonomia necessaria ad esimersi dalle suggestioni di interessi
particolaristici e sottratto, viceversa, al lavoratore subordinato. Infine,
a completare il quadro concorreva il divieto di ogni forma
d’intermediazione fra i singoli e lo Stato, considerata di intralcio al
rapporto di immediatezza che deve connetterli, e non richiesta per i
cittadini ma esclusivamente per i titolari delle cariche di direzione
politica. Al Costituente fu ben viva la coscienza di tale dissonanza e
l’urgenza di tracciare il percorso funzionale al suo superamento, che
colse la sua magistrale espressione nell’articolo 3 del dettato
costituzionale allorquando si alloca il lavoro come base della
costituenda Repubblica democratica. Il lavoro, perciò, assurge a valore
da acquisire come elemento essenziale al ripristino di un processo di
progressiva ricomposizione della base sociale, conditio sine qua non
per l’emersione di una corrispondente struttura organizzativa di un
nuovo tipo di correlazione fra comunità e Stato.
Si deve, quindi, ritenere che la formula “fondata sul lavoro”,
consacrata nella nostra Costituzione, corrisponda all’esigenza di
individuare il valore che sarebbe necessario assumere per conferire
concretezza al principio costituzionale medesimo. Il lavoro, dunque, si
erge ad elemento fondamentale e caratterizzante la nuova forma dello
Stato.
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2. Il “lavoro” come fondamento dello Stato.
Alla luce di quanto testé asserito, risulta - sine ulla dubitationecondivisibile l’opinione secondo cui la Costituzione non ha inteso
ingenerare uno Stato classista, monopolizzato cioè dalla sola classe
dei lavoratori manuali. Tutto ciò -per altro- coincide con la
constatazione di come, il movimento che ha condotto alla
convocazione della costituente, non ha elevato a protagonista il solo
proletariato, ma forze sociali miste.
L’esistenza di classi disgregate da interessi giustapposti e tali da
determinare fra loro una situazione di eterogeneità, ha condotto ad
abbinare a norme strumentali volte alla progressiva emancipazione
delle classi più deboli -in linea con il metodo evolutivo- norme
finalistiche relative all’assetto da conseguire onde azzerare la
contrapposizione e concretare, così, una solidarietà fondata sul
principio del lavoro. La Costituzione, orbene, propende al
superamento del classismo, non nel senso di instaurare un generale
pareggiamento di trattamento retributivo che esuli dai meriti di
ognuno, bensì in quello di neutralizzare un contrasto fra classi,
cagionato dall’esistenza di situazioni di vantaggio non corrispondenti
al senso di giustizia avvertito dalla coscienza sociale. Ed in egual
misura propugna la realizzazione di un’uguaglianza di posizione
sociale tale da deprecare non solo una deminutio di diritti in relazione
al genere di attività esercitata, ma altresì una disparità di
considerazione sociale.
Il diritto alla «pari dignità sociale» assegnata dall’art. 3 -accanto
all’uguaglianza di fronte alla legge- a tutti i cittadini, intende
giust’appunto attribuire la pretesa a che l’apprezzamento sociale si
indirizzi all’uomo in quanto tale, prescindendo dall’attività di lavoro
svolta. Ne scaturisce, pertanto, l’esclusione non solo di quelle
qualificazioni -si pensi, ad esempio, ai titoli nobiliari- le quali, mentre
non si basano su gerarchie di valori personali, sono inclini a dar vita a
caste chiuse contraddistinte da modi di vita con cui presuppongono di
imprimere la propria superiorità, ma di ogni altra diversificazione di
trattamento nel campo dei rapporti intersubiettivi. L’affermazione di
una parità di dignità affrancata da ogni riferimento alle condizioni
sociali acquista il suo più ragguardevole significato di fronte ai
lavoratori1 , poiché per essi si presenta de facto un’inferiorità di
1
Così più diffusamente U. Prosperetti U., La posizione professionale
del lavoratore subordinato, in Giur. It., 1954, I, p. 37 e G.
16
considerazione sociale, oltre che economica e politica. Ora la
Costituzione intende, pur tuttavia, escludere dalle relazioni umane
ogni divario -anche esteriore- di considerazione sociale ai danni del
lavoratore.
3.Principio di uguaglianza formale, pari dignità sociale e
discriminazioni sul lavoro.
Individuando nella prima norma della Costituzione la volontà di
riconoscere alle categorie dei lavoratori subordinati il ruolo di classe
generale e predominante, si richiede -ad un tempo- una ponderazione
su tale convincimento in forza delle disposizioni del successivo art. 3.
Il disegno di assetto politico-sociale, che colloca le basi della
Repubblica nel lavoro, implica la realizzazione, anche da parte delle
categorie sottoprotette -essenzialmente ravvisate nelle classi
lavoratrici-, di condizioni di effettiva libertà ed eguaglianza. Ed a tale
scopo si ritiene che sia predisposto l’impegno della Repubblica di
«eliminare gli ostacoli di ordine economico-sociale che, limitando di
fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i la voratori all’organizzazione politico-economica e sociale del Paese».
Ma il fine di reintegrare la posizione delle categorie vincolate al
privilegio economico-sociale, consentendo a coloro che ne fanno parte
di esplicare pienamente la propria personalità, ed in special modo ai
lavoratori di far sentire la propria influenza nella gestione del Paese,
potrebbe raggiungersi -qui risiede il punctum dolens- solo a condizione di attribuire alla classe lavoratrice, che massimamente appare
in grado di esprimere e soddisfare le istanze delle categorie
sottoprotette, un ruolo di forza trainante e di guida della Repubblica2 .
Occorre, ad ogni modo, tenere in debito conto che la norma oggetto
del presente studio appartiene pur sempre al gruppo delle disposizioni
fondamentali della Costituzione, delle quali si deve presumere che
ciascuna assuma un suo ruolo e significato autonomo, per cui concorre
a determinare l’assetto generale del Paese. Cosicché gli sforzi
dell’interprete debbono volgersi, prima e piuttosto che ad identificarne
Abbamonte., Osservazioni sul diritto al lavoro, in Rass. Dir. Pubb.,
1954, p. 103.
2
Per una lettura in tal senso della norma cfr. U. Natoli U., Limiti
costituzionali dell’autonomia privata nel rapporto di lavoro, Milano
1955, p. 71 e ss. e U. Romagnoli, Principi fondamentali, sub art. 3. 2°
c., G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna Roma, 1975, vol. V.
17
le implicazioni negli altri principi, all’individuazione del contenuto
specifico, che ne determina anche la collocazione e l’incidenza
nell’ambito del sistema.
Si potrebbe soggiungere che un siffatto criterio di approccio alla
decodificazione della volontà legislativa si raccomanda vieppiù nel
caso di una disposizione articolata e complessa, quale è l’art. 3 Cost.,
che solleva in primo luogo l’esigenza di profilarne una costruzione
unitaria, procedendo alla considerazione coordinata delle sue proposizioni.
Alla luce di tale criterio la disamina deve prendere le mosse dalla
prima disposizione che consacra il principio, già acquisito dalle
costituzioni liberali, dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla
legge, conferendogli peraltro un nuovo contenuto sostanziale.
L’impegno di attribuire un valore di effettività al principio, che
altrimenti potrebbe esaurirsi in una statuizione formale, di
incontrovertibile importanza sul piano dell’attività legislativa ma non
altrettanto apprezzabile rispetto a quello della giustizia sociale,
rinviene una prima, significativa attuazione in quella parte
strettamente connessa al nucleo centrale del 1° comma, secondo cui
l’eguaglianza vale -così come la pari dignità, di cui si dirà appresso«senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
Questo designa che la legge non solo non può essere disparata, o
diversamente applicata, a danno o a vantaggio di singoli cittadini di
categorie, producendo inammissibili situazioni di privilegio, ma
anche, se non precipuamente, che non può disporre un trattamento
discriminatorio nei confronti di coloro che pure versano in condizioni
personali o hanno propensioni differenti che sono state in altri regimi
considerate idonee a giustificare l’emanazione di norme speciali3 .
Di guisa che deve solo ammettersi, ed altrimenti sarebbe impedita o
gravemente ostacolata l’adeguata regolamentazione legislativa delle
molteplici e multiformi situazioni reali, che le norme disciplinatrici
possono differenziarsi, ove ricorrano circostanze od elementi
3
Ovviamente sfavorevoli a tali soggetti. Ci si vuol riferire, più in
particolare, alle recenti esperienze legislative della Repubblica Federale tedesca ed in particolare a quella normativa emanata per
impedire l’accesso alle carriere pubbliche agli aderenti a movimenti
che si ispirano a principi contrari all’ordinamento costituzionale
tedesco. Sul punto v. la posizione critica di U. Natoli, Il c.d.
“Berufsverbot” e diritti fondamentali nella Repubblica Federale
tedesca, in Riv. Giur. Lav., 1976, I, p. 3.
18
peculiari, e come tali ragionevolmente apprezzati dal legislatore, nelle
situazioni regolate 4 .
Ma la prima proposizione dell’art. 3 fa riferimento, come già
preannunciato, ad un altro criterio preannunciato, ad un altro criterio
precede a quello ormai tradizionale dell’uguaglianza di fronte alla
legge, ed è il criterio della pari dignità sociale di tutti i cittadini.
Quest’altro principio, più in particolare, si perfeziona rigorosamente
con quello dell’uguaglianza e contribuisce ad affermare il carattere
sostanziale, varrebbe a dire che tutti i cittadini possono considerarsi
effettivamente uguali solo in quanto ad essi sia riconosciuta una pari
dignità nell’ambito delle relazioni sociali» 5 .
Si profila altresì -sotto questo aspetto- il modello di un ordinamento,
che ridimensiona lo Stato di diritto incardinato esclusivamente sulla
uniformità del trattamento giuridico, per volgersi all’attuazione degli
obiettivi sostanziali della giustizia sociale. Ed affiora, alla medesima
stregua, una valida chiave di lettura della seconda disposizione
dell’art. 3, in quanto sancisce le direzioni da percorrere per il
raggiungimento degli obiettivi medesimi. A quest’ultimo proposito è
d’uopo rimarcare ancora che, mentre per attuare l’uguaglianza
giuridica o formale occorre l’emanazione di una direttiva vincolante di
tale contenuto, le condizioni effettive di uguaglianza, di libertà e
dignità sociale di tutti i cittadini possono conseguirsi, sia pure in linea
di tendenza, solo attraverso un’azione costante che mobiliti le forze
ordinatrici dell’assetto politico-sociale, allo scopo di eludere -anche se
non è consentito rimuoverli totalmente- gli ostacoli persistenti e
sopravvenienti a che tutti i cittadini siano messi in grado di esplicare
la propria personalità e di partecipare all’organizzazione del Paese.
Nella medesima prospettiva la regola dettata dal 2° comma dell’art. 3
si configura come un momento ulteriore di sviluppo, e si erge altresì
ad un valore strumentale, nella costruzione di una società che si dirige
verso i traguardi della giustizia sociale ed economica erga omnes.
Nella coscienza, mutuata dall’esperienza storica, che nelle società moderne, governate in larga parte dagli eventi e dalle leggi dell’economia
di mercato, sorgono ineluttabilmente nuovi privilegi a vantaggio dei
detentori della produzione e della ricchezza a cui corrispondono le
condizioni di sfruttamento degli estraniati, si rende impellente -onde
evitare i più gravi sconvolgimenti sociali e politici- un’azione
complessiva del paese per abbattere, o quanto meno ammansire,
4
Come è stato più volte affermato dalla Corte costituzionale.
Sul principio di uguaglianza cfr. A. S. Agrò, Commentario alla
Costituzione, sub. art. 3, 2° e 123 ss.
5
19
situazioni ingiustificate e discriminanti per estese categorie di
cittadini.
3.1. Principio di eguaglianza sostanziale e discriminazioni sul
lavoro.
Il secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione è stato la base di
appoggio per coloro che hanno affermato che, nell’esperienza
contemporanea, le condizioni denunziate di discriminazioni6 appaiono
interessare soprattutto le categorie lavoratrici7 , a sostegno delle quali
principalmente si giustifica e si attua l’azione di tutela
dell’ordinamento, che si fa tanto più effettiva ed efficace quanto
maggiore diviene la forza politica delle categorie interessate. Ma -è
d’uopo ribadirlo- l’impegno sociale dello Stato contemporaneo non
può giustamente manifestarsi negli esclusivi confronti di coloro che
lavorano alle altrui dipendenze, e tanto meno può rinvenire la sua
coerente e felice attuazione nella creazione di nuove classi di potere e
politicamente privilegiate, per l’appunto le categorie lavoratrici.
Al fine di rintuzzare un siffatto ordine di affermazioni, svelandone il
carattere unilaterale e di parte, si può di già ritenere che la norma
costituzionale fa riferimento, in linea di principio, a tutti gli ostacoli
economici e sociali, che provocano la menomazione personale e
sociale di categorie variamente estese di cittadini. Talché, se è
inoppugnabile, e più volte se ne è dato prova, che l’impedimento, di
gran lunga più consistente e diffuso, tra quelli che nella vita
contemporanea di relazione possono osteggiare la piena esplicazione
della personalità umana e la partecipazione alla lealtà sociale, è
costituito dal vincolo di subordinazione nel lavoro, non è meno
assiomatico che anche altre situazioni di sottoprotezione possono aver
luogo e legittimare analogamente -ed anzi esigere- l’impegno della
Repubblica per porvi rimedio.
Basterebbe menzionare, per focalizzare al meglio lo stato dell’arte, la
condizione di svantaggio -ben più rilevante ed incombente- di tutti gli
indigenti, tra i quali si potrebbero annoverare anche i cittadini
bisognosi in cerca di occupazione. Ed ancora, in una prospettiva più
ampia, la condizione delle donne, dei fanciulli e degli anziani
6
Osserva Giannini (Cfr. M. S. Giannini, Rilevanza costituzionale del
lavoro, op. cit., p. 7) come il riconoscimento dello stato di
sottoprotezione del proletariato e della necessità della sua
emancipazione segna l’implicito accoglimento dell’istanza politica
fondamentale del marxismo.
7
In special modo i lavoratori subordinati.
20
gravemente disagiati. Ad ulteriore smentita dell’interpretazione
criticata si deve tenere ben presente, del resto, che l’impegno della
Repubblica a sostegno delle categorie sottoprotette, riguardo agli
impedimenti che la realtà economico-sociale può introdurre alla piena
realizzazione della personalità di tali soggetti, postula per l’appunto
l’esistenza di situazioni economiche e sociali di privilegio e di
sfruttamento, alle quali si vuol rimediare, impiegando adeguate tutele
e garanzie 8 . Contestualmente, l’auspicabile esito proficuo di tale
politica nei riguardi delle categorie lavoratrici potrà produrre
situazioni tali, di tutela e di garanzia, per cui -in tutto o in partecoloro che profondano il proprio lavoro alle dipendenze di altri non
debbano più essere considerati sottoprotetti o sfruttati. Ma un siffatto
obiettivo non potrebbe mai conseguirsi, nell’osservanza del precetto
costituzionale, percorrendo la direzione del tutto diversa di un sistema
che, assegnando alle forze rappresentative dei lavoratori la pienezza
ed esclusività dei poteri politici ed economici, eliminerebbe
certamente lo sfruttamento economico dell’uomo sull’uomo, ma
creerebbe inevitabilmente - come già si ha avuto modo di costatarenuove e questa volta probabilmente irrimediabili9 situazioni di
sottoprotezione ed emarginazione dei soggetti ritenuti non
appartenenti alle categorie lavoratrici o, addirittura, in posizione di
dissidio rispetto alle forze al potere, ed un nuovo -possibilesfruttamento da parte dello Stato e delle sue strutture burocratiche, a
carico delle stesse masse la voratrici. Lato sensu, recuperando i nessi di
collegamento tra i due fondamentali principi della Costituzione fin qui
vagliati, è d’uopo -piuttosto- riaffermare il ruolo del lavoro,
ampiamente inteso, di fattore essenziale, e di principale se non
esclusiva garanzia, di attuazione di un regime politico-sociale di
effettive democrazia e giustizia.
8
Esattamente il Mazziotti, (Cfr. F. Mazziotti, voce Lavoro (diritto
cost.), in Enc. Dir., 1995, p. 343) addita nell’art. 3, 2° comma, la fonte
del diritto sociale nella Costituzione.
9
Secondo Scognamiglio, (Cfr. R. Scognamiglio, Il lavoro nella
Costituzione italiana, Milano, 1978, p. 33) probabilmente
irrimediabili, a ragion veduta, perché i sistemi politici, in cui il potere
politico-economico passa nelle mani dei rappresentanti dei lavoratori
(beninteso ove questo avvenga, sopprimendo il sistema del pluralismo
politico e della libertà economica), reputando assiomaticamente e del
resto per una imprescindibile ragione di coerenza di avere eliminato
definitivamente lo sfruttamento economico dell’uomo in tutte le sue
implicazioni, non possono contraddittoriamente svolgere un’azione
adeguata, e tanto meno assumere un impegno costituzionale, che si
volgano alla realizzazione di tale obiet tivo.
21
Solo nel lavoro può scorgersi, infatti, un elemento di continuità e di
comunione tra gli uomini ed i gruppi sociali, che in esso realizzano
una esigenza elementare ed insopprimibile della propria persona, e
con essa attuano gli interessi e gli obiettivi essenziali della collettività.
Cosicché il pieno e assoluto riconoscimento del lavoro, come
fondamento della Repubblica, postula l’attribuzione a tutti i cittadini
di pari dignità sociale, libertà ed eguaglianza reali, uguali possibilità di
partecipazione alla realtà sociale, ed esige l’eliminazione degli
ostacoli che inevitabilmente e correntemente si frappongono al
raggiungimento di tali traguardi. La Repubblica, contrassegnata da
tale fondamento, si rivela -in tal senso- come un modello di Stato
necessariamente impegnato per la realizzazione di un assetto di
giustizia sociale ma anche, più di ogni altro, idoneo a soddisfarne le
esigenze e gli auspici.
4.
Conclusioni
Il disegno costituzionale, che si profila negli articoli 1 e 3 della Carta
fondamentale, pare rinvenire la sua logica e storica integrazione nel
disposto dell’art. 4 della medesima. La considerazione vale soprattutto
per la prima parte della norma che, in termini incisivi, afferma: «la
Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove
le condizioni che rendono effettivo questo diritto».
Questa affermazione di principio, che segna una assoluta innovazione
rispetto al precedente assetto costituzionale, propone un tipo di
risposta al nodo forse più avviluppato, e tuttora irrisolto, delle società
moderne, che conservano i diritti e le libertà dei privati nelle relazioni
economiche: edificare, con la massima approssimazione, condizioni di
ottimale occupazione per tutti i cittadini senza alcuna sorta di
discriminazione. Ciò vale ad argomentare come l’attenzione e la
sensibilità dei giuristi siano state caldeggiate, fin dai primi studi sulla
Costituzione, dalla proclamazione del diritto al lavoro; in funzione
della quale è stata prevalentemente interpretata anche la seconda
disposizione dell’art. 410 , ponendo soprattutto l’accento sulla libertà
10
Sulla natura meramente programmatica dell’art. 4 v. tra gli altri, A.
Amorth, La Costituzione italiana. Commento sistematico, Milano,
1948, p. 76; A. Ceretti, Corso di diritto costituzionale, Torino, 1949,
p. 112; P. Calamandrei, Introduzione storica alla Costituzione, in
Calamandrei e Levi (a cura di), Commentario Sistematico alla
Costituzione italiana, Firenze, 1960; CXXXII; F. Crosa, Corso di
diritto costituzionale, Torino, 1951, p. 82; G. Balladore-Pallieri,
Diritto costituzionale, Milano, I953, p. 353; De Litala, Il contratto di
22
professionale o di scelta di una occupazione appropriata alle
possibilità e alle attitudini di ciascuno11 .
Ciò nondimeno, non deve sembrare incongruo o -peggio- escludersi,
rebus sic stantibus, che la legge fondamentale dello Stato persegua i
suoi obiettivi, anche mediante l’imposizione degli obblighi di
comportamento che configurano l’altro termine della dia lettica
dispositiva di ogni ordinamento giuridico. Si deve ammettere -perciò che tali obblighi, per la fonte da cui derivano, assumano inevitabilmente il carattere della giuridicità 12 . La portata precettiva
dell’articolo in esame si rinviene -tuttavia- nella medesima statuizione
del dovere di condotta che, a tale stregua, da dovere sociale o morale,
quale è naturalmente, acquisisce altresì l’entità di un dovere giuridico.
Una rilevanza di tal fatta, per concludere, consiste in ciò che la norma
costituzionale propone, vale a dire un valore ed un obbiettivo
all’azione del legislatore ordinario, invocato quanto meno per
sostenere l’uguaglianza dei lavoratori. Inoltre, fissa per i cittadini
medesimi un criterio di comportamento a cui debbono ispirarsi, onde
concorrere alla realizzazione di tale scopo perseguito dallo Stato e segna, infine -sia pure per implicito- il divieto di qualsivoglia
discriminazione.
lavoro, Torino, 1956, p. 6; F. Pergolesi, Introduzione al diritto del
lavoro, in Borsi - Pergolesi (a cura di), Trattato di diritto del lavoro,
vol. I, Padova, 1960, p. 231.
11
Sulla vasta problematica scaturita dall’art. 4 Cost. cfr.. F. Mazziotti,
Il diritto del lavoro, cit.; V. Crisafulli, Appunti preliminari sul diritto
al lavoro nella Costituzione, in La Costituzione e le sue disposizioni di
principio, Milano, 1952; F. Mancini, Commentario della Costituzione,
cit., sub art. 4; U. Natoli, Diritto al lavoro, inserzione del lavoratore
nell’impresa e recesso ad nutum , in Riv. Giur. Lav., 1951; U.
Prosperetti, Sul diritto al lavoro , in Giur. It., 1953, IV, p. 177.
12
Cfr. R. Scognamiglio, Il lavoro nella Costituzione italiana, op. cit.,
p. 54.
23
LA “PARI” RETRIBUZIONE
di Marco Alaia
(Cultore di Dir. Costituzionale -Università di Salerno)
La legislazione del periodo precostituzionale presenta sin dagli inizi
caratteri dominanti che informano l’intera disciplina del lavoro
femminile di quegli anni. In primo luogo la tutela opera secondo una
duplice direttiva: da un lato si sottolinea l’esigenza della difesa della
salute contro i danni fisici derivanti da determinate modalità di lavoro,
ed in questo senso il lavoro della donna viene assimilato a quello dei
fanciulli. Dall’altro emerge un elemento intrinseco di debolezza della
lavoratrice, inteso come naturale e logica inferiorità rispetto al
lavoratore. In secondo luogo la protezione della maternità, sembra
riconoscere implicitamente la preminenza nel ruolo familiare della
donna, fattore questo di definitiva espulsione della stessa dall’attività
lavorativa esterna. Il terzo elemento caratterizzante concerne il
limitato ambito di applicazione delle leggi, il cui effetto protettivo
investe esclusivamente il lavoro industriale. Questa linea di politica
del diritto fortemente penalizzante ed espulsiva dal mercato del lavoro
della manodopera femminile viene iniziata con la legge Carcano, n.
242 del 1902 ed accentuata nell’ambito della legislazione corporativa.
E’ solo con l’emanazione della Costituzione Italiana del 1948 che si
assiste ad una inversione di tendenza verso un assetto giuridico e di
fatto, più equilibrato nei rapporti uomo donna in ambito sociale e
lavorativo.
La caduta del regime corporativo e l’emanazione della Costituzione
costituiscono le premesse per un radicale mutamento, non solo sul
piano legislativo, ma anche sul piano sociale e del costume. In
particolare, l’art. 3 Cost. pone le basi per una netta rottura con il
passato e con le norme di eccessiva tutela del periodo precedente. Il
divieto di discriminazione crea i presupposti per una tutela positiva
della condizione della donna nel lavoro.
In tale contesto, particolare rilevanza assume l’art. 37 Cost., il quale
recita, al 1° comma: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti, e a
parità di lavoro le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le
condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua
essenziale funzione familiare e assicurare alla madre ed al bambino
una speciale e adeguata protezione”. La norma che specifica il dettato
24
costituzionale dell’art. 3, ribadendo nel campo del lavoro il principio
generale di uguaglianza e dignità sociale, senza alcuna distinzione
sulla base del sesso, può essere suddivisa in due parti. La prima
sancisce il diritto di parità di trattamento a favore della lavoratrice,
mentre la seconda ne prevede le possibili eccezioni in relazioni a
determinate finalità. Viene così, con chiarezza, ribadita e rafforzata
l’indicazione della prevalenza del principio di eguaglianza sostanziale,
laddove la parità formale viene subordinata a regole differenziate volte
a sopprimere quegli ostacoli menzionati al secondo comma dell’art. 3
Cost.
Sembrerebbe, pertanto, realizzarsi un doppio legale, in base al quale
l’art. 37, da un lato specifica il dettato costituzionale dell’articolo 3,
ribadendo rispetto al lavoro il principio di uguaglianza e pari dignità
sociale, senza distinzioni di sesso, dall’altro prevede una parità di
diritti della lavoratrice solo in quanto inserita in un quadro
costituzionale atto ad assicurare alla donna una condizione di
uguaglianza sostanziale, nel momento in cui la diversità tra i due sessi
appare più evidente, e cioè il periodo della maternità. Non esistendo,
dunque, alcuna contraddizione tra i due principi enunciati, poiché
quello della tutela è finalizzato ad assicurare, in accordo con il primo
comma dell’art. 3 la pari dignità sociale della donna, eventuali
perplessità sembrano semmai derivare dall’ambigua formulazione
“l’essenziale funzione familiare”, come obiettivo esplicito rispetto al
quale il principio di tutela assume valore strumentale.
Di fronte alla dizione testuale della norma, che sembrerebbe imporre
una obbligatoria compatibilità tra condizione di lavoro e funzione
familiare “essenziale”, l’unica risposta interpretativa in grado di
fornire una soluzione non squilibrata al problema del doppio ruolo
famiglia – lavoro è quella di porre sullo stesso piano entrambe le
dimensioni di vita, rispetto alle quali la donna, libera da
condizionamenti, possa esercitare la propria libera scelta, resa
possibile dall’intervento dello Stato, che attraverso una legislazione
riformista promuova gli opportuni cambiamenti nel mondo del lavoro,
nella sfera sociale, culturale, del costume.
In uno stato democratico, quindi, il principio di parità è basilare per
una corretta evoluzione sociale e culturale. Tutti gli individui hanno il
diritto di compiere scelte e sviluppare le loro abilità senza limitazioni
imposte dall’appartenenza al genere maschile o femminile. I bisogni e
le aspirazioni di ogni uno devono essere valutati ed incoraggiati in
pari misura, soprattutto nei termini di legge, quindi nel sociale, come
uguaglianza di diritti e doveri.
25
Ciò presso su un piano generale, va rilevato che il principio di
uguaglianza viene riferito dall’art. 37 Cost. anche al campo della
retribuzione, assumendo, così, importanza centrale la definizione della
misura e del suo ambito di operatività in relazione all’inciso “a parità
di lavoro” . Un significato unitario del concetto può essere rielaborato
alla luce del combinato disposto costituzionale degli artt. 37 e 36,
norma quest’ultima che fissa gli elementi determinanti di una equa
retribuzione. Essendo il lavoro la manifestazione più alta della
personalità umana, e come tale garantito dall’art. 37, simile
presupposto sarà assicurato allorquando si avranno eguaglianza o
equivalenza delle prestazioni della lavoratrice rispetto a quelle del
lavoratore, senza possibilità di distinzione sulla base dei risultati
ottenuti.
Appare, dunque, inaccettabile la tesi secondo cui il riferimento al
rendimento sarebbe implicito nella stessa formula della “parità di
lavoro” e stabilirebbe, pertanto, la parità retributiva in funzione
all’utilità economica prodotta dalla donna.
L’interpretazione, infatti, più recente della norma costituzionale
intende il richiamo alla “essenziale funzione familiare della donna”
non tanto come salvaguardia dei ruoli maschili e femminili
tradizionali all’interno della famiglia e del mercato del lavoro, quanto
come promozione dell’eguaglianza di opportunità, attraverso
interventi che rendano possibile al riconciliazione tra vita familiare e
vita lavorativa.
In realtà, ci sono voluti ben trent’anni perché questo principio
costituzionale dell’art. 37 trovasse, con la L. 903/1977 e, poi, nella L.
125/1991 la sua piena applicazione normativa.
Il principio della parità ha ispirato la L. 903/1977 fra donne ed uomini
in materia di lavoro, che ha eliminato una serie di discriminazioni ed
ha esteso, per la prima volta, il diritto di assentarsi dal lavoro ed il
trattamento economico previsti dalla legge sulla tutela delle lavoratrici
madri, anche al padre lavoratore in alternativa alla madre lavoratrice.
Solo l’8 marzo 2000 con il varo della L. 53/2000, nota come legge sui
congedi parentali, si modifica l’impostazione di naturale
discriminazione, ponendosi in una prospettiva di parificazione il padre
e la madre nella cura dei minori. La L. 53/2000 guarda anche ad
un’altra importante prospettiva, quella dell’intervento in favore della
conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, intervenendo sulla
flessibilità dell’orario di lavoro, affidando alle regioni ed ai comuni il
compito di sviluppare dei piani territoriali degli orari.
26
Emerge con forza, quindi, il concetto di discriminazione, intendendosi
per discriminazione diretta, in base alla normativa italiana ed europea,
qualsiasi atto, patto, o comportamento che produca un effetto
pregiudizievole, discriminando i lavoratori in ragione del sesso;
irrilevante è l’intento discriminatorio, occorre, invece, verificare
l’effetto del comportamento adottato. Ancora più incisivo è il concetto
di discriminazione indiretta che consiste in ogni trattamento
pregiudizievole, conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in
modo proporzionalmente maggiore lavoratori dell’uno e dell’altro
sesso e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento
dell’attività lavorativa. In pratica, si ha discriminazione indiretta ogni
volta che si adotta un trattamento uguale e, apparentemente neutro a
soggetti diversi (uomini e donne) e che, quindi, produce effetti in
proporzione più negativi per i soggetti femminili.
Da ultimo il contenuto di tutte le norme disciplinanti la materia è stato
trasfuso nel Testo Unico per la tutela ed il sostegno della maternità e
della paternità, emanato con D. Lgs. 26/3/2001 n. 151, che ha
improntato la tutela al principio di un’effettiva parità dei ruoli
all’interno della famiglia.
Altresì, la Legge costituzionale del 18 ottobre 2001 n. 3, nota per aver
rafforzato i poteri delle regioni a statuto ordinario nella direzione del
federalismo, interviene anch’essa sul tema delle discriminazioni uomo
– donna, dettando una regola di fondo che caratterizza le potestà
regionali. Il nuovo art. 117 Cost., infatti, introduce una nuova norma
d’azione cui debbono conformarsi le leggi regionali: “Le leggi
regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli
uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e
promuovono la parità di accesso tra uomini e donne alle cariche
elettive”.
Dai principi degli artt. 36 e 37 Cost., combinati con alcune
disposizioni di legge, la giurisprudenza ha, poi, ricavato anche altri
importanti principi: si pensi al principio di irriducibilità della
retribuzione, ricavato dal combinato disposto degli articoli 36 della
Costituzione e 2103 del Codice Civile.
Sul principio di parità di trattamento retributivo tra uomini e donne
dell’art. 37 Cost. va, altresì, detto che, secondo la consolidata
giurisprudenza di legittimità, lo stesso attribuisce alle lavoratrici un
diritto soggettivo alla parità giuridica e salariale con i lavoratori,
che spiega i suoi effetti nei contratti collettivi e individuali contenenti
clausole contrastanti con il precetto costituzionale: questo diritto di
parità, secondo la giurisprudenza, deve ritenersi violato quando la
27
disparità di trattamento non trovi giustificazione in una diversità
oggettiva della prestazione di lavoro, dovendosi intendere la parità di
lavoro, di cui parla l’art. 37 Cost., non già come parità di rendimento
o parità di durata delle prestazioni lavorative, ma come parità di
mansioni affidate ai lavoratori dei due sessi.
Questo principio costituisce uno dei principi fondamentali del nostro
ordinamento, ma non solo. Anche la giurisprudenza comunitaria ha
chiarito quale è la retribuzione da prendere a parametro. Sul punto si
segnale la Corte di Giustizia 30 marzo 2000 (proc. C.- 236/1998),
secondo cui:
a)
l’art.119, ora 141 T.U.E., che definisce in ambito
comunitario, la nozione di retribuzione -che comprende il salario o
trattamento minimo e tutti gli altri vantaggi in contanti o in natura,
attuali o futuri, purché siano pagati, sia pure indirettamente dal
datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimoè una norma imperativa e si applica non soltanto alle norme di natura
legislativa e regolamentare, ma anche ai contratti di lavoro sia
individuali che collettivi;
b)
il confronto per stabilire se il principio di parità di
trattamento retributivo è stato violato, deve riguardare la retribuzione
base mensile delle lavoratrici e quella dei lavoratori che svolgono lo
stesso lavoro o un lavoro di eguale valore;
c)
qualora dal confronto delle retribuzioni base emerga una
differenza di trattamento si ha una discriminazione diretta fondata sul
sesso; nel caso, invece, che non emerga alcuna differenza, ma la
retribuzione, considerando tutti i compensi che rientrano nella nozione
di retribuzione di cui all’art. 119 (141) del T.U.E, sia, comunque,
inferiore e dai dati statistici risulti una percentuale considerevolmente
maggiore di lavoratori di sesso femminile rispetto ai lavoratori di
sesso maschile che svolgono quella determinata attività, si ha
discriminazione indiretta, se il datore di lavoro non prova che la
disparità di trattamento è giustificata da fattori obiettivi ed estranei a
qualsiasi discriminazione fondata sul sesso.
La tutela dei lavoratori minori prevista dal terzo comma dell’art. 37
Cost. risponde, invece, a finalità differenti rispetto alla tutela
accordata alla donna lavoratrice nella stesso art. 37 Cost. e, pertanto,
viene attuata con meccanismi diversificati. Infatti, nel caso delle
donne lavoratrici, obiettivo prioritario è l’affermazione della parità di
trattamento, nel caso dei lavoratori minorenni emerge l’esigenza di
salvaguardare lo sviluppo psico-fisico del minore.
28
In applicazione del dettato costituzionale è stata emanata la L.
977/1967 sulla “tutela del lavoro dei fanciulli e degli adolescenti”.
Tale normativa è stata profondamente modificata per effetto del D.Lgs
n. 345 del 1999, integrato e modificato dal D. Lgs n. 262 del 2000.
Per ciò che concerne il terzo comma dell’art. 37 Cost., la parità di
retribuzione a parità di lavoro, garantita ai lavoratori minorenni, deve
essere intesa, secondo i principali orientamenti giurisprudenziali, alla
stesso modo della donna lavoratrice, come parità di qualifica e di
mansioni e non come parità di rendimento; nell’attribuzione di
qualifiche e di mansioni può incidere l’attitudine lavorativa in base
anche all’età. A fondamento di tale ragionamento, è stabilito che,
fissate le mansioni e la qualifica, si ha parità retributiva
indipendentemente dalla parità di rendimento del lavoratore
minorenne rispetto al maggiorenne. Inoltre, le clausole dei contratti
collettivi che prevedono discriminazioni retributive basate sull’età dei
lavoratori sono nulle 13 . La Corte di Cassazione ha, altresì, ritenuto
che il trattamento paritario sancito dall’articolo 37 della Costituzione
deve ritenersi comprensivo non soltanto dei minimi salariali, ma
dell’intero trattamento spettante ai lavoratori maggiorenni; pertanto,
anche gli scatti di anzianità che vanno a contribuire, periodicamente
all’aumento del corrispettivo della prestazione lavorativa, debbono
essere considerati14 . Sempre la Suprema Corte ha esteso il principio
garantista, sancito nel terzo comma dell’articolo 37 della Costituzione,
ai lavoratori minori degli anni ventuno, pur dopo l’abbassamento della
minore età al diciottesimo anno (L. n. 39 del 1975), persistendo, però,
la rilevanza del ventunesimo anno ai fini specifici della tutela
protettiva del lavoro. La Cassazione, anche in tal caso, ha chiarito che
il principio garantista è comprensivo dell’intero trattamento lavorativo
spettante ai lavoratori maggiorenni, giustificando una più bassa
retribuzione solo nel caso in cui ai lavoratori minorenni siano
attribuite mansioni meno impegnative di quelle assegnate ai lavoratori
maggiorenni, non essendo in altro modo giustificabile la diversità di
trattamento tra essi15 . Le clausole contrattuali collettive che prevedono
discriminazioni salariali o che negano scatti di anzianità per i
lavoratori minorenni sono ritenute nulle a meno che le differenziazioni
non derivino da obiettive e dimostrate incidenze dell’età, sulla qualità
e quantità dell’apporto di collaborazione all’attività dell’impresa. Se le
clausole contrattuali collettive che prevedono differenze di trattamento
13
14
15
Cass., sez. I, 11.08.1981, n. 4901.
Cass., sez. lav., 10.08.1993, n. 9451.
Cass., sez. lav., 9.12.1992, n. 11988.
29
non si fondano su obiettive differenze di qualità e quantità del lavoro
sono nulle perché in contrasto con il principio di proporzionalità della
retribuzione, a norma dell’articolo 36 della Costituzione 16 .
16
Cass., sez. lav., 2006.1990, n. 6180.
30
CASI SPECIFICI DI DISCRIMINAZIONE
di FILOMENA FERRARA
(cultore di Diritto Processuale Civile -Università di Salerno)
La discriminazione sui luoghi di lavoro è tutt’altro che un fenomeno
debellato e colpisce ancora centinaia di milioni di lavoratori in tutto il
mondo.
Se è vero che alcune delle forme più violente di repressione dei diritti
sono scomparse in molti paesi, tuttavia, sono comparsi nuovi abusi
meno percepibili e, in quanto tali, più subdoli delle più ricorrenti
ipotesi di discriminazione.
Ancora allarmante è il divario causato in ambito lavorativo dalla
discriminazione basata sul sesso, il colore della pelle, la religione, le
opinioni politiche, l’origine sociale e su qualsiasi altro connotato
particolare che distingua l’identità personale quali l’età, l’alcolismo, la
tossicodipendenza e le condizioni di salute.
Si manifesta una discriminazione in tutti i casi in cui l’ingresso al
lavoro, l’attribuzione delle mansioni e la progressione in carriera,
l’accesso ai percorsi formativi, il trattamento retributivo e
previdenziale, l’estinzione del rapporto stesso vengano pregiudicati
dal tipo di valutazioni anzidette nei confronti dei lavoratori.
Il principio di parità di trattamento sul lavoro trova molteplici referenti
normativi nella Costituzione; oltre che dal principio di uguaglianza
formale e sostanziale sancito dall’art. 3, infatti, esso scaturisce dai
dettati costituzionali di cui all’ art. 4 che detta, una direttiva in forza
della quale il legislatore è abilitato a circoscrivere di garanzie e
temperamenti le ipotesi di licenziamento; all’art. 31 che affida alla
Repubblica il compito di agevolare la formazione della famiglia e,
quindi, di intervenire laddove sia anche indirettamente ostacolata;
all’art. 35, primo comma, che tutela il lavoro in tutte le sue forme ed
applicazioni; all’art. 37, che stabilendo che le condizioni di lavoro
devono consentire alla donna l’adempimento della sua essenziale
funzione familiare, presuppone che le sia assicurata la libertà di
diventare sposa e madre.
Il tema della parità di trattamento tra le persone per quanto attiene
all’occupazione ed alle condizioni di lavoro è sempre stato, d’altra
parte, al centro dell’interesse della dottrina e della giurisprudenza che,
nell’intento di dare piena attuazione alle succitate norme, hanno
31
contribuito, nel tempo, fortemente all’affermazione del principio di
non discriminazione nel lavoro.
Sin dagli anni cinquanta, è, inoltre, intervenuta un’importante e
cospicua attività di legislazione ordinaria, nonché, da ultimo,
comunitaria, finalizzata ad attuare i principi costituzionali di non
discriminazione nel mondo del lavoro.
In questa direzione, di fondamentale importanza la pionieristica L.
26.8.1950, n. 860, sulla tutela fisica ed economica delle lavoratrici
madri, che oltre ad introdurre limitazioni al potere di licenziamento,
ha ampliato i periodi di astensione dal lavoro obbligatoria e
facoltativa.
In quegli anni molti datori di lavoro, al fine di evitare gli oneri
conseguenti agli eventi di gravidanza e puerperio normalmente
derivanti dal matrimonio, erano soliti introdurre nei contratti le c.d.
clausole di nubilato che, subordinando la durata del rapporto alla
permanenza dello stato di nubilato, venivano a configurare il
matrimonio come condizione risolutiva del rapporto stesso.Tale
situazione di fatto ha indotto il legislatore ad emanare la L. 9.1.1963,
n. 7 che ha sancito la nullità delle c.d. clausole di nubilato e la nullità
dei licenziamenti attuati a causa del matrimonio.La legge, sollevando
la lavoratrice dal difficile onere di provare il nesso di causalità tra il
matrimonio ed il licenziamento, ha stabilito che si presume intimato
per causa di matrimonio il licenziamento intervenuto nel periodo
compreso tra il giorno della richiesta delle pubblicazioni e l’anno dalla
celebrazione del matrimonio.
Nella stessa direzione sono intervenute la L. 9.12.1977, n. 903, sulla
parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, e la L.
10.4.1991, n. 125, sulle azioni positive per la realizzazione delle parità
uomo-donna nel lavoro.
Ai sensi delle predette leggi costituisce discriminazione qualsiasi
comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando
anche in via indiretta i lavoratori in ragione del sesso, inoltre,
costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole
conseguente alla adozione di criteri che svantaggino in modo
proporzionalmente maggiore i lavoratori dell’uno o dell’altro sesso e
riguardino i requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività
lavorativa.
Si segnalano, altresì, il D.Lgs. 26.3.2001, n. 151 sul Testo unico sulla
maternità e sulla paternità, il D.Lgs 25.7.1998, n. 286, contenente il
Testo unico delle disposizioni sull’immigrazione e la L 12.3.1999, n.
68, sulla disciplina dei disabili.
32
Significativamente le pietre miliari di quella che si potrebbe definire la
legislazione di non discriminazione sul lavoro sono state poste a tutela
delle lavoratrici, sono, cioè, intervenute in un’area in cui la
discriminazione è sempre stata e, per troppi aspetti, continua ad essere
per così dire presupposta.
La ratio sottesa a tali misure legislative è chiaramente quella di
sollevare la donna dal dilemma di dover sacrificare il posto di lavoro
per salvaguardare la propria libertà di dar vita ad una nuova famiglia
o, viceversa, di dover rinunciare a tale fondamentale diritto per evitare
la disoccupazione.
Nonostante notevoli progressi siano stati compiuti nell’aumentare il
livello di partecipazione delle donne nella forza lavoro, in Europa ed
in Italia la discriminazione legata al sesso continua ad essere presente.
Se è vero, infatti, che molte più donne rispetto a 50 anni fa
guadagnano uno stipendio, tuttavia, nella maggior parte dei casi, esse
sono relegate a svolgere lavori meno qualificati; anche nei paesi dove
le donne hanno un livello di istruzione pari o superiore a quello degli
uomini “il tetto di cristallo” spesso impedisce la loro scalata ai vertici
della gerarchia. E ovunque la maggior parte delle donne continua a
guadagnare meno degli uomini, nonostante si sia ridotto il divario nei
salari tra uomini e donne. Le donne non possono accedere in maniera
proporzionale ai lavori meglio retribuiti, e non sono equamente
rappresentate in uno dei più dinamici settori nel mercato del lavoro: la
tecnologia dell’informazione.
A ben vedere, quindi, l’ordinamento giuridico italiano è fortemente
permeato da principi in grado di dare un giusto valore allo status
personale, vietando qualsiasi forma discriminatoria. Specie nel corso
degli ultimi anni, si è andata sempre più rafforzando la tutela contro il
mobbing, realizzabile, tra l’altro, anche in forma discriminatoria verso
le situazioni personali di che trattasi.
Con due recenti decreti legislativi, il legislatore ha dato attuazione a
due direttive comunitarie in materia di parità di trattamento. Si tratta
del D. Lgs. 9.7.2003, n. 215, attuazione della Direttiva n. 2000/43/Ce
per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla
razza e dall’origine etnica, e del D. Lgs. 9.7.2003, n. 216, attuazione
della Direttiva n. 2000/78/Ce per la parità in materia di occupazione e
di condizioni di lavoro.
Il D. Lgs. 9.7.2003, n. 215 viene ad attuare la parità di trattamento tra
le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica,
disponendo le misure necessarie affinché le differenze di razza o di
origine etnica non siano causa di discriminazione anche in un’ottica
33
che tenga conto dell’esistenza di forme di razzismo a carattere
culturale e religioso.
Agli effetti del D. Lgs. 9.7.2003, n. 215, per principio di parità di
trattamento si intende l’ assenza di qualsiasi discriminazione diretta o
indiretta a causa della razza o dell’origine etnica. Inoltre, il D. Lgs. n.
215/2003 fissa le nozioni di discriminazione diretta ed indiretta,
ricorrendo la prima quando per la razza o l’origine etnica, una persona
è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe
trattata un’altra in una situazione analoga; laddove ricorre la seconda
quando una disposizione , un criterio, una prassi, un atto, un patto o un
comportamento apparentemente neutri e, dunque, formalmente
ineccepibili, possono mettere le persone di una determinata razza od
origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad
altre persone.
Il D. Lgs. n. 215/2003 definisce, altresì, le molestie come
comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di
origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una
persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante,
umiliante e offensivo.
Il principio di parità di trattamento senza distinzione di razza e di
origine etnica trova applicazione secondo il citato D. Lgs. in nove aree
specificamente individuate:
a)
accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che
dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di
assunzione;
b)
occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli
avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del
licenziamento;
c)
affiliazione e attività nell’ambito di organizzazioni
professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni;
d)
protezione sociale, inclusa la sicurezza sociale;
e)
assistenza sanitaria;
f)prestazioni sociali;
g)
istruzione;
h)
accesso a beni e servizi, incluso l’alloggio.
Per espressa previsione normativa, non costituiscono atti di
discriminazione nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio
dell’attività d’impresa quelle differenze di trattamento dovute a
caratteristiche connesse alla razza o all’origine etnica di una persona,
nel caso in cui, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto
in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono
34
un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento
dell’attività medesima. Non costituiscono, inoltre, atti di
discriminazione quelle differenze di trattamento che, pur risultando
indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da
finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati necessari.
Particolarmente significativa appare la tutela giurisdizionale dei diritti
derivanti dalle disposizioni di legge in esame, secondo cui, quando il
comportamento di un privato o di una pubblica amministrazione
produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o
religiosi, il giudice può, su istanza di parte, provvedere al risarcimento
del danno (anche non patrimoniale) nonché ordinare la cessazione del
comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento
idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della
discriminazione.
Il D. Lgs. 9.7.2003, n. 216, nel recepire, a sua volta, la Direttiva n.
2000/78/Ce, viene invece ad attuare la parità di trattamento fra le
persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni
personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale, per
quanto attie ne all’occupazione ed alle condizioni di lavoro.
Si tratta di un provvedimento più calato nella realtà e nel mondo del
lavoro e, quindi, più vicino all’auspicata tutela contro il mobbing.
La struttura del decreto legislativo in esame è parallela a quella del
provvedimento precedente, essendo per certi versi parallele le due
direttive, chiaramente “gemelle”, la cui ratio è quella di fare fronte
comune contro le discriminazioni.
Agli effetti del decreto legislativo in esame, in un’ottica che tiene
conto anche del diverso impatto che le fonti di discriminazione
possono avere su donne e uomini, per principio di parità di trattamento
si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a
causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap,
dell’età o dell’orientamento sessuale.
Ricorre discriminazione diretta quando per religione, per convinzioni
personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una
persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o
sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga; si ha, invece,
discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una
prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri
possono mettere le persone che professano una determinata religione o
ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone
di una particolare età o orientamento sessuale in una situazione di
particolare svantaggio rispetto alle altre.
35
Relativamente a questo tipo di discriminazione, si segnala li parere
reso, in data 30.11.1994, dal Collegio del Comitato Nazionale Pari
Opportunità, costituito in seno al Ministero del Lavoro e della
Previdenza Sociale, secondo il quale la prassi apparentemente neutra
di richiedere ai fini della progressione in carriera, basata di norma su
un sistema semiautomatico, dei lavoratori con regime orario a tempo
parziale una maggiore anzianità di servizio, in ragione del ridotto
orario di servizio degli stessi, ricorre un’ipotesi di discriminazione
indiretta in danno delle donne. Il rapporto a tempo parziale, infatti, è
un istituto applicato per la stragrande maggioranza alle donne, in
quanto è uno degli strumenti più utilizzati per rendere possibile
l’armonizzazione della vita familiare e professionale delle lavoratrici.
La prassi del c.d. <<riproporzionamento al rialzo>> dei tempi richiesti
per la progressione in carriera, secondo il citato parere, finisce, di
fatto, per produrre effetti proporzionalmente più svantaggiosi e
pregiudizievoli per le lavoratrici di sesso femminile, rappresentanti la
quasi totalità dei lavoratori a tempo parziale per intuitive ragioni
socio-familiari, tanto più che il criterio del prolungamento
dell’anzianità di servizio richiesta non è <<essenziale>> ai fini della
maturazione della professionalità necessaria per l’avanzamento di
carriera.
Agli effetti del D. Lgs. n. 216/2003, costituiscono, inoltre, atti
discriminatori le molestie, ovvero, quei comportamenti indesiderati
aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e
ricreare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od
offensivo.
Un posto a parte tra le molestie perpetrate sui luoghi di lavoro è
occupato dalle molestie sessuali che possono definirsi come qualsiasi
comportamento indesiderato a connotazione sessuale, offensivo della
dignità delle donne e degli uomini nel mondo del lavoro, che produce
discriminazione sessuale, perché il fattore determinante è
rappresentato dal sesso di chi lo subisce.
La rilevanza dei
comportamenti è condizionata ad un giudizio di valore, afferente
all’accettabilità da parte della vittima, alla cui libera valutazione
soggettiva il giudizio è demandato; conseguentemente non possono
essere stabiliti criteri oggettivi per distinguere lo scherzo amichevole
dall’abuso a sfondo sessuale . Le molestie sessuali, danneggiando la
salute delle vittime, che continuano ad essere principalmente ancora
donne, ed incidendo sulla qualità delle prestazioni lavorative,
ostacolano la partecipazione al lavoro ed impediscono il godimento di
pari opportunità nella vita professionale.
36
Agli effetti del decreto legislativo in esame, costituisce, altresì,
discriminazione l’ordine di discriminare persone a causa della
religione, delle convinzioni personali, dell’handicap, dell’età o
dell’orientamento sessuale
A ben vedere, quindi, le attuali situazioni di mobbing, in tutte le sue
variabili, orizzontale, verticale, bossing, rientrano nella previsione che
la legge vieta.
Non costituiscono, ex adverso, atti di discriminazione:
- nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività
d’impresa quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche
connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap,
all’età o all’orientamento sessuale di una persona, nel caso in cui, per
la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene
espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito
essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività
medesima;
- la valutazione delle appena indicate caratteristiche ove le stesse
assumano rilevanza ai fini dell’idoneità allo svolgimento delle
funzioni che le forze armate e i servizi di polizia, penitenziari o di
soccorso possono essere chiamati ad esercitare;
- le differenze di trattamento basate sulla professione di una
determinata religione o di determinate convinzioni personali che siano
praticate nell’ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche
o private, nel caso in cui tali caratteristiche, per la natura delle attività
professionali svolte da detti enti o organizzazioni ovvero per il
contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale,
legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime
attività;
- le differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente
discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime
perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari.
Le aree nelle quali il principio di parità di trattamento previsto dal
decreto legislativo in esame trova applicazione sono le quattro
seguenti:
- accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente ,
compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione;
- occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di
carriera, la retribuzione e le condizioni di licenziamento;
- accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione
professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale,
inclusi i tirocini professionali;
37
- affiliazione e attività nell’ambito di organizzazioni di lavoratori, di
datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni
erogate dalle medesime organizzazioni.
La tutela giurisdizionale dei diritti derivanti dalle disposizioni di legge
in esame è del tutto speculare a quella precedentemente vista per il D.
Lgs. n. 215/2003.
Come si accennava il decreto legislativo in esame appare ben calato in
una realtà del mondo del lavoro nelle quale i fattori di discriminazione
cui fa riferimento sono tutt’altro che scomparsi.
Attualmente la discriminazione basata sulla religione, per esempio,
sembra essere addirittura, aumentata, dal momento che il clima
politico mondiale ha favorito la diffusione della paura e l’aumento
della discriminazione tra gruppi religiosi, minacciando di
destabilizzare le società e di generare atti di violenza.
Sul posto di lavoro, la discriminazione in funzione della religione può
assumere diverse forme: comportamento aggressivo da parte di
colleghi o dirigenti, verso individui appartenenti a minoranze
religiose; mancanza di rispetto e ignoranza delle usanze religiose;
mancanza di imparzialità al momento dell’assunzione o della
promozione; rifiuto di rilascio di licenze professionali e mancanza di
rispetto delle abitudini di abbigliamento.
La discriminazione nei confronti delle persone colpite da AIDS,
ancora, costituisce motivo di preoccupazione crescente, in particolare
tra le donne. Questo tipo di discriminazione può assumere diverse
forme, per esempio un test al momento dell’assunzione suscettibile di
provocare una negazione di impiego, un test al momento dell’entrata
in un paese imposto ai visitatori che intendono rimanere per un lungo
periodo e, in certi casi, un test obbligatorio per i lavoratori migranti.
Anche i disabili subiscono abusi; la forma più comune di
discriminazione è l’impossibilità di avere prospettive certe sia sul
mercato del lavoro, sia in materia di educazione e formazione.Il tasso
di disoccupazione dei disabili raggiunge secondo l’OIL ( Ufficio
internazionale del lavoro) l’80% e oltre in numerosi paesi in via di
sviluppo. I disabili sono relegati ad occupare impieghi subalterni con
pochissima o addirittura senza alcuna protezione sociale.
La preoccupazione per le forme di discriminazione in base all’età è
anch’essa in aumento. Nel 2050, sempre secondo una stima dell’OIL,
il 33% della popolazione dei paesi industrializzati e il 19% di quella
dei paesi in via di sviluppo raggiungerà 60 anni o più e per la maggior
parte si tratterà di donne. La discriminazione può essere apertamente
attuata, come nel fissare un limite di età per un impiego; può anche
38
assumere forme più subdole, ad esempio, limitando l’accesso alla
formazione o imponendo condizioni di pensionamento anticipato. La
discriminazione in base all’età non colpisce esclusivamente le persone
in età vicino all’età pensionabile. In alcuni casi, i datori di lavoro
esercitano una discriminazione nei confronti delle donne in età più
avanzata, dando più opportunità alle giovani al di sotto dei trenta anni.
Il dilagare di queste nuove forme di discriminazione sul lavoro
impone la necessità di passare dalla formulazione di principi, che
come si è avuto modo di vedere non mancano né nella legislazione
comunitaria, né in quella nazionale, all’attuazione dei principi.
Per agire in questa direzione occorre passare, in definitiva, dal piano
delle norme materiali al presidio delle fattispecie concrete.
39
DIVIETO DI LICENZIAMENTO, DIMISSIONI E DIRITTO AL
RIENTRO NEL TESTO UNICO PER LA TUTELA DELLA
MATERNITÀ E DELLA PATERNITÀ
di Chiara Lensi
(Dott. in giurisprudenza)
1. Aspe tti problematici del divieto di licenziamento per maternità.
La legge n. 53/2000- così come risistemata dal T.U. delle disposizioni
in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità,
emanato con D. Lgs. 151/2001- rappresenta un indiscutibile traguardo
per le lavoratrici madri.
Com’è noto, essa garantisce alla madre naturale tutta una serie di
diritti a tutela della salute fisica e psichica durante la gravidanza ed i
primi mesi di vita del bambino ed offre opportunità analoghe anche ai
genitori adottivi ed al padre lavoratore per consentire un'adeguata cura
dei figli.
Tuttavia, va rilevato fin d'ora che le disposizioni della nuova
disciplina non avrebbero avuto ragion d'essere se il legislatore non
avesse accompagnato ad esse un preciso sistema di tutele e garanzie
del posto di lavoro.
Se, in altre parole, il legislatore non si fosse preoccupato di impedire
qualsiasi forma di ritorsione collegata all'uso dei congedi, sarebbero
state vanificate anche le misure di tutela predisposte, giacché i timori
per le possibili conseguenze sul rapporto di lavoro avrebbero forse
indotto il genitore lavoratore a rinunciare a quei benefici che la legge,
invece, gli riserva 17 .
In particolare, il Capo IX del D.Lgs. 151/2001 disciplina un quadro
normativo chiaro e sistematico delle garanzie e delle tutele del posto
di lavoro, individuando tali misure in tre tipologie di interventi (art.
54: divieto di licenziamento; art. 55: dimissioni; art. 56: diritto al
rientro e alla conservazione del posto).
Il D.Lgs. 151/2001 ha riconosciuto il diritto di assentarsi dal lavoro ad
ogni genitore che fruisca di una delle forme di congedo previste dal
nostro ordinamento.
L'esercizio di tale diritto è, di regola, rimesso all’iniziativa dei soggetti
cui è stato concesso (è il caso del congedo parentale, ex astensione
facoltativa), tuttavia ciò non toglie che, talvolta, il diritto di assentarsi
17
In tal senso, si veda R. Del Punta, La sospensione del rapporto di
lavoro. Malattia, infortunio, maternità, servizio militare, in
Commentario , diretto da P. Schlesinger, Milano, 1992, p. 584.
40
dal lavoro sia soltanto un aspetto del più generale divieto di lavorare
che è riconosciuto alle lavoratrici madri in una determinata fase della
vita (è questo, invece, il caso del congedo di maternità, ex astensione
obbligatoria).
Riconoscere, però, alle lavoratrici un diritto di non lavorare (o,
comunque, assoggettarle ad un divieto di lavorare) impedisce soltanto
che l'assenza dal lavoro possa essa stessa causare la perdita del posto
di lavoro, senza che ciò scongiuri anche l’intimazione di un
licenziamento immotivato con preavviso.
Perché quindi si possa mettere una lavoratrice al riparo da qualsiasi
forma di ritorsione (e, in particolare, dal licenziamento per maternità)
è necessario accompagnare alle norme che giustificano o rendono
addirittura obbligatoria l'astensione dal lavoro, altre norme che
implichino un diritto alla conservazione del posto in senso forte,
intendendo il conservare nel suo significato più pregnante di
mantenere qualcosa in modo che non subisca alterazioni, o mantenere
qualcosa nello stato originario, o assicurare la continuità, far durare,
mantenere, o ancora in quello di preservare proteggendo18 .
Di ciò sembra essersi perfettamente reso conto il D.Lgs. n. 151/2001
che, nel disciplinare il divieto di licenziamento per maternità,
legittima la conservazione del posto di lavoro tanto per le lavoratrici
in stato di gravidanza e puerperio, quanto per i lavoratori padri che
fruiscano del congedo di paternità (non, quindi, per tutti i lavoratori
padri), nonché per i genitori lavoratori adottivi ed affidatari che si
siano avvalsi, a loro volta, del congedo di maternità e di paternità.
Tale divieto di licenziamento che, in linea generale, cerca di tutelare il
figlio nel primo anno di vita o di inserimento nella famiglia adottiva,
subisce un temperamento in alcune ipotesi tassativamente indicate
dalla legge (art. 54, 3º comma, del T.U.), ossia nel caso di colpa grave,
di cessazione dell'attività dell'azienda, di scadenza del termine del
rapporto, di esito negativo della prova.
L’articolo 54 del D.Lgs. 151/2001 non si limita, quindi, ad impedire il
licenziamento discriminatorio (si veda il 6º comma), ma mira
soprattutto a garantire stabilità economica e psicologica alla madre
lavoratrice impedendo -eccezion fatta per le ipotesi tassativamente
previste- al datore di lavoro di esercitare il potere di recesso anche per
delle ragioni che, se non ci fosse il divieto, potrebbero giustificarlo.
L’attenzione riservata dal nostro ordinamento al divieto di
licenziamento della lavoratrice madre è dunque funzionale alla
18
Così, R. Del Punta, op. cit., p. 607.
41
costituzione di una speciale tutela degli aspetti della maternità
strettamente collegati alla diversità fisiologica della donna rispetto
all'uomo. Ciò si desume sia a livello costituzionale (artt. 3, 31, 37: si
tende a tutelare la maternità in quanto tale per il suo valore eticosociale, nonché la donna inserita nel mondo del lavoro, sia a livello
legislativo, ove la specialità delle norme a tutela della lavoratrice
madre induce ad esonerare quest'ultima dalla disciplina generale sul
licenziamento del lavoratore, ex L. 604/66 e L. 300/70, art. 18.
La finalità sottesa alla L. 1204/71, prima, ed al T.U. 151/2001, poi, è
quindi diretta ad evitare che nel periodo protetto intervengano, in
relazione al rapporto di lavoro, comportamenti che possano turbare
ingiustificatamente la condizione della donna ed alterare il suo
equilibrio psicofisico, con serie ripercussioni sulla gestazione o,
successivamente, sullo sviluppo del bambino. Tale finalità spiega
pertanto la nullità del licenziamento ingiustificato operato in
violazione del suddetto divieto e chiarisce anche perché la legge
riconosca alla lavoratrice licenziata durante il periodo protetto il diritto
ad ottenere il ripristino del rapporto di lavoro mediante la
presentazione di un certificato che accerti la gravidanza esistente al
momento del licenziamento.
Pur non potendo, in questa sede, ripercorrere tutta l'evoluzione
giurisprudenziale e dottrinale che ha condotto all'adozione di tale
previsione, è opportuno precisare che oggi la presentazione del
certificato attestante lo stato di gravidanza assolve ad una funzione
esclusivamente probatoria, trattandosi della comunicazione di un fatto
cui la legge ricollega automaticamente certe conseguenze 19 . Il divieto
di licenziamento opera infatti in connessione con lo stato oggettivo di
gravidanza ed il certificato che lo attesta è funzionale alla sola prova
dello stato interessante della lavoratrice, dal momento che l'inizio del
divieto di licenziamento non è più collegato alla presentazione di tale
certificato, bensì all'inizio della gestazione. Tale certificato può quindi
trovare un equipollente nella prova della conoscenza dello stato di
gravidanza da parte del datore di lavoro al momento del
licenziamento.
Semmai il problema giuridico che rimane aperto è quello del quid
iuris nel caso in cui una lavoratrice faccia valere la nullità del
licenziamento comminatole, a distanza di anni (l'azione di nullità è,
secondo le regole generali, imprescrittibile), facendo così precipitare
nel baratro dell'incertezza giuridica i datori di lavoro che, in tal modo,
19
Cfr. art. 54, 5º e 6º comma, del D.Lgs. 151/2001.
42
corrono il rischio di sentirsi contestare licenziamenti intimati tempo
addietro senza avere adeguate possibilità di difesa. Tale problematica
ha senso soprattutto considerando che il T.U., a differenza della L.
1204/1971, non si richiama più al termine di decadenza di 90 giorni
per la presentazione di tale certificato.
Sebbene la norma in esame faccia riferimento alla sola ipotesi di chi
sia stata licenziata senza aver prodotto il certificato di gravidanza,
ragioni di opportunità inducono a ritenere la norma applicabile anche
al caso in cui la lavoratrice sia stata licenziata in seguito alla
presentazione del certificato.
Il divieto di licenziamento opera fino al termine dei periodi di
interdizione dal lavoro (ossia tre mesi dopo il parto), nonché fino al
compimento di un anno di età del bambino. La doppia previsione
serve a coprire i casi in cui il bambino nasca morto o muoia durante i
tre mesi di interdizione dal lavoro e risponde alla volontà di non
turbare ulteriormente la lavoratrice madre in un periodo così delicato
dal
punto
di
vista
emotivo.
Quanto, poi, all'interruzione della gravidanza, essa viene considerata
come parto o come malattia, a seconda che sia avvenuta
successivamente o anteriormente al centottantesimo giorno dal suo
inizio. Pertanto, nel caso in cui debba essere assimilata al parto,
opererà il divieto di licenziamento; viceversa, nel caso in cui
l'interruzione della gravidanza debba essere qualificata come aborto,
opererà il divieto di recesso per malattia.
Tra le parti più interessanti della norma, v’è senz'altro il disposto di
cui al 3º comma dell’art. 54 T.U., circa le deroghe al divieto di
licenziamento.
Tra esse, di particolare interesse è l'ipotesi di colpa grave della
lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto.
In dottrina si sostiene che molto opportunamente il legislatore
richiama il duplice parametro della colpa grave e della giusta causa,
dal momento che con il rinvio alla sola colpa grave della lavoratrice si
sarebbe potuta ammettere la sussistenza della deroga al divieto di
licenziamento non solo nel caso di giusta causa, ma anche in quello di
giustificato motivo soggettivo di cui all'articolo 3, L. 604/66.
La giurisprudenza ha affermato che la nozione di giusta causa prevista
per il licenziamento della lavoratrice assume aspetti caratteristici
rispetto a quella ricavabile dall'articolo 2119 c.c., richiedendo una
colpa più qualificata, dal punto di vista soggettivo, in ragione delle
specifiche condizioni psicofisiche in cui versa la donna madre, e
43
comprendente situazioni più complesse rispetto ai comuni schemi, dal
punto di vista oggettivo20 .
Il licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza è perciò
ammissibile soltanto per colpa grave, costituente giusta causa per la
risoluzione del rapporto di lavoro. Tale “colpa grave” non è integrata
dalla semplice colpa richiesta per le altre ipotesi di licenziamento,
essendo necessaria -appunto- la gravità di essa. Ciò implica che non è
sufficiente accertare la sussistenza di una situazione prevista dalla
contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la
sanzione espulsiva, ma è invece necessario verificare -con
accertamento riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di
legittimità, se adeguatamente motivato- se sussista quella colpa
specificamente prevista dalla norma e diversa (per l'indicato connotato
di gravità) da quella prevista dalla disciplina pattizia per generici casi
di inadempimento del lavoratore sanzionati con la risoluzione del
rapporto21 .
Ci si può, semmai, chiedere se tale nozione più qualificata di giusta
causa (che fa riferimento alle condizioni psicofisiche in cui versa la
donna madre) possa valere anche qualora tali condizioni non
sussistano, come nel caso dei padri o dei genitori adottivi, garantendo
anche ad essi una tutela più intensa o se debbano, invece, applicarsi gli
usuali criteri esegetici.
Del pari, il divieto di licenziamento non è applicabile nel caso in cui
cessi l'attività dell'azienda in cui la lavoratrice è addetta.
L'orientamento maggioritario ritiene configurabile tale deroga non
solo in caso di cessazione totale dell'attività dell'azienda, ma anche nel
caso in cui la cessazione dell'attività sia parziale, purché riguardi un
ramo di attività o un reparto autonomo dell'azienda. Si è tuttavia
precisato che incombe sul datore l'onere di provare che la lavoratrice
non può essere collocata altrove all'interno dell'azienda, con ciò
dimostrando che il licenziamento è effettivamente l'unica strada
possibile 22 .
La cessazione dell'attività, sia pur parziale, non può però consistere in
una mera riduzione di attività, in un semplice cambiamento di luogo
della stessa o nella ristrutturazione dell'unità di appartenenza della
lavoratrice, essendo necessario che la vicenda che ha colpito l’azienda
abbia comunque determinato la definitiva soppressione di un reparto
20
In tal senso, Cass., 21.09.2000, n. 12503, in Foro It., 2001, I, p. 111.
Cass., 18.02.1993, n. 1973, in Lav. Prev. Oggi, 1993, p. 1039.
22
Cfr., Cass., 26.03.1982, n. 1897, in Riv. It. Dir. Lav., 1983, II, p. 91.
21
44
autonomo della stessa23 . Costituiscono altresì eccezioni al divieto di
licenziamento, l'ipotesi di ultimazione della prestazione per la quale la
lavoratrice è stata assunta o la risoluzione del rapporto di lavoro per
scadenza del termine; nonché il caso di licenziamento per esito
negativo
del
patto
di
prova.
Sotto un profilo sanzionatorio, il licenziamento intimato in violazione
delle suddette norme imperative è nullo alla stregua dei normali
principi civilistici in tema di nullità dei negozi.
D’altra parte, la scelta di sanzionare con la nullità -e non con una mera
inefficacia temporanea- il recesso viziato è oggi imposta dalla Corte
Costituzionale che, con la storica sentenza n. 61/9124 , ha
definitivamente posto fine al dibattito circa il tipo di sanzione con cui
colpire il licenziamento illegittimo a danno della lavoratrice madre.
L’art. 2 della L. 1204/1971 non precisava, infatti, quale fosse la
sanzione da applicare al recesso viziato e la Corte di Cassazione 25 , in
via interpretativa, aveva ritenuto che esso dovesse essere sanzionato
con l'inefficacia temporanea (operante sino alla cessazione del divieto,
cioè sino ad un anno dal momento del parto).
Entrando in collisione con le Sezioni Unite della Cassazione 26 , la
Corte Costituzionale ha invece esteso la sanzione della nullità,
prevista espressamente per il licenziamento a causa di matrimonio, al
licenziamento della lavoratrice madre, dichiarando incostituzionale la
consolidata qualificazione giurisprudenziale di mera inefficacia
temporanea del recesso sino allo scadere del periodo di divieto. La
Corte ha motivato la sua decisione affermando che la lavoratrice
madre alla quale sia intimato un licenziamento, seppur con efficacia
differita, ne resterebbe comunque turbata ed è, pertanto, compito del
diritto garantirle una serenità che sia funzionale alle esigenze
psicofisiche del bambino, e forse più ancora a quelle del feto durante
la gestazione.
23
Così, Cass., 2.04.1992, n. 4034, in Mass. Giur. Lav., 1992, p. 364;
Cass., 26.10.1986, n. 6236, in Giust. Civ., 1987, I, p. 62; Cass.,
16.11.1985, n. 5647, in Giust. Civ., 1986, I, p. 1074; Cass. n.
1897/1982, op. cit.. Per i rapporti tra questa eccezione al divieto di
licenziamento e la disciplina sui licenziamenti collettivi, si rinvia a R.
Del Punta, I licenziamenti collettivi per riduzione di personale, in
Giust. Civ., 1983, II, p. 55.
.
24
Corte Cost., 8.02.1991, n. 61, in Mass. Giur. Lav., 1991, p. 4.
25
Cass., 20.10.1987, n. 7747, in Giust. Civ., 1988, I, p. 428; Cass.,
14.12.1981, n. 6611, in Orient. Giur. Lav., 1982, p. 1413.
26
Per l’avallo definitivo nel senso della inefficacia del recesso viziato,
Cass., S.U., 21.08.1990, n.8535, in Foro It., 1990, I, p. 2481.
45
Le argomentazioni testé svolte consentono, inoltre, di rispondere alla
controversa questione circa la modifica del rapporto di lavoro una
volta che sia decorso il periodo dei congedi parentali, ossia dopo un
anno di età del figlio.
Da parte di alcuni è stato, infatti, obiettato che il T.U. sarebbe mal
formulato nella parte in cui consente al datore di adottare -in maniera
libera- provvedimenti che incidono sul rapporto di lavoro dopo che sia
decorso il periodo protetto dalla legge. In sostanza, ci si è chiesti se
fosse legittimo tutelare la lavoratrice madre nel primo anno di vita del
figlio, per poi consentire al datore di licenziarla immediatamente
dopo, magari facendo valere motivi riconducibili a fatti o situazioni
verificatesi durante il periodo di operatività del divieto.
Nell'opinione di chi scrive, non solo ciò è perfettamente lecito ma, se
vogliamo, anche ovvio.
Anche se volessimo trascurare che ogni testo di legge introduce
necessariamente un “prima” e un “dopo” e che se intendessimo
interpretare questo confine a nostro piacimento finiremmo solo con il
frustrare il principio di certezza del diritto, resta tuttavia il fatto che il
T.U., almeno nelle sue intenzioni, ha voluto proteggere in maniera
rafforzata un periodo di vita della lavoratrice durante il quale è parso
più opportuno garantire stabilità e sicurezza, senza però che ciò
equivalesse né ad assoggettarla ad una tutela speciale per tutta la vita
(e quindi anche quando fosse terminata la ragione che ne aveva
legittimato la previsione, ossia la tenerissima età del bambino), né
tanto meno a privarla della tutela prevista dalle regole generali in tema
di licenziamento illegittimo e discriminatorio (che pertanto resteranno
perfettamente valide laddove ne sia dimostrata la fondatezza).
Diversamente avremmo un eccesso di tutela che contrasterebbe
proprio con le motivazioni che a tale tutela avevano spinto.
Peraltro, la questione è stata esaminata dalla già citata Corte
Costituzionale (61/91), la quale ha sostenuto che, allo scadere del
periodo protetto, il datore di lavoro riacquista l'integrità del suo potere
di recesso, nel rispetto dei limiti previsti dalla legge e dalle regole da
essa imposte. Quanto alla causa giustificatrice, nulla esige che la
stessa sia nuova, essendo invece necessario che essa sussista (ancora)
al momento in cui il licenziamento viene legittimamente intimato (il
che, semmai, lo rende piuttosto difficile nell'ipotesi di licenziamento
dovuto ad inadempimento della lavoratrice madre, mentre la
perdurante attualità della ragione verificatasi durante il periodo di
divieto sembra piuttosto probabile nel caso di ragioni organizzative e
tecnico - produttive).
46
Si discute, infine, se a tale licenziamento illegittimo possa o meno
applicarsi l'art. 18 S.L. in tema di reintegrazione nel posto di lavoro,
con condanna del datore alla reintegrazione della lavoratrice nel posto
di lavoro ed al risarcimento del danno previsto dalla stessa norma in
relazione al periodo di tempo che va dal licenziamento alla sentenza.
Sembra preferibile escludere l'applicabilità dell'art. 18 anche a tale
ipotesi in quanto, nonostante tale norma possieda una forza espansiva
tale da renderla applicabile anche a casi diversi da quelli
espressamente contemplati, la violazione del divieto di licenziamento
della lavoratrice madre è assoggettato ad una diversa, specifica
disciplina.
Senza contare che, ai fini pratici, l'applicazione della disciplina
comune sulla mora credendi ex artt. 1418 e 1223 c.c. -che consegue
alla declaratoria di nullità, secondo il diritto comune- consente di
pervenire al medesimo risultato, giacché alla lavoratrice spetteranno
comunque a titolo risarcitorio le retribuzioni maturate e maturande
fino all'effettivo ripristino del rapporto.
Quanto, infine, al divieto di sospensione dal lavoro -previsto dal 4º
comma dell'art. 54 del T.U.- la scelta normativa è stata quella di farlo
coincidere con il divieto di licenziamento, nel senso che durante il
periodo nel quale opera quest'ultimo, la lavoratrice non può nemmeno
essere sospesa da lavoro, salvo il caso in cui sia sospesa l'attività
dell'azienda o del reparto cui essa è addetta, sempre che il reparto
stesso abbia autonomia funzionale. La lavoratrice non può altresì
essere collocata in mobilità a seguito di licenziamento collettivo ai
sensi della legge 23 luglio 1991, n. 223, e successive modificazioni,
salva l'ipotesi di collocamento in mobilità a seguito della cessazione
dell'attività dell'azienda cui essa è addetta.
La giurisprudenza ha interpretato questa norma in senso funzionale al
divieto di licenziamento ed ha pertanto ritenuto sussistente il divieto di
sospensione dal lavoro anche nel caso in cui la gravidanza della
lavoratrice sia sopravvenuta alla sospensione, facendo venire meno, a
partire da quel momento, gli effetti del provvedimento.
L’atto compiuto in violazione del suddetto divieto è da considerarsi
nullo, con conseguente ripristino del rapporto.
Divieto di licenziamento e divieto di sospensione dal lavoro
rispondono, quindi, alla medesima finalità di garantire alla lavoratrice
madre non una platonica conservazione del posto di lavoro, bensì la
sopravvivenza di un rapporto pieno e completo a tutti gli effetti, non
ultimi quelli di natura patrimoniale.
47
2. Profili di invalidità delle dimissioni rassegnate in conseguenza
dello stato di gravidanza
Una delle principali preoccupazioni del legislatore è stata quella di
evitare che il divieto di licenziamento potesse essere aggirato con false
dimissioni, sostanzialmente imposte alla lavoratrice madre.
Pertanto, per garantire che le dimissioni non siano state provocate da
eventuali pressioni del datore di lavoro, il legislatore ha previsto
specifiche regole in caso di maternità.
Le dimissioni involontarie altro non sono che una forma mascherata di
licenziamento illegittimo, giacché ad esse la lavoratrice perviene non
per libera scelta, bensì perché indotta a ciò dal datore di lavoro.
Questi, non accettando determinate condizioni in cui viene a trovarsi
la lavoratrice (fra le quali spicca, appunto, lo stato di gravidanza),
tenta di aggirare la legge costringendo la propria dipendente a
dimettersi, o chiedendoglielo espressamente o rendendole l'ambiente
di lavoro impossibile (tematica questa che si intreccia con quella,
altrettanto complessa, del mobbing) oppure, fatto non infrequente,
obbligandola a sottoscrivere lettere di dimissioni già preparate dal
datore di lavoro e minimamente volute dalla lavoratrice, spesso
approfittando dello smarrimento e della debolezza genericamente
conseguenti allo stato di gravidanza della dipendente.
Ogni volta che si verificano episodi del genere le lavoratrici sono
gravemente lese nel loro diritto ad una libera manifestazione della loro
volontà e vengono, di conseguenza, discriminate in ragione del loro
stato di gravidanza, il che evidentemente rientra nella più ampia
categoria delle discriminazioni per ragione di sesso.
Per proteggere il genitore lavoratore da un datore che voglia indurlo a
dimissioni fittizie, l’art. 55 del D.Lgs. n. 151/2001 utilizza diverse
tecniche.
Innanzitutto, il decreto riconosce al genitore lavoratore -che si sia
dimesso durante il periodo in cui è previsto il divieto di
licenziamento- il diritto alle indennità previste da disposizioni di legge
e contrattuali per il caso di licenziamento. Nel caso di dimissioni
avvenute in tale periodo protetto, la lavoratrice o il lavoratore non
sono tenuti al preavviso.
48
La giurisprudenza maggioritaria riconosce, pertanto, al/alla
lavoratore/lavoratrice dimissionario/a la spettanza dell'indennità di
anzianità e dell'indennità sostitutiva del preavviso27 .
Attribuire ai lavoratori dimissionari per maternità o paternità tanto
l'indennità di preavviso, quanto l'esonero dal medesimo, mira a
sostenere quegli individui che, indipendentemente dal motivo del
recesso, abbiano deciso di porre fine al rapporto di lavoro. La legge si
è, cioè, fatta carico di una situazione estremamente delicata e difficile
nella vita di un lavoratore e, ancor più, di una lavoratrice; pertanto si è
scelto di garantire - a chi si dimette - un piccolo aiuto economico,
anche se al limite il datore di lavoro non abbia commesso nessun
comportamento illecito. Viceversa, nel caso in cui il datore abbia
inteso obbligare un/una suo/a dipendente a rassegnare le dimissioni, la
norma in esame, almeno nelle sue intenzioni, potrebbe fungere da
freno a tali iniziative.
Autorevole dottrina ha perciò sottolineato che il fatto che le garanzie a
protezione del posto di lavoro operino oggettivamente, ossia a
prescindere dai motivi che hanno determinato la fine del rapporto di
lavoro, dovrebbe far respingere la tesi per cui non avrebbe diritto
all'indennità di preavviso la lavoratrice che si sia dimessa non per
dedicarsi alla gravidanza o al bambino, ma per passare ad altro
impiego28 .
In secondo luogo, le dimissioni presentate dalla lavoratrice madre o
dal lavoratore padre, durante il periodo in cui sussiste il divieto di
licenziamento, devono essere convalidate dal Servizio Ispettivo
territoriale del Ministero del Lavoro. Tale convalida non è,
ovviamente, in grado di evitare che dietro dimissioni apparentemente
volontarie si nascondano invece casi di volontà viziata; tuttavia non si
può non riconoscere che essa assolve ad una fondamentale funzione di
filtro tra ciò che realmente si è voluto (per le più disparate ragioni) e
ciò che invece si è state costrette a volere (per una ragione spesso
univoca).
A tal proposito, la versione odierna della disciplina delle dimissioni
del genitore lavoratore ha l'indiscutibile pregio di aver posto fine
all'annosa querelle che, per lungo tempo, ha avvolto i rapporti tra la L.
27
Fra le tante pronunce a riguardo, si veda Cass., 14.05.1985, n. 2999,
in Foro It., 1985, I, p. 1979; Cass., 9.03.1976, n. 810, in Giur. It.,
1976, I, 1, p. 1093; Cass., 22.10.1975, n. 3475, in Foro It., 1976, I, p.
1956.
28
V.: R. Del Punta, op. cit., p. 660.
49
n. 1204/1971 ed il suo regolamento di esecuzione (D.P.R. 25
novembre 1976, n. 1026).
L’art. 11 del D.P.R. n. 1026/1976 subordinava infatti la validità delle
dimissioni, presentate dalla lavoratrice, alla convalida di esse
dell'Ispettorato del Lavoro, al pari di quanto fa oggi l’art. 55 del
D.Lgs. n. 151/2001.
Il problema, allora, fu che la L. 1204/1971 non conteneva alcuna
disposizione in tal senso e ciò indusse la Corte di Cassazione a
ritenere illegittimo l'art. 11 per aver ecceduto i limiti della competenza
regolamentare, nonché per aver dettato una disciplina in contrasto con
il principio dell'immediata validità ed efficacia delle dimissioni ai fini
della risoluzione del rapporto29 .
Per quanto nemmeno prima le conclusioni della Suprema Corte
sembrassero da condividere (più che una norma contra legem, l’art. 11
era, infatti, da considerare una norma praeter legem, con finalità
integrativa, e non contraddittoria, rispetto al senso della legge; inoltre
non si capiva bene perché la previsione di una convalida, sia pur
condizionante la risoluzione del rapporto di lavoro, avrebbe dovuto in
qualche modo vincolare l'autonomia negoziale della lavoratrice),
certamente oggi devono ritenersi del tutto superate.
L’art. 55 del D.Lgs. 151/2001 dispone, infatti, che “la richiesta di
dimissioni presentata dalla lavoratrice, durante il periodo di
gravidanza, e dalla lavoratrice o dal lavoratore durante il primo anno
di vita del bambino o nel primo anno di accoglienza del minore
adottato o in affidamento, deve essere convalidata dal servizio
ispettivo del Ministero del Lavoro, competente per territorio. A detta
convalida è condizionata la risoluzione del rapporto di lavoro”.
Assimilate al licenziamento quanto al profilo indennitario e dispensate
dall'obbligo del preavviso, le dimissioni involontarie sono trattate
quali dimissioni per giusta causa. Pertanto, la convalida delle
dimissioni da parte dell'Ispettorato del Lavoro fa venire meno il diritto
della lavoratrice alla retribuzione fin dalla dichiarazione di recesso;
viceversa, nel caso in cui l'Ispettorato accerti la fittizietà delle
dimissioni inoltrate, alla lavoratrice spetteranno le retribuzioni
arretrate.
Dopo aver analizzato il quadro normativo rela tivo alle dimissioni per
maternità, resta -de iure condendo- un’ultima riflessione da fare.
Troppo spesso, in questi anni, si è assistito a dimissioni (involontarie),
quale “generosa concessione” di aziende che intendono invece
29
Cass., 15.11.1985, n. 5612, in Riv. It. Dir. Lav., 1986, II, p. 815.
50
procedere a mirate riduzioni di personale. Quando le imprese si
trovano a dover rivedere la loro organizzazione interna, usano le
dimissioni quasi fossero una sorta di strategia aziendale, inducendo
malcapitati dipendenti a sottoscriverle in cambio dell'affermata
rinuncia del datore di lavoro ad esercitare il potere di risoluzione del
rapporto di lavoro (potere che -nella maggioranza dei casi- non
avrebbe comunque potuto esercitare) e di un modesto incentivo
economico.
Laddove esigenze di efficienza e produttività rendono necessario
eliminare lavoratori/trici “ingombranti”, ecco che enfatizzare in modo
esagerato banali mancanze del dipendente o anche mancanze
disciplinarmente rilevanti, ma non sanzionabili con il licenziamento,
costringe il dipendente ad accettare quello che ritiene il male minore,
ossia sottoscrivere la lettera di dimissioni.
Senza contare che in queste circostanze il lavoratore si trova a dover
decidere in tempi estremamente brevi, spesso senza l'aiuto di
personale qualificato, in grado di renderlo edotto sulla realtà della sua
situazione.
Per quanto non sia infrequente che, in seguito, il lavoratore si renda
conto di aver agito contro la propria volontà e soprattutto senza
valutare strade alternative alle dimissioni, ciò non di meno dimostrare
giudizialmente di aver prestato un consenso né libero né consapevole
finisce per tradursi in una sorta di probatio diabolica che di rado vede
vittorioso il dipendente.
Di qui la condivisione del pensiero di chi auspica come urgente la
riforma della disciplina delle dimissioni, intervenendo sul testo
dell'attuale articolo 2118 c.c. per rafforzare la posizione del lavoratore
dimissionario30 .
In particolare, sarebbe opportuno subordinare la validità e l'efficacia
delle dimissioni all'assenza di un atto di revoca, da esercitarsi entro un
termine breve (7 o 15 giorni), al pari di quanto già avviene per la
vendita a domicilio o per quella effettuata al di fuori degli esercizi
commerciali.
Accordare al lavoratore dimissionario il diritto di recesso di fronte ad
una scelta ben più importante dell'acquisto di un'enciclopedia o di un
corso di lingue - ossia la decisione di rinunciare al posto di lavoro non è, nell'opinione di chi scrive, una tappa ulteriormente
procrastinabile per un ordinamento, il nostro, che ha fatto della libera
30
In tal senso, M. Meucci, L’annullabilità delle dimissioni estorte, in
Lav. Prev. Oggi, 1996, n. 12, p. 2081.
51
manifestazione di volontà un principio regolatore delle obbligazioni
sinallagmatiche 31 .
3. Il diritto al rientro ed alla conservazione del posto di lavoro tra
tutela della professionalità e diritto alla “stabilità geografica”.
Superfluo appare, invece, il disposto dell'art. 56 T.U. sul diritto al
rientro ed alla conservazione del posto di lavoro.
Anche volendo trascurare che è la stessa previsione di un diritto (nella
specie, del diritto al congedo) a comportare il riconoscimento a non
subire un recesso fondato sullo stesso motivo per cui tale diritto è stato
fruito, resta il fatto che il diritto alla conservazione del proprio posto
di lavoro è già attribuito al dipendente pubblico e privato da norme
inderogabili.
Ad ogni modo, l’art. 56 T.U. prevede che al termine dei periodi di
divieto di lavoro previsti dal Capo II e III, le lavoratrici hanno diritto
di conservare il posto di lavoro e, salvo che espressamente vi
rinuncino, di rientrare nella stessa unità produttiva ove erano occupate
all'inizio del periodo di gravidanza o in altra ubicata nel medesimo
comune, e di permanervi fino al compimento di un anno di età del
bambino; hanno altresì diritto di essere adibite alle mansioni da ultimo
svolte o a mansioni equivalenti.
La disposizione di cui al comma 1 si applica anche al lavoratore al
rientro al lavoro dopo la fruizione del congedo di paternità.
Negli altri casi di congedo, di permesso o di riposo disciplinati dal
presente testo unico, la lavoratrice e il lavoratore hanno diritto alla
conservazione del posto di lavoro e, salvo che espressamente vi
rinuncino, al rientro nella stessa unità produttiva ove erano occupati al
momento della richiesta, o in altra ubicata nel medesimo comune;
hanno altresì diritto di essere adibiti alle mansioni da ultimo svolte o a
mansioni equivalenti.
Le disposizioni del presente articolo si applicano anche in caso di
adozione e di affidamento. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si
applicano fino a un anno dall'ingresso del minore nel nucleo familiare.
L'inosservanza delle disposizioni contenute nel presente articolo è
punita con la sanzione amministrativa di cui all’art. 54, comma 8. Non
è ammesso il pagamento in misura ridotta di cui all'art. 16 della legge
24 novembre 1981, n. 689.
31
M. Meucci, op. cit., p. 2082.
52
Se tuttavia il legislatore ha ritenuto opportuno ribadire tale concetto, ci
si può sforzare di trovarne la spiegazione nella diffusa prassi di
dequalificazione che, di fatto, colpisce le donne al rientro dalle
assenze per maternità. Anche se non è da escludere che con questa
disposizione si sia voluto coprire il fenomeno dell'adibizione a
mansioni superiori (pur non dequalificando un dipendente, si può però
gravarlo di impegni incompatibili con le esigenze di vita familiare) o
porre un freno alla stipulazione di patti derogatori al divieto di adibire
a mansioni inferiori.
Se, dunque, la tutela della professionalità conferma un diritto di cui
già godono tutti i lavoratori, altrettanto non può dirsi per quel diritto
alla stabilità geografica che, salvo non sia oggetto di rinuncia da parte
del genitore lavoratore, limita fortemente il potere di trasferimento del
datore, almeno per quanto riguarda le fattispecie che rientrano nella
previsione dei commi 1 e 2 dell'art. 56.
Mentre, i primi due commi della disposizione attribuiscono alla
lavoratrice e al lavoratore una garanzia minima di stabilità (il primo
compleanno del bambino), il 3° comma dell'art. 56 T.U. lascia il
lavoratore -che sia rientrato nella stessa unità produttiva- soggetto al
normale potere gestionale del datore di lavoro. Comunque, a seconda
del periodo in cui sia stato disposto il trasferimento, questo potrà
essere impugnato, ma ciò non toglie che la mancanza di una
previsione analoga a quella dei primi due commi appaia piuttosto
discutibile, soprattutto perché una sua modifica non è intervenuta
nemmeno con il D.Lgs. 115/2003.
Per queste e per altre ragioni, sarebbe auspicabile che la materia
divenisse oggetto di un’accurata disciplina negoziale in grado di
conciliare interessi contrapposti (quello del dipendente al congedo
parentale e quello del datore all'organizzazione del lavoro) e di
risolvere contraddizioni difficilmente eliminabili, come quella
attinente alla possibilità di trasferire una lavoratrice madre in una sede
più vicina -e non più lontana- alla sua abitazione, rendendole magari
più breve la distanza tra l'abitazione ed il luogo di lavoro.
53
IL
LAVORO
MINORILE:
FONTI
NORMATIVE
INTERNAZIONALI, NAZIONALI ED EUROPEE
di ROBERTA CARAGNANO
(Dott. in Giurisprudenza)
Il problema del lavoro minorile e dello sfruttamento dello stesso è
stato e continua ad essere, nella nostra società, un problema molto
delicato in quanto nel processo di mercificazione sociale al “bambinopersona” con propri valori e caratteristiche da tutelare si è andato
sostituendo il concetto di minore come “risorsa” per il mondo degli
adulti. Ciò si è inserito nel contesto del bambino considerato come
“oggetto” di sfruttamento.
Le cause poste alla base del lavoro minorile sono diverse e vanno
dalla povertà materiale dei Paesi poveri e sottosviluppati dove il
lavoro, anche dei minori, diventa un mezzo di sopravvivenza, alla
povertà culturale nei Paesi economicamente più avanzati.
Il lavoro minorile, pur tendenzialmente protetto con norme sempre più
attente alla prevenzione e repressione del fenomeno, non può
totalmente considerarsi arginato in quanto sono carenti gli strumenti di
verifica dell’applicazione delle norme stesse.
La disciplina del lavoro minorile gravita intorno ad un nucleo di
disposizioni tese a salvaguardare i diritti fondamentali della persona
quali integrità, salute e sviluppo fisico, psichico, morale, culturale,
professionale. Sono numerose, sia in ambito internazionale che interno
le norme che predispongono specifiche tutele dirette a disciplinare
orari, pause e riposi dei giovani lavoratori, in deroga alla
regolamentazione generale dell’orario di lavoro.
Il Patto internazionale ONU del 16 dicembre 1966 relativo ai diritti
economici, sociali e culturali, sottolinea la stretta connessione tra
lavoro, famiglia, maternità e figli.
L’art. 10 é dedicato al rapporto lavoro-famiglia intesa quale nucleo
fondamentale della società, non che alla speciale tutela lavoristica dei
suoi componenti più deboli, le madri e i figli minori. In relazione a
questi ultimi si afferma che “i fanciulli e gli adolescenti devono essere
protetti contro lo sfruttamento economico e sociale” e si proibisce il
loro “impiego in lavori pregiudizievoli per la loro salute, pericolosi
per la loro vita, tali da nuocere al loro normale sviluppo”.
54
Sulla stessa linea si indirizzano la Carta Socia le Europea32 firmata a
Torino il 18 ottobre 1961 e la Carta Comunitari dei Diritti sociali
fondamentali dei lavoratori firmata a Strasburgo nel 198933 , nonché il
Trattato istitutivo della Comunità Europea e il Trattato di Amsterdam.
Per contrastare il fenomeno in maniera più efficace si è ritenuto
necessario inserire il lavoro minorile in un ampio contesto di tutela
internazionale ed in una strategia finalizzata alla maggiore
promozione dei diritti dell’infanzia.
L’organizzazione internazionale del Lavoro (OIL)34 , sin dal 1919,
anno della sua costituzione ad opera del Trattato di Versailles, ha
svolto un ruolo significativo nella lotta contro lo sfruttamento del
lavoro minorile, infatti nella Costituzione dell’Oil si riconosce tale
obiettivo come “essenziale al perseguimento della giustizia sociale e
della pace universale”. L’Oil, in primis ha operato mediante la
individuazione e la predisposizione di testi di Convenzioni e
Raccomandazioni, volte ad incidere sulla regolamentazione ad opera
del lavoro minorile, ponendo dei principi e delle regole minime di
protezione in grado di costituire modello e stimolo per gli ordinamenti
nazionali.
32
L’art. 7 della Carta Sociale Europea fa riferimento all’orario di
lavoro e ai riposi dei minori: fissata la regola di protezione speciale
contro i pericoli fisici e morali derivanti dal lavoro (p.to 10) e quella
dell’età minima di accesso al lavoro (p.ti 1, 2, 3 ), la norma sancisce il
principio di compatibilità della durata della prestazione dei giovani al
disotto dei 16 anni con le esigenze dello viluppo e della formazione
professionale (p.to 4) quello della necessaria computabilità come
lavoro effettivo delle ore dedicate dagli adolescenti, con il consenso
del datore di lavoro, alla formazione professionale durante la giornata
lavorativa (p,to 6), quello della durata minima di tre settimane delle
ferie annuali retribuite (p.to 7) ed infine il divieto di lavoro notturno,
con le eccezioni stabilite dalla legislazione nazionale per determinati
lavori.
33
La Carta di Strasburgo nella sezione dedicata alla protezione
dell’infanzia e degli adolescenti, ribadendo che l’età minima per
l’ammissione al lavoro non deve essere inferiore a quella in cui
termina l’obbligo scolastico, né comunque ai 15 anni (art. 20) ,
stabilisce che la durata del lavoro dei minori di 18 anni deve essere
limitata e che il lavoro notturno, salvo casi eccezionali , deve essere
vietato. Infine, l’art. 23 prescrive che, una volta terminata la scuola
dell’obbligo, il giovane benefici di una formazione professionale di
congrua durata, da realizzarsi durante l’orario di lavoro.
34
Le politiche, la struttura e l’attività dell’Oil sono contenute in
Adam, Attività normativa e di controllo dell’Oil e evoluzione della
Comunità Internazionale, Milano, 1993 e P. Assanti, Il ruolo delle
forze sociali dell’Oil nel quadro della costruzione giudiziaria
dell’Europa, in Riv. Giur. Lav., 1994, I, p. 103.
55
Successivamente, la stessa organizzazione ha indirizzato la propria
attività orientandosi in una direzione caratterizzata da un notevole
grado di pragmatismo, che ha visto nel 1992 la creazione del
programma internazionale per l’eliminazione del lavoro minorile
IPEC. Questo programma vedeva impegnati e coinvolti, sotto la
direzione dei Paesi economicamente più avanzai del mondo,
coordinati dall’Organizzazione internazionale del Lavoro, diversi Stati
con l’obiettivo di operare una progressiva eliminazione del lavoro
minorile. La strategia utilizzata era suddivisa in più fasi quali:
ü
motivazione di un ampio gruppo di partners affinché
prendessero coscienza del problema e si adoperassero per contrastarlo;
ü
effettuazione dell’analisi della situazione in un determinato
Paese;
ü
creazione di opere di sensibilizzazione, sia a livello nazionale
che nelle comunità e sui luoghi di lavoro;
ü
collaborazione alla formulazione e all’attuazione di politiche
nazionali mirate alla predisposizione di un certo numero di azioni
programmate;
ü
potenziamento delle organizzazioni esistenti e creazione di
meccanismi istituzionali;
ü
promozione della formulazione e dell’applicazione di leggi di
tutela, nella convinzione che ogni azione normativa che tendesse a
sconfiggere lo sfruttamento minorile dovesse, necessariamente,
accompagnarsi ad efficaci politiche di sviluppo.
Nel 1992 la Conferenza adottò anche la Convenzione n. 182 relativa
alla proibizione delle forme più gravi ed intollerabili di
sfruttamento del lavoro minorile ed all’azione immediata per la loro
eliminazione. Tale documento, pur non essendo vincolante in modo
automatico, costituiva, per il futuro, un nuovo e fondamentale punto di
riferimento, per gli Stati che avrebbero voluto fare propri i principi e
le garanzie ivi previste attraverso la ratifica35 .
Nell’individuazione dei soggetti tutelati, il testo specificava che, ai
priori fini, il termine “bambino” era riferibile ad ogni soggetto minore
di anni 18, facendo propria la nozione a suo tempo adottata dalla
Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti dell’Infanzia del 1989 e
delimitando con chiarezza l’ambito di applicazione delle proprie
disposizioni sgombrando il campo da possibili incertezze
interpretative.
35
Seychelles e Malati sono stati i primi Paesi ad aver ratificato la
Convenzione che è entrata in vigore il 19 Novembre 2000.
56
La Convenzione individuava nella concertazione unilaterale tra
istituzioni governative, associazioni dei datori di lavoro e
organizzazioni sindacali lo strumento più idoneo ed adeguato per
progettare ed implementare programmi di azione diretti ad eliminare
in via prioritaria le più gravi forme di sfruttamento (art. 6). Inoltre,
agli Stati parte si chiedeva l’impegno, non solo a stabilire sanzioni
(penali o e di altra specie) per garantire l’effettività delle previsioni
convenzionali, ma, in un’ottica preventiva e riabilitativa, anche
l’impegno ad adottare misure effettive per prevenire l’impiego di
bambini nelle forme di sfruttamento individuate come “intollerabili”a
rimuovere gli stessi da attività di tal tipo e a promuoverne la
riabilitazione e l’integrazione sociale.
Nel 1996, si inserisce la proposta dell’Oil per la predisposizione di
una Nuova Convenzione sul lavoro minorile pericoloso e sulla
eliminazione delle sue forme intollerabili.
Nel 1997 la raccomandazione n. 1336 attuata nell’ambito della
Strategia Europea a favore dei bambini, evidenziava il crescente tasso
di sfruttamento di lavoro minorile non solo in molti Paesi dell’Asia,
dell’Africa e dell’America latine, ma anche in Europa costituendo in
quest’ultima un rilevante problema sociale ed una vera e propria
questione paneuropea. Le politiche del lavoro minorile, stando alla
Raccomandazione, dovevano essere in armonia con il principio
dell’interesse superiore del bambino. Inoltre, la regolamentazione del
lavoro tramite la legislazione e l’ispezione, era considerata importante
in molti Paesi, al fine di stabilire standards cui dovevano attenersi i
datori di lavoro. L’assemblea aveva appoggiato la proposta dell’Oil
circa l’adozione, da parte di tutti gli Stati, di una dichiarazione che
difendesse i principi e i diritti fondamentali universalmente
riconosciuti e che rappresentasse un serio impegno da parte gli Stati
membri nella regolamentazione della materia de quo
indipendentemente dalla ratifica delle Convenzioni sul lavoro
minorile.
A riguardo sarebbero stati adeguati dei codici di condotta che, senza
danneggiare il mercato, avrebbero dovuto salvaguardare gli interessi
dei bambini. I Paesi della Ue potevano, inoltre, porre un argine alla
diffusione del fenomeno attraverso dei programmi di cooperazione
internazionale aventi lo scopo di aiutare i bambini sfruttati.
L’assemblea raccomandava che il Comitato dei Ministri richiedesse a
tutti gli Stati membri di combattere lo sfruttamento economico dei
bambini:
57
1.
adottando una chiara politica nazionale e un programma di
azione, i quali dovevano essere esaurienti, coerenti e coordinati,
interdisciplinari e di carattere preventivo ai quali si sarebbero dovute
destinare le risorse necessarie per la loro realizzazione;
2.
intraprendendo ricerche sistematiche
e finalizzate
all’intervento in tutti gli ambiti che riguardavano il lavoro minorile;
3.
riesaminando la legislazione nazionale per meglio rafforzare
la tutela dei bambini, in particolare per conformarsi agli standard
sociali posti dal Consiglio d’Europa, dalla Convenzione delle Nazioni
Unite sui diritti dei bambini e dalle inerenti Convenzioni dell’Oil, in
particolare dalla convenzione sull’età minima d’ammissione
all’impiego, n. 138 del 1973;
4.
migliorando l’efficacia dei servizi ispettivi scolastici e del
lavoro;
5.
mediante un maggiore coinvolgimento, tramite la
consultazione di tutte le parti interessate quali i sindacati, i datori di
lavoro, le organizzazioni non governative gli stessi bambini e i
genitori;
6.
aumentando la consapevolezza della società, nel suo insieme
considerata, circa l’impatto del lavoro minorile precoce, educando i
consumatori a prestare attenzione ai diritti basilari del lavoro
acquistano dei prodotti.
L’assemblea, inoltre, invitava il Comitato dei Ministri a dimostrate a
livello europeo la sua volontà politica circa la lotta allo sfruttamento
economico dei bambini e, quale seguito alla Strategia Europea per i
bambini, dava priorità:
a)
ad una valutazione, in ogni Stato membro, della
situazione del lavoro minorile, al fine di individuarne le forme più
intollerabili, per analizzare le cause e definire le proposte circa le
modalità attraverso le quali tali forma di sfruttamento potevano essere
controllate;
b)
alla definizione di una ampia politica europea sul
lavoro minorile, tenendo in considerazione gli standard sociali posti
dal Consiglio d’Europa e al fine di conformarsi ciò, in cooperazione
con l’Oil, l’Unicef, le organizzazioni non governative interessate e le
parti sociali e, in consultazione con i bambini che lavorano allo scopo
di assicurare che sia data al giusta considerazione alle loro opinioni.
Il Governo Italiano nel 1998, raccogliendo l’invito della Ue e delle
organizzazioni sindacali, istituì un Tavolo di concertazione ad hoc,
coordinato dal Ministero della Solidarietà Sociale, On Livia Turco, cui
parteciparono diversi Ministri e le parti sociali. Lo scopo era quello di
58
giungere ad una “Carta degli Impegni36 ” che sancisse non solo una
comune condanna del fenomeno ma una valutazione dei profili del
problema, sia sul piano nazionale che internazionale con precisi
impegni sulle iniziative da promuovere in riferimento alla conoscenza
del fenomeno, alla prevenzione, alla vigilanza, alle sanzioni dei
comportamenti illegali, alla promozione e costituzione di sedi per
l’elaborazione concordata tra istituzioni e forze sociali delle necessarie
politiche. Alla base di ogni iniziativa di intervento doveva esserci,
comunque, una nuova concezione del minore, non più come bambinooggetto ma come risorsa della società cui dovevano essere offerti
spazi e servizi per l’orientamento, l’informazione, il sostegno ai
bambini e alle famiglie rispetto al mondo del lavoro.
La “Carta degli Impegni” del 1998 si proponeva di essere un
documento teso ad individuare nuove forme sostanziali di tutela e
nuove politiche sociali a favore dei minori e dell’infanzia in generale,
al fine di eliminare ogni forma di sfruttamento del lavoro minorile. La
suddetta Carta 37 fu il frutto di un accordo sottoscritto dall’Italia nella
Conferenza Internazionale svoltasi ad Oslo nel 1997 in cui si ribadì
che lo sfruttamento dei minori era causa e conseguenza della povertà,
che l’utilizzo dei fanciulli rallentava la crescita economica, lo sviluppo
sociale e costituiva una violazione grave dei diritti elementari delle
persone umane.
Il documento de quo rappresentava il punto di partenza e la pietra
miliare per una nuova cultura che arginasse ogni forma di abuso e
tendesse a eliminare progressivamente ogni forma di sfruttamento. Gli
obiettivi che si intendevano perseguire erano:
1.
la realizzazione di una nuova Convenzione Internazionale
contro lo sfruttamento del lavoro minorile, che definisse con
sufficiente certezza la nozione di sfruttamento, l’età minima di
36
Carta degli impegni per promuovere i diritti dell’Infanzia e
dell’adolescenza ed eliminare lo sfruttamento del lavoro minorile,
sottoscritta a Roma il 16 aprile del 1998, in
http//www.cepadu.unipd.it.
37
Secondo la Carta degli Impegni “il Ministero della P.I., assume
l’impegno … a partire dall’anno scolastico 1998/99” di “aprile la
scuola ala cultura del lavoro, rendendo il lavoro una componente
dell’esperienza formativa, offrendo ai giovani informazioni sulle
opportunità professionali che si potranno presentare loro. Le imprese
possono essere chiamate a partecipare a questo processo di indirizzo
mediante esperienze lavorative infrascolastiche e stages formativi,
strumenti utili a mettere in contatto il giovane con il mondo del
lavoro”.
59
ingresso nel mondo del lavoro, i diritti essenziali da garantire senza
eccezioni di sorta;
2.
la previsione, a livello comunitario, di un Codice38 per le
imprese che obbligasse queste ultime a rispettare la normativa
internazionale sui diritti del minore;
3.
la imposizione di sanzioni economiche alle imprese che
commercializzavano prodotti per i quali non vi fosse un marchio di
garanzia sui diritti del minore;
4.
l’adozione di nuove politiche sociali a prevenzione del
disagio;
5.
l’istituzione di nuove figure poste a tutela dei diritti del
minore e dell’adolescente.
Gli intenti e gli obiettivi delle Carta degli Impegni sottoscritta
dall’Italia nel 1998 sono stati rivisti e rivisitati recentemente dal Libro
Bianco sul Mercato del Lavoro in Italia presentato nell’ottobre 2001
dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, al punto II. 4.2
E’ opportuno sottolineare che nel Libro Bianco il Ministero del
Lavoro aveva conferito all’ISTAT, in collaborazione con l’OIL,
l’incarico di una ricerca sulle “forme peggiori di lavoro minorile” 39 ,
in seguito ai dati preoccupanti emersi riguardo al fenomeno della
illegalità minorile.
38
I codici di buona condotta sono documenti adottatati dalle imprese i
via unilaterale (talora dopo una consultazione delle organizzazioni
sindacali) che esplicitano, in via generale, l’intenzione delle imprese
interessate di garantire il rispetto di standards internazionali di tutela
dei diritti sociali dei lavoratori, mentre i soli marchi sociali sono
strumenti diretti a rendere noto pubblicamente l’impegno sul pano
sociale dell’impresa, assicurando i consumatori, attraverso un
particolare segno distintivo, che i beni e/o servizi acquistati sono
prodotti secondo modelli di gestione equi e rispettosi dei diritti
fondamentali. Perulli, Brevi note sulla certificazione di conformità
sociale dei prodotti in Dir. Rel. Ind., 2000, p. 27.
39
La Convenzione Oil n. 182 sulle “forme peggiori di lavoro
minorile” è stata adottata il 17 giugno 1989 in Ginevra nella Sessione
n.- 87 e può essere letta in una traduzione italiana non ufficiale sul sito
www. Ilo.org; il testo ufficiale in lingua inglese è presente in Gazzetta
Ufficiale n. 135 del 12 giugno 2000. Nella Convenzione all’art. 3 sono
definite tali tutte le forma di schiavitù, quali la vendita alla tratta dei
minori, la servitù per debiti, il lavoro forzato o obbligatorio,
l’impiego, l’ingaggio o l’offerta di minori a fini di prostituzione o per
la produzione di materiale pornografico, utilizzo ai fini di attività
illecite quali il traffico di droga e qualsiasi altro lavoro che, per sua
natura o per le circostanze in cui si svolge, rischia di compromettere
la salute, la sicurezza o la moralità del minore.
60
In Italia 40 , le azioni istituzionali finalizzate alla promozione della
legalità sono state caratterizzate da un ruolo attivo del sindacato.
Nella più recente inchiesta sul lavoro minorile condotta dalla CGIL41
la stima complessiva di bambini di età inferiore ai 14 anni occupati si
attestava intorno ai 509.000 bambini occupati di cui 326.000
impiegati a tempo pieno, 183.000 impiegati solo stagionalmente ,
57.000 bambini lavoratori presso parenti42 .
Secondo le indagini, l’ingresso precoce nel mondo del lavoro è
determinato da una serie di fattori quali l’estrazione della famiglia di
origine, l’area geografica di residenza.
Il Governo italiano, a partire dagli inizi degli anni ’90, ha avviato un
processo legislativo avente l’obiettivo di adeguare le proprie leggi alle
Direttive Europee e di porre un freno al fenomeno del lavoro minorile,
attraverso un rapido recepimento della Direttiva Europea sulla
protezione dei Giovani nel Mondo del lavoro (l. n. 128/1998) sia per,
migliorare l’applicazione delle leggi in materia di lavoro minorile
(d.p.r. n. 365/1994) che per il rafforzamento e il coordinamento degli
interventi ispettivi e repressivi.
40
Il Cnel nel Rapporto sulle politiche di coesione sociale del luglio
1998 stimava l’economia sommersa in questi termini: 530.000
miliardi di ricchezza prodotta, 10 miliardi di ore di lavoro, 5 milioni di
lavoratori in nero (22,5 % del totale degli occupati), 300.000 minori
lavoratori, 250.000 clandestini. LEOPARDI -OTERI, I contratti di
riallineamento retributivo: profili giuridici e primi bilanci, in Lav.
Inf., 1998, n. 15-16, p. 14 e ss.
41
Indagine della CGIL riferisce dell’esistenza di un mondo italiano di
occupazione infantile diffuso in modo trasversale in tutti i settori
(poiché funzionalmente connesso a mansioni di bassa manovalanza),
caratterizzato da una assenza di qualità del percorso scolastico del
minore e di un mondo cinese di occupazione infantile, preadolescenziale strettamente connesso alle esigenze economiche della
famiglia. Lavoro e lavori minorili. L’inchiesta CGIL in Italia, Roma,
2000, p. 142.
42
Dati ricavati da Lavoro minorile che si può consultare collegandosi
con il sito www.cgil.it/ufficiostampa
61
IL LAVORO MINORILE IN ITALIA
PROSPETTIVE D’INTERVENTO
di FRANCO ELIO CASTELLUCCI
(Responsabile dell'Ufficio Lavoratori Autonomi e
Parasubordinati-INPS di Milano Fiori)
E
NUOVE
1. Le definizioni e campo di applicazione
L’ art. 2 del D.Lgs 345/1999 prevede espressamente che nel titolo e
nelle disposizioni della L.977/1967 la parola “fanciullo” sia sostituita
da quella di “bambino”. In seguito a tale sostituzione, il campo di
applicazione della disciplina regolata dall’art. 1, punti a) e b) che
comprende tutti i lavoratori minori di età, di ambo i sessi è distinto
tra:
- bambini, cioè minori che non hanno compiuto i 15 anni o che sono
ancora soggetti all’obbligo scolastico;
- adolescenti, cioè minori di età compresa tra i 15 e i 18 anni compiuti,
non più all’obbligo scolastico.
Per orario di lavoro: si intende qualsiasi periodo in cui il minore è al
lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua
attività o delle sue funzioni; (art. 1, punto c));
per periodo di riposo: si intende qualsiasi periodo che non rientra
nell'orario di lavoro (art. 1, punto d));
con il termine “notte”: si intende un periodo di almeno 12 ore
consecutive comprendente l'intervallo tra le 22 e le ore 6, o tra le ore
23 e le ore 7 (art. 15, comma 2).
Tali definizioni sono state tutte introdotte dal D.lgs 345/1999 e
rientrano più in generale nell’ambito di una nuova tecnica di redazione
dei testi legislativi che nel primo articolo e/o in quelli successivi
definiscono giuridicamente i termini che verranno usati nel testo.
Il successivo art. 2 della legge in commento prevede che le
disposizioni della L. 977/1967, invece, non si applicano agli
adolescenti addetti a lavori occasionali43 o di breve durata concernenti:
43
Circ. n. 1 del 5 gennaio 2000 del Ministero del Lavoro e delle
politiche sociali reperibile sul sito http://www.welfare.gov.it, sezione
norme: “la dizione lavori occasionali si intende riferita a prestazioni
casuali, sporadiche, saltuarie. La saltuarietà, tuttavia, di per sé non è
elemento sufficiente ad escludere la presenza di un rapporto di lavoro;
occorre, quindi, distinguere tra continuità di rapporto e continuità di
prestazione, in quanto è possibile che alla continuità del rapporto si
accompagni l'intermittenza delle prestazioni. I lavori di breve durata
62
- servizi domestici prestati in ambito familiare;
- prestazioni di lavoro non nocivo, né pregiudizievole, né pericoloso,
nelle imprese a conduzione familiare;
- alla lavoratrici minori gestanti, puerpere o in allattamento si
applicano le disposizioni del decreto legislativo 25 novembre 1996 n.
645, ove assicurino un trattamento più favorevole di quello previsto
dalla presente legge;
- per gli adolescenti occupati a bordo delle navi sono fatte salve le
specifiche disposizioni legislative o regolamentari in materia di
sorveglianza sanitaria, lavoro notturno e riposo settimanale 44 .
2. I re quisiti: età, istruzione e sanitari.
La legge 977/1967 originariamente fissava l’età minima per lo
svolgimento dell’attività lavorativa in generale a 15 anni, ammettendo
tuttavia il più basso limite di anni 14 per lavori agricoli e quelli
familiari e per lavori leggeri in attività non industriali.
Attualmente l’art. 3 della L. 977/1967, come sostituito dall’art. 5
D.Lgs 345/1999 fissa, invece, l’età minima per l’ammissione al lavoro
al momento in cui il minore ha concluso il periodo di istruzione
obbligatoria, stabilendo che essa, comunque, non può essere inferiore
ai 15 anni compiuti. Quindi, nell’impianto normativo del D.Lgs
345/1999, il criterio dell’assolvimento dell’obbligo scolastico risulta
prevalente su quello meramente anagrafico45 ne consegue che per
determinare il limite di età per la legittima instaurazione del rapporto
di lavoro con un minore, si devono accertare due requisiti distinti:
- che il ragazzo abbia compiuto i 15 anni di età;
possono riferirsi a quelle prestazioni nelle quali l'elemento temporale
non raggiunge quel minimo necessario perché l'attività svolta possa
ricomprendersi in una delle fattispecie tipiche previste dalla legge (es.
tutte le ipotesi di contratto a termine)”.
44
Circ. n. 1 del 5 gennaio 2000 del Ministero del Lavoro e delle
politiche sociali reperibile, cit: Per gli adolescenti occupati a bordo
delle navi sono fatte salve le specifiche disposizioni legislative o
regolamentari in materia di sorveglianza sanitaria, lavoro notturno e
riposo settimanale, e ciò in relazione alla peculiarità ed inderogabilità
di molte norme sul lavoro marittimo, in vista della sua stretta
connessione all'interesse pubblico. L'interesse generale alla sicurezza
della navigazione è ritenuto, infatti, prevalente e condiziona la stessa
tutela predisposta per il lavoro subordinato.
45
In sostanza è stato introdotto nell’ordinamento il principio per cui
l’età minima per l’accesso al lavoro non può collocarsi al di sotto di
quella in cui cessa l’obbligo scolastico.
63
- che abbia assolto l’obbligo scolastico46 .
Con tale previsione si è poi intrecciata, a doppio filo 47 , la normativa
emanata in tema di istruzione: la legge 28 marzo 2003, n.53 recante:
Delega al Governo per la definizione delle norme generali
sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di
istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di
istruzione e formazione professionale In particolare l’art. 7 della legge
53/2003 prevede l’espressa abrogazione della legge 20 gennaio 1999,
n, 9, con la quale, si elevava a 10 anni l’obbligo scolastico e
transitoriamente a 9 con il D.M. 323/1999.
Nelle more dovute alla mancata emanazione dei decreti attuativi della
legge 53/2003 l’abrogazione della legge 9/1999 fa si che al momento
per <<assolvimento della scuola dell’obbligo>> si intenda di
conseguimento della licenza media o la frequentazione per almeno 8
anni. 48
L’art. 24 prevede che i bambini di qualsiasi età, anche se adibiti al
lavoro in violazione delle norme sull'età minima di ammissione, hanno
diritto alle prestazioni assicurative previste dalle vigenti norme in
materia di assicurazioni sociali obbligatorie, ed in tal caso gli istituti
assicuratori hanno diritto di esercitare azione di rivalsa nei confronti
del datore di lavoro per l'importo complessivo delle prestazioni
corrisposte al minore, detratta la somma corrisposta a titolo di
contributi omessi, quindi la tutela previdenziale che è riconosciuta non
solo ai minori impiegati in un regolare rapporto di lavoro ma anche a
quelli occupati in attività lavorative in violazione alle disposizioni
sulla minima età. La disposizione costituisce l’attuazione del principio
generale formulato nell’art. 212649 c.c. nel senso che se il lavoro è
prestato in violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro
questo conserva tuttavia il diritto alle prestazioni corrispettive e
quanto ne consegue. Si tratta del principio secondo cui la tutela
46
Per le istruzioni di dettaglio si veda Circ. n. 1 del 5 gennaio 2000
del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, op. cit.
47
La legge n. 53 del 2003 ha infatti abrogato la precedente disciplina,
cioè quella in materia di istruzione: la legge 10 febbraio 2000, n. 30, e
in tema di formazione professionale: la legge 20 gennaio 1999, n. 9,
che prevedevano l’elevazione a 10 anni dell’obbligo scolastico e
l’obbligo di seguire attività formative fino al diciottesimo anno di età.
48
Pertanto anche quanto previsto dall’art. 1 della legge 977/1967
modificato dal citato D.Lgs. 345/99 circa l’assolvimento dell’obbligo
scolastico è subordinato alla riforma del sistema scolastico.
49
L’ art. 2126 c.c. , comma 2, prescrive: “se il lavoro è prestato con
violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in
ogni caso diritto alla retribuzione”.
64
inderogabile di ordine pubblico non deve ritorcersi contro il
lavoratore.
I bambini, nei casi in cui siano eccezionalmente autorizzati a prestare
l’attività lavorativa, e gli adolescenti, possono essere ammessi al
lavoro purché siano riconosciuti idonei a svolgere la specifica
prestazione oggetto del contratto sia prima l’assunzione sia dopo, in
relazione all’attività lavorativa cui saranno adibiti, l’art. 8 detta la
disciplina riguardante la visita medica preventiva e periodica, in
particolare, stabilisce che i minori possono essere occupati solo a
seguito di una visita eseguita a spese del datore di lavoro, da un da un
medico del Servizio Sanitario nazionale volta ad accertare la
possibilità di utilizzarli in quel determinato lavoro.
L’idoneità all’attività lavorativa dei minori deve permanere per tutta la
durata del rapporto, per cui essi dovranno sottoporsi a visite
periodiche ad intervalli non superiori a un anno. Il giudizio
sull’inidoneità temporanea, parziale o totale del minore, che deve
essere comunicato per iscritto dal datore di lavoro al lavoratore e ai
titolari della potestà genitoriale, impedisce che egli possa essere
adibito all’attività lavorativa e fa sorgere l’obbligo immediato di
sospensione dalla stessa, qualora il rapporto di lavoro abbia già avuto
corso. Con la previsione di tali norme il legislatore ha cercato di
intervenire in un ambito legislativo di estrema importanza soccorrendo
alle nuove esigenze della medicina del lavoro nei suoi aspetti della
prevenzione delle malattie da lavoro e del controllo della idoneità dei
minori ai compiti lavorativi ai quali sono avviati o ai quali già
attendono.
In armonia con le convenzioni internazionali n. 77 e n. 78 dell’I.L.O. è
stabilito che il giudizio di idoneità deve essere rilasciato da medici
qualificati che la legge 977/1967 definiva di particolare competenza in
medicina del lavoro (ex art. 11).
3. Il rapporto di lavoro
Lo svolgimento del rapporto di lavoro del minore, ritenuto idoneo alla
specifica attività lavorativa, avviene secondo la disciplina normativa
del lavoro vigente per la generalità dei lavoratori50 , salvo deroghe ed
50
A tal proposito si ricorda che nell’ambito dei rapporti di lavoro
speciali, l’apprendist ato, e in parte il contratto di formazione e lavoro,
recentemente ridisciplinati con il D.Lgs 276/2003, rivestono una
particolare importanza per il lavoro minorile in relazione alla loro
frequente applicazione.
65
eccezioni più favorevole disposte dalla legge o dalla contrattazione
collettiva volte a tutelare o garantire le peculiari esigenze di questa
particolare tipologia di lavoratori.
Con riferimento al dettato dell’art. 36 della costituzione, ai minori
lavoratori, poi, deve essere assicurata la parità di trattamento
retributivo o parità di lavoro, non essendo ammessi trattamenti
differenziati in base all’età, come invece accadeva in passato.
Anche in materia di orario di lavoro, lavoro notturno e riposo
settimanale vigono particolari disposizioni.
Infatti, per quanto concerne l’orario di lavoro, gli artt. 18 e 19
regolamentano prendendo in considerazione anche le limitazioni
dell’orario in rapporto ai lavori pesanti. L’art. 18 prevede per i
bambini liberi dagli obblighi scolastici un limite di 7 ore giornaliere e
35 settimanali, mentre per gli adolescenti non si può superare le 8 ore
giornaliere e le 40 ore settimanali.
L’art. 19, invece limita a 4 ore, per ogni giornata, il periodo durante il
quale gli adolescenti possono essere adibiti al trasporto di pesi
compresi i ritorni a vuoto, nel secondo comma è previsto il divieto di
utilizzazione degli adolescenti nelle lavorazioni effettuate con il
sistema dei turni a scacchi.
Gli articoli 20 e 21 prevedono disposizioni sui riposi intermedi, in
particolare è stabilito che l’orario quotidiano non possa durare senza
interruzioni più di 4 ore e mezza; in caso contrario, esso deve essere
interrotto da un riposo intermedio di almeno un’ora, che può essere
ridotto a mezz’ora dalla contrattazione collettiva o su autorizzazione
della Direzione Provinciale del lavoro sentite le competenti
associazioni sindacali. In deroga a quanto disposto dall’art. 20, la
Direzione provinciale del lavoro può nei casi in cui il lavoro presenti
carattere di pericolosità o gravosità, prescrivere che il lavoro dei
bambini e degli adolescenti non duri senza interruzione più di 3 ore,
stabilendo anche la durata del riposo intermedio.
Il successivo art. 22, prescrive che ai minori deve essere assicurato un
periodo di riposo settimanale di almeno 2 giorni, se possibile
consecutivi e comprendente la domenica.
Per comprovate ragioni di ordine tecnico o organizzativo, il periodo
minimo di riposo può essere ridotto, ma non può comunque essere
inferiore a 36 ore consecutive. Tali periodi possono essere interrotti
nei casi di attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati o di
breve durata nella giornata.
L’art. 15 vieta di adibire al lavoro notturno i minori, bambini e
adolescenti, e introduce, definendola, come già ricordato all’inizio, la
66
nozione di lavoro notturno stabilendo che: con il termine notte si
intende il periodo di almeno 12 ore consecutive comprendente
l’intervallo tra le ore 22 e le ore 6, o tra le 23 e le ore 7.
In deroga a tale divieto, l’art. 17, comma 1), tuttavia, prevede che, nel
caso in cui il minore sia adibito ad attività lavorative di carattere
culturale, artistico, sportivo (art. 4, comma 2), la prestazione
lavorativa possa protrarsi non oltre le ore 24, in questo caso il minore
deve godere, a prestazione compiuta, di un periodo di riposo di
almeno 14 ore consecutive.
Una ulteriore deroga è prevista al 2 comma dell’art. 17 stabilendo che
gli adolescenti che abbiano compiuto i 16 anni possono essere,
eccezionalmente e per il tempo strettamente necessario, adibiti al
lavoro notturno quando si verifica un caso di forza maggiore che
ostacola il funzionamento dell’azienda, purché tale lavoro sia
temporaneo e non ammetta ritardi, non siano disponibili lavoratori
adulti e siano concessi periodi equivalenti di riposo compensativo
entro tre settimane.
Il datore di lavoro, in tale ipotesi, deve dare immediata comunicazione
alla Direzione provinciale del lavoro indicando i nominativi dei
lavoratori, le condizioni costituenti la forza maggiore e le ore di lavoro
effettuate.
L’art. 23, in tema di ferie, prescrive che i bambini e gli adolescenti
hanno diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite che non può
essere inferiore a giorni 30 per coloro che non hanno compiuto i 16
anni e a giorni 20 per coloro che hanno superato i 16 anni di età, ma i
contratti collettivi di lavoro possono regolare le modalità di godimento
delle ferie.
4. I lavori vietati
Negli artt. 6, 7 novellati dal D.Lgs 345/1999 e dal D.Lgs 18 agosto
2000, n. 262, è fatto divieto di adibire gli adolescenti alle lavorazioni e
ai lavori potenzialmente pregiudizievoli51 per il pieno sviluppo fisico
del minore, tali attività sono indicate tassativamente nell’allegato I.
Per effetto dei citati decreti, sono abrogati il D.P.R. 4 gennaio 1971, n.
36 e 20 gennaio 1976, n. 432 i quali elencavano i lavori vietati ai
minori, attualmente elencati nel citato allegato I aggiunto alla L.
977/1967. Tale normativa rispetto alla precedente è ancora più
51
Per le istruzioni di dettaglio si consult i la Circ. n.1 del 5 gennaio
2000 del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, op. cit.
67
protettiva in quanto non solo sono vietate le lavorazioni pericolose in
sé, ma anche quelle potenzialmente tali, è evidente che con tale
aggiunta la sfera delle lavorazioni vietate si allarga.
Non solo, queste norme protezionistiche si intrecciano anche con le
prescrizioni del D.Lgs. 19 settembre 1996 n. 626 e successive
modifiche in tema di sicurezza del lavoro; a tal riguardo il datore di
lavoro prima di adibire i minori al lavoro e a ogni modifica rilevante
deve effettuare la valutazione dei rischi, con particolare riguardo a i
seguenti fattori previsti dall’art. 7:
a) sviluppo non ancora completo, mancanza di esperienza e di
consapevolezza nei riguardi dei rischi lavorativi, esistenti o possibili,
in relazione all’età;
b) attrezzature e sistemazione del luogo e del posto di lavoro;
c) natura, grado e durata di esposizione agli agenti chimic i, biologici e
fisici;
d) movimentazione manuale dei carichi;
e) sistemazione, scelta, utilizzazione e manipolazione delle
attrezzature di lavoro, specificatamente di agenti, macchine,
apparecchi e strumenti;
f) pianificazione dei processi di lavoro e dello svolgimento del lavoro
e della loro interazione sull'organizzazione generale del lavoro;
g) situazione della formazione e dell'informazione dei minori.
Inoltre, il datore di lavoro deve fornite ai titolari della potestà
genitoriale le informazioni di cui all’art. 21 del D.Lgs. 626/1994
riguardanti i minori.
Anche per tale tipologia di lavori sono tuttavia previste delle deroghe
esplicitate nell’art. 6 che stabilisce che le lavorazioni, i processi e i
lavori indicati nell'allegato I possono essere svolti dagli adolescenti
per indispensabili motivi didattici o di formazione professionale e
soltanto per il tempo strettamente necessario alla formazione stessa,
svolta in aula o in laboratorio, adibiti ad attività formativa, oppure
svolte in ambienti di lavoro di diretta pertinenza del datore di lavoro
dell'apprendista, purché siano svolti sotto la sorveglianza dei formatori
competenti, anche in materia di prevenzione e di protezione e nel
rispetto di tutte le condizioni di sicurezza e di salute previste dalla
vigente legislazione.
Fatta eccezione per gli istituti di istruzione e di formazione
professionale, l'attività di cui al comma 2 deve essere preventivamente
autorizzata dalla Direzione provinciale del lavoro, previo parere
dell'Asl competente per territorio, in ordine al rispetto da parte del
68
datore di lavoro richiedente della normativa in materia di igiene e di
sicurezza sul lavoro.
Mentre per i lavori comportanti esposizione a radiazioni ionizzanti si
applicano le disposizioni di cui al D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 230.
In caso di esposizione media giornaliera degli adolescenti al rumore
superiore a 80 decibel LEP-d il datore di lavoro, fermo restando
l'obbligo di ridurre al minimo i rischi derivanti dall'esposizione al
rumore mediante misure tecniche, organizzative e procedurali,
concretamente attuabili, privilegiando gli interventi alla fonte, fornisce
i mezzi individuali di protezione dell'udito e una adeguata formazione
all'uso degli stessi. In tale caso, i lavoratori devono utilizzare i mezzi
individuali di protezione.
5. Conclusioni
Dopo questa brevissima analisi è possibile affermare che ambigua è
stata la logica protettiva nella quale trovano radice i primi interventi
della legislazione sociale e che poi accompagnerà l'intera evoluzione
del sistema giuridico per via della imposizione di limiti alla durata
della prestazione di lavoro, di divieti nello svolgimento di alcune
attività pericolose. Ed è una logica ambigua perché al fondo di essa è
possibile intravedere il diverso obiettivo di tutela del mercato del
lavoro degli adulti dalla concorrenza sottosalariale dei minori52 .
E’ ambigua ancora la logica paritaria, che pretende di tutelare il
minore nel rapporto di lavoro trascurando di considerare la sua
posizione nel mercato del lavoro: ed è una posizione che non può non
essere subalterna proprio per la scarsa capacità tecnica e la ridotta
esperienza professionale dell'adolescente 53 . Sembrerà banale ma
52
A. Viscomi, Minori e lavori. Percorsi di una ricerca su campo, Atti
Introduzione Convegno “Testo e "contesto: il difficile incontro tra
minori, lavoro e diritto del lavoro , Catanzaro, 24 novembre 2000, in
http//www.unicz.it/lavoro testualmente dice: “ C’è da non credere, ma
queste -che ora leggerò- sono le parole contenute nella relazione di
accompagnamento della legge n. 653 del 26 aprile 1934 (che si può
leggere negli Atti parlamentari, XXVIII legislatura, 1929-1934, n.
2042): “nelle presenti contingenze in cui si cerca, con un sistema di
molteplici provvedimenti, di dare la più vasta capacità di assorbimento
alla massa dei disoccupati, l'interdizione o una maggiore limitazione
del lavoro dei fanciulli può contribuire ad alleviare in parte la
disoccupazione degli adulti”. Come dire che i limiti al lavoro minorile
-ma anche al lavoro femminile- nascono a protezione del maschio
adulto e capofamiglia e della sua posizione nel mercato.
53
A. Viscomi, in op. cit., afferma: “tanto che per lungo tempo nonostante e contro quanto proclamato dall'art. 37 Cost.- i contratti
collettivi hanno continuato a differenziare i trattamenti salariali dei
minori rispetto a quelli degli adulti. Naturalmente non è da pensare
che ciò sia espressione di una particolare insensibilità della
69
l’evoluzione della normativa in materia di tutela dei minori è da
individuare nel passaggio da queste ambiguità alla centralità del
minore e delle sue esigenze socio-educative.
In realtà come è stato osservato da alcuni commentatori vi è un
problema di frammentazione 54 degli interventi con la mancanza di una
“unica cabina di regia” che comporta, in alcuni casi più gravi, che una
istituzione non sa cosa fa l’altra, per questo occorre definire e mettere
a regime un vero e proprio sistema informativo sul lavoro minorile
che, con autorevolezza istituzionale, permetta di avere un quadro
attendibile del fenomeno, non solo da un punto di vista quantitativo,
ma anche qualitativo.
Non solo, si devono implementare le misure e le risorse per un’azione
di presidio e di repressione costante sul territorio, con particolare
attenzione ai fenomeni di reclutamento da parte della criminalità
organizzata e microcriminalità, occorre agire con maggiore incisività
in materia di salute e sicurezza del lavoro degli adolescenti,
coinvolgendo per esempio di più le Asl.
Non è più rinviabile inoltre la definizione di uno strumento nazionale
contro la povertà, adeguatamente finanziato, che stimoli l’attivazione
di energie familiari ed individuali, con misure a sostegno della
scolarità nelle fasce dell’obbligo e con l’accesso gratuito ai servizi
sociali e socio-sanitari per i soggetti coinvolti nell’emersione dal
lavoro irregolare. Più in generale va sostenuta l’assunzione di una
responsabilità diffusa, a partire dagli attori che per la loro attività
incontrano i bambini e gli adolescenti (pediatri, educatori, ecc.) al fine
di costruire una vera e propria rete sociale territoriale capace di
intercettare anche i segnali deboli dello sfruttamento dei minori.
In questo quadro, particolare attenzione va riservato al D.Lgs. 23
aprile 2004, n. 124 che introduce nell’ordinamento una organica
riforma dei servizi di vigilanza in materia di lavoro, in attuazione della
delega legislativa prevista dall’art. 8 L. 30/2003, con particolare
contrattazione collettiva; occorre non dimenticare, infatti, che la stessa
contrattazione cui ora mi riferisco operava all'interno di un contesto
sociale e produttivo che al minore adolescente poneva una precisa
alternativa tra studio e lavoro ovvero, se si vuole, tra scuola
professionale e scuola superiore, riservando quest'ultima ai meritevoli
o agli agiati o, come credo e come credeva don Milani, ai meritevoli
perché agiati”.
54
T. Corallini, Minori e lavori. Percorsi di una ricerca su campo,
Convegno “Asimmetria cognitiva e frammentazione amministrativa:
per una gestione organica degli interventi sui minori il difficile
incontro tra minori, lavoro e diritto del lavoro ”, Catanzaro, 24
novembre 2000, in http//www.unicz.it/lavoro.
70
riferimento all’organizzazione complessiva e al coordinamento
dell’attività ispettiva di tutti gli organismi competenti in materia di
lavoro e legislazione sociale, nonché di quelli comunque impegnati sul
territorio in azioni di contrasto al lavoro sommerso e irregolare, per
profili diversi da quelli di ordine e sicurezza pubblica. Il Ministero del
lavoro e delle politiche sociali, infatti, assume, nel rispetto delle
competenze affidate alle Regioni e alle Province autonome, le
iniziative di contrasto al lavoro sommerso e irregolare, provvedendo a
vigilare su tutto il territorio nazionale in materia di rapporti di lavoro e
di livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali,
anche promuovendo l’osservanza complessiva della normativa di
legislazione sociale e del lavoro, ivi compresa l’applicazione dei
contratti collettivi e della disciplina previdenziale. In tale contesto
diversificato, molto interessanti risultano alcuni organi previsti dalla
legge: la Direzione Generale assume compiti di direzione delle attività
ispettive, fornisce direttive operative e svolge attività di
coordinamento nella vigilanza della predetta materia, assicurando
l’esercizio unitario dell’attività ispettiva di competenza del Ministero
del lavoro e degli Enti previdenziali, nonché l’uniformità di
comportamento dei relativi organi di vigilanza.
La Commissione Centrale di coordinamento, nominata con Decreto
del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, presieduta dallo
stesso Ministro o da un Sottosegretario delegato e composta dal
Direttore della Direzione Generale, dai Direttori Generali degli Enti
previdenziali, dal Comandante Generale della Guardia di Finanza, dal
Direttore Generale dell’Agenzia delle Entrate, dal Coordinatore
Nazionale delle Aziende Sanitarie Locali, dal Presidente del Comitato
Nazionale per l’emersione del lavoro non regolare di cui all’art.78,
comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n.448 e da rappresentanti dei
datori di lavoro e dei lavoratori, spetta il compito di individuare gli
obiettivi e gli indirizzi strategici, nonché le priorità degli interventi
ispettivi.
Alla stessa Commissione, secondo la previsione dell’art.10 del
Decreto Legislativo, può essere attribuito il compito di definire le
modalità di attuazione della banca dati e di definire le linee per la
realizzazione del modello unificato di verbale di rilevazione degli
illeciti amministrativi.
Tale nuova incisività di azione è rinvenibile anche a livello decentrato
in quanto vengono istituite, a livello regionale, la Commissione
Regionale di coordinamento, costituita dal Direttore della Direzione
Regionale del lavoro, che la presiede, dai Direttori Regionali
71
dell’INPS e dell’INAIL, dal Comandante Regionale della Guardia di
Finanza, dal Direttore Regionale dell’Agenzia delle Entrate, dal
Coordinatore Regionale delle Aziende Sanitarie Locali, da
rappresentanti dei datori di lavoro e dei la voratori.
Il D.Lgs conferisce organicità al controllo ispettivo55 , sono coinvolte
più amministrazioni e per di più con un’organizzazione capillare sul
territorio che vengono dotate di una banca dati che monitorizza i
controlli e gli interventi effettuati da tutte le istituzioni operanti,
insomma uno strumento in più che si aggiunge alla lotta contro il
lavoro minorile illegale.
In conclusione i livelli di intervento dovrebbero essere di due tipi:
preventivo e repressivo, basti pensare per esempio alla scoperta del
minore che lavora illegalmente in azienda ed alla successiva
comunicazione ai servizi sociali affinchè intervengano a sanare la
situazione di malessere socio-economico della famiglia di
appartenenza del minore. La necessarietà e contestualità dei due
interventi è fondamentale per la soluzione del problema.
Occorre d’altro canto evitare il comportamento opportunistico delle
imprese e degli stessi lavoratori minori, infatti in questi casi, la
sanzione amministrativa o penale è solo uno degli strumenti di
potenziale controllo di questi fenomeni. Peraltro, limitarsi alla
sanzione vuole dire incentivare l’impresa ad un comportamento
strategico mirante a individuare un costo di nullificazione della
sanzione che sia minore della differenza tra il costo di un
comportamento non opportunistico ed il risparmio generato
dall’utilizzo opportunistico di lavoro minorile.
Dal punto di vista degli economisti, può essere importante costruire
schemi di incentivazione capaci di ridurre la probabilità di
comportamenti opportunistici. La sanzione può essere uno degli
strumenti, ma altrettanto importante è l’impatto che complessivamente
un più alto livello formativo può avere sulla produttività dell’impresa.
All’impresa è opportuno riconoscere un "ruolo formativo", ma allo
stesso tempo è necessario incentivarla a considerare i vantaggi
derivanti dall’avvio all’attività lavorativa del giovane apprendista. Ciò
è probabilmente persino più facile per le imprese di ridotte
55
Per un approfondimento si consultino la Circ. n. 24 del 24 giugno
2004 del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali e la Circ. n.
132 del 20 settembre 2004 dell’INPS, amdedue reperibili sul sito
http://www.inps.it/, sezione Normativa.
72
dimensioni, dove il rapporto tra imprenditore e lavoratore è basato su
una relazione di fiducia 56 .
56
In tal senso F. Timpano, Minori e lavori. Percorsi di una ricerca su
campo, Atti Convegno Conoscere per agire: servizi e politiche per
l’impiego per i minori, Catanzaro, 24 novembre 2000, in
http//www.unicz.it/lavoro.
73
LE AZIONI POSITIVE NELLA PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE
di Francesco Fasolino
(Ricercatore-Università degli Studi di Salerno)
1. La riforma della pubblica amministrazione e le pari
opportunità.
Negli ultimi anni la Pubblica Amministrazione è stata al centro di
grandi cambiamenti che hanno portato alla semplificazione dei
procedimenti amministrativi, alla ridefinizione delle strutture
organizzative interne e ad una continua evoluzione dei servizi per
l´utenza.
Questa nuova cultura della Pubblica Amministrazione ha altresì
valorizzato il principi di pari opportunità inteso nel senso più ampio,
alla cui concreta attuazione sono stati diretti svariati interventi del
legislatore.
La legge n. 421/1992 di "Delega al Governo per la razionalizzazione e
la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego,
di previdenza e di finanza territoriale" stabiliva, all'art. 2, co. 1º, lett.
hh), che il Governo dovesse "prevedere criteri e progetti per assicurare
l'attuazione della legge 10 aprile 1991, n. 125, in tutti i settori del
pubblico impiego". Tale disposizione ha trovato una prima parziale
attuazione nell'originaria stesura degli artt. 7, co. 1º , e 61 d. lgs. n.
29/1993, ora, rispettivamente art. 7, co. 1, e 57 del D.lgs. 30.3.2001,
n. 165, recante Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche (c.d. Testo Unico sul
pubblico impiego).
L'art. 7 si inserisce, quale criterio generale ribadito dal legislatore
nell'avviare la riforma, fra i principi generali della nuova disciplina del
pubblico impiego (Titolo I), e più precisamente si colloca nell'area
della gestione delle risorse umane. Secondo il principio espresso da
tale disposizione, "le amministrazioni pubbliche garantiscono parità e
pari opportunità tra uomini e donne per l'accesso al lavoro ed il
trattamento sul lavoro" ("condizioni di lavoro", secondo la più corretta
ed usuale espressione desumibile dalle stesse direttive comunitarie).
Vengono così espressamente ribaditi obblighi già esistenti in capo alle
amministrazioni, e derivanti dalla legge n. 903/1977, dalla legge n.
125/1991 nonché, naturalmente, dalla stessa Costituzione L'obbligo di
garantire pari opportunità non configge con il dovere di imparzialità
74
dell'amministrazione (art. 97, co. 1º, Cost.), poiché imparzialità
significa fedeltà al principio di legalità, ma anche al principio di
eguaglianza, formale e sostanziale.
Appare opportuno segnalare che l'attuale testo - ex art. 6 d. leg. 31
marzo 1998, n. 80 - dell'art. 7 sembra avere adeguatamente sviluppato
il "criterio ispiratore" della riforma, là dove prevede (co. 3°) che "le
amministrazioni pubbliche individuano criteri certi di priorità
nell'impiego flessibile del personale, purché compatibile con
l'organizzazione degli uffici e del lavoro, a favore dei dipendenti in
situazioni di svantaggio personale, sociale e familiare", ed ancor più là
dove prevede (co. 4°) che, nella formazione e nell'aggiornamento del
personale, esse debbano garantire "l'adeguamento dei programmi
formativi, al fine di contribuire allo sviluppo della cultura di genere
della pubblica amministrazione".
Il d. lgs. n. 165/2001 dedica poi l'intero art. 57 alle "pari opportunità".
L'obiettivo esplicitato nel co. 1º è quello di "garantire pari opportunità
tra uomini e donne per l'accesso al lavoro ed il trattamento sul lavoro".
Al fine di perseguire tale obiettivo, nella stesura originaria del testo
erano previste due misure strumentali alle politiche di pari
opportunità.
La prima (lett. a)) introduceva una riserva alle donne di almeno un
terzo dei posti di componenti delle commissioni di concorso, fermo
restando il principio della "provata competenza" dei membri delle
commissioni giudicatrici (art. 8, co. 1º, lett. d), testo originario).
Questa particolare "azione positiva indiretta" è stata mantenuta
sostanzialmente immutata nella riscrittura dell’art. 61 del d.lgs. n.
29/93 (ex art. 43, co. 8°, d. lgs. n. 80/1998, che tra l'altro introduce, fra
i criteri ai quali si devono conformare le pubbliche amministrazioni
nelle procedure di reclutamento del personale, il "rispetto delle pari
opportunità tra lavoratori e lavoratrici"), nella quale è stato inserito
l'inciso, limitativo della riserva, "salvo motivata impossibilità", che
tiene conto dell’eventuale oggettiva impossibilità di individuare
esperti donne in determinate materie di concorso ma che al contempo
impone alle pubbliche amministrazioni di giustificare il mancato
rispetto della riserva.
La seconda misura strumentale (lett. c)) garantisce la partecipazione
delle dipendenti ai corsi di formazione e di aggiornamento
professionale in rapporto proporzionale alla loro presenza nelle
amministrazioni interessate ai corsi medesimi. Tale previsione può
essere letta come una timida applicazione di un sistema di quote, una
forma di quota indiretta di opportunità di (ri)qualificazione e,
75
conseguentemente, di carriera, in particolare dopo la modifica del
testo (ex art. 17 d. lgs. n. 387/1998) che, al fine di consentire "la
conciliazione fra vita professionale e vita familiare", ha previsto che le
pubbliche amministrazioni adottino "modalità organizzative" atte a
favorire la concreta possibilità per le lavoratrici di sfruttare tale
opportunità.
Ricca di potenziali interessanti sviluppi appare poi la prescrizione di
adottare "propri atti regolamentari per assicurare pari opportunità fra
uomini e donne sul lavoro" sancita alla lett. b) dell’art. 57, co. 1, del
T.U. Fra gli obiettivi sicuramente riconducibili alla tutela della dignità
delle lavoratrici rientrano infatti le politiche di intervento contro le
molestie sessuali nell'ambiente di lavoro, secondo le indicazioni
emergenti in sede comunitaria (es. Dichiarazione del Consiglio del 19
dicembre 1991 92/C 27/01), che hanno trovato una prima, parziale
attuazione presso alcune amministrazioni che hanno adottato codici di
comportamento contro le molestie sessuali, così come nei contratti
collettivi nazionali (es. art. 40, comma 3, lett. f) CCNL1998-2001 per
il personale del comparto Università) che hanno specificamente
previsto e sanzionato, fra i doveri dei dipendenti, l'obbligo di
mantenere una condotta informata a principi di correttezza,
astenendosi da comportamenti lesivi della dignità della persona. Il
nuovo testo (ex art. ex art. 17 d. lgs. n. 387/1998) della lett. b) ha,
peraltro, ampliato la materia oggetto di possibili atti regolamentari
rispetto al precedente che contemplava esclusivamente “la pari
dignità” di uomini e donne sul lavoro, fornendo così alle pubbliche
amministrazioni l'opportunità per interventi incisivi e ad ampio raggio,
al di là delle specifiche prescrizioni già contenute in altre disposizioni
di legge.
Importante appare il ruolo che è chiamato a svolgere il Dipartimento
della funzione pubblica, al quale viene riconosciuto il compito di
impartire direttive in merito alla adozione di "atti regolamentari per
assicurare pari opportunità di uomini e donne sul lavoro" (co. 1º, lett.
b)) e di fornire disposizioni in merito alla adozione di "tutte le misure
per attuare le direttive della Comunità europea in materia di pari
opportunità" (co. 2º). La successiva Circolare 23 marzo 1993, n. 12
dell'ufficio condizione femminile del Dipartimento della funzione
pubblica, dichiarando esplicitamente di volersi adeguare ad un
"modello europeo del ruolo del lavoro", ribadiva la volontà di
"ridefinire iniziative in tema di parità e di pari opportunità" volte a
tutelare "la dignità della persona", ma soprattutto a conseguire
"efficienza (...) attraverso la più efficace e sensibile valorizzazione di
76
tutte le risorse umane". In questa prospettiva di necessaria "continua e
costante collaborazione tra amministrazioni e comitati" per le pari
opportunità, ai comitati veniva affidato il compito di "mettere a fuoco
i problemi concreti inerenti le tematiche delle pari opportunità, di
formulare proposte (...) ai fini della flessibile gestione delle risorse
umane". L'apporto consultivo dei comitati era infine richiesto per
"assicurare le condizioni che (...) rendano effettiva la partecipazione"
ai corsi di formazione e/o aggiornamento professionale delle
lavoratrici "in rapporto proporzionale alla loro presenza nelle
amministrazioni interessate ai corsi medesimi". L'obiettivo sembrava
dunque quantomeno quello di rivalutare e (ri)attivare i Comitati per le
pari opportunità, là dove già costituiti.
La materia delle pari opportunità era peraltro da tempo penetrata nel
settore del pubblico impiego grazie all'attività dell'autonomia
collettiva. Chiamata ad individuare "misure e meccanismi atti a
consentire una reale parità uomo-donna nell'ambito del pubblico
impiego" (art. 16 accordo intercompartimentale 1988-90 - d.p.r. 23
agosto 1988, n. 395), la contrattazione collettiva di comparto aveva
risposto all'invito impegnandosi a completare il processo di istituzione
dei comitati paritetici per le pari opportunità già avviato in quasi tutti i
comparti con la tornata contrattuale dell'87. La previsione non aveva
dato i risultati auspicati, ma aveva aperto le porte ad una
contrattualizzazione della materia, configurando - secondo
l'interpretazione prevalente - un obbligo a trattare in materia.
Le prescrizioni contenute nell'art. 61 del d. lgs. n. 29/1993
sembravano muoversi in una direzione diversa, ignorando qualsiasi
confronto con le organizzazioni sindacali prima dell'adozione degli
atti regolamentari previsti alla lett. b) del co. 1º e limitandosi a
prevedere un "previo eventuale esame con le organizzazioni sindacali
maggiormente rappresentative sul piano nazionale" per l'adozione "di
tutte le misure per attuare le direttive della Comunità europea in
materia di pari opportunità" (co. 2º art. 61 testo originario). Se
all'indomani dell'entrata in vigore non era chiaro quale fosse lo spazio
per ricondurre la questione delle pari opportunità nell'alveo delle
materie devolute alla contrattazione collettiva, di comporto e
decentrata (oggi nazionale e integrativa), le incertezze sono state
superate dalla stessa contrattazione collettiva, che, in forza dell'art. 45
d. lgs. n. 29/1993, "si svolge su tutte le materie relative al rapporto di
lavoro ed alle relazioni sindacali". Già nella prima "tornata
contrattuale", i contratti collettivi hanno generalmente assunto le
"misure per favorire pari opportunità nel lavoro" tra le materia oggetto
77
di contrattazione decentrata (si veda, ad es., l’art. 14, co. 3°, CCNL
1998-2001 comparto Università).
Coerentemente con la progressiva omogeneizzazione della disciplina
del rapporto di lavoro nelle pubbliche amministrazioni e nel settore
privato, la lett. d) dell'art. 61 del d. lgs. n. 29/1993(aggiunta dall'art.
17, co. 3°, d. lgs. n. 387/1998), ora integralmente riprodotta nella lett.
d) dell’art. 57 del T.U., prevede espressamente che le pubbliche
amministrazioni "possono finanziare programmi di azioni positive e
l'attività dei Comitati pari opportunità nell'ambito delle proprie
disponibilità di bilancio", garantendo in tal modo la legittimità
dell'impiego di risorse a tali fini. La possibilità espressamente prevista
di finanziare l'attività dei Comitati pari opportunità dovrebbe
consentire il definitivo decollo delle iniziative, già avviate in molte
amministrazioni pubbliche, che, pur più volte sollecitate dallo stesso
Dipartimento per la funzione pubblica, hanno sempre incontrato molte
difficoltà concrete, in particolare colle gate all'incerto ruolo affidato a
questi soggetti - a seconda della fonte istitutiva, dei poteri affidati,
della composizione - ed alla carenza di appositi stanziamenti di
bilancio.
2. Dalla legge n. 125/1991 al d.lgs. n. 196/2000.
L'art. 2, co. 6°, della l.n. 125/1991 ("Azioni positive per la
realizzazione della parità tuomo-donna nel lavoro") prevedeva che
"entro un anno dalla data di entrata in vigore" della legge, "le
amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le
regioni, le province, i comuni e tutti gli enti pubblici non economici,
nazionali, regionali e locali, sentiti gli organismi rappresentativi del
personale di cui all'articolo 25, della legge 29 marzo 1983, n. 93, o in
loro mancanza, le organizzazioni sindacali locali aderenti alle
confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale,
sentito inoltre, in relazione alla sfera d'azione della propria attività, il
Comitato di cui all'articolo 5 o il consigliere di parità di cui all'articolo
8", adottassero "piani di azioni positive tendenti ad assicurare, nel loro
ambito rispettivo, la rimozione degli ostacoli che, di fatto,
impediscono la piena realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel
lavoro tra uomini e donne".
Tale disposizione si contraddistingueva per un significativo
scostamento dall'ispirazione volontaristica che caratterizza l'intera
legge: coerentemente, infatti, con l'orientamento comunitario, che
raccomanda un impegno attivo ed un intervento diretto
78
dell'amministrazione pubblica nella promozione di azioni positive, il
legislatore aveva introdotto nella l. n. 125/1991 un vero e proprio
obbligo per tutte le amministrazioni pubbliche di adottare piani di
azioni positive. La scelta di un modello obbligatorio risultava - e
risulta - giustificata dalla particolare posizione in cui si colloca la
pubblica amministrazione come datore di lavoro nei confronti dei
propri e delle proprie dipendenti, nonché dal particolare ruolo sociale
che le stesse amministrazioni possono svolgere in un più ampio
contesto istituzionale, coerentemente con gli orientamenti comunitari
ed internazionali. L'ambito di operatività di ciascuna amministrazione,
al quale si riferisce la disposizione, può infatti legittimare l'adozione
di piani di azioni positive non necessariamente rivolti alle sole
dipendenti, ma allargati ad una più ampia utenza femminile e
comunque finalizzati all'obiettivo del precetto normativo: rimuovere
gli ostacoli che di fatto impediscono la piena realizzazione di pari
opportunità di lavoro e nel lavoro tra uomini e donne.
I datori di lavoro pubblici erano esclusi (ex art. 2, co. 1º, l. n.
125/1991 testo originario) dal novero dei beneficiari dei finanziamenti
per progetti di azioni positive regolati dalla stessa legge. L'apparente
incongruenza della loro esclusione dai benefici finanziari risultava
giustificata dalla sussistenza dell'obbligo di cui sopra. La "via"
all'adozione di progetti, programmi, iniziative di azioni positive, per le
amministrazioni pubbliche non passava - secondo l'intenzione
attribuibile alla l. n. 125/1991 - attraverso il finanziamento pubblico,
ma si sarebbe dovuta inserire in una politica delle pari opportunità che
permeasse la gestione delle amministrazioni pubbliche. La recente
novella dell'art. 2 (ex art. 7, co. 1, d.lgs. n. 196/2000: cfr. infra) ha
invece inserito i datori di lavoro pubblici fra i soggetti che possono
accedere al finanziamento di progetti di azioni positive, proseguendo
nel cammino di assimilazione tra datori di lavoro pubblici e privati.
La carenza di un apparato sanzionatorio a presidio dell'obbligo di
adottare piani di azioni positive ha depotenziato sensibilmente la
teorica incisività dell'art. 2, co. 6°, della legge n. 125/1991, nei fatti
largamente sottovalutata e disattesa dalle amministrazioni pubbliche.
E' tuttavia opportuno ricordare che, se l'obiettivo, almeno indiretto, del
6° comma dell'art. 2 era quello di indurre le pubbliche
amministrazioni ad adottare comportamenti conformi agli obiettivi di
effettiva eguaglianza espressi dalla legge, tale obiettivo è stato
successivamente almeno in parte riproposto in occasione della riforma
della disciplina del pubblico impiego attuata, a partire dalla legge
delega 23 ottobre 1992, n. 421, con il d. lgs. n. 29/1993.
79
La c.d. privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, o più
correttamente l'applicazione ai rapporti di lavoro presso le pubbliche
amministrazioni delle disposizioni del codice civile "e delle leggi sui
rapporti subordinati nelle imprese" (art. 2 d. lgs. n. 29/1993), ha
indotto il legislatore ad assimilare la posizione delle pubbliche
amministrazioni alla posizione dei datori di lavoro privati, anche per
quanto concerne la materia delle pari opportunità. L'obbligo (non
rispettato) di adottare piani di azioni positive si è perciò trasformato,
nell'odierna previsione (art. 61, co. 1, lett. d), d. lgs. n. 29/1993,
aggiunta dall'art. 17, co. 3, d. lgs. n. 387/1998) in forza della quale le
pubbliche amministrazioni "possono finanziare progetti di azioni
positive (...) nell'ambito delle proprie disponibilità di bilancio".
Sembra così segnato il passaggio da un modello obbligatorio,
rivelatosi inefficace, ad un modello volontario di adozione di azioni
positive, ispirato ad una logica prettamente "privatistica", che se pure
è coerente con la progressiva omogeneizzazione tra lavoro pubblico e
lavoro privato, rischia di lasciare nell'ombra il ruolo "trainante" che il
datore di lavoro pubblico potrebbe - o dovrebbe - svolgere al fine di
realizzare obiettivi che il legislatore ordinario si è prefisso in
attuazione di principi costituzionali.
La logica originaria dell'art. 2, co. 6, l.n. 125/1991, coniugata con
l'esigenza di riaffermare un ruolo trainante delle pubbliche
amministrazioni nelle politiche di pari opportunità, sembra tuttavia
riemergere nel d.lgs. 23 maggio 2000, n. 196, emanato in attuazione
della delega conferita al Governo dal Parlamento con l'art. 47 della l.
17 maggio 1999, n. 144 al fine di "migliorare l'efficienza delle azioni
positive".
L'art. 7, co. 5°, prevede infatti che le amministrazioni pubbliche,
sentite le rappresentanze del personale ovvero, in mancanza, le
organizzazioni rappresentative del comparto o dell'area di interesse,
nonché, in relazione alla sfera operativa delle rispettive attività, il
Comitato nazionale per le pari opportunità e la consigliera nazionale
ovvero il Comitato pari opportunità eventualmente previsto dal
contratto e la consigliera di parità territorialmente competente,
"predispongono piani di azioni positive tendenti ad assicurare, nel loro
ambito rispettivo, la rimozione degli ostacoli che, di fatto,
impediscono la piena realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel
lavoro tra uomini e donne". La forma indicativa del verbo (qui
"predispongono", nel testo dell'art. 2, co. 6, l. n. 125/1991 "adottano")
è ancora una volta chiaramente prescrittiva e - giova segnalarlo - il
mancato rispetto dell'obbligo è oggi sanzionato con l'applicazione
80
dell'art. 6, co. 6°., del d. lgs. n. 29/1993, (ora, art. 6, co. 6, T.U.) che
esclude la possibilità di assumere nuovo personale per le
amministrazioni che non provvedano agli adempimenti imposti dal
legislatore.
Un significativo passo avanti viene segnato anche per quanto concerne
l'indicazione dei contenuti dell'obbligo. Le finalità dei piani sono
chiaramente indicate: "al fine di promuovere l'inserimento delle donne
nei settori e nei livelli professionali nei quali esse sono
sottorappresentate" i piani di azioni positive devono, "fra l'altro,
favorire il riequilibrio della presenza femminile nelle attività e nelle
posizioni gerarchiche ove sussiste un divario fra generi non inferiore
ai due terzi".
La strumentazione per realizzare tali obiettivi è anch'essa indicata
nello schema di decreto legislativo, là dove si prevede che "in
occasione tanto di assunzioni quanto di promozioni, a fronte di
analoga qualificazione e preparazione professionale tra i candidati di
sesso diverso, l'eventuale scelta del candidato di sesso maschile è
accompagnata da un'esplicita ed adeguata motivazione".
L'esplicita abrogazione (ex art. 10, co. 3 dello stesso d.lgs. n.
196/2000) del co. 6 dell'art. 2 l.n. 125/1991 sembra, in definitiva,
avallare la chiave di lettura qui suggerita: l'abbandono del "modello
obbligatorio" di azioni positive nelle amministrazioni pubbliche del
testo originario è infatti sostituito da un diverso "modello
obbligatorio" di comportamento delle amministrazioni pubbliche. Il
nuovo modello si fonda sui piani (triennali) che, in sede di prima
applicazione, avrebbero dovuto essere predisposti entro il 30 giugno
2001. I tredici mesi di tempo previsti dal legislatore delegato
avrebbero dovuto, almeno in teoria, consentire il necessario
mutamento di mentalità e la creazione di modalità di selezione del
personale trasparenti, al fine di permettere la piena applicazione del
meccanismo di superamento della sottorappresentazione femminile,
che per molti versi può essere assimilato ad un sistema flessibile di
quote.
La scelta del legislatore delegato delinea infatti una sorta di sistema di
quote flessibili, ancorate a due presupposti: la forte
sottorappresentazione delle donne nei settori e nei livelli ove si svolge
la selezione e l'analoga qualificazione e preparazione professionale dei
candidati. Verificati tali presupposti, la scelta del candidato di sesso
femminile non è automatica, poiché l'amministrazione può scegliere il
candidato di sesso maschile, con motivazione esplicita ed adeguata
(ovviamente non discriminatoria), ma l'indicazione tecnico-politica è
81
sufficientemente chiara, ed esplicitamente a favore di un progressivo
riequilibrio della presenza dei due sessi nei diversi settori e livelli
professionali.
La recente disciplina nazionale appare peraltro pienamente conforme
al diritto comunitario. Il co. 5° dell'art. 7 del decreto, infatti, non
garantisce alcun risultato (rispettando così la limitazione introdotta
dalla sentenza Kalanke) garantisce un esame obiettivo delle
candidature degli uomini di pari qualificazione (rispettando così la
diversa limitazione introdotta dalla sentenza Marschall) e si inserisce
in un piano di azioni positive di durata triennale volto a riequilibrare la
presenza femminile ove sussista un divario fra generi non inferiore ai
due terzi, analogamente a quanto prevede, con modalità ben più
"forti", la disciplina tedesca valutata favorevolmente nella sentenza
Badeck.
2.1. La Cons igliera di parità: compiti e poteri
La legge n. 125/1991 nel quadro complessivo degli interventi per la
realizzazione della parità tra uomini e donne nel lavoro, ha previsto
l’istituzione di una nuova figura istituzionale, la Consigliera di Parità,
per ogni regione e per ogni provincia. Il D.Lgs. n. 196/2000, in
particolare, ha previsto la sottoscrizione di una convenzione-quadro
tra il Ministro del Lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il
Ministro delle Pari Opportunità e la Conferenza Unificata StatoRegioni, allo scopo di definire le modalità organizzative e di
funzionamento dell'Ufficio delle Consigliere di pari opportunità,
nonchè gli indirizzi generali per l'espletamento dei compiti ad esse
affidati. Il medesimo decreto ha stabilito, inoltre, che "il Ministro del
Lavoro e delle politiche sociali, in conformità ai contenuti della
convenzione quadro, provveda alla stipula di altrettante convenzioni
con gli enti territoriali nel cui ambito operano le Consigliere ed i
Consiglieri di parità".
La consigliera ha una specifica competenza ed esperienza in materia
di lavoro femminile, di normative sulla parità e pari opportunità e di
mercato del lavoro. E' nominata con decreto dal Ministero del Lavoro,
di concerto con il Ministero delle Pari Opportunità, su designazione
delle Regioni e delle province interessate.
Nell'esercizio delle proprie funzioni è pubblico ufficiale ed ha obbligo
di segnalazione all'Autorità giudiziaria per i reati di cui viene a
82
conoscenza. Essa è membro a tutti gli effetti, rispettivamente, delle
commissioni regionali e provinciali tripartite. Inoltre, partecipa ai
tavoli di partenariato locale ed ai comitati di sorveglianza; è
componente delle commissioni di pari opportunità del corrispondente
livello territoriale.
Alla consigliera spettano, inoltre, compiti di controllo del rispetto
della normativa antidiscriminatoria e di promozione della parità e pari
opportunità. A tale fine essa:
- rileva le discriminazioni tra uomini e donne, anche mediante
l'intervento del servizio Ispettivo del Lavoro;
- promuove le azioni positive e ne verifica i risultati;
- promuove il coordinamento tra politiche del lavoro e
formazioni locali con gli indirizzi comunitari e nazionali in materia di
pari opportunità, anche mediante il collegamento con gli assessorati al
lavoro e con gli organismi di parità degli enti locali;
- promuove l'attuazione delle pari opportunità da parte di tutti
i soggetti attori nel mercato del lavoro;
- diffonde la conoscenza e lo scambio di buone prassi sui
problemi delle pari opportunità.
Più specificamente, l’art. 3 del D.Lgs. n.196/2000 prevede che
rientrano tra i compiti della Consigliera di parità:
a) la promozione di studi ed analisi relativi alla presenza
femminile nel mercato del lavoro;
b) la promozione di progetti di interventi finalizzati alla
occupabilità e all'occupazione e all'occupazione femminile nell'ambito
delle attività previste dal POR (Programma Operativo Regionale);
c) l’individuazione di interventi mirati per targets specifici di
donne in stato di difficoltà occupazionali o con problemi di
reinserimento nel mercato del lavoro;
d) la promozione di iniziative tese a facilitare l'incontro fra la
domanda di lavoro e l'offerta femminile, anche attraverso modalità
individualizzate di orientamento e individuazione delle capacità,
attitudini professionali e competenze delle utenti e degli utenti;
e) la promozione di azioni rivolte a favorire la conciliazione
della vita lavorativa con la vita extraprofessionale;
f) la collaborazione con i Servizi all'Impiego per garantire una
modalità non discriminatoria di pubblicizzazione della domanda di
lavoro e di predisposizione della scheda professionale;
g) l’individuazione di linee di intervento per la realizzazione e
la diffusione della cultura di mainstreaming di genere;
83
h) la promozione di attività di partneriato in materia di pari
opportunità sui temi dello sviluppo locale;
i) l’individuazione di metodologie di progettazione di piani di
azioni positive, anche sulla base delle situazioni di squilibrio di genere
evidenziate dai rapporti ex art. 9 della legge n. 125/91;
j) promozione di campagne informative e/o materiale
informativo, finalizzati alla divulgazione, alla conoscenza e alla
diffusione di progetti di azioni positive e alla promozione degli stessi.
Alle Consigliere di parità viene riconosciuta, altresì, una speciale
legittimazione a proporre ricorso dinanzi all’Autorità giudiziaria,
anche in via d'urgenza, per tutti i casi di discriminazione, diretta ed
indiretta, davanti al Tribunale in funzione di giudice del lavoro o al
TAR territorialmente competente.
In particolare, la Consigliera regionale, in caso di discriminazioni
dirette o indirette di carattere collettivo, può ricorrere autonomamente,
senza alcuna delega; la Consigliera provinciale deve essere invece
delegata dalla lavoratrice/ore interessata/o che si ritiene
discriminata/o.
Il giudice, con la sentenza che accerta la discriminazione, ordina un
piano di rimozione di tale situazione, sentiti i sindacati e la
consigliera. L'inottemperanza all'ordine giudiziale costituisce reato e
comporta la perdita dei benefici previsti dalla legge e la revoca degli
eventuali appalti di opere pubbliche assegnati.
È prevista la facoltà per le Consigliere di promuovere conciliazioni
presso le Direzioni Provinciali del Lavoro e, per la Consigliera
regionale in caso di discriminazione collettiva, presso il proprio
ufficio. In quest'ultima ipotesi, il verbale di conciliazione redatto
dinanzi alla consigliera regionale diviene titolo esecutivo con decreto
del tribunale in funzione di giudice di lavoro.
La Consigliera regionale, infine, riceve ogni biennio i rapporti sulla
situazione del personale maschile e femminile da parte delle aziende
che occupano oltre 100 dipendenti e provvede alla elaborazione dei
dati con l'ausilio tecnico della Regione ed al loro controllo mediante
l'intervento del Servizio Ispettivo del Lavoro.
3. Il piano di azioni positive
3.1. Gli obiettivi
L'obiettivo generale del piano è chiaramente indicato dal legislatore
nella "rimozione degli ostacoli che, di fatto, impediscono la piena
realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel lavoro tra uomini e
84
donne", coerentemente con l'obiettivo della l.n. 125/1991 (art. 1, co.
1°).
Più specifico appare l'obiettivo di "promuovere l'inserimento delle
donne nei settori e nei livelli professionali nei quali esse sono
sottorappresentate" (art. 1, co. 2, lett. d) l.n. 125/1991). A tal fine i
piani devono favorire "il riequilibrio della presenza femminile nelle
attività e nelle posizioni gerarchiche ove sussiste un divario fra generi
non inferiore a due terzi". Lo strumento imposto dal legislatore per
realizzare tale obiettivo è individuato dallo stesso legislatore
nell'obbligo di motivare - in modo esplicito ed adeguato - la scelta del
candidato di sesso maschile, "in occasione tanto di assunzioni quanto
di promozioni, a fronte di analoga qualificazione e preparazione
professionale tra candidati di sesso diverso".
Entrambi gli obiettivi devono essere letti alla luce dei più recenti
interventi normativi comunitari e nazionali che hanno scelto un
"doppio binario" di intervento: mainstreaming e azioni positive. A
livello comunitario, la Commissione europea ha dichiaratamente
scelto la "duplice strategia composta da integrazione orizzontale e
azioni specifiche". L'integrazione orizzontale è stata definita, a partire
da Pechino, come "la promozione da parte dei governi e degli altri
soggetti attivi, di una politica attiva e visibile di mainstreaming in una
prospettiva di genere in tutte le politiche e i programmi per assicurare
che, prima di prendere decisioni, sia effettuata un'analisi degli effetti
che essi hanno sulle donne e sugli uomini rispettivamente". A livello
nazionale, l'approccio è stato analogo, con l'emanazione della direttiva
volta a realizzare obiettivi di empowerment e di mainstreaming
emanata della Presidenza del Consiglio del 1997, e con
l'ammodernamento della disciplina delle azioni positive ad opera del
d.lgs. n. 196/2000.
La Direttiva - documento più politico che tecnico indirizzato ai
Ministri - è rivolta ad individuare una serie di obiettivi che dovrebbero
essere perseguiti nell'elaborazione delle diverse politiche, economiche
e sociali, del Governo. I molti, articolati e talora non chiarissimi
obiettivi, esprimono sostanzialmente due meta-obiettivi, peraltro fra
loro collegati, entrambi provenienti dai documenti elaborati a Pechino.
La prima tipologia di obiettivi è infatti riconducibile all'acquisizione
di poteri e responsabilità (empowerment), nel "perseguimento delle
condizioni per una presenza diffusa delle donne nelle sedi in cui si
assumono decisioni rilevanti per la vita della collettività", in
particolare assicurando una presenza significativa delle donne negli
"incarichi di responsabilità nell'amministrazione pubblica" e
85
analizzando "l'impatto dei sistemi e dei percorsi formativi". I verbi
utilizzati (assicurare, analizzare), uniti ai verbi utilizzati nel prosieguo
della Direttiva (promuovere, favorire, sperimentare, incentivare) sono
sintomatici di un intervento soft, un atto di indirizzo, appunto,
dell'attività istituzionale, che deve essere seguito da una concreta
attuazione degli obiettivi da parte di tutte le pubbliche
amministrazioni.
La seconda tipologia di obiettivi è invece riconducibile al
mainstreaming, ovvero alla "integrazione del punto di vista di genere
nelle politiche governative" ed alla valutazione dell'impatto di genere
delle politiche governative. A fianco di questi obiettivi si collocano
azioni volte a formare una cultura della differenza di genere, a
promuovere l'occupazione femminile, a realizzare nuove politiche dei
tempi e dei cicli di vita, a prevenire e reprimere la violenza (e vengono
qui citate, per esempio, le molestie sessuali nel luogo di lavoro). Pare
opportuno ricordare che nella Direttiva, fra le azioni programmate
sotto il capitolo "Formazione di una cultura della differenza di
genere", si trova quella di "favorire le condizioni per l'accesso delle
donne alla ricerca e alle cattedre universitarie", così come quella di
"introdurre, negli insegnamenti curriculari, lo studio dei diritti
fondamentali delle donne".
3.2. I contenuti e gli strumenti per l’attuazione del piano
I contenuti del piano di azioni positive sono dunque riconducibili ai
diversi obiettivi sopra evidenziati. Essi possono essere articolati nel
seguente modo:
a) interventi formativi;
b) interventi "mirati" per il superamento delle condizioni di
sottorappresentazione femminile e per migliorare il ruolo delle donne
nell'organizzazione complessiva dell'ente di appartenenza;
c) interventi volti a migliorare l'ambiente di lavoro,
garantendo condizioni di lavoro prive di comportamenti molesti o
mobbizzanti;
d) interventi volti ad agevolare la conciliazione delle vita
lavorativa e della vita privata/familiare;
e) interventi di accompagnamento delle misure adottate,
rivolti ad informare e coinvolgere tutte le componenti universitarie;
f) partecipazione a ricerche, indagini, volte ad acquisire le
conoscenze necessarie per migliorare i progetti che si intende avviare
e per programmare gli interventi del successivo triennio;
86
i) politiche di valutazione di impatto di genere delle
innovazioni organizzative progettate e avvio di un'attività di gender
auditing sugli interventi posti in essere dall’amministrazione;
l) interventi di valorizzazione del ruolo e delle competenze del
Comitato per le pari opportunità.
L'amministrazione, una volta acquisiti i necessari pareri degli
organismi previsti dall'art. 47 del d.lgs. n. 29/1993 e della consigliera
regionale di parità ed approvato dagli organi competenti il piano di
azioni positive, si impegna a rispettarne i tempi e i modi di attuazione.
Essa, nella consapevolezza che la rimozione degli ostacoli che si
frappongono alla realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel
lavoro costituisce un obiettivo primario dell'attività della pubblica
amministrazione, deve improntare l'intera sua attività ai principi
affermati nel piano e negli strumenti che saranno adottati in attuazione
dello stesso piano. Al fine di realizzare gli interventi previsti nel
piano, l'amministrazione si impegna, in particolare, ad individuare
la/le struttura/e competente/i, al livello appropriato, alla/e quale/i sarà
espressamente affidato l'incarico di realizzare il piano, in stretta
collaborazione con la segreteria tecnica del CPO e con il CPO stesso.
Peraltro, appare necessario che l'amministrazione si impegni altresì a
provvedere, insieme al CPO, al controllo in itinere del piano,
garantendo la collaborazione delle sue strutture al fine di monitorare e
adeguare tempi e modi di attuazione in relazione agli eventuali
mutamenti del contesto (normativo e organizzativo). Almeno sei mesi
prima della scadenza del triennio, l'amministrazione deve provvedere,
insieme al CPO, al controllo ex post del piano, al fine di avviare
tempestivamente la progettazione del piano per il successivo triennio,
valutato l'impatto delle iniziative intraprese e i risultati conseguiti nel
primo triennio.
87
ART. 57 DEL D. LGS. 165/2001: PARI
OPPORTUNITA’ E P.I.
di CRISTINA DE ROSE
(Collaboratore di Istituzione Pubblico Comparato-Università di
Salerno)
Le pubbliche amministrazioni, al fine di garantire pari opportunità tra
uomini e donne per l’accesso al lavoro ed il trattamento sul lavoro,
a)
riservano alle donne, salva motivata impossibilità, almeno
un terzo dei posti di componente delle commissioni di concorso,
fermo restando il principio di cui all’art. 57, 3° comma, lett. e);
b)
adottano propri atti regolamentari per assicurare pari
opportunità fra uomini e donne sul lavoro, conformemente alle
direttive impartite dalla Presidenza del Consiglio dei ministri Dipartimento della funzione pubblica;
c)
garantiscono la partecipazione delle proprie dipendenti ai
corsi di formazione e di aggiornamento professionale in rapporto
proporzionale alla loro presenza nelle amministrazioni interessate ai
corsi medesimi, adottando modalità organizzative atte a favorirne la
partecipazione, consentendo la conciliazione fra vita familiare e vita
professionale;
d)
possono finanziare programmi di azione positive e l’attività
dei Comitati pari opportunità nell’ambito delle proprie disponibilità di
bilancio.
Le pubbliche amministrazioni, secondo le modalità di cui all’art. 9,
adottando tutte le misure per attuare le direttive dell’Unione europea
in materia di pari opportunità, sulla base di quanto disposto dalla
presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione
pubblica.
Allo scopo di rendere più chiara l’azione rivolta alla realizzazione
delle pari opportunità, nonostante fosse stata introdotta la disciplina
legislativa con la prima riforma (D.Lgs. 29/93) e pur avendo inteso
conferire ai principi di parità e di pari opportunità un valore primario,
è stata evidenziata una debolezza strutturale dal punto di vista sia
dell’assenza di incentivi finanziari delle azioni positive, sia dallo
scarso contenuto delle disposizioni immediatamente precettive,
tenendo conto, anche, degli interventi da parte delle Direttive
Comunitarie.
La recente Direttiva PCM del 27 marzo 1997 adottata a seguito degli
atti internazionali e comunitari ed ispirata all’integrazione del punto di
88
vista di genere nelle scelte politiche e amministrative, prefigura una
griglia di azioni rivolte ai Ministri, al fine di promuovere
l’attribuzione di poteri e responsabilità alle donne, a riconoscere e
garantire libertà di scelte e qualità sociale di donne e uomini, alcune
delle quali interessano in modo specifico le pubbliche
amministrazioni, e riguardano prevalentemente il versante dell’azione
amministrativa, benché non manchino misure che interessano anche il
rapporto di lavoro.
Tra queste ultime si segnalano quelle che consistono nella ricerca
delle condizioni per una presenza diffusa delle donne nelle sedi in cui
si assumono decisioni rilevanti per la vita della collettività, e
impongono, fra l’altro di analizzare modelli organizzativi del settore
pubblico nell’ambito della riforma della pubblica amministrazione e di
proporre gli opportuni adeguamenti. L’art. 57 D.Lgs. n. 165/2001 in
commento, riguarda una pluralità di strumenti che dovrebbero
assicurare la realizzazione di azioni positive.
Secondo quanto previsto dal 1° comma, lett. b), l’attuazione delle
Direttive comunitarie avviene mediante l’adozione da parte delle
amministrazioni pubbliche di atti regolamentari per assicurare pari
opportunità tra uomini e donne sul lavoro, da adottarsi, appunto
conformemente alle direttive impartite dalla presidenza del Consiglio
dei Ministri. Resta tuttavia aperto il problema della effettività della
disciplina, originato dalla assenza di strumenti sanzionatori specifici
in caso di inadempimento o ritardo delle pari opportunità, benché vada
sottolineata la responsabilità del dirigente, valutabile nelle sedi
appropriate. Il ricorso al Commissario ad acta per sopperire alla
carenza di strumenti sanzionatori, può apparire poco opportuno nei
fatti. Più consono alla natura degli interessi in gioco sarebbe stata una
soluzione che attribuisse agli organismi sindacali oppure ai comitati di
p.o. la funzione di rendere esigibile l’obbligo di adempiere.
In proposito, la carenza legislativa è colmata, almeno per tutta la fase
transitoria, dalle clausole che, nei precedenti accordi di comparto
ponevano spesso veri e propri obblighi a trattare in sede decentrata
nelle materie connesse alle p.o. e prevedere la costituzione dei
Comitati per le p.o. che restano in vigore anche dopo le recenti
discipline contrattuali.
Una delle poche modifiche introdotte dall’art. 57 riguarda i comitati
p.o. disciplinati dai precedenti accordi di comparto e sono
caratterizzati da interventi che riguardano il miglioramento della
qualità dell’ambiente di lavoro e di valorizzazione delle capacità
professionali.
89
A questo proposito il nuovo testo della norma riguarda la possibilità di
finanziare l’attività dei comitati p.o., insieme a programmi di azioni
positive, secondo le disponibilità di bilancio. Si è così finalmente
posto rimedio ad una lacuna che ha condizionato l’attività di tali
comitati.
Secondo quanto previsto dal 1° comma, lett. c) “di garantire la
partecipazione delle proprie dipendenti ai corsi di formazione e di
aggiornamento professionale in rapporto alla loro presenza nelle
amministrazioni interessate ai corsi medesimi”, và sottolineato la
disposizione che riguarda alcune misure rivolte ad istituti rilevanti per
le p.o. quali i concorsi e la formazione professionale.
Tale disposizione ha previsto il metodo delle quote riservate in
materia di concorsi, disponendo “l’art. 57, lett. a)” che un terzo dei
posti dei componenti della commissione sia riservata a donne, salvi i
casi di motivata impossibilità, e fermo restando il principio di cui
all’art. 35, 3° comma, lett. e), grazie al quale deve trattarsi comunque
di esperti di provata competenza e nel rispetto del regime di
incompatibilità ivi previsto.
La norma appare ispirata principalmente agli indirizzi comunitari che,
invitano gli Stati a promuovere “la partecipazione attiva delle donne
agli organi decisionali”, e “ad incoraggiare la partecipazione ai livelli
superiori di responsabilità”.
Per quanto riguarda la tematica della formazione professionale, la lett.
c) dell’art. 57 impone alle p.a. di garantire la partecipazione ai corsi in
rapporto proporzionale alla loro presenza nelle amministrazioni
interessate.
La seconda riforma ha introdotto alcune limitate modifiche che non
riguardano lo sviluppo della carriera, ma soltanto i contenuti e le
modalità di partecipazione femminile. Per quanto riguarda i primi è
stato introdotti l’obbligo di inserire nei programmi formativi, (ma non
è chiaro se in tutti o soltanto in quelli rivolti alle donne), riferimenti
alla cultura della Pubblic a Amministrazione.
L’altra modifica è costituita dalla esortazione a rendere compatibile le
condizioni di svolgimento del corso anche alle donne con
responsabilità familiare, adottando modalità organizzative atte a
favorire la partecipazione, consentendo la conciliazione tra vita
professionale e familiare, con l’intento di superare gli ostacoli che, di
fatto, si oppongono alla realizzazione di una situazioni di parità,
nonostante la previsione dell’obbligo di rispettare le quote.
Secondo quanto previsto dall’art. 57, 2° comma, è contemplato
l’obbligo di dare attuazione alle indicazioni Comunitarie relative alla
90
tutela della dignità delle donne sul luogo di lavoro e riguardanti il
modo particolare le molestie sessuali, risultanti dalla Risoluzione del
Consiglio del 27 giugno 1990, della racc. Ce 27 novembre 1991,
accompagnata da un codice di condotta relativo ai provvedimenti da
adottare nella lotta contro le molestie sessuali. Si tratta di atti che
sottolineano l’importanza della prevenzione e repressione delle
molestie quale strumento per la integrazione delle donne nel mercato
del lavoro e si collegano alle tematiche della discriminazione di
genere e della promozione delle pari opportunità.
In applicazione della norma alcune amministrazioni hanno adottato
regolamenti che stabiliscono il codice di condotta che deve essere
osservato dai dipendenti. Ciò corrisponde all’impostazione derivante
dalle prese di posizione comunitarie tendente a porre in primo piano la
responsabilità del datore di lavoro, sia pubblico sia privato,
nell’eliminazione del fenomeno, alla stregua di quanto avviene nel
campo della tutele dell’ambiente di lavoro. Le soluzioni adottate
hanno tuttavia fatto discutere, poiché non appaiono del tutto
convincenti né coerenti rispetto alle conclusioni del dibattito
sviluppatosi nei movimenti delle donne, ove emergono preoccupazioni
circa la non corrispondenza fra il codice morale di cui il datore di
lavoro sarebbe il difensore e la autoderminazione rivendicata in
proposito dalle donne stesse.
La scelta di utilizzare i codici di comportamento nell’ambito del
rapporto di lavoro corrisponde alla consapevolezza della insufficienza
e pericolosità del ricorso all’apparato repressivo penale che, almeno
allo stato attuale non sembra garantire a sufficienza la tutela della
vittima delle molestie sia nella fase dell’accertamento dei fatti sia per
quanto riguarda i rimedi applicabili.
Si tratta di tematiche di cui tengono conto gli atti comunitari, che
giustamente sottolineano la necessità di focalizzare i proble mi relativi
alla definizione della nozione di “molestia”, di attivare procedure
anche informali di soluzione dei casi singoli, di potenziare il ruolo
riservato alla contrattazione collettiva nel predisporre strumenti di
prevenzione delle molestie, di prevedere procedure specifiche e
improntate alla riservatezza per lo svolgimento di indagini nonché per
l’esperimento dell’azione disciplinare.
La definizione delle molestie si incentra sulla possibilità di perseguire
i comportamenti lesivi basandosi sul tipo di reazione che viene
manifestata dalle vittime nell’ambito del contesto lavorativo
(comportamenti indesiderati, sconvenienti o offensivi), più che sulla
individuazione di ipotesi specifiche. Nei casi in cui la situazione sia
91
tale che la lavoratrice non possa assumere un atteggiamento di aperto
rifiuti per timore di conseguenze negative, si indicano come ulteriori
fattispecie perseguibili quelle in cui l’autore sia un superiore
gerarchico e la profferta abbia natura ricattatoria, e, quale ipotesi
ulteriore, quella in cui siffatti comportamenti creino comportamenti
creino un ambiente di lavoro intimidatorio, ostile o umiliante. Tale
definizione appare condivisibile nella misura in cui la situazione di
dipendenza gerarchica della lavoratrice e il carattere ricattatorio del
comportamento portano a qualificare il comportamento non solo come
illecito, ma come rientrante nella fattispecie discriminatoria.
Si tratta tuttavia di una impostazione non sempre condivisa in
giurisprudenza, pur propensa a riconoscere il carattere di illegittimità
del comportamento, nei casi in cui non vi siano condizioni di vera
minaccia.
Sul versante dei rimedi, si sottolinea l’opportunità di individuare
soluzioni alternative e/o cumulative a quelle di carattere disciplinare
che no sempre sono idonee a tutelare efficacemente la vittima, e non
estranee alla sia pure relativa esperienza applicativa che negli anni più
recenti è venuta emergendo.
Sul tema delle pari opportunità e della conciliazione, in questi anni la
regione Lombardia si è molto impegnata, recependo e facendo proprie
le indicazioni della Comunità Europea al fine di valorizzare il
contributo che le donne danno alla vita sociale e di creare le
condizioni giuridiche, amministrative, organizzative e politiche
affinché questo contributo possa dispiegarsi in tutta la ricchezza delle
sue potenzialità.
Questo modo di intendere il principio di pari opportunità significa
offrire alle donne maggiore libertà di scegliere, mettendo a loro
disposizione più risorse, più formazione, più lavoro, più informazione.
La Regione Lombardia è mossa con azioni positive per ridurre la
discriminazione, diretta o indiretta, cui le donne sono spesso
sottoposte e ampliare il numero di opportunità a loro destinate anche
attraverso la predisposizione di un’apposita normativa regionale.
In questa direzione sono stati ottenuti i finanziamenti del Fondo
Sociale Europeo dell’Obiettivo 3 misura E1 e con la legge regionale
23/99, che incrementano concretamente la libertà dei scelta delle
donne, prevedendo interventi per la tutela e la valorizzazione della
famiglia.
La legge favorisce infatti la nascita ed il potenziamento di servizi
pubblici e del privato sociale come i consultori per la famiglia, offre
sostegni alle famiglie con figli minorenni attraverso ad esempio la
92
promozione della realizzazione di nidi famiglia, promuove
l’associazionismo familiare, come i gruppi di mutuo aiuto.
Gli impegni familiari, infatti, rischiano di precludere alla donna la
possibilità di assumere un ruolo definitivo e soddisfacente all’infuori
dell’ambito domestico nel lavoro e del percorso di carriera. In questo
senso, qualsiasi misura che intervenga per facilitare una più equa
distribuzione dei compiti tra madre e padre all’interno della famiglia,
come quelle illustrate da questo opuscolo, mette la donna nella
condizione di conciliare più efficacemente la sfera familiare e quella
lavorativa e di perseguire la sua realizzazione personale in entrambi
gli ambiti di vita.
93
IL TAR E’ COMPETENTE IN MATERIA DI LAVORO
di FRANCESCO GAUDIERI
(Consigliere del Tribunale Amministrativo Regionale per
Campania, sezione Salerno)
la
La profonda trasformazione della Pubblica Amministrazione, i cui
passi salienti si trovano tratteggiati con grande lucidità, nell’art. 2 l.
23 ottobre 1992 n. 421 (in G. U. 31 ottobre 1992 n. 257 S.O.) recante
deleghe al Governo della Repubblica per la predisposizione di più
decreti legislativi diretti al contenimento, alla razionalizzazione e al
controllo della spesa per il settore del pubblico impiego, al
miglioramento dell’efficienza e della produttività, nonché alla sua
riorganizzazione, trovano negli artt. 33, 34 e 35 del D. Lgs n. 80/98 il
punto di snodo fondamentale relativo alla giurisdizione, le cui
previsioni hanno comportato una profonda modifica dell’assetto
tradizionale delle attribuzioni del Giudice Amministrativo.
Ed infatti, con l’art. 33 del D. Lg.vo 80/98 sono state “devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le
controversie in materia di pubblici servizi…”.
Con l’art. 34 del citato decreto sono state “devolute alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per
oggetto gli atti, i provvedimenti e i comportamenti delle
amministrazioni pubbliche in materia urbanistica ed edilizia…”.
Con l’art. 35, infine, è stato previsto che “il giudice amministrativo,
nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi
degli articoli 33 e 34 dispone, anche attraverso la reintegrazione in
forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto.”.
L’ampia portata della riforma della giurisdizione amministrativa di cui
al D. Lg.vo n. 80/98, con l’attribuzione di materie nuove, introdotte
dal legislatore quasi a compensazione della dismissione della
giurisdizione del pubblico impiego, storicamente ricadente nella
giurisdizione del G.A., è stata quasi subito vanificata dalla Corte
costituzionale, ma è stata vieppiù controbilanciata dalla Corte di
Cassazione con la storica pronuncia n. 500/1999 del 22 luglio 1999.
Con la citata pronuncia, la Corte di Cassazione ha posto fine a quella
giurisprudenza della stessa Corte, definita “monolitica” o
“pietrificata” dalla dottrina, attestata nel sostenere l’irrisarcibilità degli
interessi legittimi o meglio la non configurabilità della responsabilità
civile, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., della P.A. per il risarcimento
94
dei danni derivanti ai soggetti privati dalla emanazione di atti o di
provvedimenti amministrativi illegittimi, lesivi di una situazione di
interesse legittimo.
La portata caducatoria della sentenza n. 292/2000 della Corte
costituzionale è stata subito tamponata dal legislatore con la novella
legislativa della l. n. 205/2000, avente ad oggetto “disposizioni in
materia di giustizia amministrativa”.
Con l’art. 7 della novella, rubricato “modifiche al decreto legislativo
31 marzo 1998 n. 80”, vi è stata una riedizione degli artt. 33 – 34 e 35
del D. Lg.vo n. 80/98, con significative modifiche non più ostacolate
dai limiti connessi alla delega legislativa.
La novella dell’art. 7 risulta vieppiù rilevante se si considera che, per
espressa previsione normativa, il giudice amministrativo conosce del
risarcimento del danno “nell’ambito della sua giurisdizione” e quindi
senza più alcun limite, com’era invece nell’ambito della precedente
formulazione.
Questa stagione di riforme che ha visto crescere la figura e la funzione
della giustizia amministrativa ha trovato, tuttavia, nella sentenza 5
luglio 2004 n. 204 della Corte costituzionale una battuta di arresto
atteso che la sentenza sottrae al giudice amministrativo “la cognizione
di situazioni paritarie come i rapporti debito. credito correlati
all’erogazione dei servizi pubblici e la cognizione di meri
comportamenti” (M. Clarich).
Ma detta pronuncia è ancora più significativa perché essa incide su
quel “processo di ripensamento del ruolo da assegnare al giudice
amministrativo e della conformazione strutturale dello stesso processo
amministrativo” (R. Garofoli).
95
DISCRIMINAZIONE DIRETTA ED INDIRETTA
DIRITTO COMUNITARIO
di PAOLA SOMMA
(Spec. in Dir. Lav. e Relazioni Ind.-Università di Napoli)
NEL
1. Introduzione
La nozione di discriminazione diretta e indiretta è riferibile a qualsiasi
atto discriminatorio in ragione del sesso che violi, direttamente o
indirettamente, il principio di parità tra lavoratori e lavoratrici, in
relazione a tutti gli aspetti del rapporto di lavoro. Il divieto di
discriminazioni fondate sul sesso ha trovato il suo primo significativo
riconoscimento nel diritto comunitario con l’art. 117 del trattato di
Roma, imponendosi da subito quale fondamentale strumento di
promozione dell’eguaglianza tra lavoratori e lavoratrici.
Nella sua accezione retributiva il principio di parità è stato, invece,
disciplinato dall’art. 119 del trattato di Roma, poi modificato dal
trattato di Maastricht, istitutivo dell’Unione Europea, e dal trattato di
Amsterdam mentre la parità di trattamento con riguardo agli elementi
essenziali del rapporto di lavoro, quindi condizioni di lavoro in
generale, accesso al lavoro e formazione professionale, è stata
introdotta dalla direttiva n. 76/207. Successivamente il principio di
parità è stato esteso dalla direttiva n. 79/7 anche alla sicurezza sociale.
In particolare proprio l’affermazione del principio di parità di
trattamento ha segnato un’importante svolta nell’evoluzione del diritto
comunitario del lavoro in materia di parità tra lavoratori e lavoratrici,
introducendo le azioni positive, importantissimi strumenti di
promozione dell’eguaglianza sostanziale e delle pari opportunità tra
lavoratori e lavoratrici.
Giova, inoltre, precisare che se il principio di parità retributiva ha
natura settoriale in quanto si riferisce esclusivamente all’eguaglianza
di retribuzione, quello di parità di trattamento ha, invece, un contenuto
notevolmente più ampio poiché postula l’assenza di qualsiasi
discriminazione che si fondi sul sesso in relazione a tutti gli elementi
del rapporto di lavoro57 .
57
Il percorso del diritto comunitario in tema di parità si fonda su di
una semplice norma di armonizzazione dei costi di manodopera,
l’art.119, che nel corso degli anni è divenuta un principio
fondamentale di eguaglianza tra i due sessi, trasformando i diritti
96
Troppo spesso, tuttavia, l’applicazione del principio di parità negli
ordinamenti giuridici degli Stati membri ha incontrato la forte
opposizione del legislatore e della giurisprudenza nazionali, anche se
gli organi comunitari sono comunque riusciti ad imporne il rispetto
mediante l’emanazione di direttive e raccomandazioni, sulla cui
trasposizione all’interno degli Stati ha vigilato la Corte di Giustizia: ai
giudici di Lussemburgo, infatti, va riconosciuto il merito di aver
saputo valorizzare l’ispirazione egalitaria sottesa ai singoli enunciati
normativi sui quali sono stati chiamati a pronunciarsi. Al riguardo si
osserva che la Corte di Giustizia ha tratto implicazioni, assolutamente
innovative, dall’interpretazione del principio di eguaglianza di
retribuzione, quale prima e significativa accezione della parità,
estendendone l’ambito di applicazione ad ipotesi che il legislatore
comunitario non aveva assolutamente contemplato. Parimenti, con la
successiva elaborazione giurisprudenziale in tema di parità di
trattamento ed ancor più di tutela giurisdizionale, il principio di parità
ha trovato adeguato sostegno per divenire il fondamentale parametro
di valutazione dell’intera disciplina comunitaria del rapporto di
lavoro.
I provvedimenti normativi più recenti vanno inquadrati, per contro,
nella nuova logica del principio di eguaglianza, inteso non più soltanto
quale divieto di discriminazioni fondate sul sesso ma anche
sull’origine etnica, razza, religione, convinzioni personali, handicap,
età o tendenze sessuali.
In particolare il divieto di siffatte
discriminazioni è stato previsto dall’art. 13 del trattato di Amsterdam,
cui è stata data piena attuazione con la direttiva n. 2000/43, relativa al
principio di parità di trattamento indipendentemente dalla razza e
dall’origine etnica e con la direttiva n. 2000/78, che delinea un quadro
generale della parità di trattamento in materia di occupazione e di
condizioni di lavoro.
Le finalità perseguite da entrambe le direttive attengono, in realtà, alla
costituzione di un impianto normativo per la lotta alle discriminazioni
che, nel progetto del legislatore comunitario, è lo strumento attraverso
il quale diviene effettivo il principio di parità di trattamento. Nella
medesima ottica va inquadrata la direttiva n. 2002/73, che pone una
nuova enfasi sulla tematica delle azioni positive.
soggettivi della metà della popolazione europea. Così G. e A. LyonCaen, Droit Social International et Europèen, Dalloz, Paris, 1993 p.
310.
97
2. Il principio di parità retributiva
Come già ricordato nell’introduzione il principio di parità retributiva
tra uomo e donna nel rapporto di lavoro è stato sancito per la prima
volta nel diritto comunitario dall’art. 119 del trattato di Roma che
riconosce ai lavoratori ed alle lavoratrici che svolgano un lavoro
eguale il diritto alla medesima retribuzione. Nella sua formulazione
letterale tale norma si riferisce all’ipotesi in cui, tra le mansioni
affidate agli uni ed alle altre, sussista identità di compiti e funzioni.
Dunque possiamo trarre dall’esame del dettato normativo due rilevanti
implicazioni riguardo i criteri di computo della retribuzione: se è
prevista a tempo dovrà essere eguale a parità di posto di lavoro, se
invece è commisurata a cottimo dovrà essere calcolata sulla base delle
medesime unità di risultato.
Secondo l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia nella
sentenza Defrenne II58 la disposizione in esame persegue un duplice
scopo: economico59 , poiché assolve alla funzione di evitare che nel
mercato unico si creino situazioni di concorrenza impari tra le imprese
degli Stati membri che hanno dato attuazione al principio della parità
retributiva e quelle degli altri che non hanno ancora realizzato
l’adeguamento alla normativa comunitaria e, allo stesso tempo, sociale
in quanto espressione di quel miglioramento delle condizioni di vita e
di lavoro della manodopera previsto all’articolo 117 del trattato di
Roma.
L’articolo 119, osserva la Corte nella sentenza Defrenne III,60 non
prescrive invece la parità tra lavoratori e lavoratrici nelle altre
condizioni di lavoro diverse dalla retribuzione 61 , in quanto pone
58
Corte di Giustizia 8 Aprile 1976 Causa 43/5, in M. Roccella- G.
Civale- D. Izzi , Diritto Comunitario del Lavoro Casi e Materiali,
Milano, 1995, p. 394.
59
Le politiche salariali discriminatorie, infatti, possono favorire una
riduzione dei costi di produzione e di conseguenza il miglioramento
della competitività di un determinato prodotto sul mercato. Così S.
Renga, La giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità
Europee in materia di parità , in Quad. Dir. Lav. Rel. Ind., 1990, n. 7,
p. 139.
60
Corte di Giustizia 15 Giugno 1978 Causa 149/77 in M. Roccella-G.
Civale-D. Izzi, op. cit., p. 403.
61
Nella motivazione della sentenza si legge che i diritti fondamentali
della persona umana, tra i quali rientra anche quello a non essere
discriminati in ragione del sesso, fanno parte dei princip i generali del
diritto comunitario di cui la Corte deve garantire l’osservanza;
tuttavia, all’epoca dei fatti di causa, per i rapporti di lavoro disciplinati
dal diritto nazionale non esisteva alcuna norma comunitaria che
vietasse le discriminazioni fondat e sul sesso nelle condizioni di lavoro
98
specificamente il divieto di discriminazioni retributive in ragione del
sesso, differendo per tale motivo dagli articoli 117 e 118 che hanno un
contenuto essenzialmente programmatico: pertanto si tratta di una
norma speciale e come tale non suscettibile di essere estesa a quegli
elementi del rapporto di lavoro cui non si riferisca espressamente.
La direttiva 75/11762 estende, poi, l’ambito di applicazione del
principio di parità retributiva oltre l’originaria ipotesi del lavoro
eguale, vietando, all’articolo 1, qualsiasi discriminazione che si fondi
sul sesso in tutti gli elementi e le condizioni della retribuzione anche
per un lavoro al quale è attribuito valore eguale.
La direttiva, inoltre, impone agli Stati membri di rendere inefficaci le
norme nazionali legislative, regolamentari ed amministrative che
violino il principio di parità retributiva e di adottare le misure
necessarie affinché disposizioni discriminatorie contenute in contratti
collettivi o individuali di lavoro siano dichiarate nulle. La direttiva
sancisce, infine, l’obbligo degli Stati membri di garantire ai lavoratori
il diritto di agire in giudizio contro le discriminazioni retributive che si
fondino sul sesso, al fine di assicurare l’effettività della tutela
giurisdizionale e, nel contempo, impone agli Stati membri di
proteggere i lavoratori contro licenziamenti che costituiscano una
reazione del datore di lavoro ad una rimostranza presentata a livello
aziendale o ad un’azione giudiziaria volta all’accertamento di
eventuali disparità concernenti il trattamento retributivo.
La delicata questione interpretativa inerente alla nozione di lavoro
uguale o di valore uguale, quale termine essenziale di riferimento
dell’operatività del principio della parità retributiva, è stata poi
affrontata dai giudici di Lussemburgo in numerose sentenze.
Si richiama, a tal proposito, la sentenza Enderby63 relativa alla causa
promossa da una logopedista, dipendente del National Health Service
inglese, la quale aveva affermato che la retribuzione prevista per la
sua categoria professionale, in prevalenza costituita da donne, era
inferiore a quella riservata ai farmacisti che svolgevano, alle
dipendenze del medesimo datore di lavoro, mansioni di eguale valore.
La Corte ha statuito che, qualora sia accertata una notevole differenza
retributiva tra due funzioni di valore uguale, delle quali l’una è
esercitata esclusivamente da uomini e l’altra principalmente da donne,
differenti dalla retribuzione, cui si riferisce in modo esclusivo
l’articolo 119.
62
Direttiva del Consiglio, 10 febbraio 1975, n.75/117 in M. RoccellaG. Civale-D. Izzi, op. cit., p. 361.
63
Corte di Giustizia 27 Ottobre 1993 Causa 127/92, in Foro It., 1995,
p. 168.
99
l’articolo 119 impone al datore di lavoro di motivare il trattamento
diversificato mediante elementi obiettivi ed estranei ad una
discriminazione che si fondi sul sesso. A tal fine non costituirà valida
giustificazione il fatto che le differenti retribuzioni siano state
determinate con due accordi collettivi autonomi intercorsi tra le
medesime parti che, considerati separatamente, non hanno di per sé
alcun effetto discriminatorio. Difatti, se una tale giustificazione fosse
ammessa, il datore di lavoro potrebbe facilmente eludere il principio
di parità retributiva avvalendosi di distinti contratti collettivi per
discriminare una determinata categoria di lavoratori. Per quanto
attiene, invece, alla tematica dei sistemi di classificazione
professionale il secondo comma dell’articolo 1 della direttiva 75/117
specifica che, qualora lo strumento prescelto per determinare il livello
retributivo inerente a ciascun tipo di lavoro siano i sistemi de quo, il
parametro di ogni valutazione dovrà essere costituito da criteri comuni
ai lavoratori ed alle lavoratrici: il diritto comunitario vieta, infatti, di
classificare certe attività lavorative, cui sono preposte in prevalenza le
donne, in maniera deteriore rispetto ad altre, tipicamente maschili, che
richiedano qualifiche professionali equivalenti. Sebbene ogni Stato
membro sia libero di far dipendere la valutazione dell’equivalenza di
un determinato lavoro ad un altro dalla previa definizione di un
sistema di classificazione professionale, per contro l’adozione del
sistema de quo non potrà essere rimessa alla discrezione del datore di
lavoro. Proprio questa situazione ha determinato l’intervento della
Corte nel giudizio deciso con la sentenza del 6 luglio 198264 , giudizio
relativo ad un ricorso65 promosso dalla Commissione Europea contro
il Regno Unito per inottemperanza agli obblighi comunitari. La
Commissione, infatti, riteneva che il Regno Unito non si fosse
conformato alla direttiva che imponeva a tutti gli Stati membri di
adottare disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative per
l’attuazione del principio di parità retributiva tra lavoratori di sesso
diverso. Orbene secondo l’Equal Pay Act inglese del 1970, modificato
dal successivo Sex Discrimination Act del 1975, il sistema di
classificazione professionale era l’unico strumento disponibile per
64
Corte di Giustizia 6 Luglio 1982 Causa 61/81 in M. Roccella-G.
Civale-D. Izzi, op. cit., p. 420.
65
Si tratta del ricorso, proponibile dalla Commissione o da uno Stato
membro previa consultazione della stessa, diretto a far accertare la
violazione di norme comunitarie. Lo Stato membro contro cui è
inoltrato non potrà sottrarsi al giudizio della Corte e, se dichiarato
inadempiente, sarà obbligato ad adottare tutti i provvedimenti
derivanti dall’esecuzione della sentenza.
100
determinare l’equivalenza di un lavoro ad un altro, subordinato altresì,
quanto all’adozione, al consenso del datore di lavoro.
Ove tale consenso non fosse stato prestato, come era accaduto nel caso
in esame, era perciò stesso impedita la verifica dell’equivalenza,
divenendo di conseguenza impossibile intervenire su eventuali
discriminazioni al di fuori dell’ipotesi di identità di lavoro. Pertanto,
secondo la Corte, il Regno Unito era venuto meno agli obblighi che la
direttiva gli imponeva, omettendo di introdurre nel proprio
ordinamento giuridico quei provvedimenti normativi atti a consentire
a qualsiasi lavoratore che si ritenesse leso dalla mancata applicazione
del principio di parità retributiva di ottenere la dichiarazione
dell’equivalenza del proprio lavoro ad un altro di eguale valore, in
assenza di un sistema di classificazione professionale.
3. Le discriminazioni retributive
Nella sentenza Defrenne II i giudici di Lussemburgo hanno distinto le
discriminazioni retributive in dirette e palesi da un lato, indirette ed
occulte dall’altro. Soltanto rispetto alle prime, la Corte ha
riconosciuto, all’art. 119, l’efficacia diretta 66 , vale a dire la sua
immediata applicabilità indipendentemente da provvedimenti
d’attuazione, comunitari o nazionali. Ne consegue che il giudice
nazionale, mediante un esame meramente giuridico condotto con
l’ausilio dei due criteri indicati dall’articolo stesso cioè l’identità di
lavoro e la parità di retribuzione, potrà venire in possesso di tutti gli
elementi di fatto necessari all’accertamento dell’eventuale
discriminazione. Per le indirette, invece, l’interpretazione dell’articolo
119 non consente, comunque, di attribuire al legislatore nazionale
competenza esclusiva per la realizzazione del principio di parità
retributiva, che potrà viceversa affermarsi mediante la concorrenza di
norme nazionali e comunitarie. Le discriminazioni dirette, indica la
Corte, potranno avere origine da disposizioni legislative, da contratti
collettivi di lavoro o da una differente retribuzione corrisposta ai
lavoratori ed alle lavoratrici che svolgono lo stesso lavoro nella
medesima azienda o ufficio, pubblico o privato; in quest’ultima ipotesi
66
Si tratta dunque di una norma self-executing, cioè esattamente
determinata e perciò direttamente applicabile negli ordinamenti degli
Stati membri. Per la Corte di Giustizia, quindi, il divieto di
discriminazioni retributive in ragione del sesso vincola non solo gli
Stati membri ma anche i datori di lavoro pubblici e privati, poiché
l’articolo 119 è fonte di situazioni giuridiche attive che possono essere
fatte valere di fronte agli organi nazionali della tutela giurisdizionale.
101
decisiva sarebbe l’identità di mansioni affidate agli uni ed alle altre.
Tuttavia diverse sono le situazioni che concretamente possono
verificarsi e spesso non è agevole ricondurle a criteri puntuali. In
effetti i termini di comparazione potrebbero non presentarsi
contemporaneamente nella medesima impresa: la sentenza
Macarthys 67 descrive esattamente questa fattispecie. Qualora tali siano
i presupposti del caso concreto sarà necessario accertare l’esistenza di
un trattamento retributivo differenziato in ragione del sesso, mediante
il riferimento alla natura delle prestazioni che, in quanto criterio
meramente qualitativo, non potrà essere limitato a quelle situazioni in
cui i lavoratori e le lavoratrici svolgono contemporaneamente
mansioni eguali alle dipendenze del medesimo datore di lavoro.
A giudizio della Corte, dunque, esiste una discriminazione retributiva
diretta anche nel caso in cui sia accertato che una lavoratrice abbia
percepito una retribuzione inferiore a quella corrisposta ad un
lavoratore che abbia svolto, antecedentemente, identiche mansioni
presso lo stesso datore di lavoro.
Nella successiva sentenza Jenkins 68 , invece, l’orientamento
giurisprudenziale manifestato in precedenza subisce un significativo
mutamento: abbandonata la distinzione tra discriminazioni dirette ed
indirette i giudici di Lussemburgo riconoscono l’efficacia diretta
dell’articolo 119 rispetto a qualsiasi forma di discriminazione
retributiva. La causa in esame verte sul ricorso presentato da una
lavoratrice inglese contro un’impresa operante nel settore delle
confezioni per signora. La ricorrente, impiegata part-time, sosteneva
di aver ricevuto una retribuzione oraria inferiore a quella corrisposta ai
suoi colleghi che svolgevano il suo stesso lavoro ma a tempo pieno.
Secondo la Corte la prassi che attribuisce una differente retribuzione
oraria in funzione del numero di ore lavorative settimanali configura
un’ipotesi di discriminazione indiretta solo se, all’atto pratico, è un
mezzo indiretto, appunto, per ridurre il livello retributivo dei
lavoratori part-time in ragione del fatto che tale categoria è costituita
in prevalenza da donne. Ad ogni modo spetta al giudice nazionale
procedere ad una valutazione caso per caso, tenuto conto delle
circostanze di fatto e delle ragioni addotte dal datore di lavoro, per
decidere se una determinata prassi retributiva rappresenti in realtà una
discriminazione indiretta che si fonda sul sesso; tuttavia, ove tale
67
Corte di Giustizia 27 Marzo 1980 Causa 129/79 in M. Roccella-G.
Civale-D. Izzi, op. cit., p. 410.
68
Corte di Giustizia 31 Marzo 1981 Causa 96/80.
102
indagine risulti positiva, al caso concreto l’articolo 119 sarà
direttamente applicabile.
A partire dagli anni novanta la problematica delle discriminazioni
indirette è divenuta molto attuale. Nella sentenza Nimz69 la questione
sottoposta all’attenzione dei giudici di Lussemburgo riguarda una
disposizione di un contratto collettivo nazionale per il pubblico
impiego che, ai fini dell’accesso ad un livello retributivo superiore,
considera integralmente l’anzianità dei dipendenti che prestino
servizio almeno per i 3\4 dell’orario normale di lavoro, in prevalenza
uomini, mentre solo per metà quella degli altri il cui orario di lavoro
sia compreso tra la metà ed i 3\4 di quello normale, categoria
quest’ultima costituita in maggioranza da donne. Secondo la Corte
questa norma, in realtà, dissimula una discriminazione indiretta in
ragione del sesso, che potrebbe essere esclusa soltanto se il datore di
lavoro, onerato della prova, dimostrasse che è giustificata da altri
fattori la cui obiettività dipende dal rapporto tra la natura delle
mansioni e l’esperienza che il loro svolgimento consente di acquisire
dopo un certo numero di ore di lavoro. Il giudice nazionale,
riconosciuto il carattere indirettamente discriminatorio di una
disposizione di un contratto collettivo, sarà tenuto a disapplicarla,
senza dover richiedere o attendere che sia caducata mediante la
contrattazione collettiva o qualsiasi altro procedimento, e ad
assoggettare i lavoratori, in danno dei quali la discriminazione opera,
al regime più favorevole che viene, invece, riservato agli altri. Infatti,
tale regime, in difetto di una corretta trasposizione dell’art. 119
nell’ordinamento nazionale, resta l’unico sistema di riferimento
valido.
4. La parità di trattamento
Il principio di parità di trattamento, come già ricordato
nell’introduzione, è stato sancito per la prima volta dalla direttiva
76/207 che ne prescrive l’attuazione negli Stati membri per quanto
riguarda l’accesso al lavoro, la formazione professionale e le
condizioni di lavoro in generale. Il suo ambito di operatività riguarda,
quindi, gli aspetti più significativi del rapporto di lavoro,
dall’assunzione sino al licenziamento, e talvolta anche quelli esterni,
quali l’orientamento e la formazione professionale.
69
Corte di Giustizia 7 Febbraio 1991 Causa 184/89, in M. Roccella-G.
Civale- D. Izzi, op. cit., p. 538.
103
Più che soffermarsi sull’analisi dei singoli enunciati normativi
contenuti in tale direttiva merita di esserne approfondita
l’interpretazione resa dalla Corte di Giustizia: anche in questo caso,
infatti, il diritto comunitario vivente è tributario degli orientamenti dei
giudici di Lussemburgo. Per quanto attiene alla fattispecie
dell’accesso al lavoro, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2 e 3
primo comma della direttiva 76/207, il principio di parità di
trattamento tra lavoratori e lavoratrici vieta qualsiasi discriminazione
che si fondi direttamente o indirettamente sul sesso, specie per quanto
concerne lo stato matrimoniale o di famiglia, rispetto alle condizioni
di accesso al lavoro, compresi i criteri di selezione, in qualunque
settore si svolga l’attività lavorativa ed a tutti i livelli della gerarchia
professionale. La portata delle disposizioni normative dianzi
richiamate è stata precisata dalla Corte nella sentenza 08.11.1990,
causa n. 177/88. Per i giudici di Lussemburgo, infatti, agisce
direttamente in contrasto con tali disposizioni il datore di lavoro che
neghi l’assunzione ad una candidata, giudicata idonea alle mansioni da
svolgere, perché in stato di gravidanza, anche quando il rifiuto non sia
determinato da un intento discriminatorio ma dalla volontà di sottrarsi
agli oneri connessi all’assenza per maternità equiparata, dalla
normativa nazionale in materia di inabilità al lavoro, a quella per
malattia, che comporta la corresponsione della relativa indennità
giornaliera a suo carico. L’aspetto più rilevante della decisione,
tuttavia, va colto nella concezione di discriminazione fatta propria dal
giudice comunitario per il quale, al trattamento penalizzante riservato
ad una lavoratrice, non deve necessariamente corrispondere
l’attribuzione di un vantaggio ad un lavoratore. La Corte, in altre
parole, ha ritenuto che il diniego di assunzione motivato dalla
gravidanza può opporsi solo ad una donna e, per ciò solo, rappresenta
una discriminazione diretta in ragione del sesso che non cessa di
essere tale neppure nel caso in cui nessun candidato di sesso maschile
si sia presentato per occupare l’impiego da attribuire. I Giudici di
Lussemburgo hanno precisato che, sebbene la direttiva demandi agli
Stati membri la scelta del regime sanzionatorio più idoneo a punire la
violazione del divieto di discriminazione in essa enunciato, qualora sia
prescelta una sanzione che rientra in un regime di responsabilità
civile, l’atto discriminatorio è di per sé sufficiente a determinare la
responsabilità dell’autore, senza che possano essere invocate le
eventuali esimenti previste dal diritto nazionale.
Il rispetto del principio di parità di trattamento si impone anche in
riferimento all’atto risolutivo del rapporto di lavoro. Al riguardo, l’art.
104
5, 1° comma, della direttiva 76/207 impone agli Stati membri la
garanzia del riconoscimento dei medesimi diritti ai lavoratori ed alle
lavoratrici, senza discriminazioni che si fondino sul sesso. Sotto
quest’ultimo profilo di particolare importanza è la questione
pregiudiziale rimessa ai giudici di Lussemburgo nella Sentenza P.70 .
La causa in esame, infatti, ha ad oggetto il caso di P., dipendente
presso un pubblico istituto di insegnamento in qualità di
amministratore, che un anno dopo l’assunzione, aveva informato il
suo datore di lavoro dell’intenzione di sottoporsi ad un ciclo di
trattamenti medici e ad alcune operazioni chirurgiche per mutare la
propria identità sessuale; a distanza di alcuni mesi P. veniva licenziato
con la formale motivazione dell’esubero di personale. La Corte si è
preliminarmente rifatta alla definizione dei transessuali adottata dalla
Corte Europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale essi sono
persone che, pur presentando le caratteristiche fisiche proprie di un
sesso, hanno la sensazione di appartenere all’altro e quindi cercano di
accedere ad un’identità più coerente e meno ambigua, sottoponendosi
a cure mediche e ad interventi chirurgici allo scopo di adeguare il
corpo al loro stato psichico71 . Il collegio ha poi ricordato che la
direttiva 76/207 è espressione di uno dei principi fondamentali del
diritto comunitario, quello di eguaglianza e che il diritto a non essere
discriminato in ragione del proprio sesso è uno dei valori essenziali ed
irrinunciabili dell’individuo sulla cui osservanza la Corte è preposta a
vigilare. Di conseguenza, hanno affermato i giudici di Lussemburgo,
la sfera di applicazione della direttiva non può essere circoscritta
esclusivamente alle discriminazioni relative all’appartenenza all’uno o
all’altro sesso ma, tenuto conto del suo scopo e della natura dei diritti
che intende garantire, va estesa anche alle discriminazioni che hanno
origine, come nel caso considerato, nel mutamento di sesso.
L’adozione di siffatta soluzione si rende necessaria in quanto anche
tali discriminazioni sono basate sul sesso di chi le subisce, dal
momento che al soggetto licenziato, o più genericamente discriminato,
in conseguenza del mutamento della propria identità sessuale, è stato
riservato un trattamento deteriore rispetto alle persone del sesso al
quale era considerato appartenere prima dell’operazione chirurgica:
tollerare un comportamento discriminatorio di tal fatta equivarrebbe a
non riconoscere il rispetto della dignità e della libertà cui ogni
individuo ha diritto. Quindi, ad avviso della Corte, la fattispecie non
70
Corte di Giustizia 30 Aprile 1996 Causa 13/94, in Dir. Lav., 1997,
p. 318.
71
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 17 Ottobre 1986.
105
solo rientra nella sfera di applicazione della direttiva ma viene ad
essere tipizzata in una specifica e puntuale disposizione della stessa,
l’art. 5, che sancendo l’illegittimità del licenziamento comminato per
motivi attinenti al sesso, vieta il recesso intimato a chi abbia scelto di
modificare la propria identità sessuale originaria. La sentenza in
questione, come facilmente prevedibile, ha determinato un
ampliamento della portata oggettiva e soggettiva della direttiva tale da
consentirne l’applicazione a fattispecie prima non contemplate né
tanto meno ipotizzabili. Tuttavia il valore di questa decisione va colto
sicuramente al di là della lettura che i giudici di Lussemburgo hanno
dato alla disposizione comunitaria; l’operazione compiuta dalla Corte
non deve, infatti, essere considerata come mera interpretazione
estensiva ma viceversa come interpretazione evolutiva della normativa
comunitaria costituendo prova, per la direttiva stessa, della sua
capacità di essere estesa a tutte quelle ipotesi di discriminazioni
fondate sul sesso che il progresso e l’evoluzione delle necessità
individuali possono prospettare72 .
5. Le discriminazioni indirette
La tematica delle discriminazioni indirette, già trattata in materia di
parità retributiva, deve essere ora affrontata in relazione agli altri
aspetti del principio paritario. Il termine discriminazione indiretta è
entrato a far parte del lessico del legislatore comunitario solo a partire
dalla direttiva 76/207 che, tuttavia, ne conteneva un semplice accenno,
peraltro vago; è d’obbligo, quindi, sottolineare che si tratta di una
nozione costruita in via quasi esclusiva dalla giurisprudenza della
Corte che ha ricavato dall’esiguo materiale normativo sul quale è stata
chiamata a pronunziarsi il massimo potenziale di integrazione. Essa si
richiama implicitamente alla teoria americana del “disparate
impact”73 , in base alla quale qualsiasi prassi adottata nell’ambito del
72
Questa sentenza, oltre a confermare l’attività di creazione del diritto
che la Corte ha svolto spesso, sin dalla sua istituzione, sembra
ineluttabilmente aprire la via ad analoghe pronunce in materia di
discriminazioni fondate non sull’appartenenza ad un determinato
sesso ma sulle tendenze sessuali dei lavoratori. Essa rappresenta una
novità di non poco rilievo nel panorama giurisprudenziale comunitario
che non ha mancato di sviluppare un ampio dibattito, consentendo
riflessioni più approfondite su questa nuova tematica. Così L. Calafà
e A. Rivara, La sentenza P. :una nuova frontiera dell’uguaglianza?,
in Dir. Lav., 1996, p. 582.
18. Questa dottrina fu proposta per la prima volta dalla Corte Suprema
degli Stati Uniti nel 1971. Si fonda sulla valutazione del risultato, o
effetto di sproporzione, che una pratica di impiego solo esteriormente
egalitaria è in grado di generare per un gruppo di persone di un
106
rapporto di lavoro che, pur ispirandosi in apparenza a criteri neutri e
formalmente corretti, produca effetti pregiudizievoli nei confronti di
un gruppo di persone appartenenti ad un determinato sesso integra gli
estremi di una discriminazione indiretta 74 . Nella sentenza RuziusWilbrink75 i giudici di Lussemburgo hanno avuto modo di
pronunciarsi su questa importante problematica.
La causa in esame verte sull’interpretazione di una disposizione
legislativa olandese che, nell’ambito della disciplina generale delle
prestazioni previdenziali per inabilità al lavoro, limita l’importo di tale
beneficio, per coloro che abbiano lavorato ad orario ridotto, alla
retribuzione percepita precedentemente. Dagli atti di causa risulta,
infatti, che questa norma riconosce a tutti gli assicurati, ad eccezione
dei lavoratori part-time, il diritto ad un assegno il cui importo è pari al
minimo sociale ed è indipendente dai redditi percepiti nell’anno
precedente l’insorgere della causa dell’invalidità; tuttavia dall’esame
delle circostanze di fatto emerge che il lavoro a tempo parziale in
Olanda è svolto da una percentuale di donne molto più elevata rispetto
a quella degli uomini. La disposizione in esame quindi, ad avviso
della Corte, discrimina indirettamente le lavoratrici e la constatazione
che sarebbe ingiusto concedere loro un assegno superiore alla
retribuzione non può costituire una giustificazione obiettiva di tale
disparità di trattamento, in quanto per le altre categorie l’importo
dell’assegno è comunque superiore al reddito percepito dai beneficiari.
Successivamente, nella sentenza Roks 76 , la Corte si è pronunciata su
di un caso analogo a quello dianzi esaminato. In particolare la
questione rimessa alla Corte riguardava la disciplina del sistema
previdenziale che, per l’ipotesi di sopraggiunta incapacità lavorativa,
subordinava l’attribuzione della corrispondente prestazione ad un
requisito di reddito da lavoro percepito nell’anno precedente
all’evento causa dell’inabilità. Il requisito legale del reddito, fissato in
misura indifferenziata per le donne e per gli uomini e comunque
determinato sesso e per la quale non è necessario provare l’intento
discriminatorio, come invece avviene per le ipotesi di trattamento
differenziale.
74
Il concetto di discriminazione indiretta, quindi, si riferisce agli
effetti differenziati di un trattamento uniforme riservato sia ai
lavoratori che alle lavoratrici. Per stabilire l’esistenza di un effetto
differenziato la posizione dei soggetti deve essere considerata a livello
pratico e non viceversa teorico; v.: M. Rubenstein, Teorie sulla
discriminazione, in Quad. Dir. Lav. Rel. Ind., 1990, n. 7, p. 90.
75
Corte di Giustizia 13 Dicembre 1989 Causa 102/88.
76
Corte di Giustizia 24 Febbraio 1994 Causa 343/92, in Rac. Giur.
Corte Giust., 1994, p. 250.
107
piuttosto elevata, in realtà secondo la Corte discriminava in via
indiretta proprio le lavoratrici, in virtù dei livelli mediamente più bassi
dei loro salari. I giudici comunitari hanno negato alle ragioni di
bilancio la possibilità di assurgere a giustificazione del trattamento
penalizzante riservato alle lavoratrici giacché la loro legittimazione
comporterebbe che l’applicazione del principio di parità possa variare,
nel tempo e nello spazio, a seconda della condizione delle finanze
pubbliche negli Stati membri.
La nozione di discriminazione indiretta, unitamente a quella diretta, è
stata, da ultimo, ulteriormente precisata con le direttive nn. 2000/43 e
2000/78. Secondo la definizione adottata da entrambe le direttive
sussiste discriminazione diretta quando, in ragione di una delle
motivazioni contemplate, vale a dire sesso, razza, religione,
convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali, una persona è
trattata meno favorevolmente di un’altra in una situazione analoga;
sussiste invece discriminazione indiretta quando una disposizione, un
criterio o una prassi apparentemente “neutri” creano una situazione di
svantaggio per determinate persone in ragione delle motivazioni
indicate. Le direttive, inoltre, introducono un elemento di novità di
indiscusso rilievo, equiparando alla condotta discriminatoria sia
l’ordine di discriminare che le molestie, ampliano così il novero dei
comportamenti vietati.
Completa il quadro normativo in tema di parità la direttiva n. 2002/73,
che ha accolto il così detto “mainstreaming”, orientamento adottato
dalla Commissione europea a far data dal 1996. In base a tale dottrina
le pari opportunità sono garantite dall’integrazione orizzontale delle
politiche sociali e degli atti normativi. In particolare la direttiva de quo
indica la parità tra uomo e donna come il fine che gli Stati membri
devono perseguire nel formulare ed attuare le leggi, i regolamenti e gli
atti amministrativi dei propri ordinamenti giuridici nonché
nell’elaborare politiche di promozione con riguardo agli aspetti
essenziali del rapporto di lavoro.
In conclusione possiamo affermare che la tematica della parità
potrebbe aprirsi a nuovi scenari anche nel nostro ordinamento,
soprattutto grazie all’opera fortemente innovativa del diritto
comunitario. Speriamo che, comunque, ogni giorno venga attuato uno
sforzo da parte di tutti, ciascuno con il suo contributo personale, al
raggiungimento della parità sostanziale tra lavoratori e lavoratrici.
108
IL
MOBBING IN ITALIA TRA DOTTRINA
GIURISPRUDENZA
di M ARCO DIBITONTO
(Cultore di Diritto del Lavoro-Università di Foggia)
E
1. Il “mobbing”, definizione, soluzioni e teorie dottrinali
“Terrore psicologico sul posto di lavoro”. Uno studioso tedesco ha
così definito l’insieme delle azioni e delle pratiche, talvolta molto
sottili, volte a emarginare una persona nel proprio ambiente
lavorativo. Nessuna categoria sembra immune da questo fenomeno
che ha assunto in Italia a partire dagli anni Ottanta il nome inglese di
“mobbing”.
Che cosa sia, quali siano le ripercussioni psicologiche e materiali sugli
individui e sulle aziende, quali siano gli strumenti più idonei per
contrastarlo: sono alcune delle domande cui oggi si cerca di dare
risposta.
In Italia tutto ciò avviene in ritardo, ma una sorta di fronte antimobbing sta muovendo i suoi primi passi. Ne testimoniano alcuni
studi, associazioni77 , inchieste e proposte di legge 78 in materia.
77
Un milione e mezzo di persone, secondo le associazioni nate per
combattere il fenomeno, un milione e 200 nelle stime più prudenti di
alcuni parlamentari: in ogni caso un esercito, quello dei lavoratori
vittime del mobbing. Emarginati ingiustamente, trattati senza alcun
riguardo, costretti a non far nulla o ad occuparsi di compiti inferiori
alla propria qualifica; colpiti nella serenità, schiavi dello stress, facile
preda di malattie psicosomatiche varie.
Peraltro, ogni impiegato mobbizzato -secondo recenti studi- fa
spendere alla collettività il 190 per cento in più del suo salario lordo
annuo: la cifra comprende la sua assoluta non produttività sul lavoro,
il “prezzo” sociale e familiare della sua depressione, quello per i
farmaci, quello dell'eventuale ricorso alla magistratura (v. Convegno
sul mobbing tenutosi a Roma il 08.02.2000 alla Sala del Cenacolo,
organizzato dal centro studi Europee).
78
In Parlamento giacciono alcune proposte o disegni di legge che
prevedono degli strumenti per prevenire e combattere il fenomeno del
mobbing.
Il DDL Camera 6410 dà una nozione molto ampia di violenza e
persecuzione psicologiche, comprendenti tutti gli atti e comportamenti
che i datori e lavoratori pongono in essere nei confronti del lavoratore,
in maniera sistematica, duratura e predeterrminata, al fine di
distruggerlo psicologicamente.
Il DDL in questione stabilisce che tali atti devono tradursi in lesione
della capacità professionale, o pregiudicare l’autostima o provocare
sindrome depressiva. All’art. 2 prevede la possibilità per il
danneggiato di richiedere l’annullamento degli atti discriminatori.
109
Ma veniamo alla parola mobbing e al fenomeno che si intende
descrivere sotto il profilo sociale e giuridico con tale termine.
“Mobbing” è letteralmente quel “comportamento aggressivo messo in
atto da alcune specie di uccelli nei confronti dei propri simili”. Il
termine in questione difatti deriva dal verbo anglosassone to mob che
significa aggredire, circondare per assalire, usato nella etologia per
indicare le situazioni di minaccia e di aggressione del branco di
animali nei confronti di un membro del gruppo, al fine di ottenerne
l’allontanamento.
Negli ambienti di lavoro, si parla di “mobbing”, nei casi in cui un
soggetto sia costretto a lasciare la propria occupazione, a causa
dell’ostilità dei colleghi e della difficoltà di integrazione all’interno
della realtà aziendale.
Il cosiddetto mobbing può essere definito, quindi, come una
particolare forma di violenza psicologica che viene esercitata
nell'ambito lavorativo nei confronti della vittima dal datore di lavoro o
dai propri colleghi o superiori79 allo scopo di “eliminare” un
dipendente o un collega indesiderato, costringendolo a sbagliare per
poi licenziarlo o provocarne le dimissioni. Finalità persecutoria degli
atteggiamenti e carattere continuativo degli stessi sono le
caratteristiche che contraddistinguono il fenomeno.
Una nota definizione riassume gli elementi fondamentali del mobbing
sui luoghi di lavoro: “Una serie di azioni che si ripetono per un lungo
Un certo risalto è data all’opera di prevenzione ed informazione da
parte dei datori e i sindacati, anche di concerto tra di essi (art. 3).
Inoltre, all’art. 6, il giudice può disporre la pubblicità del
provvedimento giurisdizionale di condanna del datore, mediante
lettera agli interessati, omettendo il nome del datore medesimo.
Le altre proposte di legge sono la n° 6667 e la n° 1813 che creano il
reato di mobbing. A queste si affianca il disegno di legge, già in
discussione in Parlamento, sul danno biologico in generale. Per
concludere, è opportuno aspettare le prime risultanze applicative del
D.Lgs 23 febbraio 2000 n. 38, in materia di assicurazione contro gli
infortuni sul lavoro.
L’art. 13, infatti, definisce in via sperimentale e ai fini della tutela
assicurativa, il danno biologico “come la lesione alla integrità
psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona. Il
risarcimento è dovuto indipendentemente dalla capacità di reddito in
concreto del danneggiato”.
L’art. 13 prevede che, le menomazioni dal 6% al 16% sono
indennizzate dall’INAIL, mediante capitale, dal 16% mediante
rendita.
E’ prevista, pertanto, una franchigia per le menomazioni inferiori al
6%!
79
Il fenomeno è stato studiato per la prima volta dallo psicologo
tedesco Heinz Leymann.
110
periodo di tempo, compiute da uno o più mobber per danneggiare
qualcuno, quasi sempre in modo sistematico e con uno scopo preciso.
Il mobbizzato viene accerchiato e aggredito intenzionalmente dai
mobber, che mettono in atto strategie comportamentali volte alla sua
distruzione psicologica, sociale e professionale”80 .
A questo punto è però necessario fare chiarezza sulla terminologia
utilizzata nella sempre più ricca letteratura giuridica fiorita intorno al
mobbing.
Per la verità la maggior parte dei comportamenti che danno sostanza a
detto fenomeno (molestie, violenze fisiche, torture e pressioni
psicologiche, persecuzioni) sono sempre esistiti nel mondo del lavoro,
ma soltanto negli ultimi anni è stata analizzata in modo scientifico la
possibile ricaduta della ripetizione costante di detti atteggiamenti
sull'integrità psico-fisica delle vittime. Generalmente, accanto al
mobber (aggressore) e al mobbed (vittima), si pone la figura del
sighted mobber, ossia dello spettatore, il più delle volte un collega di
lavoro della vittima, che, con il proprio ruolo passivo, collabora
implicitamente a rendere ancora più efficace il comportamento
persecutorio posto in atto dall'aggressore.
Il mobbing può presentarsi all’interno del contesto lavorativo in forme
diverse. Solitamente se ne distinguono tre, ognuna caratterizzata da
precisi elementi identificativi:
• mobbing verticale (cosiddetto bossing, dal verbo inglese “to boss”,
ossia “spadroneggiare”): con tale espressione si fa riferimento alle
condotte mobbizzanti poste in essere dal datore di lavoro o dai
superiori gerarchici;
• mobbing orizzontale: ossia quello compiuto dai colleghi di pari
grado;
• mobbing ascendente: si tratta dei comportamenti realizzati dagli
inferiori gerarchici ai danni del proprio superiore.
Il maggior numero di casi riguarda comunque condotte mobbizzanti
poste in essere dai datori di lavoro o dai superiori gerarchici a danno
dei sottoposti per indurre gli stessi alle dimissioni oppure a errori o
intemperanze tali da giustificare un provvedimento di licenziamento.
80
Venendo alla elaborazione giurisprudenziale di tali concetti, si
ricorda che le prime esperienze di merito che si sono confrontate con
la nozione di mobbing risalgono alla fine degli anni 90 (le più citate:
Trib. Milano, 9.05.1998; Trib. Torino, 16.11.1999; Trib. Forlì,
15.05.2001; Trib. Pisa, 25.07.2001; Trib. Pisa, 3.10.2001); mentre la
prima sentenza di Cassazione che ha esaminato un caso del genere
risale al 143/2000.
111
Il mobbing, che come detto ha quale scopo ultimo quello di
“eliminare” una persona scomoda, provocandone il licenziamento o
spingendola alle dimissioni, può assumere diverse facce, che possono
dare luogo a comportamenti differenti, che a loro volta possono anche
assommarsi fra di loro. Si va dall’ostacolare le dinamiche relazionali
del lavoratore (per esempio, impedendo alla vittima di comunicare con
i colleghi di lavoro), all'isolamento (ad esempio collocando il
dipendente in una postazione di lavoro difficilmente raggiungibile
dagli altri colleghi o particolarmente disagiata, oppure rifiutando allo
stesso colloqui chiarificatori), all'attacco diretto o indiretto alla
reputazione (relativamente alle opinioni politiche, religiose ecc.) e al
modo di essere della persona (famiglia, stile di vita ecc.), fino alla
violenza fisica e psichica e alle molestie sessuali81 .
La condotta mobbizzante più diffusa consiste poi nel
demansionamento (o dequalificazione) del lavoratore (al quale, ad
esempio, possono essere assegnate mansioni del tutto inappropriate
alla propria qualifica), che viene in tal modo privato della propria
dignità professionale.
Il minimo comun denominatore delle condotte di mobbing è,
comunque, il fatto di essere specificamente dirette ad un fine
predeterminato (l'isolamento o l'espulsione della vittima dal contesto
lavorativo) e di essere caratterizzate dalla ripetizione costante nel
tempo.
2. La giurisprudenza sul mobbing e la prima sentenza italiana sul
mobbing.
Nel nostro ordinamento, come detto, non esiste una disciplina apposita
del fenomeno mobbing, che per lo più è stato definito e disciplinato
dalla giurisprudenza, di merito e di legittimità, con una serie di
pronunce che ne hanno man mano definito il concetto e l'ambito di
applicazione 82 .
81
Di contro, “l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio
dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro,
l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la
personalità morale dei prestatori di lavoro”.
82
Si vedano, tra le decisioni di legittimità più recenti: Cass., III
sezione penale, 14.02.2002, n. 6010; Cass., sez. lav., 2 gennaio 2002,
n. 10; Cass., sez. lav., 2.11.2001, n. 13580; Cass., sez. lav.,
23.10.2001, n. 13033; Cass., sez. lav., 21.02.2001, n. 2569; Cass., VI
sez. penale, 12.03.2001, n. 10090; Cass., sez. lav., 2.05.2000, n. 5491;
Cass., sez. lav., 8.01.2000, n. 143; Cass., sez. lav., 19.11.1999, n.
12903; Cass., sez. lav., 19.01.1999, n. 475. Per le decisioni di merito:
112
Il mobbing è ormai diventato di casa anche presso i tribunali italiani.
Dopo un inizio claudicante, dovuto alla difficoltà di riconoscere
l'autonomia e la rilevanza giuridica del fenomeno, la giurisprudenza
ha, infatti, individuato le basi normative cui ancorarne la disciplina.
Pur mancando attualmente una specifica normativa di riferimento,
sono ormai numerose le sentenze che hanno riconosciuto alle vittime
di condotte vessatorie sui luoghi di lavoro il diritto alla difesa della
propria dignità personale professionale e al ristoro dei pregiudizi
subiti.
Con la sentenza del Tribunale di Torino, sez. lavoro, emessa il
16.11.99, il “mobbing” ha fatto la sua entrata nella giurisprudenza
italiana del lavoro.
Il giudice torinese rilevava come all’interno delle aziende si verifichi
qualcosa di simile al singolare comportamento degli animali, “allorchè
il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in
particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette
ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, a espellerlo;
pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico
del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se
stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora perfino
suicidio”.
Il caso trattato davanti al giudice del lavoro di Torino era quello di una
signora che, dopo aver lavorato in un’azienda per qualc he mese, aveva
presentato un ricorso per chiedere il risarcimento del danno biologico
dovuto al gravissimo stato di depressione in cui era caduta a seguito
dei ripetuti maltrattamenti subiti dal capo reparto che, bestemmiando,
inveendo contro di lei, insultandola e deridendola davanti ai colleghi,
la criticava per il modo in cui lavorava. Peraltro, la signora faceva
presente come l'ambiente in cui era costretta a lavorare (di fatto un
ripostiglio) fosse mortificante, dato che la isolava completamente dai
compagni di lavoro.
La ricorrente lamentava come la conseguenza di questo stato di cose
fosse stato l’insorgere di una lunga crisi depressiva.
Nel costituirsi in giudizio, l’azienda contestava ogni addebito, in
quanto rilevava come, in ogni caso, la causa del disagio dell’ex
dipendente fosse il comportamento posto in essere dal caporeparto.
Trib. Pisa, 7.10.2001; Trib. Lecce, ordinanza 31.08.2001; Trib.
Torino, 10.08.2001; Trib. Como, 22.05.2001; Trib. Milano, 4.05.2001;
Tri. Milano, 26.04.2000; Trib. Torino, 30.12.1999 e Trib. Torino
16.11.1999.
113
Il Tribunale di Torino riteneva applicabile l’art. 2087 c.c. che pone in
capo al datore di lavoro l’obbligo di tutelare l’integrità fisica e la
personalità morale dei propri dipendenti.
La norma obbliga il datore di lavoro a predisporre all’interno
dell’azienda non solo le misure tassativamente imposte dalla legge,
ma tutte le altre misure che si rendano in concreto necessarie (cfr.:
Cass. 3738/95). Applicando questo elementare principio al caso in
esame, il giudice riteneva la responsabilità del datore di lavoro,
condannandolo al pagamento della somma di dieci milioni di lire
all’ex dipendente, determinando la cifra del risarcimento a titolo
equitativo. Non c’è dubbio che questa sentenza senza precedenti possa
estendere a dismisura il campo della responsabilità dell’imprenditore
che potrà essere chiamato a rispondere a titolo di culpa in eligendo, se
non sarà in grado di circondarsi di collaboratori competenti e corretti,
e di culpa in vigilando, nel caso in cui ometta di vigilare sui propri
dipendenti per evitare che si verifichino lesioni di un diritto soggettivo
assoluto: quello alla salute. Da questa importante sentenza, si ricava,
sotto il profilo probatorio 83 , che: la persona mobbizzata ha l’onere di
provare il nesso eziologico tra l’inadempimento delle misure ex art.
1087 c.c. e il danno biologico ( Cass. Sez. Lav. n° 5491 del 2 maggio
2000 ); essa, però, non è tenuta a provare il mobbing in quanto tale,
poiché esso costituisce un fatto notorio, che rientra “nella comune
esperienza” e può essere posto a fondamento della decisione ex art.
115 c.p.c., previa allegazione dei fatti costitutivi da parte dell’attore e
che, seguendo l’impostazione giuridica delineata dalla Corte torinese,
il datore di lavoro, al fine di essere esentato dalla responsabilità civile,
deve dimostrare ex art. 1218 c.c. che la mancata adozione delle misure
ex art. 2087 c.c. (inadempimento) è stata determinata “da impossibilità
della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.
La giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. lav., n. 12339 del 5
novembre 1999) ha ritenuto che le cause naturali sono irrilevanti
qualora sussista una causa umana, costituita cioè da un
comportamento umano illecito.
83
Il dipendente può limitarsi a dimostrare l'esistenza del nesso di
causalità fra esecuzione della prestazione lavorativa e lesioni subite.
Spetta al datore di lavoro sostenere di aver adottato tutte le
precauzioni necessarie a evitare il danno (Trib. Tempio Pausania, sez.
lav., n. 157/03).
114
3. L'azione da mobbing ha natura contrattuale
L'azione di risarcimento danni per mobbing ha natura contrattuale. È
questo il principio fissato dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione
nella sentenza del 4 maggio 2004, n. 843884 , con la quale è stato
risolto un contrasto giurisprudenziale che perdurava da diverso tempo.
La natura contrattuale di tale domanda di risarcimento discende dalla
violazione da parte del datore di lavoro di obblighi che trovano la loro
fonte direttamente nel contratto di lavoro (artt. 2087, 2103 c.c.).
Quindi, le condotte mobbizzanti sia relativamente ai rapporti di lavoro
privato sia relative a quelli di tipo pubblico costituiscono dei veri e
propri inadempimenti contrattuali.
Gli effetti fondamentali prodotti da questa decisione sono:
- l'applicazione a tutte le cause per risarcimento danni derivanti da
mobbing, della disciplina codicistica sulla responsabilità contrattuale,
con tutte le sue ulteriori conseguenze;
- l'attribuzione delle cause per condotte di mobbing di datori di lavoro
pubblici relative a periodi anteriori al 30 giugno 1998 al giudice
amministrativo, mentre, tutte quelle cause per comportamenti
mobbizzanti di datori di lavoro pubblici riguardanti periodi successivi
alla predetta data spettano alla giurisdizione del giudice ordinario. Ma
veniamo alla situazione concreta.
Il caso di specie era quello di un lavoratore dipendente di un istituto
pubblico, il quale riteneva di aver subito comportamenti vessatori
prima dal direttore generale dell'Istituto, dal direttore amministrativo e
dai consiglieri di amministrazione dell'ente (mobbing verticale) e,
successivamente, anche dai membri dell'ente stesso (mobbing
orizzontale). Presentati degli esposti, la situazione si aggravava per il
fatto che veniva privato delle sue funzioni. Il dipendente sosteneva
quindi che, in conseguenza di tale situazione, era stato colpito da
disturbi psicofisici, accusando una sindrome psiconeurosica ansioso
depressiva.
Il lavoratore affermava, dunque, di essere stato vittima di un'attività di
mobbing, che si era concretizzata nella violazione degli artt. 2087 e
2103 cod. civ., da cui era seguita una menomazione psicofisica, con
conseguente responsabilità del datore di lavoro per danno alla capacità
lavorativa, danno biologico, danno morale ed esistenziale. Chiedeva il
84
V. M. Dibitonto, L’azione da mobbin g ha natura contrattuale, in
Lav. Oggi, ed. Class Professionale, n. 21, 20/05/2004 p. 36-39 ed in
www.lavoroprevidenza.com, sezione lavoro, rivista giuridicotelematica sul diritto del lavoro, della previdenza ed assistenza sociale,
fondata e diretta dal dott. M. Dibitonto (Studio legale Avv.ti Dibitonto
-Foggia-).
115
risarcimento di tali danni e la condanna dell'ente alla reintegrazione
nel posto di lavoro spettante. Il Tribunale adito, con una decisione non
definitiva, dichiarava la propria giurisdizione. Questa statuizione non
veniva condivisa dall'ente, il quale proponeva appello sostenendo il
contrario.
A seguito del gravame, proposto dall'ente convenuto in primo grado,
la Corte di appello dichiarava il proprio difetto di giurisdizione. Ad
avviso del giudice dell'appello, con la domanda giudiziale esperita
erano stati fatti valere diritti derivanti da responsabilità contrattuale
del datore di lavoro, nell'ambito di un rapporto di lavoro alle
dipendenze di pubblica amministrazione, per fatti lesivi riferibili a
periodo antecedente al 30 giugno 1998. Di conseguenza, la
controversia rientrava nella giurisdizione esclusiva dei giudice
amministrativo. Contro la sentenza, il dipendente pubblico proponeva
ricorso per cassazione essenzialmente per motivi di giurisdizione, ai
sensi dell'art. 360 punto 1) del c.p.c., sostenendo la giurisdizione
dell'autorità giudiziaria ordinaria in luogo della affermata
giurisdizione amministrativa.
La Cassazione decideva la questione di giurisdizione sollevata
statuendo che la controversia in esame rientrava nell'ambito della
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, trattandosi di una
causa avente ad oggetto comportamenti mobbizzanti, qualificati come
illeciti contrattuali, che si riferivano a periodi precedenti al 30 giugno
1998, data a partire dalla quale il legislatore con decreto legislativo
80/98 aveva devoluto al giudice ordinario, in funzione di giudice del
lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro con la
pubblica amministrazione. A questa decisione i supremi giudici
pervenivano dopo aver considerato ed analizzato la domanda
giudiziale dell'attore, il quale faceva riferimento a comportamenti
illeciti denunciati consistenti in demansionamento, in assegnazione di
un posto di lavoro in locale angusto, scarsamente illuminato e
insalubre, in privazione dell'alloggio prima concessogli a titolo
gratuito nell'ambito della struttura dell'Istituto, in un ingiusto
comportamento che gli aveva impedito di godere di periodi di riposo
ed anche di accedere alla relativa documentazione personale.
Ciò posto e considerato che ´la giurisdizione si determina sulla base
della domanda, ai fini del riparto tra giudice ordinario e
amministrativo' la Corte giungeva all'attribuzione della causa
esaminata al giudice amministrativo, data la natura contrattuale
dell'azione di risarcimento danni per mobbing. Difatti, la tutela
invocata atteneva a diritti soggettivi derivanti direttamente dal
116
medesimo rapporto, lesi da comportamenti che rappresentavano
l'esercizio di tipici poteri datoriali, in violazione non solo del principio
di protezione delle condizioni di lavoro, ma anche della tutela della
professionalità prevista dall'art. 2103 c.c. (in relazione alla quale si
chiede il ripristino della precedente posizione di lavoro e della
corrispondente qualifica).
Il ricorso principale era quindi respinto e veniva dichiarata la
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Nella sentenza esaminata si legge che il mobbing ´può essere
generalmente riferito ad ogni ipotesi di pratiche vessatorie, poste in
essere da uno o più soggetti diversi per danneggiare in modo
sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro' e che tali
comportamenti altro non sono che violazioni di specifici obblighi
contrattuali derivanti dal rapporto di lavoro, rappresentando dei tipici
atti di esercizio del potere datoriale posti in essere in violazione del
principio di protezione delle condizioni di lavoro oltre che della tutela
della professionalità prevista dall'articolo 2103 c.c.
Nel caso di specie relativo ad un rapporto di impiego pubblico, il
demansionamento, l'isolamento e le altre vessazioni trovano, secondo
gli ermellini, un referente normativo nella disciplina del rapporto. Di
qui la facoltà del risarcimento per la violazione degli obblighi che ne
derivano.
In particola re, la Corte riteneva che le condotte mobbizzanti
costituissero violazione degli artt. 2087 e 2103 c.c.
Infatti, l'art. 2087 c.c. statuisce che “l'imprenditore è tenuto ad adottare
nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del
lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità
fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Qualsiasi
condotta che non rispetta il principio di protezione delle condizioni di
lavoro è un inadempimento contrattuale, come era avvenuto nel caso
di specie.
D'altro canto, l'art. 2103 c.c. stabilisce che “il prestatore di lavoro deve
essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle
corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente
acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente
svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. (...) Egli non può
essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per
comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto
contrario è nullo”. Il demansionamento (art. 2103 c.c.) può
pregiudicare la personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.),
proprio perché ne mina l'immagine e la stessa autostima, e ciò spiega
117
perché le due norme possono essere anche invocate insieme contro il
mobbing.
Il datore di lavoro privato o pubblico che viola gli obblighi contenuti
nelle disposizioni di legge citate commette un illecito contrattuale. Ad
essere lesi sono diritti soggettivi del prestatore di lavoro derivanti
direttamente dal medesimo rapporto mediante comportamenti che
rappresentano l'esercizio di tipici poteri datoriale.
A conferma di quanto detto, si legge nella sentenza delle S.u., “si
tratta pertanto di atti di gestione dei rapporti di lavoro che,
indipendentemente da una concreta correlazione con un disegno di
persecuzione reiterata, trovano un diretto referente normativo nella
disciplina della regolamentazione del rapporto e ricevono da questa la
loro sanzione di illiceità. La fattispecie di responsabilità va così
ricondotta alla violazione degli obblighi contrattuali stabiliti da tali
norme, indipendentemente dalla natura dei danni subiti dei quali si
chiede il ristoro e dai riflessi su situazioni soggettive (quale il diritto
alla salute) che trovano la loro tutela specifica nell'ambito dei rapporto
obbligatorio”.
La pronunzia delle Sezioni unite, con la quale è stata sancita la natura
contrattuale di qualsiasi azione di risarcimento dei danni derivanti da
mobbing, produce determinati effetti giuridici.
Va anzitutto detto che, dalla decisione della Corte, deriva la
necessaria, d'ora in poi, applicazione dell'integrale disciplina
codicistica sulla responsabilità contrattuale. Ciò, a sua volta, comporta
varie conseguenze e cioè che:
- il lavoratore-attore si deve limitare a provare il mobbing e il danno
prodotto, in quanto la responsabilità del datore di lavoro è presunta:
ciò sta a significare che incombe sul lavoratore che lamenti di aver
subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, il
solo onere di provare l'esistenza di tale danno come pure del rapporto
di causalità fra le condotte cosiddette mobbizzanti commissive e/o
omissive tenute dal datore di lavoro in occasione e nel corso
dell'espletamento della prestazione di lavoro ed il danno predetto.
Peraltro, una volta dimostrata la sussistenza dell'inadempimento degli
obblighi ex artt. 2087 e 2103 c.c., non occorre, a norma dell'art. 1218
c.c., che il lavoratore dimostri, come invece accade nella
responsabilità aquiliana, anche la sussistenza della colpa del datore di
lavoro inadempiente. Difatti, grava sul datore di lavoro-convenuto
l'onere di provare che l'evento dannoso dipenda da un fatto a lui non
imputabile;
118
- la prescrizione della domanda giudiziale per risarcimento danni è
ordinaria e, dunque, di dieci anni ed, infine,
- sono risarcibili i danni prevedibili e non quelli imprevedibili tranne il
caso in cui sussiste il dolo.
Nel caso in cui, invece, i giudici avessero ritenuto extracontrattuale la
responsabilità del datore di lavoro privato o pubblico per aver tenuto
comportamenti commissivi e/o omissivi mobbizzanti, il danneggiato
lavoratore avrebbe dovuto provare il fatto e la colpevolezza; sarebbero
stati risarcibili anche i danni imprevedibili e l'azione si sarebbe potuta
proporre solo e non oltre cinque anni dalla verificazione delle condotte
mobbizzanti, cosiddette prescrizione breve.
Sempre in ordine agli effetti giuridici della sentenza esaminata, va
sottolineato che il contenuto della pronuncia delle S.u. va a interessare
soprattutto il rapporto di pubblico impiego o, meglio, le controversie
di mobbing nel pubblico impiego.
Difatti, il principio è stato pronunciato dalla Corte di cassazione a
Sezioni unite proprio in una controversia relativa ad un rapporto di
lavoro pubblico dove la scelta tra la natura contrattuale o
extracontrattuale del risarcimento del danno da mobbing ha estrema
rilevanza ai fini della determinazione del giudice che ha giurisdizione
per la cognizione della causa.
Trattandosi di azione contrattuale, la cognizione della domanda di
risarcimento del danno rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, sempreché la controversia abbia per oggetto una
questione relativa a un periodo antecedente al 30 giugno 1998, cioè
prima della data a partire dalla quale il D.Lgs. 80/98 ha devoluto al
giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le
controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze della
pubblica amministrazione. Se, invece, la controversia tra datore di
lavoro pubblico e lavoratore concerne comportamenti commissivi e/o
omissivi mobbizzanti relativi a periodi successivi alla predetta data,
essa rientrerà nella giurisdizione del giudice ordinario.
Di contro, qualora fosse stata attribuita natura extracontrattuale
all'azione in parola, la giurisdizione sarebbe stata del giudice ordinario
per le controversie su condotte di mobbing relative a qualsiasi periodo.
Dopo anni di contrasto giurisprudenziale circa la natura contrattuale o
extracontrattuale del risarcimento del danno da mobbing, la Corte di
cassazione, quindi, condivide l'orientamento di quella parte di
giurisprudenza che sostiene che il danno da mobbing abbia natura
contrattuale.
119
Quanto, poi, alla determinazione del momento in cui tali eventi lesivi
devono considerarsi verificati, la sentenza, ricordando un precedente
del 2000 precisa che se la lesione del diritto del lavoratore è prodotta
da un atto (con natura di provvedimento o negoziale) deve farsi
riferimento al momento della sua emanazione; altrimenti, se la pretesa
deriva da un comportamento illecito permanente del datore di lavoro,
si deve fare riferimento al momento di realizzazione del fatto dannoso.
A tal fine, a dire della Corte, ciò che rileva nel mobbing ´non è il
danno, ma il rapporto eziologico tra questo e il comportamento contra
ius dell'agente' indipendentemente dal fatto che tali comportamenti o i
loro effetti si protraggano nel tempo.
3.1. Mobbing, il risarcimento diventa privilegiato
Il credito da mobbing diventa privilegiato85 . Più specificamente, il
lavoratore dipendente al quale sia stato riconosciuto, con decisione
giudiziale, un credito per demansionamento può farlo valere nei
confronti del datore di lavoro come credito privilegiato e non più
come credito chirografario. Questo è l'effetto della sentenza n. 113 del
2004 pronunciata dalla Corte costituzionale.
Le somme dovute a titolo di risarcimento dei danni per
demansionamento subito a causa dell'illegittimo comportamento del
datore di lavoro rientrano dunque, d'ora in poi, tra i crediti muniti del
privilegio generale sui mobili.
Con la sentenza n. 113 del 2004, infatti, la Consulta ha dichiarato
l'illegittimità costituzionale dell'art. 2751-bis, num. 1), c.c., nella parte
in cui non munisce del privilegio generale sui mobili il credito del
lavoratore subordinato per danni da demansionamento subiti a causa
dell'illegittimo comportamento del datore di lavoro.
Con questa decisione, la Corte ha così allargato l'elenco dei crediti
privilegiati di cui all'art. 2751-bis c.c., aggiungendo, per l'appunto, il
credito maturato in capo al lavoratore dipendente a seguito del
riconoscimento del demansionamento da lui subito.
Si tratta, da un punto di vista tecnico-giuridico, di una sentenza
additiva della Corte costituzionale, in quanto la Consulta trovandosi di
fronte a una norma di legge che non è incostituzionale per quel
85
V.: M. Dibitonto, Mobbing, il risarcimento diventa privilegiato, in
Lav. Oggi, ed. Class Professionale, n. 17 del 22/04/2004, p. 41 e ss. ed
in www.lavoroprevidenza.com, sezione lavoro, rivista giuridicotelematica sul diritto del lavoro, della previdenza ed assistenza sociale,
fondata e diretta dal dott. M. Dibitonto (Studio legale Avv.ti Dibitonto
-Foggia-).
120
statuisce, ma per quel che omette di prevedere, dichiara
l'incostituzionalità della legge nella parte in cui non prevede ciò che
avrebbe dovuto stabilire e così ne estende la portata. Ma
consideriamo, a questo punto, la fattispecie.
Un lavoratore dipendente otteneva una sentenza che riconosceva il
demansionamento subito e il diritto conseguenziale di percepire
determinate somme di danaro a titolo di risarcimento danni nei
confronti del proprio datore di lavoro, in seguito fallito.
Nel decreto di esecutività dello stato passivo del fallimento della
società datrice di lavoro il credito per danno da demansionamento
veniva ammesso come credito di rango chirografario.
Il lavoratore, dunque, presentava opposizione davanti al Trib. Ferrara
proprio avverso tale statuizione del decreto, ritenendo che il predetto
credito dovesse essere riconosciuto come credito avente natura
privilegiata.
In tale procedimento di opposizione al decreto di esecutività dello
stato passivo, il Tribunale di Ferrara, con ordinanza, sollevava
questione di illegittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della
Costituzione, dell'art. 2751-bis, num. 1, cod. civ., “nella parte in cui
non munisce di privilegio generale sui mobili il credito del lavoratore
subordinato per danni da demansionamento subiti a causa
dell'illegittimo comportamento del datore di lavoro”. La questione di
illegittimità costituzionale veniva ritenuta dal giudice a quo (Trib.
Ferrara), oltreché non manifestamente infondata per il motivo di cui
detto, anche rilevante dato che ciò su cui si controverteva in via
esclusiva era proprio la graduazione del credito del ricorrente che il
giudice delegato aveva ritenuto di rango chirografario.
Entrando nel merito della questione, secondo il giudice a quo v’era
una oggettiva difficoltà di far rientrare nell'elencazione dei crediti
privilegiati di cui all'art. 2751-bis c.c. il credito del lavoratore
subordinato per danni da demansionamento subiti a causa
dell'illegittimo comportamento del datore di lavoro, neanche se si
fosse adottata una interpretazione estensiva dell'articolo in oggetto, dal
momento che si tratta di un elenco di ipotesi di privilegio specifiche e
tassative ex lege.
A sostegno di tale tesi, difatti, veniva affermato dal giudice a quo che
“tale credito, infatti, non solo non è assimilabile alla retribuzione (non
essendo corrispettivo di una prestazione contrattualmente prevista) o
al trattamento di fine rapporto, ma non è certamente neppure
affiancabile ai crediti per danni subiti per effetto della mancata
121
corresponsione dei contributi obbligatori, di licenziamento inefficace,
nullo o annullabile o di infortunio sul lavoro”.
A ciò si aggiunga che “il credito stesso, d'altra parte, non può
nemmeno essere inserito in via analogica nell'ambito della norma
impugnata, dal momento che le norme sui privilegi non sono
suscettibili di tale integrazione, essendo derogatorie rispetto al
principio generale della par condicio creditorum di cui all'art. 2740 c.
c.”.
Ciò posto, secondo il Trib. Ferrara, l'esclusione dal novero dei crediti
privilegiati comporta “una disparità di trattamento ingiustificata”,
essendo i privilegi accordati “in considerazione della causa del
credito” (art. 2745 c.c.). Se, infatti, si comparano, è questo
l'argomento giuridico del giudice a quo, le cause dei crediti privilegiati
si giunge ad una chiara considerazione e, cioè, che “sussisterebbe” una
sostanziale equivalenza tra la funzione sociale dei crediti gia inclusi
nell'art. 2751-bis, numero 1, cod. civ., tutti accomunati dalla
derivazione da comportamenti illeciti del datore di lavoro incidenti
sulla sfera personale e sui bisogni primari del lavoratore subordinato,
e, in particolare, tra quella del credito per danni da licenziamento
illegittimo e la funzione del credito risarcitorio diretto ad annullare gli
effetti del demansionamento del lavoratore subordinato.
Dunque, la comunanza di funzione sociale dei crediti privilegiati ex
art. 2751-bis e il credito da mobbing costituirebbe, per il Tribunale di
Ferrara, il giusto motivo per il quale inserire il credito per
demansionamento tra i crediti privilegiati.
Il giudice a quo richiedeva alla Corte costituzionale, quindi, un
intervento di tipo additivo ritenendo che non sarebbe in contrasto
comunque con il ´doveroso rispetto delle scelte economico-politiche
riservate alla sfera di discrezionalità del legislatore, in quanto esso
avrebbe avuto “la finalità di dare più completa attuazione al
fondamentale principio di uguaglianza nella materia dei privilegi”.
La Corte costituzionale, al termine di una lunga e articolata
motivazione,
perveniva
alla
dichiarazione
di
illegittimità
costituzionale dell'art. 2751-bis, numero 1, del codice civile, nella
parte in cui non munisce del privilegio generale sui mobili il credito
del lavoratore subordinato per danni da demansionamento subiti a
causa dell'illegittimo comportamento del datore di lavoro.
• In primo luogo, la Consulta chiariva che essa più volte si è trovata a
decidere in materia di illegittimità costituzionale delle norme che
attribuiscono privilegi ed, in particolare, “sotto il profilo della mancata
inclusione di alcuni crediti nella categoria privilegiata”.
122
• Pur fermo il principio secondo il quale spetta al legislatore ed
esclusivamente a costui attribuire la natura privilegiata ai crediti e pur
fermo il dato che la regola è la par condicio creditorum e che le cause
di prelazione sono solo derogatorie di tale regola e, quindi, la scelta di
queste spetta solo all'autorità legislativa, la Consulta riteneva che un
suo intervento, come quelli fatti in passato, va ritenuto ammissibile.
La Corte, difatti, affermava la possibilità di intervenire nella materia
dei crediti privilegiati in termini additivi solo ed esclusivamente
qualora si fosse riscontrata l'omogeneità funzionale di un credito non
privilegiato ed uno dei crediti di rango privilegiato fissati ex lege.
• La Consulta condivideva la tesi del Trib. Ferrara secondo cui l'art.
2751-bis num. 1) è illegittimo costituzionalmente, alla luce dell'art. 3
Cost., “in quanto, munendo del privilegio i suindicati crediti risarcitori
del lavoratore nei confronti del datore per violazione di doveri
nascenti a carico di quest'ultimo dal rapporto di lavoro, non include il
credito di risarcimento dei danni da demansionamento, benché tale
credito abbia natura e fonte analoghe a quelle di alcuni dei crediti
muniti del privilegio già nel testo dell'art. 2751-bis, come introdotto
dall'art. 2 della L 29 luglio 1975, n. 426, ed a quelle dei crediti oggetto
degli interventi di questa Corte”.
• Peraltro, secondo la Corte, l'art. 2103 c.c., nel testo sostituito dall'art.
13 della L. 20 maggio 1970, n. 300, stabilisce nella prima parte del
primo comma che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle
mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla
categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a
mansioni
equivalenti
alle
ultime
effettivamente
svolte.
“Nell'elaborazione dei giudici ordinari”, continuava la Consulta, “è
incontroverso che dalla violazione da parte del datore dell'obbligo di
adibire il lavoratore alle mansioni cui ha diritto possono derivare a
quest'ultimo danni di vario genere: danni a quel complesso di capacità
e di attitudini che viene definito con il termine professionalità, con
conseguente compromissione delle aspettative di miglioramenti
all'interno o all'esterno dell'azienda; danni alla persona ed alla sua
dignità, particolarmente gravi nell'ipotesi, non di scuola, in cui la
mancata adibizione del lavoratore alle mansioni cui ha diritto si
concretizza nella mancanza di qualsiasi prestazione, sicché egli riceve
la retribuzione senza fornire alcun corrispettivo; danni alla salute
psichica e fisica. L'attribuzione al lavoratore di mansioni inferiori a
quelle a lui spettanti o il mancato affidamento di qualsiasi mansione,
situazioni in cui si risolve la violazione dell'art. 2103 c.c. (c.d.
demansionamento), può comportare pertanto, come nelle ipotesi
123
esaminate dalle sentenze n. 326 del 1983 e n. 220 del 2002, anche la
violazione dell'art. 2087 c.c.”. Si giungeva, dunque, alla conclusione
secondo la quale tra il credito oggetto del giudizio a quo e quelli già
muniti del privilegio in questione sussiste l'omogeneità richiesta per
ritenere che la mancata inclusione del primo nel novero dei crediti
muniti del privilegio generale sui mobili costituisca violazione
dell'articolo 3 della Costituzione. Riscontrata tale omogeneità, la
Consulta non esitava a dichiarare illegittimo costituzionalmente parte
dell'art. 2751-bis facendo rientrare di conseguenza tra i crediti
privilegiati il credito da mobbing.
3.2. La responsabilità civile del datore di lavoro
E’ questo l'ambito quantitativamente e qualitativamente più
interessante, in quanto le condotte di mobbing vengono realizzate per
lo più dal datore di lavoro per mettere alle strette i dipendenti
´indesiderati' (cosiddetto mobbing verticale o bossing) 86 .
Generalmente la giurisprudenza fa riferimento all'art. 2087 c.c. che,
pur essendo stato tradizionalmente letto e interpretato nell'ambito della
normativa antinfortunistica, negli ultimi anni è stato eletto a baluardo
della salute fisica e psichica dei lavoratori, secondo una lettura
costituzionalmente orientata. L'art. 2087 c.c., interpretato nell'ottica
del più generale dovere di correttezza e buona fede contrattuale di cui
agli artt. 1175 e 1375 c.c., rappresenta quindi una vera e propria
norma di chiusura per il sistema di protezione e tutela dei lavoratori.
Come si può evincere dagli articoli appena citati, la responsabilità del
datore di lavoro per l'integrità psico-fisica del lavoratore è
essenzialmente di matrice contrattuale, in quanto legata
all'adempimento delle prestazioni cui l'imprenditore è tenuto nei
confronti dei propri dipendenti sulla base del contratto di lavoro. La
giurisprudenza è ormai orientata in tale direzione, anche se non sono
mancati interventi in senso contrario, che propendono per la
concorrenza tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
In base agli obblighi derivanti dalla legge e dal contratto, il datore di
lavoro è tenuto a non agire volontariamente contro il dipendente allo
scopo di arrecargli pregiudizio (mobbing verticale) ed è obbligato,
altresì, a vigilare affinché a quest'ultimo non venga arrecato danno
86
V. G. Di Rago, Mobbing, tutela ampia nelle aule giudiziarie, in
Lav. Oggi, ed. Class Professionale, n. 11, 11/03/2004, p. 11.
124
durante l'espletamento della prestazione lavorativa (mobbing
orizzontale).
Infatti l'art. 2087 c.c. è chiaro nello stabilire che il datore di lavoro è
tenuto ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica
e psichica dei propri dipendenti (anche nei confronti di eventuali
atteggiamenti tenuti dai colleghi di lavoro). D'altra parte l'art. 2049
c.c. addossa al datore di lavoro la responsabilità per i danni arrecati a
terzi (e, quindi, anche ai propri dipendenti) dal fatto illecito dei propri
sottoposti. In casi del genere la responsabilità dell'imprenditore è di
tipo omissivo (anche se nella maggior parte dei casi di c.d. mobbing
orizzontale è possibile riscontrare un tacito accordo tra datore di
lavoro e colleghi della vittima, che spesso svolgono il ruolo di sighted
mobber), ovvero per culpa in eligendo o in vigilando, per la scelta e il
comportamento sul lavoro dei propri dipendenti.
A proposito dei comportamenti mobbizzanti realizzati attraverso il
demansionamento e la dequalificazione professionale del lavoratore
non può non farsi riferimento all’art. 2103 c.c., norma che impone al
datore di lavoro di adibire i dipendenti alle mansioni per le quali gli
stessi sono stati assunti, sancendo la nullità di ogni patto contrario.
3.3. La responsabilità civile dei colleghi di lavoro
Diversamente, la responsabilità civile dei dipendenti per le condotte di
mobbing realizzate ai danni dei colleghi (con o senza l'accordo del
datore di lavoro o del superiore gerarchico) è di natura squisitamente
extracontrattuale , in quanto il rapporto tra di essi avviene al di fuori di
qualsiasi impegno contrattuale diretto. Questi ultimi, infatti, pur
essendo contrattualmente tenuti a mantenere sul posto di lavoro un
comportamento reciprocamente rispettoso, del cui inadempimento
risponderanno soltanto nei confronti del datore di lavoro, non sono
legati da alcun vincolo contrattuale diretto con gli altri dipendenti, nei
confronti dei quali risponderanno ex art. 2043 c.c. per eventuali
illeciti. La responsabilità extracontrattuale dei dipendenti potrà poi
concorrere con quella di natura contrattuale del datore di lavoro.
3.4. La responsabilità penale
Datore di lavoro e colleghi condividono invece lo stesso regime di
responsabilità dal punto di vista penale.
Le condotte di mobbing, infatti, possono dare luogo anche alla
commissione di fattispecie di reato, qualora ne ricorrano i presupposti
125
di legge. Si va dalle ingiurie e la diffamazione (a questo proposito la
Suprema corte ha più volte ribadito che “la subordinazione gerarchica
del lavoratore non implica l'obbligo di prestare attività lavorativa in
una condizione di disprezzo per tale attività e per la persona che la
svolge, né comporta l'obbligo di subire ingiurie”) alle minacce e alle
percosse, fino alle lesioni personali e alla violenza sessuale (si veda la
relativa tabella).
3.5. Il danno risarcibile e conclusioni
La realizzazione di un comportamento mobbizzante, dal punto di vista
civilistico, espone l'autore all'obbligo di risarcire le conseguenze
dannose subite dalla vittima. Accanto al risarcimento dei danni
patrimoniali (incidenti sulla capacità di guadagno o di lavoro del
dipendente), la giurisprudenza ha dato ampio spazio anche al danno
esistenziale (o alla vita di relazione), nonché al danno biologico. Per
danno esistenziale si intende l'insieme delle ripercussioni di tipo
relazionale che contrassegnano in negativo l'esistenza della vittima
della condotta illecita, tanto da costringere la stessa a rinunciare a
specifiche realizzazioni della propria personalità.
In caso di mobbing, l'onere probatorio che grava sul lavoratore è
limitato alla prova del nesso di causalità tra l'evento dannoso e
l'esecuzione della prestazione lavorativa. Spetta poi al datore di lavoro
dimostrare di avere adottato tutte le precauzioni necessarie a
proteggere l'integrità psico-fisica del dipendente. In caso di
responsabilità extracontrattuale, tuttavia, come anticipato, sarà il
lavoratore a dover provare la condotta dei colleghi (o del datore di
lavoro) che ha determinato il danno, oltre al nesso causale e alla
colpevolezza dell'agente.
Da ultimo l'Inail, sulla base del D.Lgs. n. 38/2000, che ha previsto
l'indennizzabilità del danno biologico, ha esteso la tutela assicurativa
alle malattie psichiche da stress lavorativo, ivi comprese quelle
derivanti da comportamenti di mobbing. Con la recente circolare n. 71
del 17/12/03, l'Istituto per l'assicurazione infortuni sul lavoro ha poi
individuato con precisione l'ambito oggettivo di applicazione e ha
dettato istruzioni per la gestione delle rela tive pratiche.
In conclusione, va ribadito ancora una volta che, a fronte di una
problematica come il mobbing così forte, preoccupante, incidente e
penetrante nei più svariati settori della vita sociale, v’è d’altra parte
uno scenario normativo debole ed incompleto.
126
Ebbene, la contrapposizione tra la “forza” che la problematica del
mobbing manifesta nel tessuto socio-lavorativo (col suo evidente
svilupparsi) e la sua”debolezza” giuridica (che si traduce in
un’indefinita collocazione e identità), rendono indispensabile e, quasi
un passo obbligato, che si giunga, sollecitamente, a sistemare questo
delicato fenomeno giuridico di natura sociale all’interno di una
normativa efficace, funzionale e rapida, garantendo la risoluzione
certa che merita.
I PROFILI PENALI DEL MOBBING
127
di CARLO LONGOBARDO
(Ricercatore-Università di Salerno)
1. Necessità di un inquadramento del fenomeno.
Il mobbing, lungi dall’essere un evento transitorio, legato a
determinate situazioni politico-istituzionali, rappresenta una realtà
endemica e di lunga durata. Peraltro, l’attenzione interdisciplinare che
ruota attorno a questo fenomeno dimostra che esso affonda le sue
radici nei contesti storico-culturali di riferimento rivelando, così,
anche il maggiore o minore stato di avanzamento della convivenza
civile di una collettività. È necessario, tuttavia, prima di procedere alle
considerazioni che seguiranno circa i profili penali del mobbing, darne
una definizione. Con l’espressione “Mobbing”, generalmente, si
intende una successione di fatti e comportamenti posti in essere dal
datore di lavoro con intento emulativo ed al solo scopo di recare
danno al lavoratore, rendendone penosa la prestazione, condotto con
frequenza ripetitiva e in un determinato arco temporale
sufficientemente apprezzabile e valutabile 87 . Lo stesso termine,
mutuato dall’inglese to mob (attaccare, assalire), “origina da due
significati diversi: un primo significato mediato dall’etologia, il quale
si riferisce al comportamento di alcune specie animali, solite
circondare minacciosamente un membro del gruppo per allontanarlo;
un secondo significato riconducibile all’espressione latina mobile
vulgus, riferito all’assalto della gentaglia d’ufficio nei confronti del
collega ultimo arrivato, o di quello più capace ed ambizioso della
media”88 .
Le prime teorizzazioni, dovute agli studiosi svedesi, ed in particolar
modo a Heinz Leymann89 , hanno avuto ripercussioni in molti Paesi, ed
hanno permesso una catalogazione, seppur generale, dei
comportamenti che possono qualificare il fenomeno del mobbing.
87
Così Trib. Milano, 30.09.2002, in Orient. Giur. Lav., 2002, n. 3, p.
532 ss., in part. 533.
88
Sul punto cfr. Monateri, Bona, Oliva, Mobbing. Vessazioni sul
lavoro, Milano, 2000, p. 6; Boscati, Mobbing e tutela del lavoratore:
alla ricerca di una fattispecie vietata , in Dir. Rel. Ind., 2001, p. 285
ss., in part. p. 285; Soprani, La sindrome da mobbing, in http://
promo.24oreprofessioni. ilsole24ore.com/ ambientesicurezza/
archivio/142000/ articolo1sicurezza.htm.
89
Sul punto, L. Leymann, Mobbing. Psychoterror am Arbeitplatz und
wie man sich dagegen wehren kann, Reinbek, Rowohlt, 1993; Id., Der
neue Mobbing-Bericht, Reinbek, Rowohlt, 1995; H. Ege, Mobbing,
Bologna, 1996.
128
Con riferimento ai soggetti che pongono in essere le condotte
mobbizzanti (cd. mobbers) può parlarsi di mobbing verticale o bossing
e di mobbing orizzontale. Nel primo caso il mobber è il datore di
lavoro o, comunque, un soggetto sovraordinato del mobbizzato; nel
secondo caso, le pratiche vessatorie sono tenute da colleghi pari grado
della vittima. Si conosce, infine, anche la pratica del mobbing
verticale da sott’ordinato a sovraordinato. Infine, non vanno
dimenticate le condotte dei cosiddetti side mobber, cioè quei soggetti,
colleghi, superiori, addetti all’amministrazione del personale, non
direttamente responsabili e autori di condotte persecutorie e
discriminatorie, delle quali, peraltro, pur essendone a conoscenza, essi
rimangono spettatori silenziosi90 .
E’ evidente che le definizioni ora riportate descrivono un fenomeno
persecutorio grave, molto sentito e diffuso, che ha originato
preoccupazioni finanche in sede europea. Nel 2001, infatti, il
Parlamento europeo ha approvato una risoluzione 91 che – tenendo
conto di sondaggi che ritengono coinvolti nel fenomeno del mobbing
circa dodici milioni di cittadini europei – auspica una armonizzazione
delle discipline dei singoli ordinamenti, attesa la diversità oggi
esistente. Nel nostro Paese, a fronte di molti progetti di legge
presentati in sede parlamentare92 , andava segnalata la normativa
regionale del Lazio 93 – recentemente dichiarata incostituzionale 94 –
90
Così V. Matto, Il mobbing fra danno alla persona e lesione del
patrimonio professionale, in Dir. Rel. Ind., 1999, p. 491 ss., in part. p.
491.
91
La risoluzione è stata assunta il 20 settembre 2001 – A5-0283/2001.
(2001/2339(INI)) – in tema di mobbing. È reperibile sul sito
http://www.pegacity.it/giustice/impegno/risoluzione_ue.html.
92
Un primo tentativo in questa direzione è stato compiuto con il
disegno di legge Cicu, (d.d.l. n. AC1813) del 9 luglio 1996. Un
secondo esperimento diretto a disciplinare penalmente il mobbing è
stato effettuato dalla proposta Fiori -rubricata “disposizioni per la
tutela della persona da violenze morali e persecuzioni psicologiche”presentata il 5 gennaio 2000 (d.d.l. n. 6667). Anche il disegno di legge
d’iniziativa dei senatori Eufemi, Borea, Iervolino e Sodano, rubricato
“Norme generali contro la violenza psicologica nei luoghi di lavoro”
contiene una fattispecie penale che intende combattere il fenomeno del
mobbing. Per una visione complessiva di tali proposte, sia consentito
il rinvio a C. Longobardo, Mobbing e diritto penale: un binomio
idissolubile?, in Aa.Vv., Mobbing, stress e diritti violati, Napoli,
2003, p. 185 ss., in part. p. 188 ss.
93
Ci riferiamo alla Legge regionale del Lazio, 11 luglio 2002, n. 16,
recante «Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del
“mobbing” nei luoghi di lavoro».
94
Sul punto cfr. Corte cost., sent. n. 359 del 19 dicembre 2003. Per un
commento cfr. M. Oricchio, Il mobbing entra nella giurisprudenza
costituzionale,
in
http://
dirittolavoro.altervista.
Org
129
che aveva, all’art. 2, co. 1, L. n. 16/2002, definito il mobbing come
“atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo,
posti in essere nei confronti di lavoratori dipendenti, pubblici o privati,
da parte del datore di lavoro o da soggetti posti in posizione
sovraordinata ovvero da altri colleghi, e che si caratterizzano come
una vera e propria forma di persecuzione psicologica o di violenza
morale”. Nel secondo comma dello stesso articolo, si precisavano i
contenuti di questi atti che si concretizzavano in condotte che
potevano essere più o meno genericamente definite, come, ad
esempio, “critiche immotivate ed atteggiamenti ostili” (art.2. co. 2 lett.
e)), ovvero riecheggiare alcune fattispecie di reato, come minacce,
ingiurie e maltrattamenti (art. 2, co. 2, lett. a), b), c), d) f), m))95 .
Va anche citata una bozza di legge elaborata dalla Commissione per
l’analisi e lo studio sulle politiche di gestione delle risorse umane e
sulle cause e le conseguenze dei comportamenti vessatori nei
confronti dei lavoratori nell’ambito della pubblica amministrazione,
che prende in particolare considerazione la violenza morale o psichica
in occasione di lavoro, anche con riferimento alle attività di
prevenzione e di riscontro delle patologie legate al fenomeno in
esame 96 .
Alla luce di questo brevissimo quadro introduttivo, ci sembra possibile
ravvisare un tratto comune alle varie interpretazioni del termine
mobbing nella necessità dell’esistenza di un legame tra una serie di
atti tendenti a respingere il lavoratore dal contesto lavorativo.
È questo il motivo per cui può dirsi che il mobbing non si identifica,
ad esempio, con il fatto ingiusto del demansionamento o del
trasferimento o con le molestie sessuali e personali. Semmai, vicende
di tal genere costituiscono espressione di mobbing se e a condizione
che sia possibile trovare in esse un filo conduttore unitario, segnato
dalla volontà perversa di estromissione dal contesto socioprofessionale. “Perciò può ragionevolmente affermarsi che
l’orientamento teleologico degli «atti perturbanti» si traduce da tratto
funzionale in elemento strutturale e dunque in criterio di
/incostituzionale_ mobbing_ lazio. html; NUNIN R., La Consulta
boccia la legge anti mobbing della Regione Lazio (Nota a C. Cost.,
19.12.2003, n. 359), in Lav. Giur., 2004, p. 358 ss.
95
La lett. b) dell’art. 2, co. 2, della legge regionale faceva riferimento
a “calunnie sistematiche”; tuttavia sembrava che il termine non
presentasse un carattere giuridico-penale, ex art. 368 c.p., ma gergale.
96
Commissione Piccione, incaricata dall’allora Ministro per la
Funzione Pubblica Frattini. Il testo è disponibile su
http.//www.pegacity.it.justice/impegno/mobbing_bozza_piccione.html.
130
individuazione della stessa fattispecie, che è tale non già in virtù della
mera coesistenza di più «atti perturbanti» ma a motivo della loro
coerente finalizzazione verso uno scopo riprovevole consistente nel
«nuocere o recare molestia ad altri» (…) ovvero, e in definitiva, nella
frantumazione della identità personale e professionale della vittima”97 .
Così, la portata mass-mediale dell’evento può spingere il legislatore a
travalicare i limiti di una corretta politica del diritto imposta dai
principi generali dell’ordinamento e riversare, come troppo spesso è
accaduto, anche la risoluzione di tale problema sul diritto penale. Ma,
proprio sotto questo profilo, la stessa giurisprudenza di legittimità ha
espresso una condivisibile opinione, sentenziando che “il fatto che il
mobbing sia stato oggetto di attenzioni sociologiche ed anche
televisive non lo rende insensibile alle regole che vigono in campo
giuridico allorquando ad esso si vogliono collegare conseguenze in
termini di risarcimento del danno98 ”: ciò vale, aggiungiamo noi, anche
e soprattutto nel campo del diritto penale.
Invero, il problema dell’eventuale controllo penale del mobbing
presenta molte difficoltà. E sicuramente questo è uno dei motivi per
cui non è stata ancora definita una fattispecie penale di mobbing,
anche se i tentativi di positivizzare il fenomeno sono stati numerosi99 ,
ma per adesso, nessuno ha ancora trovato l’avallo parlamentare.
2. Il mobbing nella giurisprudenza penale.
Non essendoci una fattispecie penale ad hoc, le norme che vengono
utilizzate quando si presuppone la presenza di un caso di mobbing
sono – oltre quelle, per così dire, ‘classiche’ previste in tema di delitti
contro l’onore e la persona – i delitti di violenza privata, ex art. 610
c.p. e di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, ai sensi dell’art.
572 c.p100 .
97
Così Viscomi, Il mobbing: alcune questioni su fattispecie ed effetti,
in Lav. Dir., 2002, p. 45 ss., in part. p. 53.
98
Così Trib. Milano, 20.05.2000, in Orient. Giur. Lav., 2000, p. 958.
Va segnalata, inoltre, la sentenza del Trib. Milano, 22.08.2002, in
Orient. Giur. Lav., n. 3, 2002, p. 536 ss., per l’ampia panoramica delle
posizioni dottrinali (anche – e soprattutto – di studiosi di scienze
sociali non giuridiche) e giurisprudenziali elaborate in tema di
mobbing.
99
Sul punto, cfr. supra, nota 6.
100
Si è configurata anche l’applicabilità dell’art. 629 c.p., almeno per
quanto concerne la fattispecie conosciuta in giurisprudenza come
«estorsione contrattuale». Sul punto cfr. Cass., II pen., 25.10.1999, n.
12444, reperibile in Jurisdata, n. 1/2001.
131
Invero, l’applicabilità dell’art. 610 c.p. non è nuova per il diritto del
lavoro: basti pensare che sono state considerate ‘violente’ “le
punizioni umilianti, i turni di lavoro continui ed insopportabili, i
divieti di riposo finalizzati all’obbedienza all’interno di
un’associazione a sfondo religioso” 101 .
Ma un caso emblematico di applicazione della fattispecie di violenza
privata correlato al mobbing resta quello della Palazzina Laf dell’Ilva
di Taranto, su cui ha sentenziato il Tribunale penale di Taranto102 . Il
trasferimento in questa ormai famosa Palazzina Laf, indecorosa e
fatiscente, era diventata lo spauracchio con cui i dirigenti
minacciavano i lavoratori al fine di impedire a questi ultimi di far
valere i propri diritti, come, per esempio, proseguire in una causa di
lavoro o rifiutare una novazione peggiorativa del contratto di lavoro.
Le vessazioni legate al trasferimento erano anche congiunte ad
ulteriori umiliazioni e deterioramenti della situazione personale e
lavorativa del dipendente, laddove all’ambiente indecoroso si
sommava l’assoluta mancanza di qualsiasi mansione con inevitabili
peggioramenti delle stesse capacità professionali dei dipendenti stessi.
Com’è evidente, è la stessa struttura del delitto di violenza privata che
si presta ad essere utilizzato in situazioni come quella ora descritta.
Invece, la compatibilità dell’art. 572 c.p. con le condotte del datore di
lavoro, consistenti in ripetute e sistematiche violenze fisiche e morali,
è stata recentemente decisa dalla VI sezione penale della Corte di
Cassazione – 12 marzo 2001 n. 10090.
L’applicabilità della norma al caso in esame fa leva sull’assunto che la
punibilità del comportamento si fonda soltanto su di un rapporto
continuativo dipendente da cause diverse da quella familiare. Così, la
Suprema Corte ha ritenuto che “non v’è dubbio che il rapporto
intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore
subordinato, essendo caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare
che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore
dipendente, pone quest’ultimo nella condizione, specificamente
prevista dalla norma penale testé richiamata, di persona sottoposta alla
sua autorità, il che, sussistendo gli altri elementi previsti dalla legge,
101
Sul punto cfr. A. Viscomi, Il mobbing: alcune questio ni su
fattispecie ed effetti, op. cit., p. 58.
102
Trib. Taranto, sez. pen. II, 7.03.2002 (ud. 12 dicembre 2001), in
www.pegacity.it/justice/impegno/sentenza_mobbing_palazzina_laf.pd
f.
132
permette di configurare a carico del datore di lavoro il reato di
maltrattamenti in danno del lavoratore dipendente”103 .
Invero, mentre il codice Zanardelli poneva la norma tra i delitti contro
la persona 104 , il codice Rocco ha ritenuto di collocarla tra i delitti
contro la famiglia, e, in particolare, in quelli contro l’assistenza
familiare. Alla luce di questa diversa sistemazione, si pone,
indubbiamente, un profilo problematico inerente il rapporto tra la
figura dei maltrattamenti ed il bene giuridico di riferimento: la
famiglia. Per quanto ci si voglia sforzare di ricomprendere l’ambiente
lavorativo in un ambito più o meno simile a quello familiare, sorgono
dei dubbi circa la legittimità dell’applicazione della fattispecie in
esame a situazioni conformi a quelle oggetto della decisione della
Suprema corte. Ed infatti, una interpretazione fedele alla stessa
collocazione della norma 105 , fa prevalere l’interesse alla tutela della
famiglia e dei rapporti familiari; in particolar modo, non può ignorarsi
la stessa intitolazione del capo IV, “Dei delitti contro l’assistenza
familiare”, che pone l’accento su quegli obblighi che soltanto una
“società naturale” -per usare le stesse parole della Costituzione, ex art.
29- con quelle caratteristiche può richiedere. Gli stessi obblighi di
assistenza reciproca tra i coniugi e, più in generale, di sostegno ai vari
componenti della famiglia, nonché quelli più penetranti di mantenere
istruire ed educare la prole, disegnano una oggettività giuridica di
questa ‘piccola società’ tale da meritare, in certi casi, la tutela
sussidiaria del diritto penale. Non va dimenticato, d’altro canto, che
anche sotto il diverso profilo della eccezionalità delle norme penali di
favore, la famiglia ed i rapporti familiari occupano un posto di rilievo
che ne esaltano le peculiarità. Basti pensare, ad esempio, a norme
come l’art. 384 c.p., in tema di delitti contro l’amministrazione della
giustizia, gli artt. 307 e 418 c.p., in tema di assistenza agli associati, o
103
La sentenza è riportata in Orient. Giur. Lav., 2002, n. 1, p. 195 ss.,
in part. p. 197.
104
Nel codice Zanardelli, la fattispecie era prevista nel titolo IX, “Dei
delitti contro la persona”, capo VI, “Dell’abuso dei mezzi di
correzione o di disciplina e dei maltrattamenti in famiglia o verso
fanciulli”, artt. 390-393. Va segnalato che l’abuso su di una persona
sottoposta “per … l’esercizio di una professione o di un’arte”, era
prevista nell’art. 390 che parlava soltanto di abuso dei mezzi di
correzione o di disciplina, mentre per i maltrattamenti, ex art. 391, ci
si riferiva soltanto alle “persone della famiglia o verso un fanciullo
minore dei dodici anni”. Strano che nel codice Rocco, allo
spostamento dei delitti de qua in quelli contro la famiglia sia
corrisposto l’ampliamento dei soggetti passivi.
105
Sul punto, cfr. G. D. Pisapia, Maltrattamenti in famiglia o verso
fanciulli, in Noviss. Dig. It., op. cit., p. 73.
133
all’art. 649 c.p., in tema di patrimonio, laddove la non punibilità si
fonda proprio sulla specificità dell’assetto familiare. In altri termini, il
bene giuridico e la particolare collocazione sistematica della norma, le
esigenze di sussidiarietà e di frammentarietà dell’intervento penale,
dovrebbero far propendere per una interpretazione più restrittiva
dell’art. 572 c.p., nella parte in cui il riferimento è ad “una persona
sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata (…) per l’esercizio di una
professione o di un’arte”.
Va segnalato, però, che la dottrina, facendo leva sulla tutela della
personalità dei soggetti passivi, concernente anche soggetti diversi da
quelli compresi nei rapporti familiari, propende per una certa
autonomia del rapporto di autorità, che trovi origine in un formale
rapporto giuridico, di diritto pubblico o privato, come il contratto di
tirocinio, i rapporti di assistenza, di prestazione d’opera che danno
luogo ad una relazione continua ed intima 106 . In altre parole, questa
lettura legittima un intervento penale anche fuori dell’ambito familiare
laddove il rapporto di autorità si presenta tanto pregnante da
consentire pochi margini di reazione al soggetto passivo. La durata del
rapporto consente, quindi, una relazione tra i soggetti tale da
giustificare una continuazione di condotte pregiudizievoli nel tempo,
fino a potere configurare il delitto di maltrattamenti.
Ma, anche volendo estendere l’art 572 c.p. a questi particolari tipi di
rapporto di lavoro, si deve porre nel debito risalto il dato che, con
riferimento al fenomeno del mobbing, la norma potrebbe coprire
soltanto quel tipo di maltrattamenti chiamato bossing, di tipo verticale,
non trovando tutela il c.d. mobbing orizzontale, perpetrato da colleghi
pari grado, o quello posto in essere da subordinati (anche se
quest’ultima, continua a sembrare un’ipotesi alquanto scolastica).
Invero, potrebbe configurarsi una tutela penale di queste ultime due
ipotesi laddove il mobbizzato denunci al datore – od al sovraordinato
direttamente competente – i fatti oggetto di mobbing e quest’ultimo
non si attivi. Ed infatti, la sentenza 107 prima citata, ha ravvisato un
comportamento omissivo penalmente rilevante – ai sensi dell’art. 40
cpv. c.p. e 610 c.p. – in capo al titolare dell’impresa, per avere
costretto i lavoratori ad aumentare l’impegno oltre il tollerabile,
avvalendosi del clima di intimidazione creato dai suoi capigruppo ed
omettendo di reprimere i loro eccessi.
106
Sul punto cfr. F. Coppi, Maltrattamenti, in Enc. Dir., op. cit., p.
245.
107
Cass., VI sez. pen., 1203.2001, n. 10090, in Orient. Giur. Lav.,
2002, p. 196-197.
134
3. Opportunità di una criminalizzazione del mobbing?
Nelle pagine precedenti si è cercato di offrire un quadro, seppur
sintetico, dei vari aspetti che coinvolgono il diritto penale nel tentativo
di fronteggiare il mobbing. Si impone, a questo punto dell’analisi, un
interrogativo circa la necessità e l’opportunità di una ‘penalizzazione’
del fenomeno in esame.
Possiamo guardare a varie soluzioni: una tutela penale limitata al
bossing; una fattispecie – da creare – che tuteli da tutte le
manifestazioni di mobbing; ovvero la rinuncia ad una tutela penale
diretta.
Preliminarmente, va osservato che l’indubbio incremento da parte dei
governi della legislazione penale, rispetto ad altri tipi di illecito, è
legata al “basso prezzo” dell’incriminazione penale 108 , al «reprimere
in apparenza anziché prevenire in termini di politica generale,
aumentando le aspettative dello stesso controllo sociale da parte della
magistratura»109 . La convenienza politica di questo comportamento
può ritrovarsi, da un lato nel simbolismo efficientista legato alle
incriminazioni, dall’altro lato nel risparmio di spesa derivante dal
mancato adeguamento delle strutture della pubblica amministrazione
che, attraverso i suoi controlli, avrebbe dovuto contestare le infrazioni
ed irrogare le sanzioni.
Invero, si tratta di trovare un punto che rappresenti la felic e sintesi tra
necessità emergenti e quelle del modello classico di intervento penale.
La soluzione, tuttavia, non deve sacrificare alle esigenze di celerità
della risposta sanzionatoria -spesso dettate solo dal contingente e dalla
ricerca di consenso politico- quelle istanze tipiche del diritto penale
classico – legalità, materialità, offensività 110 , sussidiarietà,
108
Per una descrizione del fenomeno con riferimento alla legislazione
emergenziale confronta la preziosa analisi di S. Moccia, La perenne
emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, Napoli, 1997, 2a
ed., passim.
109
Sul punto cfr. M. Donini, La riforma della legislazione penale
complementare: il suo significato «costituente» per la riforma del
codice, in Aa.Vv., La riforma della legislazione penale
complementare. Studi di diritto comparato , a cura di M. Donini,
Padova, 2000, p. 4 ss., p. 7.
110
Il connotato dell’indiscutibile dannosità sociale costituisce la
condizione indispensabile, perché, da un lato, la generalità dei
consociati possa approvare la criminalizzazione di un fatto e, d’altro
canto, il singolo possa legittimamente, nonché, eventualmente, con
proficuità essere avviato al recupero sociale: l’azione di
risocializzazione o l’effetto di non-desocializzazione, richiede,
135
frammentarietà, funzione di integrazione sociale della pena –, ma essa
dovrà fondarsi su questi principi ed utilizzare strumenti compatibili
con essi. Ad esempio, il pericoloso, negativo, asservimento della
penalità sostanziale al processo, a ben vedere, si ritrova proprio in
questo mancato sinolo.
Peraltro, non vanno dimenticati i rischi di scivolamento verso un
diritto penale sanzionatorio 111 , che vanifica, senza dubbio, il criterio
dell’autonomia, secondo il quale la risposta penale deve costituire, in
tutti i sensi, il contenuto principale del provvedimento legislativo e
non, come spesso avviene, solo una linea secondaria di ripiegamento
rispetto alla disciplina giuridica di materie non penali ed alle forme
specifiche di responsabilità delle parti interessate che da essa
normalmente derivano112 .
Le istanze dogmatiche, coniugate con le esigenze politico-criminali,
hanno portato al riconoscimento di un sistema penale
teleologicamente orientato, inteso quale espressione di una più
generale necessità di conformare quest’ultimo ai principi di uno stato
sociale di diritto costituzionalmente orientato.
In particolare, ai fini della costruzione di una eventuale fattispecie di
mobbing, risulta essere fondamentale il rispetto delle istanze politicocriminali che si traducono nei principi di determinatezza e tassatività.
Abbiamo già segnalato il mancato rispetto di tali principi nei progetti
di legge finora presentati, ma, anche volendo optare per una
costruzione, cara alla dottrina d’oltralpe, in termini di reati
d’obbligo113 , non avremo una appagabile soluzione dei problemi
innanzitutto, che il soggetto percepisca con chiarezza l’antisocialità
del proprio comportamento, ovvero l’offesa significativa ad un bene
giuridico meritevole di tutela penale»: così, Moccia, Dalla tutela di
beni alla tutela di funzioni: tra illusioni postmoderne e riflussi
illiberali, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1995, p. 343 e 344. Sul punto cfr.,
altresì, Cavaliere, Riflessioni sul ruolo dell’offensività nella teoria del
reato costituzionalmente orientata , in Aa.Vv., Costituzione, diritto e
processo penale, a cura di Giostra-Insolera, Milano, 1998, p. 133 s.
111
Sul punto cfr. ancora, per tutti, F. Grispigni, Diritto penale italiano,
Milano, 1947, 2a ed., vol. I, p. 232 ss.
112
In proposito cfr. A. Baratta, Principi del diritto penale minimo. Per
una teoria dei diritti umani come oggetti e limiti della legge penale, in
Aa.Vv., Il diritto penale minimo. La questione criminale tra
riduzionismo e abolizionismo, a cura di A. Baratta, fascicolo speciale
della rivista Dei delitti e delle pene, 1985, n. 3, p. 443 ss., in part. p.
452.
113
Sul punto cfr. Roxin, Kriminalpolitik und Strafrechtssystem (1970),
trad. it. a cura di S. Moccia, Politica crimin ale e sistema del diritto
penale. Saggi di teoria del reato , Napoli 1998, p. 53, dove si precisa
che nel reato d’obbligo “se questi doveri sono determinati, le istanze
136
fintantoché gli obblighi dei soggetti e le violazioni dei diritti non
saranno sufficientemente descritti in ambito extrapenale. Infatti, in
questa sede non si tratta di sanzionare soltanto alcune violazioni in
materia lavoristica e previdenziale, ma un comportamento che tende –
attraverso le più disparate modalità più o meno penalmente rilevanti –
ad estromettere un soggetto dal mondo del lavoro.
Invero, sebbene si riuscisse ad ottenere un risultato rispettoso del il
principio di legalità, resterebbe ancora tutto da dimostrare l’ossequio
ai canoni della sussidiarietà e della frammentarietà. L’intervento
penale, in armonia con il principio di extrema ratio, rappresenta, a
nostro avviso, anche una prova di validità circa l’effettività della
risposta sanzionatoria in rapporto alle garanzie fondamentali che
vengono sacrificate per la salvaguardia di un dato bene giuridico114 .
A sua volta, il bene giuridico, in quanto situazione piena di valore115 ,
decide delle modalità di aggressione -a forma libera o vincolatasecondo l’importanza che riveste nella scala di valori costituzionali. Il
nostro assetto costituzionale, privilegiando i diritti dell’uomo -in
primis la vita e l’integrità fisica e psicologica- ha condiviso la scelta
codicistica, che prevede, per la loro tutela, fattispecie a forma libera ed
anche, com’è noto, le corrispondenti figure colpose. Questa attenzione
verso i beni della persona, e la scelta della tutela più ampia possibile,
rivestono enorme importanza anche sotto il profilo della dottrina del
fatto tipico. Il bene giuridico, infatti, svolge una funzione essenziale
nell’interpretazione delle fattispecie, concorrendo a definirne i confini
ed a distinguerla da altre fattispecie e dalla serie infinita dei fatti
penalmente irrilevanti116 . In altri termini, la tipicità, soprattutto nella
sua citata funzione politico-criminale, implica una “logica
concretizzatrice” dei beni protetti, tale da conseguire l’obiettivo di
limitare la protezione penalistica a beni “capaci di tutela e di offesa, e
in grado al contempo di tradurre l’offesa in autentici elementi, che
del principio del nullum crimen sono completamente soddisfatte da un
rinvio che sostituisce la descrizione dell’azione”.
114
Sul punto cfr. Angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene
giuridico, Milano 1983, p. 16 ss.
115
A tale proposito pregnante è l'affermazione di Roxin , per il quale
beni giuridici sarebbero delle situazioni piene di valore in cui si
concretizzano i presupposti indispensabili della convivenza di un
gruppo di uomini in un dato momento storico e sociale. Sul punto cfr.
anche S. Moccia, Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni: tra
illusioni postmoderne e riflussi illiberali, op. cit., p. 353 ss.; E. Musco,
Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano 1983, p. 110.
116
Sul punto cfr. C. Fiore, Diritto penale. Parte generale, Torino,
1993, vol. I, p. 156.
137
consentano al bene giuridico di adempiere veramente alla sua funzione
limitatrice del fatto, riducendone gli arbitri ricostruttivi” 117 . In questo
modo, il ruolo dommatico della tipicità, nell’arricchirsi di compiti
politico-criminali, oltre ad individuare specifiche forme di offesa ai
beni
giuridici,
incorpora
“verificabili
tipologie
empiricocriminologiche di forme di offesa, a oggetti capaci di essere offesi, e
in grado di apporre al fatto un serio limite garantistico” 118 . Quando le
tipologie empirico-criminologiche non sono verificabili, le norme non
possono che andare incontro a censure di costituzionalità, come è
avvenuto purtroppo per il solo delitto di plagio 119 .
Così, con riferimento all’oggetto del nostro studio, l’aggressione
all’integrità della persona, eventualmente causata dalle condotte di
mobbing, può trovare, a nostro avviso, ampia tutela nelle fattispecie
esistenti. Invece, eventuali valutazioni empirico-criminologiche,
compiute in tema di violenza psicologica sul luogo di lavoro, non
sembrano essere tanto determinabili da potersi tradurre in una
fattispecie penale che soddisfi i suesposti requisiti della tipicità.
Tuttavia, la definitiva dimostrazione della pericolosità e della inutilità
di fattispecie atipiche si trova in tema di funzione della pena. A ben
vedere, sotto quest’ultimo profilo -in particolare per quello che
concerne l’aspetto della prevenzione generale positiva, in termini di
orientamento culturale dei consociati quale espressione dei valori di
fondo della coesistenza sociale -, un risultato può essere ottenuto solo
se il destinatario delle norme è in grado di conoscere e comprendere il
contenuto e le ragioni del divieto. Intorno a norme poco chiare non
sarebbe, infatti, possibile “ottenere un’aggregazione di consensi, alla
stessa maniera in cui, lo stesso effetto di intimidazione non risulta
conseguibile, se la minaccia della sanzione penale non è connessa al
divieto di una condotta facilmente individuabile. Le stesse
considerazioni valgono, infine, anche sul piano individuale: è palese,
infatti, come soltanto la chiara riconoscibilità del precetto -ma anche
della relativa sanzione- possa far percepire al reo la norma penale
117
Così G. Marinucci, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e
politico-criminali, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1983, p. 1221 (corsivo
dell’A.).
118
Ancora G. Marinucci, Fatto e scriminanti. Note dommatiche e
politico-criminali, op. cit., p. 1226.
119
Sul punto cfr. S. Moccia, La ‘promessa non mantenuta’. Ruolo e
prospettive del principio di determinatezza/tassatività nel sistema
penale italiano, Napoli, 2001.
138
come regola di condotta violata, rendendo, in tal modo, accettabile
l’intervento punitivo statuale”120 .
È alla luce di queste considerazioni che deve decidersi della legittimità
di un diretto intervento penale nella materia in esame. Il bossing -che
rappresenta il lato più odioso del mobbing anche per la facilità con cui
un superiore può maltrattare senza rischi un subordinato- può
raggiungere più facilmente quella soglia di offesa che giustifica una
sanzione penale. Ma il rapporto con i principi sopra menzionati -in
particolare quelli di sussidiarietà e di frammentarietà- potrebbe
suggerire di accontentarsi della tutela penale offerta dalle fattispecie
esistenti. In altri termini, laddove si raggiunge una soglia di offesa
fisica e/o psicologica tale da sconfinare nei tanti delitti che già si
occupano di salvaguardare i beni della vita e dell’integrità
fisiopsichica di un individuo si attiverà la risposta penale. Lo stesso
risultato può raggiungersi in merito al fenomeno del mobbing
orizzontale. Rispetto a quest’ultima manifestazione forse sarà più
difficile arrivare alla tutela penale tenuto conto della possibilità del
lavoratore di difendersi più facilmente e con minore rischio rispetto ad
un pari grado. Ed infatti, in questo ambito potrebbe pensarsi come
sufficiente una tutela extrapenale, di tipo risarcitorio civile, che magari
contempli un licenziamento per giusta causa del mobber, oltre che
quella penale, legata, eventualmente, a singole manifestazioni
criminose.
120
Così S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore, op. cit., p. 124.
Una puntuale ricostruzione in tema di incompatibilità dello schema
della norma penale in bianco in un contesto sistematico che privilegi
l’integrazione sociale come funzione della pena è proposta da Maiello,
Dommatica e politica criminale nelle interpretazioni in tema di
riserva di legge: a proposito di un’ipotesi di depenalizzazione
«giurisprudenziale», in Arch. Pen., 1988, p. 381 ss.
139
IL MOBBING E LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: I C.D.
CODICI ANTI-MOBBING
di ROCCHINA STAIANO
(dottore di ricerca-Università di Salerno)
1. Premessa
Il problema del mobbing, anche se non si conosce la reale entità 121 , è
presente nel rapporto di lavoro privato e, di recente, è approdato nel
Pubblico Impiego “privatizzato”. Tale situazione si è estesa in
quest’ultimo settore (P.I. privatizzato), a causa dell’innesto massiccio
di logiche e di modelli privatistici nell’organizzazione e nell’operato
dell’Amministrazione pubblica122 , avvenuto con il D. Lgs. 30 marzo
2001 n. 165 (T.U. in materia di Pubblico Impiego), che ingloba il D.
Lgs. n. 29/1993 ed alcuni decreti legislativi attuativi delle Leggi
Bassanini123 . Tale processo di revisione, ha generato nella P.A.
condotte vessatorie in alcuni suoi settori: nella Sanità, con particolare
riferimento ai rapporti esistenti tra personale medico e paramedico ed
alle nomine dei primari dei reparti124 ; nelle autonomie locali, nei
confronti dei segretari provinciali e comunali125 ; nelle Scuole, per
121
In Italia, il Rapporto ILO del 1998 ha stimato che i lavoratori
vittime del mobbing sono il 4,2%. Ma tale valutazione non tiene conto
che molti giovani neo-assunti o avviati al lavoro con forme flessibili
(ad esempio: part-time, contratto di formazione e lavoro, contratto a
termine, ecc…), spinti dal bisogno di lavorare, sono “ben disposti” a
tollerare i piccoli e i grandi soprusi nei luoghi di lavoro. Anche i dati
provenienti da ciascun Stato membro dell’Europa sull’incidenza del
fenomeno mobbing, presentano visibili variazioni e ciò è dovuto al
fatto che alcuni Stati sono poco sensibili verso il mobbing.
122
L’Amministrazione Pubblica è orientata, alla luce delle leggi di
riforma, ad una maggiore flessibilità dei ruoli ed ai principi di
efficienza, efficacia ed economicità; cfr. R. Staiano, Il mobbing e la
P.A.: uno sguardo alle iniziative legislative ed ai CCNL, a cura di (I.
De Asmundis), Mobbing: un attacco alla dignità di chi lavora , ESI,
Napoli, 2004.
123
D. Lgs. nn. 396/1998, 80/1998 e 387/1998.
124
Art. 26 del D. Lgs. 165/2001.
125
La disciplina relativa al segretario comunale e provinciale è stata
modificata dal D.P.R. 465/1997 e dal D. Lgs. 267/2000 (T.U.
sull’ordinamento degli enti locali), la quale non lo considera più come
“dipendente dello Stato”, ma come “supporto giuridico
amministrativo”, in quanto esso viene scelto, tra coloro che sono in
possesso dei requisiti professionali più idonei all’attività dell’ente, dal
Sindaco e dal Presidente della Provincia; cfr. A. P. Baccarini,
Questioni giuridiche in materia di disponibilità e mobilità dei
140
quanto attiene ai professori ed ai bidelli126 ; e gli esempi potrebbero
continuare.
In Italia, il vuoto legislativo in materia di mobbing ha favorito
l’attività di prevenzione attraverso non solo l’intervento del sindacato
di prevedere nei CCNL e CCI misure disciplinari o norme di
comportamento127 , ma anche l’adozione di codici di condotta, di
regolamenti e/o codici etici, vale a dire i c.d. codici anti-mobbing. Dal
2000 ad oggi, nell’ambito della P.A., si è assistito ad una
proliferazione di codici anti-mobbing, il cui obiettivo vuol essere
quello, appunto, di prevenire qualsiasi forma di violenza morale e
persecuzione psicologica e, nel caso in cui esse si verifichino, si
garantisce la tempestiva individuazione di procedure adeguate per
affrontare il problema.
Risulta, quindi, a mio avviso, molto interessante fare un’analisi, nei
successivi paragrafi, sia pure sommariamente, di alcuni codici antimobbing, in quanto ciò ci permette di avere un’idea delle direzioni e
dei fini ispiratori cui si indirizzano.
2. Codice di condotta dell’USL 10 di Firenze.
L’USL 10 di Firenze, su proposta dei Comitati Pari Opportunità, ha
adottato il codice di condotta per la prevenzione delle molestie morali
nei luoghi di lavoro128 . Con tale codice, l’azienda di Firenze vuole
migliorare il clima relazionale nell’ambiente di lavoro tra tutti gli
operatori che lavorano all’interno della struttura. Per questo, l’azienda
ritiene necessario, per il raggiungimento degli obiettivi aziendali,
prevenire l’instaurarsi ed il consolidarsi di quei comportamenti che
ledono le fondamentali regole del rispetto e della collaborazione fra le
persone e, per il benessere dei lavoratori, garantisce la possibilità di
partecipazione dei lavoratori alle politiche aziendali promovendone le
motivazioni e valorizzandone la professionalità.
Tale codice fornisce la definizione di molestia morale, considerandola
come “una qualsiasi condotta impropria che si manifesta attraverso
comportamenti, gesti, atti, scritti capaci di arrecare offesa alla
segretari comunali e provinciali, in Lav. Pubb. Amm., 2002, n. 2, p.
377 ss.
126
I professori e i bidelli, in base alle nuove leggi di riforma della
Scuola, sono soggetti ai poteri decisionali, “dalla più ampia
discrezionalità”, del preside, oggi dirigente scolastico.
127
Vedi infra nello stesso capitolo, par. 4.
128
Cfr. Osservatorio mobbing, curato da R. Staiano, in www.diritto.it,
sezione Codici anti-mobbing.
141
personalità o all’integrità fisica o psichica di una persona”129 e, poi,
individua le sue più diffuse forme che si possono avere in ambito
lavorativo, come per esempio, calunniare e diffamare un lavoratore,
escludere il lavoratore o boicottarlo o disprezzarlo, esercitare minacce
o avvilire la persona, ecc...
Per prevenire le molestie morali, il codice di condotta, prevede,
nell’art.4, adeguate misure, cui l’azienda deve attenersi. Innanzitutto,
l’azienda, riconoscendo che la qualità della prestazione è condizionata
dalla professionalità tecnica, etica e deontologica di ogni operatore e
dalla valorizzazione della sua dignità professionale e personale, deve
adoperarsi a sensibilizzare questi (gli operatori) a tali valori ed a
costruire un clima rispettoso delle diverse individualità. In secondo
luogo, si impegna ad ostacolare ed a perseguire ogni violenza morale,
che ledono i diritti umani, civile, religiosi, culturali e tutto ciò che
contrasta con la società civile e democratica. Infine, deve attuare
interventi formativi che si rivolgono alla gestione del clima
relazionale nell’ambito di singoli settori ed alla valorizzazione delle
risorse umane.
Nell’ipotesi in cui si verificassero casi di molestia morale, questi
dovranno essere segnalati per iscritto al coordinatore della
Commissione interdisciplinare per la trattazione dei casi di molestia
morale 130 , il quale esaminerà le situazioni e può attivare le proposte,
predisporre strategie e percorsi utili alla risoluzione del caso e,
qualora, individui responsabilità da parte dei singoli o di gruppi
nell’azione di molestia morale, può richiedere l’attuazione di
procedimenti di natura disciplinari o sanzioni consequenziali previste
dalle norme vigenti. Ove la situazione sia tale da richiedere una
consultazione
diagnostica-terapeutica
sarà
compito
della
Commissione indirizzare il dipendente ad un servizio specialistico,
interno o esterno all’Azienda.
Infine, il coordinatore della Commissione interdisciplinare per la
trattazione dei casi di molestia morale, insieme ai Comitati Pari
Opportunità ed ai dirigenti devono dare particolare importanza ai
progetti che prevedono prevenzione, formazione ed informazione in
riferimento alla tematica di violenza morale e persecuzione
psicologica.
129
Art. 2 del Codice di condotta dell’Azienda USL 10 di Firenze.
La Commissione interdisciplinare per la trattazione dei casi di
molestia morale è nominata dal Direttore Generale e ha durata
triennale, v.: art. 7 del Codice di condotta dell’Azienda USL 10 di
Firenze.
130
142
3. Regolamento anti-mobbing della Provincia di Ragusa.
La Provincia di Ragusa ha approvato, con delibera Commissariale n.
36 del 15 luglio 1991, il Regolamento anti-mobbing131 , il quale mira a
tutelare qualsiasi lavoratore e lavoratrice, impiegati “in tutte le
tipologie di lavoro …, comprese le collaborazioni, indipendentemente
dalla loro natura, mansione e grado”132 , da molestie morali e molestie
sessuali.
Sono considerate molestie morali tutte quelle azioni (comportamenti,
parole, atti, gesti, scritti), attivati da chiunque nell’ambiente lavorativo
e capaci di arrecare offesa alla personalità, alla dignità o all’integrità
psico-fisica del lavoratore e di mettere in pericolo l’impiego. Mentre,
le molestie sessuali sono le discriminazioni che si basano sul sesso nel
luogo di lavoro, con lo scopo di ledere la dignità di una persona e/o di
creare un ambiente intimidatorio quando il rifiuto o la sottomissione di
una persona a tale comportamento vengono usate come base di
decisione che riguarda questa persona.
Tale Regolamento si differenzia dagli altri codici anti-mobbing che
stiamo esaminando, in quanto, nei confronti di coloro che attuano tali
comportamenti e di chi denuncia consapevolmente fatti inesistenti, si
applicano le misure disciplinari previste dalla contrattazione collettiva.
Per tutelare il lavoratore dalle molestie morali, l’art. 5 istituisce una
“Commissione di garanzia”, composta dal “Direttore Generale o, in
caso di vacanza, dal Segretario Generale, dal medico competente e
dallo psicologo nominato dall’Ente” 133 , con il compito di raccogliere
le denuncie dei lavoratori, di individuare la manifestazione di
maltrattamenti e di discriminazioni e di formulare ogni proposta utile
per prevenire e reprimere situazioni vessatorie e persecutorie ed,
infine, di fornire all’Amministrazione tutti i dati necessari per
l’eventuale avvio del procedimento disciplinare. Inoltre, il lavoratore,
sia quando non si rivolge alla Commissione di garanzia e sia quando
non è d’accordo con la decisione della succitata Commissione, può
avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti
collettivi o può promuovere il tentativo di conciliazione e, poi, far
ricorso alla giustizia ordinaria.
131
Il Regolamento anti-mobbing della Provincia di Ragusa è possibile
consultarlo in Osservatorio mobbing, curato da R. Staiano, in
www.diritto.it, sezione Codici anti-mobbing.
132
Art. 1, 2° comma, del Regolamento anti-mobbing.
133
Art. 5, 3° comma, del Regolamento anti-mobbing.
143
Infine, il Regolamento individua una serie di azioni di prevenzione per
tutelare il lavoratore. Prevede, infatti, che le Rappresentanze Sindacali
Aziendali e le Rappresentanze dei Lavoratori per la Sicurezza hanno il
diritto di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte
le misure idonee a tutelare i lavoratori da azioni e comportamenti
vessatori e persecutori; il lavoratore può denunciare al medico
competente il disagio e lo stato psico-fisico in cui si trova per aver
subito azioni persecutorie; qualora siano denunciati da parte di singoli
o di gruppi di lavoratori tali comportamenti, l’ente ha l’obbligo di
porre in essere, attraverso l’ausilio della Commissione di Garanzia,
tempestive procedure di accertamento dei fatti denunziati e misure per
il loro superamento ed, infine, ai lavoratori è riconosciuto non solo il
diritto di riunirsi fuori dell’orario di lavoro, nei limiti di due ore su
base annuale, per trattare il tema delle violenze e delle persecuzioni
psicologiche nel luogo del lavoro, ma anche di chiedere il
trasferimento ad ufficio diverso da quello in cui si è verificata la
molestia.
4. Codice Etico dell’Azienda Sanitaria Ospedaliera OIRM-S.
Anna di Torino.
L’Azienda Ospedaliera OIRM-S. Anna di Torino134 , recependo la
Raccomandazione Europea 92/131 sulla tutela della dignità delle
donne e degli uomini sul posto di lavoro, ha disposto un suo Codice
Etico, che affronta il problema della molestie, intesa sia come molestia
sessuale che come violenza morale e persecuzione psicologica. Per
molestia sessuale si intende ogni atto o comportamento, anche
verbale, a connotazione sessuale che arrechi offesa alla dignità e
libertà della persona che lo subisce. Rientrano nella tipologia della
molestia sessuale comportamenti tipicizzati quali: richieste esplicite o
implicite di prestazioni sessuali o attenzioni a sfondo sessuale non
gradite e ritenute sconvenienti e offensive per chi ne è oggetto;
minacce, discriminazioni e ricatti, subiti per aver respinto
134
Il Codice Etico dell’Azienda Sanitaria Ospedaliera OIRM-S. Anna
di Torino è consultabile in Osservatorio mobbing, curato da R.
Staiano, in www.diritto.it, sezione Codici anti-mobbing.
144
comportamenti a sfondo sessuale che incidano, direttamente o
indirettamente, sulla costituzione, lo svolgimento o l’estinzione del
rapporto di lavoro e la progressione di carriera; apprezzamenti verbali
offensivi sul corpo e sulla sessualità; gesti o ammiccamenti
provocatori e disdicevoli a sfondo sessuale; ecc…
Invece, costituisce violenza morale e persecuzione psicologica ogni
atto, patto o comportamento che produca, in via diretta o indiretta, un
effetto pregiudizievole alla dignità e alla salute psico-fisica del
dipendente nell’ambiente lavorativo. In particolare, fanno parte di tale
tipologia le umiliazioni e i maltrattamenti verbali reiterati e
persistenti; le immotivate esclusioni o marginalizzazioni dalla
ordinaria comunicazione aziendale; gli atti e i comportamenti mirati a
danneggiare o discriminare il dipendente; ecc…
Il Codice istituisce, inoltre, la figura del/la Consigliere/a di fiducia 135 ,
la quale, nominata dal Direttore Generale su designazione del
Comitato Pari Opportunità, è incaricato di fornire consulenza ed
assistenza ai dipendenti oggetto di molestie sessuali o violenza morale
e persecuzione psicologica, nonché di intervenire al fine di favorire il
superamento della situazione di disagio per ripristinare un sereno
ambiente di lavoro. In questo modo si attiva la c.d. procedura
informale 136 , in cui il/la Consigliere/a esamina il caso, fornendo
all’interessato ogni utile informazione; procede, in via riservata,
all’acquisizione degli elementi e delle informazioni necessarie per la
trattazione e valutazione del caso; d’intesa con la persona offesa dal
comportamento molesto, valuta l’opportunità di un confronto diretto
con il/la presunto/a molestatore/trice; può chiedere l’intervento di altri
esperti per supportare il proprio giudizio; deve preventivamente
comunicare, ad entrambe le parti, ogni iniziativa del procedimento che
intende assumere e le proposte conclusive ed, infine, riferisce al
Direttore Generale sull’esito della procedura. Tale procedura deve
terminare entro 90 giorni dalla richiesta del dipendente, salvo motivate
ragioni di proroga per un periodo comunque non superiore ad ulteriori
90 giorni. La persona offesa ha la facoltà in qualsiasi momento di
recedere dalla propria richiesta di procedura informale e di avvalersi
135
Tale figura era già stata prevista nella Raccomandazione Europea
92/131, attribuendole il ruolo di “primo ascolto” della vittima di
molestia.
136
Art. 6 del Codice Etico dell’Azienda Ospedaliera Sanitaria OIRMS. Anna di Torino.
145
della c.d. procedura formale 137 , con la quale può sporgere denuncia,
fatta salva ogni altra forma di tutela giurisdizionale.
Infine, per favorire una azione preventiva efficace per informare e
sensibilizzare tutti i soggetti sulla gravità del fenomeno della molestia
(molestia sessuale e violenza morale e persecuzione psicologica), il
Codice Etico prevede che l’Amministrazione adotti tutte le iniziative e
le misure organizzative idonee a tutelare la libertà e la dignità della
persona.
137
Art. 7 del Codice Etico dell’Azienda Ospedaliera Sanitaria OIRMS. Anna di Torino.
146
IL MOBBING IN EUROPA
di FAUSTO TROILO
(Dott. in Giurisprudenza)
1. Mobbing nei Paesi Scandinavi.
In Svezia, l’Ente nazionale per la Salute e la Sicurezza Svedese ha
emanato, in data 21 settembre 1993, una specifica ordinanza 138 , entrata
in vigore il 31 marzo 1994, recante misure contro qualsivoglia forma
di “persecuzione psicologica” negli ambienti di lavoro, intesa quali
“..ricorrenti azioni riprovevoli o chiaramente ostili intraprese nei
confronti di singoli lavoratori, in modo offensivo, tali da determinare
il loro allontanamento dalla collettività che opera nei luoghi di
lavoro”. L’ordinanza affida al datore di lavoro la principale
responsabilità riguardo all'organizzazione e programmazione
dell'attività di lavoro in modo da prevenire ed impedire il verificarsi di
fenomeni di vittimizzazione. Attribuisce, inoltre, particolare
importanza, pari a quella dei fattori di ordine fisico o tecnico, agli
aspetti psicologici, sociali e organizzativi dell'ambiente di lavoro.
Per la prima volta, in un provvedimento con valore normativo, è stato
fatto esplicito riferimento al concetto di “mobbing” o “bossing”139 .
Il provvedimento fornisce ai datori di lavoro precise indicazioni su
come affrontare il problema della persecuzione psicologica in via
preventiva attraverso il sostegno dei comitati aziendali e l'interazione
continua tra la dirigenza e i dipendenti.
In particolare il datore di lavoro è tenuto a pianificare ed organizzare il
lavoro in modo da prevenire, per quanto possibile, ogni forma di
138
Ordinanza AFS 1993/17 del 21 settembre 1993, emanata dall'Ente
nazionale per la salute e la sicurezza svedese in conformità alla
sezione 18 dell'Ordinanza sull'ambiente di lavoro (1977) disponibile
sul
sito
della
CGIL
alla
pagina
www.cgil.i/saluteesicurezza/il_mobbing.htm nella traduzione italiana
curata da Roberta Clerici. L’ordinanza è allegata in versione integrale
nell’appendice alla fine del presente lavoro.
139
Per “bossing” in realtà si intende un’azione persecutoria utilizzata
quale strumento attuativo di una politica di riorganizzazione aziendale
finalizzata alla riduzione del personale o all’esclusione dei lavoratori
“scomodi”.
147
persecuzione nei luoghi di lavoro, informando i lavoratori che queste
forme di persecuzione non possono essere assolutamente tollerate nel
corso dell'attività lavorativa;
Devono, poi, essere previste procedure idonee ad individuare
immediatamente i sintomi di condizioni di lavoro che possono
costituire il terreno adatto all'insorgere di forme di persecuzione
psicologica durante l'attività lavorativa.
Qualora poi, nonostante l’attività preventiva, si verifichino
ugualmente fenomeni di mobbing, dovranno essere adottate
immediatamente efficaci contromisure volte anche ad individuare le
eventuali carenze organizzative causa dell’insorgere del fenomeno.
Il datore di lavoro dovrà, infine, prevedere forme di aiuto specifico ed
immediato per le vittime del mobbing.
L'intervento normativo svedese può, dunque, essere considerato un
vero e proprio codice comportamentale per la gestione delle relazioni
sociali all’interno dei luoghi di lavoro.
Diversamente dalla Svezia, la Norvegia ha preferito optare per una
tutela a livello legislativo del mobbing attraverso l’introduzione di una
specifica previsione nella legge sulla tutela dell'ambiente di lavoro del
1977 ad opera del § 12 della legge 24 giugno 1994, n. 41, che così
recita: "..I lavoratori non devono essere esposti a molestie o ad altri
comportamenti sconvenienti….."140 .
E’ evidente il diverso approccio seguito dai due legislatori: mentre il
regolamento svedese menziona espressamente il mobbing, la legge
norvegese contiene un riferimento più generico e parla più
semplicemente di molestie e comportamenti sconvenienti da cui il
lavoratore deve essere difeso. Al riguardo non si è mancato di
evidenziare come una previsione così generica rischi di ricomprendere
molteplici ipotesi di vessazioni ai danni dei lavoratori non solo di
matrice interna all’organizzazione aziendale ma anche quelli derivanti
140
L’art. 12 della legge 24 giugno 1994, n. 41 così come modificata
dalla legge 4 febbraio 1997, n. 4 Lov om arbeidervern og
arbeidsmiljo , così stabilisce: “Organizzazione del lavoro – 1.
Requisiti generali - La tecnologia, l’organizzazione del lavoro, gli
orari di lavoro e di sistemi retributivi devono essere predisposti in
modo da non esporre i lavoratori a gravosi sforzi fisici o psichici, o
da limitare la loro possibilità di prestare attenzione e di osservare le
norme di sicurezza. Vanno messi a disposizione dei lavoratori gli
ausili necessari per prevenire gli sforzi fisici. I lavoratori non devono
essere esposti a molestie o ad altri comportamenti sconvenienti. Le
condizioni di lavoro vanno predisposte in modo da fornire ai
lavoratori un’opportunità ragionevole per sviluppare la propria
professionalità attraverso il lavoro.”.
148
da cause esterne. A queste legittime osservazioni risponde
direttamente la relazione di accompagnamento alla legge 141 , nella
quale si afferma che l’ampia portata della definizione è il risultato di
una precisa scelta legislativa che mira a garantire una tutela a tutto
campo del lavoratore sul luogo di lavoro ed in particolare è finalizzata
ad “assicurare un ambiente di lavoro che non esponga i lavoratori a
sforzi psicologici di entità tali da influire negativamente sul
rendimento e sullo stato di salute”.
In relazione alla concezione scandinava del mobbing, è importante
rilevare come alla categoria delle molestie sia ricondotto anche il
fenomeno delle molestie sessuali a differenza di quanto avviene nella
normativa di altri stati comunitari, come la Francia 142 e la Germania 143 ,
che comprendono, invece, le molestie sessuali nella categoria delle
discriminazioni in ragione del sesso. La portata discriminatoria del
comportamento, infatti, non inerisce alla molestia sessuale in sé, ma
all'eventuale comportamento susseguente che possa avere
ripercussioni sul rapporto di lavoro (mancata assunzione e
licenziamento che sia conseguenza del rifiuto del molestato). In realtà,
la peculiarità delle molestie sessuali è tale da richiedere un intervento
normativo autonomo, distinto dalle tutele relative all'ambiente di
lavoro o alla discriminazione in ragione del sesso.
2. Mobbing in Svizzera.
Anche in Svizzera non è stata, per ora, emanata alcuna legge specifica
sul mobbing144 . Al lavoratore vittima di comportamenti molesti
l’ordinamento svizzero garantisce, comunque, forme di tutela
141
Ot. Prp. Nr. 50 (1993-94) om lov om endringer i lov 4 februar
1977 nr. 4 om arbeidervern og arbeidsmiljo m v, p. 65 come riportata
da Cappello Maja, “L’ambiente psicosociale: il c.d. mobbing e le
molestie sessuali,” estratto dalla tesi di dottorato “L’ambiente di
lavoro tra mercato interno e politica sociale: esperienze scandinave e
italiane a confronto”, Università di Firenze, 1997-1998, p. 154.
142
Legge francese 2 novembre 1992, n.92 -1179 relativa all'abuso in
materia sessuale sul luogo di lavoro e che modifica il codice del
lavoro e il codice di procedura penale.
143
Berliner Landesantidiskriminierungsgesetz, legge regionale del
Land Berlin del 31 dicembre 1990.
144
Si segnala, peraltro, che la questione mobbing è già stata portata
all’attenzione del Parlamento Federale svizzero attraverso varie
iniziative (mozioni, interpellanze, interrogazioni) e in data 5 ottobre
2000 anche con una proposta di legge intitolata “Loi controe le
mobbing” depositata da Zisyadis Josep. Il materiale relativo è
disponibile on line sul sito del parlamento elvetico all’indirizzo
www.parlament.ch.
149
adeguate attraverso l’applicazione di norme generali poste a tutela
della sua salute fisica e psichica dalla legge federale sul lavoro, dal
codice delle obbligazioni, dalla legge federale sull’uguaglianza tra
donne e uomini nonché da alcune disposizioni del codice penale.
Prima fra tutte la legge federale svizzera sul lavoro, applicabile sia ai
lavoratori delle imprese private sia ai pubblici dipendenti, che al suo
art. 6 obbliga il datore di lavoro a prendere tutti i provvedimenti,
tecnicamente utilizzabili ed adeguati alle condizioni d’esercizio
dell’impresa, che in base all’esperienza si reputano necessari per
proteggere la salute dei lavoratori e ad adottare tutte le misure utili a
proteggere l’integrità personale dei lavoratori i quali, a loro volta,
sono tenuti a collaborare con l’imprenditore all’applicazione delle
prescrizioni sulla protezione della salute.
L’Ispettorato di Ginevra, denominato “Office Cantonal de l’inspection
et des relations du travail” meglio conosciuto con la sigla OCIRT, ha
emanato un’apposita “brochure” per regolare le procedure da seguire
nei casi di sofferenza psicologica sul lavoro (mobbing), nella quale
viene stabilito che ogni qual volta il lavoratore lamenti di aver subito
molestie morali sul lavoro, sarà tenuto a specificare, ni un apposito
documento, a che tipo di molestia morale, tra i 45 atti di mobbing
individuati dal Leymann, è stato sottoposto e, se possibile, dovrà
indicare anche la data di accadimento di ognuno di essi. Sulla base
della denuncia presentata l’OCIRT procederà, quindi, all’effettuazione
di un’inchiesta all’interno dell’azienda incriminata al fine di accertare
la fondatezza delle accuse esposte dal lavoratore e di far prendere
coscienza ai vertici aziendali delle responsabilità che essi hanno in
queste situazioni. Una volta accertata l’offesa alla personalità del
soggetto, l’OCIRT potrà richiedere alla direzione aziendale la
cessazione dei comportamenti ostili negoziando eventualmente con
essa le contro misure da adottare per evitare che simili situazioni si
ripetano in futuro. Se, però, l’azienda si rifiuta di collaborare,
l’OCIRT di fatto non dispone di alcun potere e il lavoratore per
ottenere giustizia sarà costretto a rivolgersi alla Procura della
Repubblica. L’OCIRT, in effetti, non può in alcun caso disporre il
reintegro del lavoratore licenziato o dimissionario.
Oltre a queste forme di tutela pubblicistica, il lavoratore svizzero
molestato sul luogo di lavoro dispone anche di forme di tutela
privatistica in base ad alcune norme del codice delle obbligazioni
(CO) che si occupano di regolare i rapporti tra datore di lavoro e
lavoratore.
150
3. Harcèlement moral in Belgio e in Francia.
In Belgio il mobbing, o “harcèlement moral” come viene definito in
tutti i paesi francofoni, emerge per ora soltanto dalla giurisprudenza in
quanto il fenomeno non è ancora regolato legislativamente.
In considerazione del vuoto legislativo esistente in materia e della
crescente domanda di tutela proveniente dai lavoratori, è stata
recentemente presentata al Senato Belga una proposta di legge che si
propone di modificare la legge del 4 agosto 1996, sul benessere dei
lavoratori nell’esercizio della loro attività, inserendo una disposizione
per obbligare tutti i datori di lavoro ad adottare le misure
organizzative necessarie per prevenire l’harcèlement moral nei lughi
di lavoro. La proposta di legge fornisce una definizione di
harcèlement moral che riprende sostanzialmente quella formulata
dalla studiosa francese di questi fenomeni, Marie -France Hirigoyen145 :
“si intende per mobbing qualsiasi condotta abusiva e ripetuta che si
manifesti con comportamenti, parole, atti, gesti o scritti unilaterali
che offendono intenzionalmente la personalità, la dignità o l’integrità
psicologica di una persona, che mettono in pericolo il suo impiego o
degradano il clima lavorativo”.
La Francia, a seguito della definitiva approvazione della legge n.
2002-73 sulla modernizzazione sociale il 17 gennaio 2002146 è, dopo
la Svezia, il secondo paese comunitario ad essersi dotato di uno
strumento legislativo specifico per la lotta contro il mobbing o meglio
l’harcèlement moral come è chiamato qui.
La nuova legge, approvata in data 19 dicembre 2001 dall’Assemblea
Nazionale, dopo aver definito l“harcèlement moral” come “l’insieme
di atti ripetuti di molestia morale che hanno per oggetto o per effetto
un degrado delle condizioni di lavoro suscettibili di ledere i diritti e la
dignità del lavoratore, di alterare la sua salute fisica o mentale o di
compromettere il suo avvenire professionale”, vuole evitare che
attraverso le molestie morali il lavoratore venga dapprima penalizzato
nella sua professionalità e successivamente allontanato o costretto ad
allontanarsi volontariamente dal lavoro. Si tratta di una tutela forte
contro il mobbing che permette di azzerare tutte quelle conseguenze
145
M. F. Hirigoyen, Molestie morali. La violenza perversa nella vita
quotidiana, Torino, 2000.
146
La legge sulla modernizzazione sociale recentemente approvata in
Francia è disponibile sul sito internet www.diritto.it, Osservatorio
mobbing, curato da R. Staiano.
151
negative sul rapporto di lavoro che normalmente si accompagnano alle
molestie morali.
La nuova legge prevede, inoltre, l’introduzione di un’apposita figura
di reato dedicata al mobbing con l’inserimento nel codice penale
francese di una nuova sezione intitolata, per l’appunto,
all’harcèlement moral.
152
APPENDICE
Rassegna giurisprudenziale della Corte di Giustizia CE sulla
discriminazione indiretta
di
ROCCHINA STAIANO
(dottore di ricerca-Università di Salerno)
I. Le disposizioni nazionali che disciplinano le date di ammissione ad
un tirocinio per le professioni legali, costituendo un necessario
presupposto per accedere ad un posto nel pubblico impiego, rientrano
nella sfera di applicazione della direttiva del Consiglio 9 febbraio
1976, 76/207/Cee, relativa all’attuazione del principio della parità di
trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al
lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni
di lavoro. Disposizioni nazionali come quelle di cui alla causa
principale non costituiscono una discriminazione direttamente fondata
sul sesso, ma costituiscono, invece, una discriminazione indiretta
fondata sul sesso (C. Giustizia CE, 7 dicembre 2000, n. 79, in DPL,
2001, n. 21, 13).
II. L’art. 2, n. 1 e 4 della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976,
76/207/Cee, relativa all’attuazione del principio della parità di
trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al
lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni
di lavoro, e l’art. 141, n. 4, Tr. Ce ostano ad una normativa nazionale
in forza della quale un candidato ad un posto nel pubblico impiego
appartenente al sesso sottorappresentato ed in possesso di qualifiche
sufficienti per ricoprire tale posto debba essere scelto con preferenza
rispetto ad un candidato dell’altro sesso, che sarebbe stato designato in
assenza di tale normativa, qualora tale misura sia necessaria affinchè
ad ottenere la nomina sia un candidato del sesso sottorappresentato e
la differenza tra i meriti dei candidati non sia di rilevanza tale da dar
luogo ad una violazione del criterio di obiettività che deve essere
osservato nelle assunzioni. L’art. 2, n. 1 e 4 della direttiva 76/207 e
l’art. 141, n. 4, Tr. Ce ostano ad una normativa nazionale del tipo
153
anzidetto anche nel caso in cui essa trovi applicazione esclusivamente
alle selezioni volte ad assegnare un numero di posti preventivamente
determinato nonchè ai posti creati nell’ambito di un programma
speciale adottato da un singolo istituto di insegnamento superiore,
programma che autorizzi l’applicazione di misure di discriminazione
positiva (C. Giustizia CE, 6 luglio 2000, n. 407, in CG, 2000, 1382).
III. Un’indennità per orario disagiato non deve essere presa in
considerazione ai fini del calcolo della retribuzione che funge da
parametro per il raffronto delle retribuzioni ai sensi dell’art. 119 del
Trattato (gli artt. 117-120 del Trattato Ce sono stati sostituiti dagli artt.
136-143 Ce) e della direttiva del Consiglio 10 febbraio 1975,
75/117/Cee, per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati
membri relative all’applicazione del principio della parità delle
retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso
femminile. Nel caso in cui una differenza di retribuzione tra le due
categorie sia stata accertata e dai dati statistici disponibili emerga
l’esistenza di una proporzione assai più rilevante di donne che di
uomini nella categoria sfavorita, l’art. 119 del Trattato impone al
datore di lavoro di giustificare tale differenza con elementi obiettivi
ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso (C. Giustizia
CE, 30 marzo 2000, n. 236, in MGL, 2000, 891, con nota di
Gottardi).
IV. Costituisce una discriminazione indiretta l’esclusione del
godimento di un’indennità straordinaria annuale, disposta in un
contratto collettivo, delle persone che svolgono attività subordinate
che comportano un orario normale di lavoro inferiore a quindici ore
settimanali e una retribuzione normale che non supera una frazione
della retribuzione base mensile di riferimento, che si applichi
indipendentemente dal sesso del lavoratore, ma colpisca di fatto una
percentuale notevolmente più elevata di donne che di uomini (C.
Giustizia CE, sez. VI, 9 settembre 1999, n. 281, in RIDL, 2000, II, 3,
con nota di Ludovico).
V. Per accertare se un provvedimento adottato da uno Stato membro
abbia una diversa incidenza sugli uomini e sulle donne, tale da
equivalere ad una discriminazione indiretta, ai sensi dell’art. 119 del
trattato, il giudice nazionale deve verificare se dai dati statistici a sua
disposizione risulti una percentuale considerevolmente più esigua di
lavoratori di sesso femminile, rispetto ai lavoratori di sesso maschile,
154
in grado di soddisfare il requisito posto dal detto provvedimento. Se
ciò si verifica, sussiste discriminazione indiretta fondata sul sesso, a
meno che il provvedimento non sia giustificato da fattori obiettivi ed
estranei a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso (C. Giustizia
CE, 9 febbraio 1999, n. 167, in DL, 2000, II, 191, con nota di
Marinelli).
VI. L’art. 6 della direttiva 79/7, relativa alla graduale attuazione del
principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia
di sicurezza sociale, non prescrive che un singolo possa ottenere il
pagamento di interessi su importi versati a titolo di arretrati di
prestazioni previdenziali, qualora il ritardo nel versamento delle
prestazioni sia riconducibile ad una discriminazione vietata dalla
direttiva 79/7. Infatti, gli importi dovuti a titolo di prestazioni
previdenziali, versati agli interessati dagli enti competenti, ai quali
incombe segnatamente verificare la sussistenza delle condizioni
stabilite dalle norme vigenti, non hanno affatto natura di risarcimento
di un danno subito, talchè non può trovare applicazione il
ragionamento svolto dalla Corte nella sentenza 2 agosto 1993, causa
C-271/91, Marshall, in ordine ad un risarcimento inteso al ripristino di
una parità di trattamento effettiva, secondo il quale la corresponsione
di interessi, ai sensi delle pertinenti norme nazionali, è da considerarsi
componente essenziale di un tale risarcimento. Di conseguenza,
sebbene l’art. 6 della direttiva 79/7 imponga agli Stati membri
l’obbligo di adottare i provvedimenti necessari affinchè ogni persona
che si ritenga vittima di una discriminazione vietata dalla direttiva per
quanto riguarda la concessione di prestazioni previdenziali possa far
accettare l’illegittimità di tale discriminazione e ottenere il pagamento
delle prestazioni alle quali avrebbe avuto diritto in mancanza della
stessa, il pagamento di interessi su arretrati di prestazioni non può
considerarsi componente essenziale del diritto così definito (C.
Giustizia CE, 22 aprile 1997, n. 66, in IP, 1997, 376).
VII. Qualora uno Stato membro decida di punire la violazione del
divieto di discriminazione nell’ambito di un regime di responsabilità
civile, la direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/Cee, relativa
all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e
le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla
promozione professionali, e le condizioni di lavoro, e in particolare
gli artt. 2, n. 1, e 3, n. 1, della stessa, ostano a disposizioni legislative
nazionali che stabiliscono
il presupposto della colpa per il
155
risarcimento del danno subito a causa di una discriminazione basata
sul sesso all'atto di un’assunzione (C. Giustizia CE, 22 aprile 1997,
n. 180, in LG, 1997, 639, con nota di Izzi).
VIII. L’incompatibilità di una normativa nazionale con le disposizioni
comunitarie, com’è il caso dell’art. L 213-1 Code du travail francese
che vietando il lavoro notturno in industria soltanto alle donne e non
agli uomini costituisce una discriminazione contrastante con l’art. 5
della direttiva 76/207/Cee, non viene meno per effetto di mere prassi
amministrative conformi al diritto comunitario o perchè, come nel
caso, la norma comunitaria è direttamente applicabile e prevale sulla
norma interna. Occorre la soppressione tramite disposizioni interne
vincolanti che abbiano lo stesso valore giuridico di quelle da
modificare, cosicchè cessino sia lo stato di incertezza degli interessati
riguardo alla loro posizione giuridica, sia l’esposizione ad
ingiustificate azioni penali (C. Giustizia CE, 13 marzo 1997, n. 197,
in DPP, 1998, 310).
IX. L’art. 4, n. 1, della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978,
79/7/Cee, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di
trattamento fra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale,
va interpretato nel senso che un regime legale nazionale, come quello
istituito dalla legge in materia di assistenza di lavoratori disoccupati
anziani e parzialmente inabili al lavoro, che offre prestazioni
assistenziali volte a garantire un livello di risorse economiche pari al
minimo di sussistenza, l’attribuzione delle quali
non dipende
dall’esistenza di un patrimonio, ma assoggetta il diritto all’indennità
a presupposti concernenti l’anzianità lavorativa dell'interessato e la
sua età, non comporta una discriminazione fondata sul sesso, anche se
sia pacifico che un numero notevolmente maggiore di uomini che di
donne trova in tale regime un modo per aggirare il requisito relativo al
patrimonio, imposto invece nell’ambito di un altro regime, quale
quello istituito dalla
disciplina collettiva sui lavoratori disoccupati
che, pur prevedendo una prestazione del medesimo tipo, è meno
favorevole, posto che il legislatore nazionale ha potuto a ragione
ritenere che il regime di cui trattasi fosse necessario al raggiungimento
di un obiettivo di
politica
sociale, estraneo a qualsiasi
discriminazione fondata sul sesso (C. Giustizia CE, sez. IV, 8
febbraio 1996, n. 8, in RIDPC, 1996, 1073).
156
X. Qualora la categoria dei lavoratori a tempo parziale comprenda un
numero notevolmente più elevato di donne che di uomini, il divieto di
discriminazione indiretta in materia di retribuzione, come enunciato
dall’art. 119 del trattato Ce e dalla direttiva del Consiglio 10 febbraio
1975, 75/117/Cee, per il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati
membri
relative all’applicazione del principio della parità delle
retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e i lavoratori di sesso
femminile, osta a una normativa nazionale la quale, senza essere
idonea a conseguire un obiettivo legittimo di politica sociale e
necessaria a tale scopo, porti a limitare al loro orario individuale di
lavoro la compensazione che i membri delle commissioni interne
occupati a tempo parziale debbono ricevere dal loro datore di lavoro,
per la loro partecipazione a corsi di formazione che impartiscono le
cognizioni
necessarie all’attività delle commissioni interne,
organizzati durante l’orario di lavoro a tempo pieno vigente
nell’impresa, ma che eccedono il loro orario individuale di lavoro a
tempo parziale, mentre i membri delle commissioni interne occupati a
tempo pieno ricevono una compensazione, per la loro partecipazione
agli stessi corsi, entro i limiti del loro orario di lavoro (C. Giustizia
CE, 6 febbraio 1996, n. 457, in RIDPC, 1996, 1072).
XI. L’art. 4, n. 1 direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978 n. 79/7/Ce,
relativa alla graduale attuazione del principio della parità di
trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale,
deve essere interpretata nel senso che una normativa nazionale la
quale escluda dall’obbligo di iscrizione ai regimi legali di
assicurazione malattia e vecchiaia le attività dipendenti prestate per un
orario settimanale normale inferiore alle quindici ore e per una
retribuzione non superiore al settimo della base mensile di riferimento,
come pure una normativa nazionale ai sensi della quale le attività
dipendenti che per loro natura, o in base a previa pattuizione
contrattuale, sono abitualmente limitate a un orario normale inferiore a
diciotto ore settimanali, sono escluse dall’obbligo contributivo relativo
all’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione, non
costituiscono
una discriminazione basata sul sesso, anche se
interessano un numero notevolmente maggiore di donne che di
uomini, allorchè il legislatore nazionale abbia potuto ritenerle
ragionevolmente necessarie al raggiungimento di un obiettivo di
politica sociale estraneo a qualsiasi discriminazione basata sul sesso
(C. Giustizia CE, 14 dicembre 1995, n. 444, in LG, 1997, 373).
157
XII. Una normativa nazionale che imponga, a parità di qualificazioni,
la preferenza dei candidati di sesso femminile a quelli di sesso
maschile ai fini della promozione (nei settori lavorativi in cui le
donne sono sottorappresentate, ossia costituiscono meno del 50%
della forza lavoro) integra la fattispecie di “discriminazione di sesso”
in violazione del diritto
comunitario, in virtù della direttiva
76/207/Cee all’art. 2 n. 1 (C. Giustizia CE, 17 ottobre 1995, n. 450,
in RIDPC, 1996, 671, con nota di Grassi).
XIII. Il principio della parità delle retribuzioni fra lavoratori di sesso
maschile e lavoratori di sesso femminile di cui agli artt. 119 del
trattato Ce e 1 della direttiva n. 117 del 1975, va interpretato nel senso
che, in un sistema di retribuzione a cottimo, la mera constatazione che
la retribuzione media di un gruppo di lavoratori costituito
prevalentemente da donne che svolgono un determinato tipo di attività
è notevolmente inferiore alla retribuzione media di un secondo gruppo
di lavoratori costituito prevalentemente da uomini che svolgono un
altro tipo di attività lavorativa cui viene attribuito lo stesso valore,
non basta a dimostrare l’esistenza di una discriminazione in materia
di retribuzione. Se tuttavia, in un sistema di retribuzione a cottimo in
cui le retribuzioni individuali sono composte da una quota variabile,
che dipende dal risultato individuale dell’opera prestata da ciascun
lavoratore, e da una quota fissa, che differisce secondo i gruppi di
lavoratori interessati, non è possibile distinguere gli elementi
determinanti per la fissazione delle percentuali o delle unità di misura
adoperate per il calcolo della quota variabile della retribuzione, può
apparire giustificata l’imposizione al datore di lavoro dell’onere di
provare che le disparità accertate non derivano da una discriminazione
fondata sul sesso (C. Giustizia CE, 31 maggio 1995, n. 400, in NGL,
1995, 968).
XIV. Il protocollo n. 2 sull’art. 119 del trattato, allegato al trattato
sull’unione europea, concerne tutte le prestazioni fornite da un regime
aziendale di previdenza sociale, ma non il diritto di iscrizione a detto
regime. La materia dell'iscrizione resta pertanto regolata dalla
sentenza 13 maggio 1986, causa 170/84, Bika, secondo la quale
un’impresa che, senza una giustificazione obiettiva ed estranea a
qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, introduca una disparità di
trattamento tra uomini e donne escludendo una categoria di dipendenti
da un regime pensionistico d'impresa viola l’art. 119 del trattato (C.
Giustizia CEE, 28 settembre 1994, n. 128, in NGL, 1995, 338).
158
XV. In mancanza di provvedimenti di attuazione adeguati rispetto
all’art. 4 della direttiva 79/7/CEE, alle donne colpite da
discriminazione va applicato il medesimo regime che viene applicato
agli uomini che si trovino nella medesima situazione. Tale regime
rimane, in mancanza di esecuzione della direttiva, il solo valido
sistema di riferimento (C. Giustizia CEE, 11 luglio 1991 n. 31, in
RIDPC, 1992, 631).
XVI. L’art. 119 del trattato CEE deve essere interpretato nel senso che
esso si oppone all’applicazione di una disposizione di un contratto
collettivo, concluso per i servizi pubblici nazionali, che permetta ai
datori di lavoro
di escludere dal beneficio di una indennità
temporanea in caso di cessazione del rapporto di lavoro i lavoratori a
tempo
parziale, ove risulti che, di fatto, una percentuale
considerevole più bassa di uomini rispetto alle donne lavora a tempo
parziale, a meno che il datore non dimostri che la menzionata
disposizione sia giustificata da fattori oggettivi ed estranei a
qualsiasi discriminazione fondata sul sesso. In presenza di una
discriminazione indiretta contenuta in una disposizione di un contratto
collettivo, i membri del gruppo di fatto sfavorito da tale
discriminazione devono essere trattati alla stessa maniera ed essere
soggetti allo stesso regime degli altri lavoratori, regime che, in
mancanza di una trasposizione corretta dell'art. 119 del trattato CEE
nel diritto nazionale, resta l’unico sistema di riferimento valido (C.
Giustizia CEE, 27 giugno 1990 n. 33, in DL, 1991, II, 379).
159
Rassegna di giurisprudenza italiana
di ROCCHINA STAIANO
(dottore di ricerca-Università di Salerno)
1.Principio di uguaglianza
I. In base ai principi affermati dalla l. 10 aprile 1991 n. 125
sull'eguaglianza degli uomini e delle donne nell’accesso al lavoro, i
Convitti nazionali, che devono accogliere le domande di iscrizione al
semiconvitto anche delle donne, devono prevedere posti distinti per gli
istitutori e per le istitutrici (Cons. Stato, sez. II, 29 settembre 1999 n.
388, in Riv. Giur. Scuola, 2002, 552).
II. Secondo l’art. 5 della direttiva comunitaria 9 febbraio 1976 n.
76/207/Cee del consiglio (che ha formato oggetto di interpretazione
pregiudiziale della corte di giustizia, con la sentenza 25 luglio 1991 in
causa n. 345/1989 -presente in causa, per intervento, il governo
italiano- e che è sufficientemente precisa e incondizionata per poter
essere invocata dai privati davanti alle giurisdizioni nazionali, una
volta scaduto il termine concesso agli stati membri per adeguarsi alle
sue prescrizioni), il principio di uguaglianza applicato alle condizioni
di lavoro implica che vengano assicurate agli uomini e alle donne le
stesse condizioni, senza alcuna discriminazione fondata sul sesso
(senza, però, che la direttiva sia di ostacolo alla protezione della
donna, specialmente per quanto riguarda la gravidanza e la maternità,
come precisato dall'art. 2, par. 3); conseguentemente è in contrasto
con la citata direttiva, e come tale va disapplicata, la norma posta
dall'art. 5 l. 9 dicembre 1977 n. 903, che (sia pure con riferimento alle
sole aziende manifatturiere anche artigianali e con talune conclusioni)
enuncia un principio generale di esclusione delle donne dal lavoro
notturno (Cass., sez. lav., 3 febbraio 1995 n. 1271, in Mass., 1995).
2. Licenziamento
I. E’ illegittimo il criterio di scelta della “pensionabilità”, in quanto,
prevedendo o consentendo di fare riferimento per il personale
femminile a un'età inferiore a quella del personale maschile, viola il
principio di parità di trattamento sancito dalla l. 10 aprile 1991 n. 125
(e ribadito specificamente dall'art. 8 della l. 19 luglio 1993 n. 236
160
(Pret. Milano, 28 novembre 1996, in Riv. Crit. Diir. Lav., 1997,
377).
II. Deve ritenersi ricondotto al motivo discriminatorio in ragione del
sesso il licenziamento di una lavoratrice allorché ci sia la prova per
presunzioni di comportamenti molesti nei suoi confronti e manchino
validi motivi del licenziamento. Infatti il regime della prova
presuntiva, che è prova piena quando ricorrono i presupposti di cui
all'art. 2729 c.c. è stato adottato dal legislatore in tema di
discriminazione sessuale, anche in caso di licenziamento che si basa
su un tale motivo discriminatorio - art. 4, comma 5, l. n. 125 del 1991
- imponendo al datore di lavoro un'inversione dell'onere della prova,
dato che la prova diretta della discriminazione sessuale, posta in
essere con comportamenti molesti, difficilmente può raggiungersi se
non con presunzioni sia perché non sempre il comportamento molesto
viene perpetrato in modo percepibile da persone diverse dal
destinatario, sia perché non è facile raccogliere una testimonianza
diretta e precisa in quanto chi ha assistito a tali comportamenti spesso
non è in grado di comprenderne la valenza negativa e contraria al
diritto ed è perciò restio a riferire su di essi (Pretura Milano, 27
maggio 1996, in Orient. giur. lav. 1996, 654).
III. E’ inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art.
1, 3º comma, L. 30 dicembre 1971 n. 1204, nella parte in cui non
rende applicabile alle lavoratrici addette ai servizi domestici il divieto
di licenziamento nel periodo compreso tra l'inizio della gravidanza e il
compimento di un anno di età del bambino, in riferimento agli artt. 3,
4, 29, 31, 35 e 37 Cost. (C. Cost., 15 marzo 1994 n. 86, in Foro It.,
1994, I, 1318).
IV. Può ritenersi «offensivo» il licenziamento che, per la forma o le
modalità del suo esercizio, per le conseguenze morali o sociali che ne
derivino, per le espressioni contenute o richiamate nell'atto di recesso,
sia lesivo della personalità morale del lavoratore; tale licenziamento
obbliga il datore di lavoro al risarcimento del danno in base al
combinato disposto degli art. 41, 2º comma, cost., e 2043 c.c., essendo
ravvisabile un danno-evento, derivante dalla semplice violazione della
dignità umana e direttamente risarcibile prescindendo da un’effettiva
diminuzione patrimoniale del soggetto leso o dall'esistenza di un
danno morale, rilevante solo nell'ipotesi di reato (art. 2059 c.c.). Nel
caso, la lavoratrice era stata licenziata, dopo la morte del figlio, per
161
assenza ingiustificata (Pret. Ferrara, 25 novembre 1993, in Riv. It.
Dir. Lav., 1994, II, 555).
V. Il licenziamento della lavoratrice intimato entro un anno dalla
celebrazione del matrimonio e fuori dalle ipotesi previste dalle lett. a),
b) e c), 2º comma, art. 3 l. n. 860/1950, non è nullo ma
temporaneamente inefficace fino alla scadenza dell'anno sicché alla
lavoratrice spetta esclusivamente il risarcimento del danno nella
misura delle retribuzioni mancanti (Pret. Milano, 18 novembre 1993,
in Orient. Giur. Lav., 1994, 130).
3. Discriminazione indiretta
I. Costituisce discriminazione sessuale indiretta di natura collettiva
nell'ambito della progressione in carriera, la richiesta, ai fini del
conseguimento della qualifica superiore al quarto livello (c.c.n.l.
settore metalmeccanico), di un titolo di studio di scuola tecnica
superiore, trattandosi di un requisito che, seppure di carattere
formalmente neutro, è riferibile solo al personale di sesso maschile,
ove non risulti dimostrata l’incidenza di tale requisito sulla capacità a
svolgere le mansioni superiori. Nella specie, la società resistente non
aveva mosso alcuna contestazione in ordine alle risultanze della prova
statistica -fornita dalle ricorrenti ai sensi dell'art. 4 comma 5 l. n.
125 del 1991- nè addotto alcuna prova al fine di dimostrare
l'insussistenza della discriminazione (Trib. Catania, 22 novembre
2000, in Foro It., 2001, I, 1778).
II. Il criterio adottato dall'amministrazione -secondo cui “tra coloro i
quali abbiano manifestato la propria disponibilità ad essere utilizzati
in progetti per i lavori socialmente utili, nell’ambito della quota di
fondo assegnata, le circoscrizioni provvederanno ad avviare i
lavoratori, uomini e donne, in proporzione alle rispettive percentuali
di disoccupazione”- rappresenta una forma di discriminazione
indiretta, in quanto si traduce in un oggettivo pregiudizio per le
lavoratrici di sesso femminile; esso, infatti, costituisce solo
apparentemente un criterio neutrale ed egualitario, ma è
sostanzialmente discriminante in quanto posseduto dalle donne in
misura inferiore agli uomini. Nella maggior parte dei casi, soprattutto
nei comuni del sud Italia, la percentuale degli iscritti nelle liste dei
disoccupati è maggiore fra gli uomini che fra le donne (T.A.R.
162
Calabria, sez. Reggio Calabria, 10 marzo 1999 n. 312, in Foro
Amm., 1999, 1900).
III. Nel caso di specie, un’impresa addetta a un servizio di trasporto
urbano o metropolitano ha indetto due procedimenti di selezione per
mansioni di autista di linea: nel primo -previsto per la scelta di 50
conducenti da assumere con contratti di formazione e a tempo
parziale- era richiesto al momento della presentazione della domanda
il possesso della patente di abilitazione alla guida D o DE e il
certificato di abilitazione professionale; nel secondo -promosso in
vista della eventuale copertura dei posti di autista che sarebbero
risultati vacanti nel futuro- non erano prescritti i medesimi titoli,
che avrebbero dovuto essere documentati dal candidato solo al
momento eventuale dell'assunzione con contratto di formazionelavoro. Il giudice ha ravvisato in questo caso una discriminazione
indiretta nei confronti delle donne ex art. 4 l. n. 125 del 1991, in
quanto, per un verso, i due avvisi di selezione erano differenziati
per numero di posti, requisiti di ricevibilità della domanda e tempo di
utilizzo delle graduatorie; per altro verso, i dati statistici mostravano
che solo dove era stato consentito di poter conseguire il possesso
della abilitazione alla guida D o DE e il certificato di abilitazione
professionale al momento dell’assunzione, dopo lo svolgimento delle
selezioni, il numero delle donne che sono riuscite a diventare “autiste
di linea” è stato abbastanza rilevante. In base all'art. 4, comma 5, l. n.
125 del 1991, la legge attribuisce alla prova statistica il valore di
elemento presuntivo idoneo a individuare fattispecie di
discriminazioni indirette e collettive in ragioni del sesso. A norma
dell'art. 15 l. n. 903 del 1977 i Consiglieri regionali di parità sono
legittimati a denunciare atti di discriminazione di genere
nell'assunzione dei lavoratori: sono essi i principali promotori delle
azioni positive volte alla realizzazione della parità uomo donna ex art.
1 l. n. 125 del 1991. Anche alle organizzazioni sindacali, a norma
dell'art. 15 l. n. 903 del 1977, è riconosciuta la facoltà di impugnare un
provvedimento che si assuma diretto a violare il divieto legislativo di
discriminazione fondata sul sesso in materia di accesso sul lavoro
(Pret. Bologna, 27 giugno 1998, in Riv. Giur. Lav., 1999, II, 217).
IV. Affinchè possa realizzarsi una discriminazione indiretta, ai sensi
dell'art. 4 l. 10 aprile 991 n. 125, è necessaria la sussistenza di criteri
che pregiudichino i lavoratori di uno dei due sessi e riguardino
requisiti
non
essenziali allo svolgimento della prestazione
163
lavorativa. Nella specie il giudicante ha escluso la ricorrenza di una
tale discriminazione nell'accesso alla categoria dirigenziale di una
donna, in quanto il datore di lavoro aveva adottato criteri essenziali
alla prestazione di la voro del dirigente (Pret. Milano, 16 luglio 1994,
in Giur. It., 1995, I, 2, 745).
4. Atti discriminatori
I. Costituisce discriminazione ai sensi dell'art. 4 l. n. 223 del 1991e
dell'art. 1 l. n. 903 del 1977, sanzionabile ai sensi della procedura
sommaria prevista dall'art. 15 l. n. 903 del 1977, il comportamento
del datore di lavoro che impedisce ad una lavoratrice in stato di
gravidanza la frequenza a un corso di formazione esterna, non
avente carattere pericoloso, faticoso o insalubre, adducendo quale
motivazione dell'esclusione il divieto di cui all'art. 4 l. n. 1204 del
1971 (Trib. Teramo, 3 dicembre 1999, in Lav. Giur., 2000, 353).
II. Ai fini dell’accertamento della discriminatorietà del
comportamento del datore di lavoro, ex art. 1 L. 9 dicembre 1977
n. 903 sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di
lavoro, non è sufficiente addurre il mero dato oggettivo della assoluta
mancanza di donne tra il personale assunto, essendo invece necessario
dimostrare in modo inequivocabile la sussistenza di un intento
discriminatorio in capo al datore di lavoro. Nel caso di specie
l'azienda aveva assunto con contratto di formazione e lavoro 250
lavoratori tutti di sesso maschile, non convocando in azienda nè
sottoponendo a colloquio o altra forma di selezione nessuna, o solo
alcuna, delle donne che avevano presentato domanda di assunzione
(Pret. Pomigliano D’Arco, 20 marzo 1990, in Giust. civ., 1991, I,
p.1065).
III. L'art. 1 della L. 9 dicembre 1977 n. 903 (sulla parità di trattamento
fra uomini e donne in materia di lavoro), nel vietare qualsiasi
discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l'accesso al
lavoro, si riferisce non solo all'ipotesi di discriminazione attuata nel
corso di un rapporto di lavoro già costituito ma anche all'ipotesi di
discriminazione attuata nella fase di assunzione, come evidenziato, in
particolare, dalla formulazione dell'ultimo comma dello stesso articolo
(che esclude l'operatività del divieto con riguardo alla assunzione per
determinate attività), con la conseguenza che il rimedio previsto
dall'art. 15 della stessa legge è esperibile anche avverso un atto
discriminatorio attuato in fase di assunzione, in relazione al quale il
164
pretore, nell'ambito dell'ordine di rimozione degli effetti lesivi
dell'atto medesimo, può anche accertare e liquidare il danno subito
dal lavoratore discriminato (Cass. civile, sez. lav., 2 marzo 1989 n.
1168, in Orient. giur. lav., 1989, p. 339).
5. Lavoro notturno
I. La norma nazionale che pone il divieto di lavoro notturno femminile
(art. 5 l. n. 903 del 1977), in quanto contrastante con il principio
comunitario di parità di trattamento fra lavoratori di sesso diverso
introdotto dall'art. 5 n. 2, della direttiva 76/207/Cee, deve essere
disapplicata dal giudice penale, ferma restando l’applicazione del
divieto assoluto per le lavoratrici madri,
dall’accertamento della gravidanza fino al compimento di un anno di
vita del bambino settimo mese per i fatti avvenuti prima dell'entrata in
vigore della l. n. 25 del 1999 (Cass., III sez. penale, 1 luglio 1999 n.
9983, in Foro It., 2000, II, 14).
II. La norma nazionale che pone il divieto di lavoro notturno
femminile (art. 5 l. n. 903 del 1977), ancorchè contrastante con il
principio comunitario di parità di trattamento fra lavoratori di sesso
diverso introdotto dall'art. 5 n. 2, della direttiva comunitaria n.
76/207/Cee, non può essere disapplicata dal giudice di merito in sede
di risoluzione di una controversia fra le parti private del rapporto di
lavoro (Cass., sez. lav., 20 novembre 1997 n. 11571, in Foro It.
1998, I, 444).
III. L'art. 1 l. n. 903/1977, sulla parità uomo-donna in materia di
lavoro, che vieta qualsiasi discriminazione fondata sul sesso
nell'accesso al lavoro, disciplina il momento costitutivo del rapporto,
mentre l'art. 5 della stessa legge, recante il divieto per l'imprenditore
di adibire il personale femminile a turni di lavoro notturni, presuppone
già costituito il rapporto, con la conseguenza che le due disposizioni
non presentano interferenze né incompatibilità, operando ciascuna in
un ambito diverso: è pertanto illegittimo, nel caso di azienda
strutturata con ritmi di lavoro implicanti necessariamente l'inserimento
dei dipendenti in turni notturni, il rifiuto del datore di lavoro di
assumere personale femminile (Pret. Roma, 20 gennaio 1994, in
Giur. lav. Lazio, 1994, 363).
165
IV. L’art. 5 della direttiva comunitaria n. 76/207 che, secondo
l'interpretazione della Corte di giustizia, inibisce agli Stati membri
l'adozione di una disciplina che vieti il lavoro notturno femminile,
anche se temperato dalla previsione di deroghe è applicabile anche nei
rapporti fra privati con prevalenza rispetto alla norma interna
contrastante (art. 5 L. 903 del 1977), che deve pertanto essere
disapplicata (Pret. Matera, 14 settembre 1994, in Riv. it. dir. lav.,
1995, II, p. 554 con nota di Carinci).
V. Il contratto collettivo (nazionale, provinciale o aziendale), cui
l'art. 5, comma 2, della L. 9 dicembre 1977 n. 903 (sulla parità di
trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro) riserva in via
esclusiva la possibilità di diversa disciplina o di rimozione del divieto
(stabilito dal precedente comma 1 in relazione alle aziende
manifatturiere, anche artigianali) di adibire le donne (eccettuate
quelle che svolgono mansioni direttive e le addette ai servizi
sanitari aziendali) al lavoro notturno (dalle ore 24 alle ore 6), è
vincolante solo per i soggetti iscritti alla parte sindacale stipulante;
ed in tale ambito -una volta esauriti, secondo la dialettica interna
propria dell'organismo collettivo, i processi interni di formazione
delle scelte negoziali del sindacato- il dissenso dei singoli iscritti,
espresso in costanza d'iscrizione al sindacato, è improduttivo di
effetti (indipendentemente dalla circostanza che esso sia o non
portato a conoscenza della parte datoriale direttamente interessata) sul
contratto collettivo, la cui legittimità, in relazione all'esigenza
(presupposta dalla norma) di un'organizzazione del lavoro tale da
rendere compatibile il lavoro notturno con la tutela della salute e
della sicurezza della donna, deve essere di volta in volta verificata
dal giudice con apposita indagine di merito (Cass. civile, sez. lav., 24
aprile 1993, n. 4802, in Riv. giur. lav., 1993, II, p. 476 con nota di
Assanti).
6. Retribuzione
I. Sussistono gravi, precisi e concordanti indizi di discriminazione in
base al sesso in danno di una lavoratrice responsabile della
comunicazione di marketing, cui non è stata accordata la dirigenza,
qualora, fra l'altro, risulti: che tutti i lavoratori come lei dipendenti
dall'amministratore delegato «con incarichi di un certo rilievo» erano
inquadrati come dirigenti; che lo svolgimento di mansioni attinenti,
come quelle a lei affidate, all'immagine della società (comunicazione,
166
pubbliche relazioni ecc.) era riservato nella società del gruppo a
dirigenti maschi; che su duemila dipendenti della società solo cento
erano donne, fra le quali una sola inquadrata come dirigente a fronte di
circa cinquanta dirigenti maschi; una volta accertata la
discriminazione in base al sesso, essa deve essere rimossa ope iudicis
con pronuncia che dichiari, nella specie, la spettanza della qualifica
dirigenziale e condanni la datrice di lavoro al pagamento delle relative
differenze retributive (Pret. Milano, 22 novembre 1993, in Riv. It.
Dir. Lav., 1994, II, 703).
II. La prassi aziendale di corrispondere, in occasione della festa della
donna, tre ore aggiuntive di retribuzione alle sole dipendenti di sesso
femminile, costituisce uso negoziale legittimo, non assorbibile negli
aumenti collettivi, e non inficiato dalla nullità prevista dall'art. 16 l. 20
maggio 1970 n. 300, per i trattamenti economici di maggior favore,
aventi carattere discriminatorio (Trib. Milano, 8 settembre 1993, in
Riv. Critica Dir. Lav., 1994, 174).
III. La norma dell'art. 20 L. 7 dicembre 1959 n. 1083, che riconosce
al personale del corpo di polizia femminile l'indennità di servizio
speciale e l'indennità speciale di pubblica sicurezza in misura ridotta
rispetto al corrispondente personale maschile del corpo delle
guardie di p.s., non è stata abrogata dall'art. 2 L. 9 dicembre 1977 n.
903, che stabilisce la parità di retribuzione fra uomini e donne. Siffatta
abrogazione, peraltro, è stata espressamente operata dall'art. 144,
comma 3 L. 11 luglio 1980 n. 312 (Nuovo assetto retributivofunzionale dei dipendenti civili e militari dello Stato), con la
conseguenza che solo a partire dall'entrata in vigore di tale legge
le menzionate indennità competono in misura integrale alle donne
del corpo di polizia femminile (Cons. Stato, sez.IV, 6 giugno 1983
n. 394, in Riv. giur. lav., 1984, II, p. 433).
7. Competenza
I. La giurisdizione di una controversia in materia di discriminazione
ex art. 15 l. n. 903 del 1977, insorta dopo il 30 giugno 1998 tra una
lavoratrice dipendente dal Ministero di grazia e giustizia appartiene
alla cognizione del giudice ordinario, in funzione di giudice del
lavoro (Trib. Teramo, 3 dicembre 1999, in Lav. Giur., 2000, 353).
167
NORMATIVA
a cura di Domenica Marianna Lomazzo
1) Costituzione della Repubblica Italiana :- Artt. 3, 37,51…pag. 169
2) Legge 9 dicembre 1977 ,n° 903 “Parità di trattamento tra uomini e
donne in materia di lavoro”……………………………. pag. 170
3) Legge 10 aprile 1991 ,n° 125 “Azioni positive per la realizzazione
della parità uomo donna nel lavoro “………………….. pag. 177
4) Legge 8 marzo 2000.,n° 53 :- “Disposizioni per il sostegno della
maternità e della paternità , per il diritto alla cura e alla
formazione e per il coordinamento dei tempi della città “pag. 189
5) Decreto legislativo 23 maggio 2000, n° 196 :- “Disciplina
dell’attività delle consigliere e dei consiglieri di parità e
disposizioni in materia di azioni positive , a norma dell’art. 47,
comma 1 della legge 17 maggio, n.144”………………..pag. 210
6) Decreto legislativo 9 luglio 2003 , n° 215 :- “Attuazione della
direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone
indipendentemente della razza e dall’origine etnica”…. pag. 226
7) Decreto legislativo 9 luglio 2003, n° 216 :- “ Attuazione della
direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di
occupazione e di condizioni di lavoro “………………..pag. 249
168
Dalla Costituzione della Repubblica Italiana.
Art. 3.
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge,
senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni
politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto
la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Art. 37.
La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse
retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono
consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e
assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. La
legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato. La Repubblica
tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di
lavoro, il diritto alla parità di retribuzione.
Art. 51.
Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici
pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i
requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con
appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini. La legge può,
per l’ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai
cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica.
Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo
necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro.
169
Legge 903/77 - LA NORMATIVA SUL LAVORO LEGGE 903/77
"PARITA' DI TRATTAMENTO TRA UOMINI E DONNE IN
MATERIA DI LAVORO"
Art. 1.
E' vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda
l'accesso al lavoro indipendentemente dalle modalità di assunzione e
qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia
professionale.
La discriminazione di cui al comma precedente è vietata anche se attuata:
1) attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di
gravidanza;
2) in modo indiretto, attraverso meccanismi di preselezione ovvero a mezzo
stampa o con qualsiasi altra forma pubblicitaria che indichi come requisito
professionale l'appartenenza all'uno o all'altro sesso.
Il divieto di cui ai commi precedenti si applica anche alle iniziative in
materia di orientamento, formazione, perfezionamento e aggiornamento
professionale, per quanto concerne sia l'accesso sia i contenuti.
Eventuali deroghe alle disposizioni che precedono sono ammesse soltanto
per mansioni di lavoro particolarmente pesanti individuate attraverso la
contrattazione collettiva.
Non costituisce discriminazione condizionare all'appartenenza ad un
determinato sesso l'assunzione in attività della moda, dell'arte e dello
spettacolo, quando ciò sia essenziale alla natura del lavoro o della
prestazione.
Art. 2.
La lavoratrice ha diritto alla stessa retribuzione del lavoratore quando le
prestazioni richieste siano uguali o di pari valore. I sistemi di classificazione
professionale ai fini della determinazione
delle retribuzioni debbono
adottare criteri comuni per uomini e donne.
Art. 3.
E' vietata qualsiasi discriminazione fra uomini e donne per quanto
riguarda l'attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e la progressione nella
carriera.
170
Le assenze dal lavoro, previste dagli articoli 4 e 5 della legge 30 dicembre
1971, n. 1204, sono considerate, ai fini della progressione nella carriera,
come attività lavorativa, quando i contratti collettivi non
richiedano a tale scopo particolari requisiti.
Art. 4.
Le lavoratrici, anche se in possesso dei requisiti per aver diritto alla
pensione di vecchiaia, possono optare di continuare a prestare la loro opera
fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni
legislative, regolamentari e contrattuali, previa comunicazione al datore di
lavoro da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento
del diritto alla pensione di vecchiaia.
Per le lavoratrici che alla data di entrata in vigore della presente legge
prestino ancora attività lavorativa pur avendo maturato i requisiti per avere
diritto alla pensione di vecchiaia, si prescinde dalla comunicazione al datore
di lavoro di cui al comma precedente.
La disposizione di cui al primo comma si applica anche alle lavoratrici che
maturino i requisiti previsti entro i tre mesi successivi alla entrata in vigore
della presente legge. In tal caso la comunicazione al datore di lavoro dovrà
essere effettuata non oltre la data in cui i predetti requisiti vengono maturati.
Nelle ipotesi di cui ai commi precedenti si applicano alle lavoratrici le
disposizioni della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modifiche ed
integrazioni, in deroga all'articolo 11 della legge stessa.
Art. 5.
Nelle aziende manifatturiere, anche artigianali, è vietato adibire le donne al
lavoro dalle ore 24 alle ore 6. Tale divieto non si applica alle donne che
svolgono mansioni direttive, nonché alle addette ai servizi sanitari aziendali.
Il divieto di cui al comma precedente può essere diversamente disciplinato,
o rimosso, mediante contrattazione collettiva, anche aziendale, in relazione
a particolari esigenze della produzione e tenendo conto delle condizioni
ambientali del lavoro e dell'organizzazione dei servizi. Della relativa
regolamentazione le parti devono congiuntamente dare comunicazione entro
quindici giorni all'ispettorato del lavoro, precisando il numero delle
lavoratrici interessate.
Il divieto di cui al primo comma non ammette deroghe per le donne
dall'inizio dello stato di gravidanza e fino al compimento del settimo
mese di età del bambino.
171
Art. 6.
Le lavoratrici che abbiano adottato bambini, o che li abbiano ottenuti in
affidamento preadottivo, ai sensi dell'articolo 314/20 del codice civile,
possono avvalersi, sempre ché in ogni caso il bambino non abbia superato al
momento dell'adozione o dell'affidamento i sei anni di età, dell'astensione
obbligatoria dal lavoro di cui all'articolo 4, lettera c), della legge 30
dicembre 1971, n. 1204, e del trattamento economico relativo, durante i
primi tre mesi successivi all'effettivo ingresso del bambino nella famiglia
adottiva o affidataria.
Le stesse lavoratrici possono altresì avvalersi del diritto di assentarsi dal
lavoro di cui all'articolo 7, primo comma, della legge di cui sopra entro un
anno dall'effettivo ingresso del bambino nella famiglia e sempre ché il
bambino non abbia superato i tre anni di età, nonché del diritto di assentarsi
dal lavoro previsto dal secondo comma dello stesso articolo 7.
Art. 7.
Il diritto di assentarsi dal lavoro e il trattamento economico previsti
rispettivamente dall'art. 7 e dal secondo comma, dell'art. 15, L. 30 dicembre
1971, n. 1204, sono riconosciuti anche al padre lavoratore anche se adottivo
o affidatario ai sensi dell'art. 314/20 del codice civile in alternativa alla
madre lavoratrice ovvero quando i figli siano affidati al solo padre.
A tal fine, il padre lavoratore presenta al proprio datore di lavoro una
dichiarazione da cui risulti la rinuncia dell'altro genitore ad avvalersi dei
diritti di cui sopra, nonché nel caso di cui al secondo comma dell'articolo 7
della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 il certificato medico attestante la
malattia del bambino.
Nel caso di cui al primo comma dell'articolo 7 della legge 30 dicembre 1971,
n. 1204, il padre lavoratore, entro dieci giorni dalla dichiarazione di cui al
comma precedente, deve altresì presentare al proprio datore di lavoro una
dichiarazione del datore di lavoro dell'altro genitore da cui risulti l'avvenuta
rinuncia.
Le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano ai padri lavoratori,
compresi gli apprendisti, che prestino la loro opera alle dipendenze di privati
datori di lavoro, nonché alle dipendenze delle amministrazioni dello Stato,
anche ad ordinamento autonomo, delle regioni, delle province, dei comuni,
degli altri enti pubblici, anche a carattere economico, e delle società
cooperative, anche se soci di queste ultime.
Sono esclusi i lavoratori a domicilio e gli addetti ai servizi domestici e
familiari (2).
172
(2) La Corte costituzionale con sentenza 14-19 gennaio 1987, n. 1 (Gazz.
Uff. 28 gennaio 1987, n. 5 - Serie speciale), ha dichiarato l'illegittimità
dell'art. 7, L. 9 dicembre 1977, n. 903, nella parte in cui non prevede che il
diritto all'astensione dal lavoro e il diritto al godimento dei riposi giornalieri,
riconosciuti alla sola madre lavoratrice, rispettivamente dagli artt. 6, L. 9
dicembre 1977, n. 903, 4, lett. c), e 10, L. 31 dicembre 1971, n. 1204, siano
riconosciuti anche al padre lavoratore ove l'assistenza della madre al minore
sia divenuta impossibile per decesso o grave infermità. Con altra sentenza
11-15 luglio 1991, n. 341 (Gazz. Uff. 24 luglio 1991, n. 29 - Serie speciale),
la Corte ha dichiarato l'illegittimità del primo comma dell'art. 7, nella parte
in cui non consente al lavoratore, affidatario di minore ai sensi dell'art. 10, L.
4 maggio 1983, n. 184, l'astensione dal lavoro durante i primi tre mesi
successivi all'effettivo ingresso del bambino nella famiglia affidataria, in
alternativa alla moglie lavoratrice. La stessa Corte, con sentenza 2-21 aprile
1993, n. 179 (Gazz. Uff. 28 aprile 1993, n. 18 - Serie speciale), ha dichiarato
l'illegittimità dell'art. 7, nella parte in cui non estende, in via generale ed in
ogni ipotesi, al padre lavoratore, in alternativa alla madre lavoratrice
consenziente, il diritto ai riposi giornalieri previsti dall'art. 10, legge 30
dicembre 1971, n. 1204, per l'assistenza al figlio nel suo primo anno di vita.
Art. 8.
Per i riposi di cui all'articolo 10 della legge 30 gennaio 1971, n. 1204, con
effetto dal 1° gennaio 1978, è dovuta dall'ente assicuratore di malattia,
presso il quale la lavoratrice è assicurata, un'indennità pari all'intero
ammontare della retribuzione relativa ai riposi medesimi.
L'indennità è anticipata dal datore di lavoro ed è portata a conguaglio con gli
apporti contributivi dovuti all'ente assicuratore. All'onere derivante agli enti
di malattia per effetto della disposizione di cui al primo comma, si fa fronte
con corrispondenti apporti dello Stato.
A tal fine gli enti di malattia tengono apposita evidenza contabile.
Art. 9.
Gli assegni familiari, le aggiunte di famiglia e le maggiorazioni delle
pensioni per familiari a carico possono essere corrisposti, in alternativa, alla
donna lavoratrice o pensionata alle stesse condizioni e con gli stessi limiti
previsti per il lavoratore o pensionato. Nel caso di richiesta di entrambi i
genitori gli assegni familiari, le aggiunte di famiglia e le maggiorazioni delle
pensioni per familiari a carico debbono essere corrisposti al genitore con il
173
quale il figlio convive. Sono abrogate tutte le disposizioni legislative che
siano in contrasto con la norma di cui al comma precedente.
Art. 10.
Alla lettera b) dell'art. 205 del testo unico delle disposizioni per
l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali,
approvate con D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, le parole «loro mogli e figli»
sono sostituite con le parole «loro coniuge e figli».
Art. 11.
Le prestazioni ai superstiti, erogate dall'assicurazione generale obbligatoria,
per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, gestita dal Fondo pensioni per i
lavoratori dipendenti, sono estese, alle stesse condizioni previste per la
moglie dell'assicurato o del pensionato, al marito dell'assicurata o della
pensionata deceduta posteriormente alla data di entrata in vigore della
presente legge (3).
La disposizione di cui al precedente comma si applica anche ai dipendenti
dello Stato e di altri enti pubblici nonché in materia di trattamenti
pensionistici sostitutivi ed integrativi dell'assicurazione generale obbligatoria
per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti e di trattamenti a carico di fondi,
gestioni ed enti istituiti per lavoratori dipendenti da datori di lavoro esclusi
od esonerati dall'obbligo dell'assicurazione medesima, per lavoratori
autonomi e per liberi professionisti.
(3) La Corte costituzionale, con sentenza 25-30 gennaio 1980, n. 6 (Gazz.
Uff. 6 febbraio 1980, n. 36), ha dichiarato: a) l'illegittimità dell'art. 13,
R.D.L. 14 aprile 1939, n. 636, convertito nella L. 6 luglio 1939, n. 1272,
sostituito con l'art. 2, L. 4 aprile 1952, n. 218, e con l'art. 22, L. 21 luglio
1965, n. 903, nella parte in cui (comma quinto) stabilisce che «se superstite è
il marito la pensione è corrisposta solo nel caso che esso sia riconosciuto
invalido al lavoro ai sensi del primo comma dell'art. 10»; b) d'ufficio, ai
sensi dell'art. 27, L. 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità dell'art. 11, comma
primo, L. 9 dicembre 1977, n. 903, limitatamente alle parole «deceduta
posteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge».
Art. 12.
Le prestazioni ai superstiti previste dal testo unico delle disposizioni per
l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le mala ttie
professionali, approvato con D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, e della legge 5
174
maggio 1976, n. 248, sono estese alle stesse condizioni stabilite per la
moglie del lavoratore al marito della lavoratrice deceduta posteriormente alla
data di entrata in vigore della presente legge (4).
(4) La Corte costituzionale, con sentenza 24 aprile 1986, n. 117 (Gazz. Uff.
7 maggio 1986, n. 20 - Serie speciale), ha dichiarato l'illegittimità del
presente art. 12 limitatamente alle parole «deceduta posteriormente alla data
di entrata in vigore della presente legge».
13. (5).
(5) Sostituisce l'ultimo comma dell'art. 15, L. 20 maggio 1970, n. 300.
Art. 14.
Alle lavoratrici autonome che prestino lavoro continuativo nell'impresa
familiare è riconosciuto il diritto di rappresentare l'impresa negli organi
statutari delle cooperative, dei consorzi e di ogni altra forma associativa.
Art. 15.
Qualora vengano posti in essere comportamenti diretti a violare le
disposizioni di cui agli articoli 1 e 5 della presente legge, su ricorso del
lavoratore o per sua delega delle organizzazioni sindacali, il pretore del
luogo ove è avvenuto il comportamento denunziato, in funzione di giudice
del lavoro, nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie
informazioni, se ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, ordina
all'autore del comportamento denunciato, con decreto motivato ed
immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la
rimozione degli effetti. L'efficacia esecutiva del decreto non può essere
revocata fino alla sentenza con cui il pretore definisce il giudizio instaurato a
norma del comma seguente.
Contro il decreto è ammessa entro quindici giorni dalla comunicazione alle
parti opposizione davanti al pretore che decide con sentenza
immediatamente esecutiva. Si osservano le disposizioni degli articoli 413 e
seguenti del codice di procedura civile.
L'inottemperanza al decreto di cui al primo comma o alla sentenza
pronunciata nel giudizio di opposizione è punita ai sensi dell'artic olo 650 del
codice penale.
Ove le violazioni di cui al primo comma riguardino dipendenti pubblici si
applicano le norme previste in materia di sospensione dell'atto dell'art. 21,
ultimo comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034.
175
Art. 16.
L'inosservanza delle disposizioni contenute negli articoli 1, primo, secondo e
terzo comma, 2, 3 e 4 della presente legge, è punita con l'ammenda da lire
200.000 a lire 1.000.000.
L'inosservanza delle disposizioni contenute nell'articolo 5 è punita con
l'ammenda da lire 20.000 a lire 100.000 per ogni lavoratrice occupata e per
ogni giorno di lavoro, con un minimo di lire 400.000 (6). Per l'inosservanza
delle disposizioni di cui agli articoli 6 e 7 si applicano le penalità previste
dall'articolo 31 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204. (6) A norma dell'art.
27 c.p. le pene proporzionali non hanno limite massimo.
Art. 17.
Agli oneri derivanti dall'applicazione degli articoli 9 e 11 della presente
legge, valutati, in ragione d'anno, rispettivamente in 10 ed in 18 miliardi di
lire, si provvede per l'anno finanziario 1977 con un'aliquota delle maggiori
entrate di cui al decreto-legge 8 ottobre 1976, n. 691, convertito nella legge
30 novembre 1976, n. 786, concernente modificazioni al regime fiscale di
alcuni prodotti petroliferi e del gas metano per autotrazione.
Il Ministro per il tesoro è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le
occorrenti variazioni di bilancio.
Art. 18.
Il Governo è tenuto a presentare ogni anno al Parlamento una relazione sullo
stato di attuazione della presente legge.
Art. 19.
Sono abrogate tutte le disposizioni legislative in contrasto con le norme della
presente legge. In conseguenza, cessano di avere efficacia le norme interne e
gli atti di carattere amministrativo dello Stato e degli altri enti pubblici in
contrasto con le disposizioni della presente legge.
Sono altresì nulle le disposizioni dei contratti collettivi o individuali di
lavoro, dei regolamenti interni delle imprese e degli statuti professionali che
siano in contrasto con le norme contenute nella presente legge. La presente
legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione
nella Gazzetta Ufficiale.
176
Legge 10 aprile 1991, n. 125 Azioni positive per la realizzazione della
parità uomo-donna ne l lavoro art. 1
(Finalità)
1. Le disposizioni contenute nella presente legge hanno lo scopo di favorire
l'occupazione femminile e di realizzare, l'uguaglianza sostanziale tra uomini
e donne nel lavoro, anche mediante l'adozione di misure, denominate azioni
positive per le donne, al fine di rimuovere gli ostacoli che di fatto
impediscono la realizzazione di pari opportunità.
2. Le azioni positive di cui al comma 1 hanno in particolare lo scopo di:
a) eliminare le disparità di fatto di cui le donne sono oggetto nella
formazione scolastica e professionale, nell'accesso al lavoro, nella
progressione di carriera, nella vita lavorativa e nei periodi di mobilità;
b) favorire la diversificazione delle scelte professionali delle donne in
particolare attraverso l'orientamento scolastico e professionale e gli strumenti
della formazione; favorire l'accesso al lavoro autonomo e alla formazione
imprenditoriale e la qualificazione professionale delle lavoratrici autonome e
delle imprenditrici;
c) superare condizioni, organizzazione e distribuzione del lavoro che
provocano effetti diversi, a seconda del sesso, nei confronti dei dipendenti
con pregiudizio nella formazione, nell'avanzamento professionale e di
carriera ovvero nel trattamento economico e retributivo;
d) promuovere l'inserimento delle donne nelle attività, nei settori
professionali e nei livelli nei quali esse sono sottorappresentate e in
particolare nei settori tecnologicamente avanzati ed ai livelli di
responsabilità;
e) favorire, anche mediante una diversa organizzazione del lavoro, delle
condizioni e del tempo di lavoro, l'equilibrio tra responsabilità familiari e
professionali e una migliore ripartizione di tali responsabilità tra i due sessi.
3. Le azioni positive di cui ai commi 1 e 2 possono essere promosse dal
Comitato di cui all'articolo 5 e dai consiglieri di parità di cui all'articolo 8,
dai centri per la parità e le pari opportunità a livello nazionale, locale e
177
aziendale, comunque denominati, dai datori di lavoro pubblici e privati, dai
centri di formazione professionale, dalle organizzazioni sindacali nazionali e
territoriali, anche su proposta delle rappresentanze sindacali aziendali o degli
organismi rappresentativi del personale di cui all'articolo 25 della legge 29
marzo 1983, n. 93.
Art. 2 (Attuazione di azioni positive, finanziamenti)
1. Le imprese, anche in forma cooperativa, i loro consorzi, gli enti pubblici
economici, le associazioni sindacali dei lavoratori e i centri di formazione
professionale che adottano i progetti di azioni positive di cui all'articolo 1,
possono richiedere al Ministero del lavoro e della previdenza sociale di
essere ammessi al rimborso totale o parziale di oneri finanziari connessi
all'attuazione dei predetti progetti ad eccezione di quelli di cui all'articolo 3.
2. Il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sentito il Comitato di cui
all'articolo 5, ammette i progetti di azioni positive al beneficio di cui al
comma 1 e, con lo stesso provvedimento, autorizza le relative spese.
L'attuazione dei progetti di cui al comma 1 deve comunque avere inizio entro
due mesi dal rilascio dell'autorizzazione.
3. Con decreto emanato dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di
concerto con il Ministro del tesoro, sono stabilite le modalità di
presentazione delle richieste, di erogazione dei fondi e dei tempi di
realizzazione del progetto. In ogni caso i contributi devono essere erogati
sulla base della verifica dell'attuazione del progetto di azioni positive, o di
singole parti, in relazione alla complessità del progetto stesso. La mancata
attuazione del progetto comporta la decadenza del beneficio e la restituzione
delle somme eventualmente già riscosse. In caso di attuazione parziale, la
decadenza opera limitatamente alla parte non attuata, la cui valutazione è
effettuata in base ai criteri determinati dal decreto di cui al presente comma.
4. I progetti di azioni positive concordate dai datori di lavoro con le
organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale
hanno precedenza nell'accesso al beneficio di cui al comma 1.
5. L'accesso ai fondi comunitari destinati alla realizzazione di programmi o
progetti di azioni positive, ad eccezione di quelli di cui all'articolo 3, è
subordinato al parere del Comitato di cui all'articolo 5.
178
6. Entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge le
amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le regioni, le
province, i comuni e tutti gli enti pubblici non economici, nazionali, regionali
e locali, sentiti gli organismi rappresentativi del personale di cui all'articolo
25 della legge 29 marzo 1983, n. 93, o in loro mancanza, le organizzazioni
sindacali locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative
sul piano nazionale, sentito inoltre, in relazione alla sfera d'azione della
propria attività, il Comitato di cui all'articolo 5 o il consigliere di parità di cui
all'articolo 8, adottano piani di azioni positive tendenti ad assicurare, nel loro
ambito rispettivo, la rimozione degli ostacoli che, di fatto, impediscono la
piena realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel lavoro tra uomini e
donne.
Art. 3 (Finanziamento delle azioni positive realizzate mediante la
formazione professionale)
1. Al finanziamento dei progetti di formazione finalizzati al perseguimento
dell'obiettivo di cui all'articolo 1, comma 1, autorizzati secondo le procedure
previste dagli articoli 25, 26 e 27 della legge 21 dicembre 1978, n. 845, ed
approvati dal Fondo sociale europeo, è destinata una quota del fondo di
rotazione istituito dall'articolo 25 della stessa legge, determinata annualmente
con deliberazione del Comitato interministeriale per la programmazione
economica. In sede di prima applicazione la predetta quota è fissata nella
misura del dieci per cento.
2. La finalizzazione dei progetti di formazione al perseguimento
dell'obiettivo di cui all'articolo 1, comma 1, viene accertata, entro il 31 marzo
dell'anno in cui l'iniziativa deve essere attuata, dalla commissione regionale
per l'impiego. Scaduto il termine, al predetto accertamento provvede il
Comitato di cui all'articolo 5.
3. La quota del Fondo di rotazione di cui al comma 1 è ripartita tra le regioni
in misura proporzionale all'ammontare dei contributi richiesti per i progetti
approvati.
Art. 4 (Azioni in giudizio)
1. Costituisce discriminazione, ai sensi della legge 9 dicembre 1977, n. 903,
qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole
discriminando anche in via indiretta i lavoratori in ragione del sesso.
179
2. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole
conseguente alla adozione di criteri che svantaggino in modo
proporzionalmente maggiore i lavoratori dell'uno o dell'altro sesso e
riguardino i requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa.
3. Nei concorsi pubblici e nelle forme di selezione attuate da imprese private
e pubbliche la prestazione richiesta deve essere accompagnata dalle parole
"dell'uno o dell'altro sesso", fatta eccezione per i casi in cui il riferimento al
sesso costituisca requisito essenziale per la natura del lavoro o della
prestazione.
4. Chi intende agire in giudizio per la dichiarazione delle discriminazioni ai
sensi dei commi 1 e 2 e non ritiene di avvalersi delle procedure di
conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il tentativo di
conciliazione ai sensi dell'articolo 410 del codice di procedura civile anche
tramite il consigliere di parità di cui all'articolo 8, comma 2, competente per
territorio.
5. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto - desunti anche da dati di
carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi,
all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione
in carriera ed ai licenziamenti - idonei a fondare, in termini precisi e
concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti o comportamenti
discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere della prova
sulla insussistenza della discriminazione.
6. Qualora il datore di lavoro ponga in essere un atto o un comportamento
discriminatorio di carattere collettivo, anche quando non siano individuabili
in modo immediato e diretto i lavoratori lesi dalle discriminazioni, il ricorso
può essere proposto dal consigliere di parità istituito al livello regionale,
previo parere non vincolante del collegio istruttorio di cui all'articolo 7, da
allegare al ricorso stesso, e sentita la commissione regionale per l'impiego.
Decorso inutilmente il termine di trenta giorni dalla richiesta del parere al
collegio istruttorio, il ricorso può essere comunque proposto.
7. Il giudice, nella sentenza che accerta le discriminazioni sulla base del
ricorso presentato ai sensi del comma 6, ordina al datore di lavoro di definire,
sentite le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, le
organizzazioni sindacali locali aderenti alle organizzazioni sindacali
maggiormente rappresentative sul piano nazionale, nonché il consigliere
180
regionale per la parità competente per territorio, un piano di rimozione delle
discriminazioni accertate. Nella sentenza il giudice fissa un termine per la
definizione del piano.
8. In caso di mancata ottemperanza alla sentenza di cui al comma 7 si applica
l'articolo 650 del codice penale richiamato dall'articolo 15 della legge 9
dicembre 1977, n. 903.
9. Ogni accertamento di atti o comportamenti discriminatori ai sensi dei
commi 1 e 2, posti in essere da imprenditori ai quali siano stati accordati
benefici ai sensi delle vigenti leggi dello Stato, ovvero che abbiano stipulato
contratti di appalto attinenti all'esecuzione di opere pubbliche, di servizi o di
forniture, viene comunicato immediatamente dall'ispettorato del lavoro ai
Ministri nelle cui amministrazioni sia stata disposta la concessione del
beneficio o dell'appalto. Questi adottano le opportune determinazioni, ivi
compresa, se necessario, la revoca del beneficio e, nei casi più gravi o nel
caso di recidiva, possono decidere l'esclusione del responsabile per un
periodo di tempo fino a due anni da qualsiasi ulteriore concessione di
agevolazioni finanziarie o creditizie ovvero da qualsiasi appalto. Tale
disposizione si applica anche quando si tratti di agevolazioni finanziarie o
creditizie ovvero di appalti concessi da enti pubblici, ai quali l'ispettorato del
lavoro comunica direttamente la discriminazione accertata per l'adozione
delle sanzioni previste.
10. Resta fermo quanto stabilito dall'articolo 15 della legge 9 dicembre 1977,
n. 903.
Art. 5 (Comitato nazionale per l'attuazione dei principi di parità di
trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici)
1. Al fine di promuovere la rimozione dei comportamenti discriminatori per
sesso e di ogni altro ostacolo che limiti di fatto l'uguaglianza delle donne
nell'accesso al lavoro e sul lavoro e la progressione professionale e di carriera
è istituito, presso il Ministero del lavoro e della previdenza sociale, il
Comitato nazionale per l'attuazione dei principi di parità di trattamento ed
uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici.
2. Fanno parte del Comitato:
181
a) il Ministro del lavoro e della previdenza socia le o, per sua delega, un
Sottosegretario di Stato, con funzioni di presidente;
b) cinque componenti designati dalle confederazioni sindacali dei lavoratori
maggiormente rappresentative sul piano nazionale;
c) cinque componenti designati dalle confederazioni sindacali dei datori di
lavoro dei diversi settori economici, maggiormente rappresentative sul piano
nazionale;
d) un componente designato unitariamente dalle associazioni di
rappresentanza, assistenza e tutela del movimento cooperativo più
rappresentative sul piano nazionale;
e) undici componenti designati dalle associazioni e dai movimenti femminili
più rappresentativi sul piano nazionale operanti nel campo della parità e delle
pari opportunità nel lavoro;
f) il consigliere di parità componente la commissione centrale per l'impiego.
3. Partecipano, inoltre, alle riunioni del Comitato, senza diritto di voto:
a) sei esperti in materie giuridiche, economiche e sociologiche, con
competenze in materia di lavoro;
b) cinque rappresentanti, rispettivamente, dei Ministeri della pubblica
istruzione, di grazia e giustizia, degli affari esteri, dell'industria, del
commercio e dell'artigianato, del Dipartimento della funzione pubblica;
c) cinque funzionari del Ministero del lavoro e della previdenza sociale con
qualifica non inferiore a quella di primo dirigente, in rappresentanza delle
Direzioni generali per l'impiego, dei rapporti di lavoro, per l'osservatorio del
mercato del lavoro, della previdenza ed assistenza sociale nonché dell'ufficio
centrale per l'orientamento e la formazione professionale dei lavoratori.
4. I componenti del Comitato durano in carica tre anni e sono nominati dal
Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Per ogni componente effettivo
è nominato un supplente.
182
5. Il Comitato è convocato, oltre che ad iniziativa del Ministro del lavoro e
della previdenza sociale, quando ne facciano richiesta metà più uno dei suoi
componenti.
6. Il Comitato delibera in ordine al proprio funzionamento e a quello del
collegio istruttorio e della segreteria tecnica di cui all'art. 7, nonché in ordine
alle relative spese.
7. Il vicepresidente del Comitato è designato dal Ministro del lavoro e della
previdenza sociale nell'ambito dei suoi componenti.
Art. 6 (Compiti del Comitato)
1. Per il perseguimento delle finalità di cui all'art. 5, comma 1, il Comitato
adotta ogni iniziativa utile ed in particolare:
a) formula proposte sulle questioni generali relative all'attuazione degli
obiettivi della parità e delle pari opportunità, nonché per lo sviluppo e il
perfezionamento della legislazione vigente che direttamente incide sulle
condizioni di lavoro delle donne;
b) informa e sensibilizza l'opinione pubblica sulla necessità di promuovere le
pari opportunità per le donne nella formazione e nella vita lavorativa;
c) promuove l'adozione di azioni positive da parte delle istituzioni pubbliche
preposte alla politica del lavoro, nonché da parte dei soggetti di cui all'art. 2;
d) esprime, a maggioranza, parere sul finanziamento dei progetti di azioni
positive ed opera il controllo sui progetti in itinere verificandone la corretta
attuazione e l'esito finale;
e) elabora codici di comportamento diretti a specificare le regole di condotta
conformi alla parità e ad individuare le manifestazioni anche indirette delle
discriminazioni;
f) verifica lo stato di applicazione della legislazione vigente in materia di
parità;
183
g) propone soluzioni alle controversie collettive, anche indirizzando gli
interessati all'adozione di piani di azioni positive per la rimozione delle
discriminazioni pregresse e la creazione di pari opportunità per le lavoratrici;
h) può richiedere all'ispettorato del lavoro di acquisire presso i luoghi di
lavoro informazioni sulla situazione occupazionale maschile e femminile, in
relazione allo stato delle assunzioni, della formazione e promozione
professionale;
i) promuove una adeguata rappresentanza di donne negli organismi pubblici
nazionali e locali competenti in materia di lavoro e formazione professionale;
l) redige il rapporto di cui all'art. 10.
Art. 7 (Collegio istruttorio e segreteria tecnica)
1. Per l'istruzione degli atti relativi alla individuazione e alla rimozione delle
discriminazioni e per la redazione dei pareri al comitato di cui all'articolo 5 e
ai consiglieri di parità, è istituito un collegio istruttorio così composto:
a) il vicepresidente del Comitato di cui all'articolo 5, che lo presiede;
b) un magistrato designato dal Ministero di grazia e giustizia fra quelli che
svolgono funzioni di giudice del lavoro;
c) un dirigente superiore del ruolo dell'ispettorato del lavoro;
d) gli esperti di cui all'articolo 5, comma 3, lettera a);
e) il consigliere di parità di cui all'articolo 8, comma 4.
2. Ove si renda necessario per le esigenze di ufficio, i componenti di cui alle
lettere b) e c) del comma 1, su richie sta del Comitato di cui all'articolo 5
possono essere elevati a due.
3. Al fine di provvedere alla gestione amministrativa ed al supporto tecnico
del comitato e del collegio istruttorio è istituita la segreteria tecnica. Essa ha
compiti esecutivi alle dipendenze della presidenza del Comitato ed è
composta di personale proveniente dalle varie direzioni generali del
Ministero del lavoro e della previdenza sociale, coordinato da un dirigente
184
generale del medesimo Ministero. La composizione della segreteria tecnica è
determinata con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale,
sentito il Comitato.
4. Il Comitato ha facoltà di deliberare in ordine la stipula di convenzioni per
la effettuazione di studi e ricerche.
Art. 8 (Consiglieri di parità)
1. I consiglieri di parità di cui al decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726,
convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863, sono
componenti a tutti gli effetti delle rispettive commissioni regionali per
l'impiego.
2. A livello provinciale è nominato un consigliere di parità presso la
commissione circoscrizionale per l'impiego che ha sede nel capoluogo di
provincia, con facoltà di intervenire presso le altre commissioni
circoscrizionali per l'impiego operanti nell'ambito della medesima provincia.
3. I consiglieri di parità di cui ai commi 1 e 2 sono nominati dal Ministro del
lavoro e della previdenza sociale su designazione del competente organo
delle regioni, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente
rappresentative a livello nazionale e devono essere scelti tra persone che
abbiano maturato un'esperienza tecnico-professionale di durata almeno
triennale nelle materie concernenti l'ambito della presente legge.
4. Il consigliere di parità di cui all'articolo 4, comma 2, della legge 28
febbraio 1987, n. 56, è componente con voto deliberativo della commissione
centrale per l'impiego.
5. Qualora si determini parità di voti nelle commissioni di cui ai commi 1, 2 e
4 prevale il voto del presidente.
6. Oltre ai compiti ad essi assegnati dalla legge nell'ambito delle competenze
delle commissioni circoscrizionali regionali e centrale per l'impiego, i
consiglieri di parità svolgono ogni utile iniziativa per la realizzazione delle
finalità della presente legge. Nell'esercizio delle funzioni loro attribuite, i
consiglieri di parità sono pubblici funzionari e hanno l'obbligo di rapporto
all'autorità giudiziaria per i reati di cui vengono a conoscenza nell'esercizio
delle funzioni medesime. I consiglieri di parità, ai rispettivi livelli, sono
185
componenti degli organismi di parità presso gli enti locali regionali e
provinciali.
7. Per l'espletamento dei propri compiti i consiglieri di parità possono
richiedere all'ispettorato del lavoro di acquisire presso i luoghi di lavoro
informazioni sulla situazione occupazionale maschile e femminile, in
relazione allo stato delle assunzioni, della formazione e promozione
professionale.
8. I consiglieri di parità di cui al comma 2 e quelli regionali competenti per
territorio, ferma restando l'azione in giudizio di cui all'articolo 4, comma 6,
hanno facoltà di agire in giudizio sia nei procedimenti promossi davanti al
pretore in funzione di giudice del lavoro che davanti al tribunale
amministrativo regionale su delega della lavoratrice ovvero di intervenire nei
giudizi promossi dalla medesima ai sensi dell'articolo 4.
9. I consiglieri di parità ricevono comunicazioni sugli indirizzi dal comitato
di cui all'articolo 5 e fanno ad esso relazione circa la propria attività. I
consiglieri di parità hanno facoltà di consultare li comitato e il consigliere
nazionale di parità su ogni questione ritenuta utile.
10. I consiglieri di parità di cui ai commi 1, 2 e 4, per l'esercizio delle loro
funzioni, sono domiciliati rispettivamente presso l'ufficio regionale del
lavoro e della massima occupazione, l'ufficio provinciale del lavoro e della
massima occupazione e presso una direzione generale del Ministero del
lavoro e della previdenza sociale. Tali uffici assicurano la sede, l'attrezzatura,
il personale e quanto necessario all'espletamento delle funzioni dei
consiglieri di parità. Il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, con
proprio decreto, può modificare la collocazione del consigliere di parità
nell'ambito del Ministero.
11. Oltre al gettone giornaliero di presenza per la partecipazione alle riunioni
delle commissioni circoscrizionali, regionali e centrale per l'impiego,
spettano ai consiglieri di parità gettoni dello stesso importo per le giornate di
effettiva presenza nelle sedi dove sono domiciliati in ragione del loro ufficio,
entro un limite massimo fissato annualmente con decreto del Ministro del
lavoro e della previdenza sociale. L'onere relativo fa carico al bilancio del
Ministero del lavoro e della previdenza sociale.
186
12. Il consigliere di parità ha diritto, se lavoratore dipendente, a permessi non
retribuiti per l'espletamento del suo mandato. Quando intenda esercitare
questo diritto, deve darne comunicazione scritta al datore di lavoro, di regola
tre giorni prima.
Art. 9 (Rapporto sulla situazione del personale)
1. Le aziende pubbliche e private che occupano oltre cento dipendenti sono
tenute a redigere un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del
personale maschile e femminile in ognuna delle professioni ed in relazione
allo stato delle assunzioni, della formazione, della promozione professionale,
dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di
mobilità, dell'intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti,
dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente
corrisposta.
2. Il rapporto di cui al comma 1 è trasmesso alle rappresentanze sindacali
aziendali e al consigliere regionale di parità.
3. Il primo rapporto deve essere redatto entro un anno dalla data di entrata in
vigore della presente legge, in conformità alle indicazioni definite,
nell'ambito delle specificazioni di cui al coma 1, dal Ministro del lavoro e
della previdenza sociale, con proprio decreto da emanarsi entro tre mesi dalla
data di entrata in vigore della presente legge.
4. Qualora, nei termini prescritti, le aziende di cui al comma 1 non
trasmettano il rapporto, l'Ispettorato regionale del lavoro, previa segnalazione
dei soggetti di cui al comma 2, invita le aziende stesse a provvedere entro
sessanta giorni. In caso di inottemperanza si applicano le sanzioni di cui
all'articolo 11 del decreto del Presidente della Repubblica 19 marzo 1955, n.
520. Nei casi più gravi può essere disposta la sospensione per un anno di
benefici contributivi eventualmente goduti dall'azienda.
Art. 10 (Relazione al Parlamento)
1. Trascorsi due anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il
Ministro del lavoro e della previdenza sociale riferisce, entro trenta giorni,
alle competenti commissioni parlamentari del Senato della Repubblica e
della Camera dei deputati sull'attuazione della legge stessa, sulla base di un
rapporto redatto dal Comitato di cui all'articolo 5.
187
Art. 11 (Copertura finanziaria)
1. Per il funzionamento degli organi di cui agli articoli 5 e 7, a decorrere dal
1991, è autorizzata la spesa di lire 1.000 milioni annui. Per il finanziamento
degli interventi previsti dall'articolo 2 è autorizzata, a decorrere dal 1991, la
spesa di lire 9.000 milioni annui. Con decreto del Ministro del lavoro e della
previdenza sociale, di concerto con il Ministro del tesoro, viene stabilita la
misura del compenso da corrispondere ai componenti del Comitato nazionale
di cui all'articolo 5 e del Collegio istruttorio e della segreteria tecnica di cui
all'articolo 7.
2. All'onere di lire 10.000 milioni annui nel triennio 1991-1993 si provvede
mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del
bilancio triennale 1991-1993, al capitolo 6856 dello stato di previsione del
Ministero del tesoro per l'anno 1991 utilizzando l'accantonamento
"Finanziamento del Comitato nazionale per la parità presso il Ministero e
delle azioni positive per le pari opportunità".
3. Il Ministro del tesoro è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le
occorrenti variazioni di bilancio.
188
LEGGE 8 marzo 2000, n.53
Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il
diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle
città.
La Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica hanno approvato;
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Promulga la seguente legge:
Capo I
PRINCIPI GENERALI
Art. 1. (Finalità).
1. La presente legge promuove un equilibrio tra tempi di lavoro, di cura, di
formazione e di relazione, mediante:
a) l'istituzione dei congedi dei genitori e l'estensione del sostegno ai genitori
di soggetti portatori di handicap;
b) l'istituzione del congedo per la formazione continua e l'estensione dei
congedi per la formazione;
c) il coordinamento dei tempi di funzionamento delle città e la promozione
dell'uso del tempo per fini di solidarietà sociale.
Art. 2. (Campagne informative).
1. Al fine di diffondere la conoscenza delle disposizioni della presente legge,
il Ministro per la solidarietà sociale è autorizzato a predisporre, di concerto
con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, apposite campagne
informative, nei limiti degli ordinari stanziamenti di bilancio destinati allo
scopo.
189
Capo II
CONGEDI PARENTALI, FAMILIARI E FORMATIVI
Art. 3. (Congedi dei genitori).
1. All'articolo 1 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, dopo il terzo comma
è inserito il seguente: "Il diritto di astenersi dal lavoro di cui all'articolo 7, ed
il relativo trattamento economico, sono riconosciuti anche se l'altro genitore
non ne ha diritto. Le disposizioni di cui al comma 1 dell'articolo 7 e al
comma 2 dell'articolo 15 sono estese alle lavoratrici di cui alla legge 29
dicembre 1987, n. 546, madri di bambini nati a decorrere dal 1o gennaio
2000. Alle predette lavoratrici i diritti previsti dal comma 1 dell'articolo 7 e
dal comma 2 dell'articolo 15 spettano limitatamente ad un periodo di tre
mesi, entro il primo anno di vita del bambino".
2. L'articolo 7 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, e' sostituito dal
seguente:
Art. 7.
1. Nei primi otto anni di vita del bambino ciascun genitore ha diritto di
astenersi dal lavoro secondo le modalità stabilite dal presente articolo. Le
astensioni dal lavoro dei genitori non possono complessivamente eccedere il
limite di dieci mesi, fatto salvo il disposto del comma 2 del presente articolo.
Nell'ambito del predetto limite, il diritto di astenersi dal lavoro compete:
a) alla madre lavoratrice, trascorso il periodo di astensione obbligatoria di
cui all'articolo 4, primo comma, lettera c), della presente legge, per un
periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi;
b) al padre lavoratore, per un periodo continuativo o frazionato non
superiore a sei mesi;
c) qualora vi sia un solo genitore, per un periodo continuativo o frazionato
non superiore a dieci mesi.
2. Qualora il padre lavoratore eserciti il diritto di astenersi dal lavoro per un
periodo non inferiore a tre mesi, il limite di cui alla lettera b) del comma 1 è
190
elevato a sette mesi e il limite complessivo delle astensioni dal lavoro dei
genitori di cui al medesimo comma è conseguentemente elevato a undici
mesi.
3. Ai fini dell'esercizio del diritto di cui al comma 1, il genitore è tenuto,
salvo casi di oggettiva impossibilità, a preavvisare il datore di lavoro
secondo le modalità e i criteri definiti dai contratti collettivi, e comunque con
un periodo di preavviso non inferiore a quindici giorni.
4. Entrambi i genitori, alternativamente, hanno diritto, altresì, di astenersi dal
lavoro durante le malattie del bambino di età inferiore a otto anni ovvero di
età compresa fra tre e otto anni, in quest'ultimo caso nel limite di cinque
giorni lavorativi all'anno per ciascun genitore, dietro presentazione di
certificato rilasciato da un medico specialista del Servizio sanitario nazionale
o con esso convenzionato. La malattia del bambino che dia luogo a ricovero
ospedaliero interrompe il decorso del periodo di ferie in godimento da parte
del genitore.
5. I periodi di astensione dal lavoro di cui ai commi 1 e 4 sono computati
nell'anzianità di servizio, esclusi gli effetti relativi alle ferie e alla
tredicesima mensilità o alla gratifica natalizia. Ai fini della fruizione del
congedo di cui al comma 4, la lavoratrice ed il lavoratore sono tenuti a
presentare una dichiarazione rilasciata ai sensi dell'articolo 4 della legge 4
gennaio 1968, n. 15, attestante che l'altro genitore non sia in astensione dal
lavoro negli stessi giorni per il medesimo motivo".
3. All'articolo 10 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, sono aggiunti, in
fine, i seguenti commi: "Ai periodi di riposo di cui al presente articolo si
applicano le disposizioni in materia di contribuzione figurativa, nonché di
riscatto ovvero di versamento dei relativi contributi previsti dal comma 2,
lettera b), dell'articolo 15. In caso di parto plurimo, i periodi di riposo sono
raddoppiati e le ore aggiuntive rispetto a quelle previste dal primo comma
del presente articolo possono essere utilizzate anche dal padre".
4. L'articolo 15 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, è sostituito dal
seguente:
191
"Art. 15.
1. Le lavoratrici hanno diritto ad un'indennità giornaliera pari all'80 per cento
della retribuzione per tutto il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro
stabilita dagli articoli 4 e 5 della presente legge. Tale indennità è
comprensiva di ogni altra indennità spettante per malattia.
2. Per i periodi di astensione facoltativa di cui all'articolo 7, comma 1, ai
lavoratori e alle lavoratrici e' dovuta:
a) fino al terzo anno di vita del bambino, un'indennità pari al 30 per cento
della retribuzione, per un periodo massimo complessivo tra i genitori di sei
mesi; il relativo periodo, entro il limite predetto, e' coperto da contribuzione
figurativa;
b) fuori dei casi di cui alla lettera a), fino al compimento dell'ottavo anno di
vita del bambino, e comunque per il restante periodo di astensione
facoltativa, un'indennità pari al 30 per cento della retribuzione, nell'ipotesi in
cui il reddito individuale dell'interessato sia inferiore a 2,5 volte l'importo del
trattamento minimo di pensione a carico dell'assicurazione generale
obbligatoria; il periodo medesimo e' coperto da contribuzione figurativa,
attribuendo come valore retributivo per tale periodo il 200 per cento del
valore massimo dell'assegno sociale, proporzionato ai periodi di riferimento,
salva la facoltà di integrazione da parte dell'interessato, con riscatto ai sensi
dell'articolo 13 della legge 12 agosto 1962, n. 1338, ovvero con versamento
dei relativi contributi secondo i criteri e le modalità della prosecuzione
volontaria.
3. Per i periodi di astensione per malattia del bambino di cui all'articolo 7,
comma 4, è dovuta:
a) fino al compimento del terzo anno di vita del bambino, la contribuzione
figurativa;
b) successivamente al terzo anno di vita del bambino e fino al compimento
dell'ottavo anno, la copertura contributiva calcolata con le modalità previste
dal comma 2, lettera b).
192
4. Il reddito individuale di cui al comma 2, lettera b), è determinato secondo
i criteri previsti in materia di limiti reddituali per l'integrazione al minimo.
5. Le indennità di cui al presente articolo sono corrisposte con gli stessi
criteri previsti per l'erogazione delle prestazioni dell'assicurazione
obbligatoria contro le malattie dall'ente assicuratore della malattia presso il
quale la lavoratrice o il lavoratore è assicurato e non sono subordinate a
particolari requisiti contributivi o di anzianità assicurativa".
5. Le disposizioni del presente articolo trovano applicazione anche nei
confronti dei genitori adottivi o affidatari. Qualora, all'atto dell'adozione o
dell'affidamento, il minore abbia un'età compresa fra sei e dodici anni, il
diritto di astenersi dal lavoro, ai sensi dei commi 1 e 2 del presente articolo,
può essere esercitato nei primi tre anni dall'ingresso del minore nel nucleo
familiare. Nei confronti delle lavoratrici a domicilio e delle addette ai servizi
domestici e familiari, le disposizioni dell'articolo 15 della legge 30 dicembre
1971, n. 1204, come sostituito dal comma 4 del presente articolo, si
applicano limitatamente al comma 1.
Art. 4. (Congedi per eventi e caus e particolari).
1. La lavoratrice e il lavoratore hanno diritto ad un permesso retribuito di tre
giorni lavorativi all'anno in caso di decesso o di documentata grave infermità
del coniuge o di un parente entro il secondo grado o del convivente, purché
la stabile convivenza con il lavoratore o la lavoratrice risulti da certificazione
anagrafica. In alternativa, nei casi di documentata grave infermità, il
lavoratore e la lavoratrice possono concordare con il datore di lavoro diverse
modalità di espletamento dell'attività lavorativa.
2. I dipendenti di datori di lavoro pubblici o privati possono richiedere, per
gravi e documentati motivi familiari, fra i quali le patologie individuate ai
sensi del comma 4, un periodo di congedo, continuativo o frazionato, non
superiore a due anni. Durante tale periodo il dipendente conserva il posto di
lavoro, non ha diritto alla retribuzione e non può svolgere alcun tipo di
attività lavorativa. Il congedo non è computato nell'anzianità di servizio né ai
fini previdenziali; il lavoratore può procedere al riscatto, ovvero al
versamento dei relativi contributi, calcolati secondo i criteri della
prosecuzione volontaria.
193
3. I contratti collettivi disciplinano le modalità di partecipazione agli
eventuali corsi di formazione del personale che riprende l'attività lavorativa
dopo la sospensione di cui al comma 2.
4. Entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il
Ministro per la solidarietà sociale, con proprio decreto, di concerto con i
Ministri della sanità, del lavoro e della previdenza sociale e per le pari
opportunità, provvede alla definizione dei criteri per la fruizione dei congedi
di cui al presente articolo, all'individuazione delle patologie specifiche ai
sensi del comma 2, nonché alla individuazione dei criteri per la verifica
periodica relativa alla sussistenza delle condizioni di grave infermità dei
soggetti di cui al comma 1.
Art. 5. (Congedi per la formazione).
1. Ferme restando le vigenti disposizioni relative al diritto allo studio di cui
all'articolo 10 della legge 20 maggio 1970, n. 300, i dipendenti di datori di
lavoro pubblici o privati, che abbiano almeno cinque anni di anzianità di
servizio presso la stessa azienda o amministrazione, possono richiedere una
sospensione del rapporto di la voro per congedi per la formazione per un
periodo non superiore ad undici mesi, continuativo o frazionato, nell'arco
dell'intera vita lavorativa.
2. Per "congedo per la formazione" si intende quello finalizzato al
completamento della scuola dell'obbligo, al conseguimento del titolo di
studio di secondo grado, del diploma universitario o di laurea, alla
partecipazione ad attività formative diverse da quelle poste in essere o
finanziate dal datore di lavoro.
3. Durante il periodo di congedo per la formazione il dipendente conserva il
posto di lavoro e non ha diritto alla retribuzione. Tale periodo non è
computabile nell'anzianità di servizio e non è cumulabile con le ferie, con la
malattia e con altri congedi. Una grave e documentata infermità, individuata
sulla base dei criteri stabiliti dal medesimo decreto di cui all'articolo 4,
comma 4, intervenuta durante il periodo di congedo, di cui sia data
comunicazione scritta al datore di lavoro, da' luogo ad interruzione del
congedo medesimo.
4. Il datore di lavoro può non accogliere la richiesta di congedo per la
formazione ovvero può differirne l'accoglimento nel caso di comprovate
194
esigenze organizzative. I contratti collettivi prevedono le modalità di
fruizione del congedo stesso, individuano le percentuali massime dei
lavoratori che possono avvalersene, disciplinano le ipotesi di differimento o
di diniego all'esercizio di tale facoltà e fissano i termini del preavviso, che
comunque non può essere inferiore a trenta giorni.
5. Il lavoratore può procedere al riscatto del periodo di cui al presente
articolo, ovvero al versamento dei relativi contributi, calcolati secondo i
criteri della prosecuzione volontaria.
Art. 6. (Congedi per la formazione continua).
1. I lavoratori, occupati e non occupati, hanno diritto di proseguire i percorsi
di formazione per tutto l'arco della vita, per accrescere conoscenze e
competenze professionali. Lo Stato, le regioni e gli enti locali assicurano
un'offerta formativa articolata sul territorio e, ove necessario, integrata,
accreditata secondo le disposizioni dell'articolo 17 della legge 24 giugno
1997, n. 196, e successive modificazioni, e del relativo regolamento di
attuazione. L'offerta formativa deve consentire percorsi personalizzati,
certificati e riconosciuti come crediti formativi in ambito nazionale ed
europeo. La formazione può corrispondere ad autonoma scelta del lavoratore
ovvero essere predisposta dall'azienda, attraverso i piani formativi aziendali
o territoriali concordati tra le parti sociali in coerenza con quanto previsto
dal citato articolo 17 della legge n. 196 del 1997, e successive modificazioni.
2. La contrattazione collettiva di categoria, nazionale e decentrata, definisce
il monte ore da destinare ai congedi di cui al presente articolo, i criteri per
l'individuazione dei lavoratori e le modalità di orario e retribuzione connesse
alla partecipazione ai percorsi di formazione.
3. Gli interventi formativi che rientrano nei piani aziendali o territoriali di
cui al comma 1 possono essere finanziati attraverso il fondo
interprofessionale per la formazione continua, di cui al regolamento di
attuazione del citato articolo 17 della legge n. 196 del 1997.
4. Le regioni possono finanziare progetti di formazione dei lavoratori che,
sulla base di accordi contrattuali, prevedano quote di riduzione dell'orario di
lavoro, nonché progetti di formazione presentati direttamente dai lavoratori.
Per le finalità del presente comma è riservata una quota, pari a lire 30
miliardi annue, del Fondo per l'occupazione di cui all'articolo 1, comma 7,
195
del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni,
dalla legge 19 luglio 1993, n. 236. Il Ministro del lavoro e della previdenza
sociale, di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della
programmazione economica, provvede annualmente, con proprio decreto, a
ripartire fra le regioni la predetta quota, sentita la Conferenza permanente
per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di
Bolzano.
Art. 7. (Anticipazione del trattamento di fine rapporto).
1. Oltre che nelle ipotesi di cui all'articolo 2120, ottavo comma, del codice
civile, il trattamento di fine rapporto può essere anticipato ai fini delle spese
da sostenere durante i periodi di fruizione dei congedi di cui all'articolo 7,
comma 1, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, come sostituito
dall'articolo 3, comma 2, della presente legge, e di cui agli articoli 5 e 6 della
presente legge. L'anticipazione e' corrisposta unitamente alla retribuzione
relativa al mese che precede la data di inizio del congedo. Le medesime
disposizioni si applicano anche alle domande di anticipazioni per indennità
equipollenti al trattamento di fine rapporto, comunque denominate, spettanti
a lavoratori dipendenti di datori di lavoro pubblici e privati.
2. Gli statuti delle forme pensionistiche complementari di cui al decreto
legislativo 21 aprile 1993, n. 124, e successive modificazioni, possono
prevedere la possibilità di conseguire, ai sensi dell'articolo 7, comma 4, del
citato decreto legislativo n. 124 del 1993, un'anticipazione delle prestazioni
per le spese da sostenere durante i periodi di fruizione dei congedi di cui agli
articoli 5 e 6 della presente legge.
3. Con decreto del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con i
Ministri del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, del
lavoro e della previdenza sociale e per la solidarietà sociale, sono definite le
modalità applicative delle disposizioni del comma 1 in riferimento ai
dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
Art. 8. (Prolungamento dell'età pensionabile).
1. I soggetti che usufruiscono dei congedi previsti dall'articolo 5, comma 1,
possono, a richiesta, prolungare il rapporto di lavoro di un periodo
corrispondente, anche in deroga alle disposizioni concernenti l'età di
pensionamento obbligatoria. La richiesta deve essere comunicata al datore di
196
lavoro con un preavviso non inferiore a sei mesi rispetto alla data prevista
per il pensionamento.
Capo III
FLESSIBILITA' DI ORARIO
Art. 9. (Misure a sostegno della flessibilità di orario).
1. Al fine di promuovere e incentivare forme di articolazione della
prestazione lavorativa volte a conciliare tempo di vita e di lavoro,
nell'ambito del Fondo per l'occupazione di cui all'articolo 1, comma 7, del
decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla
legge 19 luglio 1993, n. 236, e' destinata una quota fino a lire 40 miliardi
annue a decorrere dall'anno 2000, al fine di erogare contributi, di cui almeno
il 50 per cento destinato ad imprese fino a cinquanta dipendenti, in favore di
aziende che applichino accordi contrattuali che prevedono azioni positive per
la flessibilità, ed in particolare:
a) progetti articolati per consentire alla lavoratrice madre o al lavoratore
padre, anche quando uno dei due sia lavoratore autonomo, ovvero quando
abbiano in affidamento o in adozione un minore, di usufruire di particolari
forme di flessibilità degli orari e dell'organizzazione del lavoro, tra cui par
time reversibile, telelavoro e lavoro a domicilio, orario flessibile in entrata o
in uscita, banca delle ore, flessibilità sui turni, orario concentrato, con
priorità per i genitori che abbiano bambini fino ad otto anni di età o fino a
dodici anni, in caso di affidamento o di adozione;
b) programmi di formazione per il reinserimento dei lavoratori dopo il
periodo di congedo;
c) progetti che consentano la sostituzione del titolare di impresa o del
lavoratore autonomo, che benefici del periodo di astensione obbligatoria o
dei congedi parentali, con altro imprenditore o lavoratore autonomo. 2. Con
decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con i
Ministri per la solidarietà sociale e per le pari opportunità, sono definiti i
criteri e le modalità per la concessione dei contributi di cui al comma 1.
197
Capo IV
ULTERIORI DISPOSIZIONI A SOSTEGNO DELLA MATERNITA'
E DELLA PATERNITA'
Art. 10. (Sostituzione di lavoratori in astensione).
1. L'assunzione di lavoratori a tempo determinato in sostituzione di
lavoratori in astensione obbligatoria o facoltativa dal lavoro ai sensi della
legge 30 dicembre 1971, n. 1204, come modificata dalla presente legge, può
avvenire anche con anticipo fino ad un mese rispetto al periodo di inizio
dell'astensione, salvo periodi superiori previsti dalla contrattazione collettiva.
2. Nelle azie nde con meno di venti dipendenti, per i contributi a carico del
datore di lavoro che assume lavoratori con contratto a tempo determinato in
sostituzione di lavoratori in astensione ai sensi degli articoli 4, 5 e 7 della
legge 30 dicembre 1971, n. 1204, come modificati dalla presente legge, è
concesso uno sgravio contributivo del 50 per cento. Le disposizioni del
presente comma trovano applicazione fino al compimento di un anno di età
del figlio della lavoratrice o del lavoratore in astensione e per un anno
dall'accoglienza del minore adottato o in affidamento.
3. Nelle aziende in cui operano lavoratrici autonome di cui alla legge 29
dicembre 1987, n. 546, e' possibile procedere, in caso di maternità delle
suddette lavoratrici, e comunque entro il primo anno di età del bambino o nel
primo anno di accoglienza del minore adottato o in affidamento,
all'assunzione di un lavoratore a tempo determinato, per un periodo massimo
di dodici mesi, con le medesime agevolazioni di cui al comma 2.
Art. 11. (Parti prematuri).
1. All'articolo 4 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, sono aggiunti, in
fine, i seguenti commi: "Qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a
quella presunta, i giorni non goduti di astensione obbligatoria prima del
parto vengono aggiunti al periodo di astensione obbligatoria dopo il parto.
La lavoratrice e' tenuta a presentare, entro trenta giorni, il certificato
attestante la data del parto".
198
Art. 12. (Flessibilità dell'astensione obbligatoria).
1. Dopo l'articolo 4 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, è inserito il
seguente:
"Art. 4-bis. - 1. Ferma restando la durata complessiva dell'astensione dal
lavoro, le lavoratrici hanno la facoltà di astenersi dal lavoro a partire dal
mese precedente la data presunta del parto e nei quattro mesi successivi al
parto, a condizione che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale
o con esso convenzionato e il medico competente ai fini della prevenzione e
tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino che tale opzione non arrechi
pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro".
2. Il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con i Ministri
della sanità e per la solidarietà sociale, sentite le parti sociali, definisce, con
proprio decreto da emanare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della
presente legge, l'elenco dei lavori ai quali non si applicano le disposizioni
dell'articolo 4-bis della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, introdotto dal
comma 1 del presente articolo.
3. Il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con i Ministri
della sanità e per la solidarietà sociale, provvede, entro sei mesi dalla data di
entrata in vigore della presente legge, ad aggiornare l'elenco dei lavori
pericolosi, faticosi ed insalubri di cui all'articolo 5 del decreto del Presidente
della Repubblica 25 novembre 1976, n. 1026.
Art. 13. (Astensione dal lavoro del padre lavoratore).
1. Dopo l'articolo 6 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, sono inseriti i
seguenti:
"Art. 6-bis.
1. Il padre lavoratore ha diritto di astenersi dal lavoro nei primi tre mesi dalla
nascita del figlio, in caso di morte o di grave infermità della madre ovvero di
abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre.
2. Il padre lavoratore che intenda avvalersi del diritto di cui al comma 1
presenta al datore di lavoro la certificazione relativa alle condizioni ivi
previste. In caso di abbandono, il padre lavoratore ne rende dichiarazione ai
sensi dell'articolo 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15.
199
3. Si applicano al padre lavoratore le disposizioni di cui agli articoli 6 e 15,
commi 1 e 5, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, e successive
modificazioni.
4. Al padre lavoratore si applicano altresì le disposizioni di cui all'articolo 2
della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, e successive modificazioni, per il
periodo di astensione dal lavoro di cui al comma 1 del presente articolo e
fino al compimento di un anno di età del bambino.
Art. 6-ter. - 1. I periodi di riposo di cui all'articolo 10 della legge 30
dicembre 1971, n. 1204, e successive modificazioni, e i relativi trattamenti
economici sono riconosciuti al padre lavoratore:
a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre;
b) in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga;
c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente".
Art. 14. (Estensione di norme a specifiche categorie di lavoratrici
madri).
1. I benefici previsti dal primo periodo del comma 1 dell'articolo 13 della
legge 7 agosto 1990, n. 232, sono estesi, dalla data di entrata in vigore della
presente legge, anche alle lavoratrici madri appartenenti ai corpi di polizia
municipale.
Art. 15. (Testo unico).
1. Al fine di conferire organicità e sistematicità alle norme in materia di
tutela e sostegno della maternità e della paternità, entro dodici mesi dalla
data di entrata in vigore della presente legge, il Governo è delegato ad
emanare un decreto legislativo recante il testo unico delle disposizioni
legislative vigenti in materia, nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri
direttivi:
a) puntuale individuazione del testo vigente delle norme;
b) esplicita indicazione delle norme abrogate, anche implicitamente, da
successive disposizioni;
200
c) coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, apportando,
nei limiti di detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la
coerenza logica e sistematica della normativa, anche al fine di adeguare e
semplificare il linguaggio normativo;
d) esplicita indicazione delle disposizioni, non inserite nel testo unico, che
restano comunque in vigore;
e) esplicita abrogazione di tutte le rimanenti disposizioni, non richiamate,
con espressa indicazione delle stesse in apposito allegato al testo unico;
f) esplicita abrogazione delle norme secondarie incompatibili con le
disposizioni legislative raccolte nel testo unico.
2. Lo schema del decreto legislativo di cui al comma 1 è deliberato dal
Consiglio dei ministri ed e' trasmesso, con apposita relazione cui è allegato il
parere del Consiglio di Stato, alle competenti Commissioni parlamentari
permanenti, che esprimono il parere entro quarantacinque giorni
dall'assegnazione.
3. Entro un anno dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo di cui
al comma 1 possono essere emanate, nel rispetto dei princìpi e criteri
direttivi di cui al medesimo comma 1 e con le modalità di cui al comma 2,
disposizioni correttive del testo unico.
Art. 16. (Statistiche ufficiali sui tempi di vita).
1. L'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) assicura un flusso informativo
quinquennale sull'organizzazione dei tempi di vita della popolazione
attraverso la rilevazione sull'uso del tempo, disaggregando le informazioni
per sesso e per età.
Art. 17. (Disposizioni diverse).
1. Nei casi di astensione dal lavoro disciplinati dalla presente legge, la
lavoratrice e il lavoratore hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro
e, salvo che espressamente vi rinuncino, al rie ntro nella stessa unità
produttiva ove erano occupati al momento della richiesta di astensione o di
congedo o in altra ubicata nel medesimo comune; hanno altresì diritto di
essere adibiti alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti.
201
2. All'articolo 2 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, è aggiunto, in fine, il
seguente comma:
"Al termine del periodo di interdizione dal lavoro previsto dall'articolo 4
della presente legge le lavoratrici hanno diritto, salvo che espressamente vi
rinuncino, di rientrare nella stessa unità produttiva ove erano occupate
all'inizio del periodo di gestazione o in altra ubicata nel medesimo comune, e
di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino; hanno
altresì diritto di essere adibite alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni
equivalenti".
3. I contratti collettivi di lavoro possono prevedere condizioni di maggior
favore rispetto a quelle previste dalla presente legge.
4. Sono abrogate le disposizioni legislative incompatibili con la presente
legge ed in particolare l'articolo 7 della legge 9 dicembre 1977, n. 903.
Art. 18. (Disposizioni in materia di recesso).
1. Il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo di
cui agli articoli 3, 4, 5, 6 e 13 della presente legge è nullo.
2. La richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice o dal lavoratore
durante il primo anno di vita del bambino o nel primo anno di accoglienza
del minore adottato o in affidamento deve essere convalidata dal Servizio
ispezione della direzione provincia le del lavoro.
Capo V
MODIFICHE ALLA LEGGE 5 FEBBRAIO 1992, N. 104
Art. 19. (Permessi per l'assistenza a portatori di handicap).
1. All'articolo 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, sono apportate le
seguenti modificazioni:
a) al comma 3, dopo le parole: "permesso mensile" sono inserite le seguenti:
"coperti da contribuzione figurativa";
b) al comma 5, le parole: ", con lui convivente," sono soppresse;
202
c) al comma 6, dopo le parole: "può usufruire" è inserita la seguente:
"alternativamente".
Art. 20. (Estensione delle agevolazioni per l'assistenza a portatori di
handicap).
1. Le disposizioni dell'articolo 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, come
modificato dall'articolo 19 della presente legge, si applicano anche qualora
l'altro genitore non ne abbia diritto nonché ai genitori ed ai familiari
lavoratori, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assistono con
continuità e in via esclusiva un parente o un affine entro il terzo grado
portatore di handicap, ancorché non convivente.
Capo VI
NORME FINANZIARIE
Art. 21. (Copertura finanziaria).
1. All'onere derivante dall'attuazione delle disposizioni degli articoli da 3 a
20, esclusi gli articoli 6 e 9, della presente legge, valutato in lire 298 miliardi
annue a decorrere dall'anno 2000, si provvede, quanto a lire 273 miliardi
annue a decorrere dall'anno 2000, mediante corrispondente riduzione
dell'autorizzazione di spesa di cui all'articolo 3 del decreto-legge 20 gennaio
1998, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 marzo 1998, n. 52,
concernente il Fondo per l'occupazione; quanto a lire 25 miliardi annue a
decorrere
dall'anno
2000,
mediante
corrispondente
riduzione
dell'autorizzazione di spesa di cui all'articolo 1 della legge 28 agosto 1997, n.
285.
2. Il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica è
autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di
bilancio.
Capo VII
TEMPI DELLE CITTA'
Art. 22. (Compiti delle regioni).
203
1. Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge le regioni
definiscono, con proprie leggi, ai sensi dell'articolo 36, comma 3, della legge
8 giugno 1990, n. 142, e successive modificazioni, qualora non vi abbiano
già provveduto, norme per il coordinamento da parte dei comuni degli orari
degli esercizi commerciali, dei servizi pubblici e degli uffici periferici delle
amministrazioni pubbliche, nonché per la promozione dell'uso del tempo per
fini di solidarietà sociale, secondo i principi del presente capo.
2. Le regioni prevedono incentivi finanziari per i comuni, anche attraverso
l'utilizzo delle risorse del Fondo di cui all'articolo 28, ai fini della
predisposizione e dell'attuazione dei piani territoriali degli orari di cui
all'articolo 24 e della costituzione delle banche dei tempi di cui all'articolo
27.
3. Le regioni possono istituire comitati tecnici, composti da esperti in
materia di progettazione urbana, di analisi sociale, di comunicazione sociale
e di gestione organizzativa, con compiti consultivi in ordine al
coordinamento degli orari delle città e per la valutazione degli effetti sulle
comunità locali dei piani territoriali degli orari.
4. Nell'ambito delle proprie competenze in materia di formazione
professionale, le regioni promuovono corsi di qualificazione e
riqualificazione del personale impiegato nella progettazione dei piani
territoriali degli orari e nei progetti di riorganizzazione dei servizi.
5. Le leggi regionali di cui al comma 1 indicano:
a) criteri generali di amministrazione e coordinamento degli orari di apertura
al pubblico dei servizi pubblici e privati, degli uffici della pubblica
amministrazione, dei pubblici esercizi commerciali e turistici, delle attività
culturali e dello spettacolo, dei trasporti;
b) i criteri per l'adozione dei piani territoriali degli orari;
c) criteri e modalità per la concessione ai comuni di finanziamenti per
l'adozione dei piani territoriali degli orari e per la costituzione di banche dei
tempi, con priorità per le iniziative congiunte dei comuni con popolazione
non superiore a 30.000 abitanti.
204
6. Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di
Bolzano provvedono secondo le rispettive competenze.
Art. 23. (Compiti dei comuni).
1. I comuni con popolazione superiore a 30.000 abitanti attuano,
singolarmente o in forma associata, le disposizioni dell'articolo 36, comma 3,
della legge 8 giugno 1990, n. 142, e successive modificazioni, secondo le
modalità stabilite dal presente capo, nei tempi indicati dalle leggi regionali di
cui all'articolo 22, comma 1, e comunque non oltre un anno dalla data di
entrata in vigore della presente legge.
2. In caso di inadempimento dell'obbligo di cui al comma 1, il presidente
della giunta regionale nomina un commissario ad acta.
3. I comuni con popolazione non superiore a 30.000 abitanti possono attuare
le disposizioni del presente capo in forma associata.
Art. 24. (Piano territoriale degli orari).
1. Il piano territoriale degli orari, di seguito denominato "piano", realizza le
finalità di cui all'articolo 1, comma 1, lettera c), ed e' strumento unitario per
finalità ed indirizzi, articolato in progetti, anche sperimentali, relativi al
funzionamento dei diversi sistemi orari dei servizi urbani e alla loro graduale
armonizzazione e coordinamento.
2. I comuni con popolazione superiore a 30.000 abitanti sono tenuti ad
individuare un responsabile cui è assegnata la competenza in materia di
tempi ed orari e che partecipa alla conferenza dei dirigenti, ai sensi della
legge 8 giugno 1990, n. 142, e successive modificazioni.
3. I comuni con popolazione non superiore a 30.000 abitanti possono istituire
l'ufficio di cui al comma 2 in forma associata.
4. Il sindaco elabora le linee guida del piano. A tale fine attua forme di
consultazione con le amministrazioni pubbliche, le parti sociali, nonché le
associazioni previste dall'articolo 6 della legge 8 giugno 1990, n. 142, e
successive modificazioni, e le associazioni delle famiglie.
205
5. Nell'elaborazione del piano si tiene conto degli effetti sul traffico,
sull'inquinamento e sulla qualità della vita cittadina degli orari di lavoro
pubblici e privati, degli orari di apertura al pubblico dei servizi pubblici e
privati, degli uffici periferici delle amministrazioni pubbliche, delle attività
commerciali, ferme restando le disposizioni degli articoli da 11 a 13 del
decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, nonché delle istituzioni formative,
culturali e del tempo libero.
6. Il piano è approvato dal consiglio comunale su proposta del sindaco ed è
vincolante per l'amministrazione comunale, che deve adeguare l'azione dei
singoli assessorati alle scelte in esso contenute. Il piano e' attuato con
ordinanze del sindaco.
Art. 25. (Tavolo di concertazione).
1. Per l'attuazione e la verifica dei progetti contenuti nel piano di cui
all'articolo 24, il sindaco istituisce un tavolo di concertazione, cui
partecipano:
a) il sindaco stesso o, per suo incarico, il responsabile di cui all'articolo 24,
comma 2;
b) il prefetto o un suo rappresentante;
c) il presidente della provincia o un suo rappresentante;
d) i presidenti delle comunità montane o loro rappresentanti;
e) un dirigente per ciascuna delle pubbliche amministrazioni non statali
coinvolte nel piano;
f) rappresentanti sindacali degli imprenditori della grande, media e piccola
impresa, del commercio, dei servizi, dell'artigianato e dell'agricoltura;
g) rappresentanti sindacali dei lavoratori;
h) il provveditore agli studi ed i rappresentanti delle università presenti nel
territorio;
206
i) i presidenti delle aziende dei trasporti urbani ed extraurbani, nonché i
rappresentanti delle aziende ferroviarie.
2. Per l'attuazione del piano di cui all'articolo 24, il sindaco promuove
accordi con i soggetti pubblici e privati di cui al comma 1.
3. In caso di emergenze o di straordinarie necessità dell'utenza o di gravi
problemi connessi al traffico e all'inquinamento, il sindaco può emettere
ordinanze che prevedano modificazioni degli orari.
4. Le amministrazioni pubbliche, anche territoriali, sono tenute ad adeguare
gli orari di funzionamento degli uffici alle ordinanze di cui al comma 3.
5. I comuni capoluogo di provincia sono tenuti a concertare con i comuni
limitrofi, attraverso la conferenza dei sindaci, la riorganizzazione territoriale
degli orari. Alla conferenza partecipa un rappresentante del presidente della
provincia.
Art. 26. (Orari della pubblica amministrazione).
1. Le articolazioni e le scansioni degli orari di apertura al pubblico dei
servizi della pubblica amministrazione devono tenere conto delle esigenze
dei cittadini che risiedono, lavorano ed utilizzano il territorio di riferimento.
2. Il piano di cui all'articolo 24, ai sensi del decreto legislativo 3 febbraio
1993, n. 29, e successive modificazioni, può prevedere modalità ed
articolazioni differenziate degli orari di apertura al pubblico dei servizi della
pubblica amministrazione.
3. Le pubbliche amministrazioni, attraverso l'informatizzazione dei relativi
servizi, possono garantire prestazioni di informazione anche durante gli orari
di chiusura dei servizi medesimi e, attraverso la semplificazione delle
procedure, possono consentire agli utenti tempi di attesa più brevi e percorsi
più semplici per l'accesso ai servizi.
Art. 27. (Banche dei tempi).
1. Per favorire lo scambio di servizi di vicinato, per facilitare l'utilizzo dei
servizi della città e il rapporto con le pubbliche amministrazioni, per favorire
l'estensione della solidarietà nelle comunità locali e per incentivare le
207
iniziative di singoli e gruppi di cittadini, associazioni, organizzazioni ed enti
che intendano scambiare parte del proprio tempo per impieghi di reciproca
solidarietà e interesse, gli enti locali possono sostenere e promuovere la
costituzione di associazioni denominate "banche dei tempi".
2. Gli enti locali, per favorire e sostenere le banche dei tempi, possono
disporre a loro favore l'utilizzo di locali e di servizi e organizzare attività di
promozione, formazione e informazione. Possono altresì aderire alle banche
dei tempi e stipulare con esse accordi che prevedano scambi di tempo da
destinare a prestazioni di mutuo aiuto a favore di singoli cittadini o della
comunità locale. Tali prestazioni devono essere compatibili con gli scopi
statutari delle banche dei tempi e non devono costituire modalità di esercizio
delle attività istituzionali degli enti locali.
Art. 28. (Fondo per l'armonizzazione dei tempi delle città).
1. Nell'elaborare le linee guida del piano di cui all'articolo 24, il sindaco
prevede misure per l'armonizzazione degli orari che contribuiscano, in linea
con le politiche e le misure nazionali, alla riduzione delle emissioni di gas
inquinanti nel settore dei trasporti. Dopo l'approvazione da parte del
consiglio comunale, i piani sono comunicati alle regioni, che li trasmettono
al Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE)
indicandone, ai soli fini del presente articolo, l'ordine di priorità.
2. Per le finalità del presente articolo è istituito un Fondo per
l'armonizzazione dei tempi delle città, nel limite massimo di lire 15 miliardi
annue a decorrere dall'anno 2001. Alla ripartizione delle predette risorse
provvede il CIPE, sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del
decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281.
3. Le regioni iscrivono le somme loro attribuite in un apposito capitolo di
bilancio, nel quale confluiscono altresì eventuali risorse proprie, da utilizzare
per spese destinate ad agevolare l'attuazione dei progetti inclusi nel piano di
cui all'articolo 24 e degli interventi di cui all'articolo 27.
4. I contributi di cui al comma 3 sono concessi prioritariamente per:
a) associazioni di comuni;
208
b) progetti presentati da comuni che abbiano attivato forme di
coordinamento e cooperazione con altri enti locali per l'attuazione di
specifici piani di armonizzazione degli orari dei servizi con vasti bacini di
utenza;
c) interventi attuativi degli accordi di cui all'articolo 25, comma 2.
5. La Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28
agosto 1997, n. 281, è convocata ogni anno, entro il mese di febbraio, per
l'esame dei risultati conseguiti attraverso l'impiego delle risorse del Fondo di
cui al comma 2 e per la definizione delle linee di intervento futuro. Alle
relative riunioni sono invitati i Ministri del lavoro e della previdenza sociale,
per la solidarietà sociale, per la funzione pubblica, dei trasporti e della
navigazione e dell'ambiente, il presidente della società Ferrovie dello Stato
spa, nonché i rappresentanti delle associazioni ambientaliste e del
volontariato, delle organizzazioni sindacali e di categoria.
6. Il Governo, entro il mese di luglio di ogni anno e sulla base dei lavori
della Conferenza di cui al comma 5, presenta al Parlamento una relazione sui
progetti di riorganizzazione dei tempi e degli orari delle città.
7. All'onere derivante dall'istituzione del Fondo di cui al comma 2 si
provvede mediante utilizzazione delle risorse di cui all'articolo 8, comma 10,
lettera f), della legge 23 dicembre 1998, n. 448. La presente legge, munita
del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale degli atti
normativi della Repubblica italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di
osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.La presente legge
munita del Sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta Ufficiale degli atti
normativi della Repubblica italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di
osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.
Roma, 8 marzo 2000
CIAMPI
D'Alema, Presidente del Consiglio dei Ministri
Turco, Ministro per la solidarietà sociale
Visto, il Guardasigilli: Diliberto
209
DECRETO LEGISLATIVO 23 maggio 2000, n. 196
"Disciplina dell'attività delle consigliere e dei consiglieri di parità e
disposizioni in materia di azioni positive, a norma dell'articolo 47,
comma 1, della legge 17 maggio 1999, n.144
VISTI gli articoli 76 ed 87 della Costituzione;
VISTA la legge 17 maggio 1999, n. 144, ed in particolare l'articolo 47,
comma 1, che, al fine di rafforzare gli strumenti volti a promuovere
l'occupazione femminile, nonché a prevenire e contrastare le discriminazioni
di genere nei luoghi di lavoro, prescrive l'emanazione di norme intese a
ridefinire e potenziare le funzioni, il regime giuridico e le dotazioni
strumentali dei consiglieri di parità ed a migliorare l'efficienza delle azioni
positive di cui alla legge 10 aprile 1991, n. 125;
VISTA la deliberazione preliminare del Consiglio dei ministri, adottata nella
riunione del 17 marzo 2000;
VISTO il parere reso dalla Conferenza unificata di cui al decreto legislativo
28 agosto 1997, n. 281;
VISTI i pareri resi dalle competenti Commissioni permanenti della Camera
dei deputati e del Senato della Repubblica;
VISTA la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del
19 maggio 2000;
SULLA PROPOSTA del Ministro del lavoro e della previdenza sociale e del
Ministro per le pari opportunità, di concerto con i Ministri del tesoro, del
bilancio e della programmazione economica, della giustizia, per la funzione
pubblica e per gli affari regionali;
EMANA
Il seguente decreto legislativo:
210
Art.1 (Consigliere e consiglieri di parità)
1. A livello nazionale, regionale e provinciale sono nominati una consigliera
o un consigliere di parità. Per ogni consigliera o consigliere si provvede
altresì alla nomina di un supplente.
2. Le consigliere ed i consiglieri di parità, effettivi e supplenti, svolgono
funzioni di promozione e controllo dell'attuazione dei principi di uguaglianza
di opportunità e non discriminazione per donne e uomini nel lavoro.
Nell'esercizio delle funzioni loro attribuite, le consigliere ed i consiglieri di
parità sono pubblici ufficiali ed hanno l'obbligo di segnalazione all'autorità
giudiziaria per i reati di cui vengono a conoscenza.
Art. 2 (Procedura di nomina e durata del mandato)
1. Le consigliere ed i consiglieri di parità regionali e provinciali, effettivi e
supplenti, sono nominati, con decreto del Ministro del lavoro e della
previdenza sociale, di concerto con il Ministro per le pari opportunità, su
designazione degli organi a tal fine individuati dalle regioni e dalle province,
sentite le Commissioni rispettivamente regionali e provinciali tripartite di cui
agli articoli 4 e 6 del decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469, ognuno
per i reciproci livelli di competenza sulla base dei requisiti di cui al comma 2
e con le procedure previste dal presente articolo. La consigliera o il
consigliere nazionale di parità, effettivo e supplente, sono nominati con
decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il
Ministro per le pari opportunità.
2. Le consigliere e i consiglieri di parità devono possedere requisiti di
specifica competenza ed esperienza pluriennale in materia di lavoro
femminile, di normative sulla parità e pari opportunità nonché di mercato del
lavoro, comprovati da idonea documentazione.
3. Il relativo decreto di nomina, contenente il curriculum della persona
nominata, è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale.
4. In caso di mancata designazione dei consiglieri di parità regionali e
provinciali entro i sessanta giorni successivi alla scadenza del mandato, o di
designazione effettuata in assenza dei requisiti richiesti dal comma 2, il
Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro per
le pari opportunità, provvede direttamente alla nomina nei trenta giorni
211
successivi, nel rispetto dei requisiti di cui al comma 2. A parità di requisiti
professionali si procede alla designazione e nomina di consigliere di parità.
Si applica quanto previsto dal comma 3.
5. Il mandato delle consigliere e dei consiglieri di cui al comma 1 ha la durata
di quattro anni ed è rinnovabile una sola volta. Ai fini dell'eventuale rinnovo
non si tiene conto dell'espletamento di funzioni di consigliere di parità ai
sensi della normativa previgente in materia. La procedura di rinnovo si
svolge osservandosi le modalità previste dal comma 3. Le consigliere ed i
consiglieri di parità continuano a svolgere le loro funzioni fino alle nuove
nomine. In sede di prima applicazione si procede alle nomine,
conformemente ai criteri ed alla procedura previsti dai commi 2, 3 e 4, entro
il 31 dicembre 2000.
Art. 3 (Compiti e funzioni)
1. Le consigliere ed i consiglieri di parità intraprendono ogni utile iniziativa
ai fini del rispetto del principio di non discriminazione e della promozione di
pari opportunità per lavoratori e lavoratrici, svolgendo in particolare i
seguenti compiti:
a) rilevazione delle situazioni di squilibrio di genere, al fine di svolgere le
funzioni promozionali e di garanzia contro le discriminazioni previste dalla
legge 10 aprile 1991, n. 125;
b) promozione di progetti di azioni positive, anche attraverso
l'individuazione delle risorse comunitarie, nazionali e locali finalizzate allo
scopo;
c) promozione della coerenza della programmazione delle politiche di
sviluppo territoriale rispetto agli indirizzi comunitari, nazionali e regionali in
materia di pari opportunità;
d) sostegno delle politic he attive del lavoro, comprese quelle formative, sotto
il profilo della promozione e realizzazione di pari opportunità;
e) promozione dell'attuazione delle politiche di pari opportunità da parte dei
soggetti pubblici e privati che operano nel mercato del lavoro;
212
f) collaborazione con le direzioni provinciali e regionali del lavoro al fine di
individuare procedure efficaci di rilevazione delle violazioni alla normativa
in materia di parità, pari opportunità e garanzia contro le discriminazioni,
anche mediante la progettazione di appositi pacchetti formativi;
g) diffusione della conoscenza e dello scambio di buone prassi e attività di
informazione e formazione culturale sui problemi delle pari opportunità e
sulle varie forme di discriminazioni;
h) verifica dei risultati della realizzazione dei progetti di azioni positive
previsti dalla legge 10 aprile 1991, n. 125;
i) collegamento e collaborazione con gli assessorati al lavoro degli enti locali
e con organismi di parità degli enti locali.
2. Le consigliere ed i consiglieri di parità nazionale, regionali e provinciali,
effettivi e supplenti, sono componenti a tutti gli effetti, rispettivamente, della
Commissione centrale per l'impiego ovvero del diverso organismo che ne
venga a svolgere in tutto o in parte le funzioni a seguito del decreto
legislativo 23 dicembre 1997, n. 469 e delle commissioni regionali e
provinciali tripartite previste dagli articoli 4 e 6 del citato decreto legislativo
n. 469 del 1997; essi partecipano altresì ai tavoli di partenariato locale ed ai
comitati di sorveglianza di cui al regolamento (CE) n. 1260/1999 del
Consiglio del 21 giugno 1999. Le consigliere ed i consiglieri regionali e
provinciali sono inoltre componenti delle commissioni di parità del
corrispondente livello territoriale, ovvero di organismi diversamente
denominati che svolgono funzioni analoghe. La consigliera o il consigliere
nazionale è componente del Comitato nazionale e del Collegio istruttorio di
cui agli articoli 5 e 7 della legge 10 aprile 1991, n. 125.
3. Le strutture regionali di assistenza tecnica e monitoraggio di cui
all'articolo 4, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 23 dicembre 1997,
n. 469, forniscono alle consigliere ed ai consiglieri di parità il supporto
tecnico necessario: alla rilevazione di situazioni di squilibrio di genere;
all'elaborazione dei dati contenuti nei rapporti sulla situazione del personale
di cui all'articolo 9 della legge 10 aprile 1991, n. 125; alla promozione e
realizzazione di piani di formazione e riqualificazione professionale; alla
promozione di progetti di azioni positive.
213
4. Su richiesta delle consigliere e dei consiglieri di parità, le direzioni
provinciali e regionali del lavoro territorialmente competenti acquisiscono
nei luoghi di lavoro informazioni sulla situazione occupazionale maschile e
femminile, in relazione allo stato delle assunzioni, della formazione e
promozione professionale, delle retribuzioni, delle condizioni di lavoro, della
cessazione del rapporto di lavoro, ed ogni altro elemento utile, anche in base
a specifici criteri di rilevazione indicati nella richiesta.
5. Entro il 31 dicembre di ogni anno le consigliere ed i consiglieri di parità
regionali e provinciali presentano un rapporto sull'attività svolta agli organi
che hanno provveduto alla designazione. La consigliera o il consigliere di
parità che non abbia provveduto alla presentazione del rapporto o vi abbia
provveduto con un ritardo superiore a tre mesi decade dall'ufficio.
Art. 4 (Rete nazionale delle consigliere e dei consiglieri di parità
Relazione al Parlamento)
1. Al fine di rafforzare le funzioni delle consigliere e dei consiglieri di parità,
di accrescere l'efficacia della loro azione, di consentire lo scambio di
informazioni, esperienze e buone prassi, è istituita la rete nazionale dei
consiglieri e delle consigliere di parità, coordinata dalla consigliera o dal
consigliere nazionale di parità.
2. La rete nazionale si riunisce almeno due volte l'anno su convocazione e
sotto la presidenza della consigliera o del consigliere nazionale; alle riunioni
partecipano il vice presidente del Comitato nazionale di parità di cui
all'articolo 5 della legge 10 aprile 1991, n. 125, e un rappresentante
designato dal Ministro per le pari opportunità.
3. Per l'espletamento dei propri compiti la rete nazionale può avvalersi, oltre
che del Collegio istruttorio di cui all'articolo 7 della legge 10 aprile 1991, n.
125, anche di esperte od esperti di particolare e comprovata qualificazione
professionale nel rispettivo campo di attività.
4. L'entità delle risorse necessarie al funzionamento della rete nazionale e
all'espletamento dei relativi compiti, è determinata con il decreto di cui
all'articolo 9, comma 2.
5. Entro il 31 marzo di ogni anno la consigliera o il consigliere nazionale di
parità elabora, anche sulla base dei rapporti di cui all'articolo 3, comma 5, un
214
rapporto al Ministro del lavoro e della previdenza sociale e al Ministro per le
pari opportunità sulla propria attività e su quella svolta dalla rete nazionale.
Si applica quanto previsto nell'ultimo periodo del comma 5 dell'articolo 3 in
caso di mancata o ritardata presentazione del rapporto.
6. Il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, anche sulla base del
rapporto di cui al comma 5, nonché delle indicazioni fornite dal Comitato
nazionale di parità, presenta in Parlamento, almeno biennalmente, d'intesa
con il Ministro per le pari opportunità, una relazione contenente i risultati del
monitoraggio sull'applicazione della legislazione in materia di parità e pari
opportunità nel lavoro e sulla valutazione degli effetti delle disposizioni del
presente decreto.
Art. 5 (Sede e attrezzature)
1. L'ufficio delle consigliere e dei consiglieri di parità regionali e provinciali
è ubicato rispettivamente presso le regioni e presso le province. L'ufficio
della consigliera o del consigliere nazionale di parità è ubicato presso il
Ministero del lavoro e della previdenza sociale. L'ufficio è funzionalmente
autonomo, dotato del personale, delle apparecchiature e delle strutture
necessarie per lo svolgimento dei loro compiti. Il personale, la
strumentazione e le attrezzature necessarie sono assegnati dagli enti presso
cui l'ufficio è ubicato, nell'ambito delle risorse trasferite ai sensi del decreto
legislativo del 23 dicembre 1997, n. 469.
2. Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto il
Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro
per le pari opportunità, predispone con la Conferenza Unificata di cui
all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, una convenzione
quadro allo scopo di definire le modalità di organizzazione e di
funzionamento dell'ufficio delle consigliere e dei consiglieri di parità,
nonché gli indirizzi generali per l'espletamento dei compiti di cui all'articolo
3, comma 1, lettere b), c), d) ed e). Entro i successivi tre mesi il Ministro del
lavoro e della previdenza sociale, in conformità ai contenuti della
convenzione quadro, provvede alla stipula di altrettante convenzioni con gli
enti territoriali nel cui ambito operano le consigliere ed i consiglieri di parità.
215
Art. 6 (Permessi)
1. Le consigliere ed i consiglieri di parità, nazionale e regionali hanno diritto
per l'esercizio delle loro funzioni, ove si tratti di lavoratori dipendenti, ad
assentarsi dal posto di lavoro per un massimo di 50 ore lavorative mensili
medie. Nella medesima ipotesi le consigliere ed i consiglieri provinciali di
parità hanno diritto ad assentarsi dal posto di lavoro per un massimo di 30
ore lavorative mensili medie. I permessi di cui al presente comma sono
retribuiti.
2. Le consigliere ed i consiglieri regionali e provinciali di parità hanno altresì
diritto, ove si tratti di lavoratori dipendenti, ad ulteriori permessi non
retribuiti per i quali verrà corrisposta un'indennità. La misura massima dei
permessi e l'importo dell'indennità sono stabiliti annualmente dal decreto di
cui all'articolo 9, comma 2. Ai fini dell'esercizio del diritto di assentarsi dal
luogo di lavoro di cui al comma 1 ed al presente comma, le consigliere ed i
consiglieri di parità devono darne comunicazione scritta al datore di lavoro
almeno un giorno prima.
3. L'onere per le assenze dal lavoro di cui al comma 1 delle consigliere e dei
consiglieri di parità regionali e provinciali, lavoratori dipendenti da privati o
da amministrazioni pubbliche, è a carico rispettivamente dell'ente regionale e
provinciale. A tal fine si impiegano risorse provenienti dal Fondo di cui
all'articolo 9. L'ente regionale o provinciale, su richiesta, è tenuto a
rimborsare al datore di lavoro quanto corrisposto per le ore di effettiva
assenza.
4. Le consigliere ed i consiglieri regionali e provinciali di parità, lavoratori
autonomi o liberi professionisti, hanno diritto per l'esercizio delle loro
funzioni ad un'indennità rapportata al numero complessivo delle ore di
effettiva attività, entro un limite massimo determinato annualmente dal
decreto di cui all'articolo 9, comma 2.
5. La consigliera o il consigliere nazionale di parità, ove lavoratore
dipendente, usufruisce di un numero massimo di permessi non retribuiti
determinato annualmente con il decreto di cui all'articolo 9, comma 2,
nonché di un'indennità fissata dallo stesso decreto. In alternativa può
richiedere il collocamento in aspettativa non retribuita per la durata del
mandato, percependo in tal caso un'indennità complessiva, a carico del
Fondo di cui all'articolo 9, determinata tenendo conto dell'esigenza di ristoro
216
della retribuzione perduta e di compenso dell'attività svolta. Ove la funzione
di consigliera o consigliere nazionale di parità sia ricoperta da un lavoratore
autonomo o da un libero professionista, spetta al medesimo un'indennità
nella misura complessiva annua determinata dal decreto di cui all'articolo 9,
comma 2.
Art. 7 (Azioni positive)
1. All'articolo 2 della legge 10 aprile 1991, n. 125, il comma 1 è sostituito
dal seguente:
"1. A partire dal 1 ottobre ed entro il 30 novembre di ogni anno, i datori di
lavoro pubblici e privati, i centri di formazione professionale accreditati, le
associazioni, le organizzazioni sindacali nazionali e territoriali possono
richiedere al Ministero del lavoro e della previdenza sociale di essere
ammessi al rimborso totale o parziale di oneri finanziari connessi
all'attuazione di progetti di azioni positive presentati in base al programmaobiettivo di cui all'articolo 6, comma 1, lettera c).".
2. All'articolo 6, comma 1, della legge 10 aprile 1991, n. 125, la lettera c) è
sostituita dalla seguente:
"c) formula entro il 31 maggio di ogni anno un programma-obiettivo nel
quale vengono indicate le tipologie di progetti di azioni positive che intende
promuovere, i soggetti ammessi per le singole tipologie ed i criteri di
valutazione. Il programma è diffuso dal Ministero del lavoro e della
previdenza sociale mediante pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale;".
3. All'articolo 6, comma 1, della legge 10 aprile 1991, n. 125, la lettera g) è
sostituita dalla seguente:
"g) propone soluzioni alle controversie collettive, anche indirizzando gli
interessati all'adozione di progetti di azioni positive per la rimozione delle
discriminazioni pregresse o di situazioni di squilibrio nella posizione di
uomini e donne in relazione allo stato delle assunzioni, della formazione e
promozione professionale, delle condizioni di lavoro e retributive, stabilendo
eventualmente, su proposta del collegio istruttorio, l'entità del
cofinanziamento di una quota dei costi connessi alla loro attuazione;".
217
4. All'articolo 7 della legge 10 aprile 1991, n. 125, il comma 4 è sostituito
dal seguente:
"4. Il Comitato e il Collegio istruttorio deliberano in ordine alle proprie
modalità di organizzazione e di funzionamento; per lo svolgimento dei loro
compiti possono costituire specifici gruppi di lavoro. Il Comitato può
deliberare la stipula di convenzioni nonché di avvalersi di collaborazioni
esterne : a) per l'effettuazione di studi e ricerche; b) per attività funzionali
all'esercizio dei compiti in materia di progetti di azioni positive previsti
dall'articolo 6, comma 1, lettera d). ".
5. Ai sensi degli articoli 1, comma 1, lettera c), 7, comma 1, e 61, comma 1,
del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, le amministrazioni dello Stato,
anche ad ordinamento autonomo, le regioni, le province, i comuni e tutti gli
enti pubblici non economici, nazionali, regionali e locali, sentiti gli
organismi di rappresentanza previsti dall'articolo 47 del citato decreto
legislativo n. 29 del 1993 ovvero, in mancanza, le organizzazioni
rappresentative nell'ambito del comparto e dell'area di interesse, sentito
inoltre, in relazione alla sfera operativa della rispettiva attività, il Comitato di
cui all'articolo 5 della legge 10 aprile 1991, n. 125, e la consigliera o il
consigliere nazionale di parità, ovvero il Comitato per le pari opportunità
eventualmente previsto dal contratto collettivo e la consigliera o il
consigliere di parità territorialmente competente, predispongono piani di
azioni positive tendenti ad assicurare, nel loro ambito rispettivo, la
rimozione degli ostacoli che, di fatto, impediscono la piena realizzazione di
pari opportunità di lavoro e nel la voro tra uomini e donne. Detti piani, fra
l'altro, al fine di promuovere l'inserimento delle donne nei settori e nei livelli
professionali nei quali esse sono sottorappresentate, ai sensi dell'articolo 1,
comma 2, lettera d, della citata legge n. 125 del 1991, favoriscono il
riequilibrio della presenza femminile nelle attività e nelle posizioni
gerarchiche ove sussiste un divario fra generi non inferiore a due terzi. A tale
scopo, in occasione tanto di assunzioni quanto di promozioni, a fronte di
analoga qualificazione e preparazione professionale tra candidati di sesso
diverso, l'eventuale scelta del candidato di sesso maschile è accompagnata da
un'esplicita ed adeguata motivazione. I piani di cui al presente articolo hanno
durata triennale. In sede di prima applicazione essi sono predisposti entro il
30 giugno 2001. In caso di mancato adempimento si applica l'articolo 6,
comma 6, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29.
6. In fase di prima attuazione, il programma obiettivo di cui all'articolo 6,
comma 1, lettera c), della legge 10 aprile 1991, n.125, come sostituito dal
218
comma 2, è formulato per l'anno 2000 entro due mesi dalla data di entrata in
vigore del presente decreto.
Art. 8 (Azioni in giudizio)
1. L'articolo 4 della legge 10 aprile 1991, n. 125 è sostituito dal seguente:
"Art. 4 ( Azioni in giudizio).
1. Costituisce discriminazione, ai sensi della legge 9 dicembre 1977 n. 903 e
della presente legge, qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un
effetto pregiudizievole discriminando anche in via indiretta le lavoratrici o i
lavoratori in ragione del loro sesso.
2. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole
conseguente all'adozione di criteri che svantaggino in modo
proporzionalmente maggiore i lavoratori dell'uno o dell'altro sesso e
riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa.
3. Nei concorsi pubblici e nelle forme di selezione attuate, anche a mezzo di
terzi, da datori di lavoro privati e pubbliche amministrazioni la prestazione
richiesta dev'essere accompagnata dalle parole "dell'uno o dell'altro sesso",
fatta eccezione per i casi in cui il riferimento al sesso costituisca requisito
essenziale per la natura del lavoro o della prestazione.
4. Chi intende agire in giudizio per la dichiarazione delle discriminazioni ai
sensi dei commi 1e 2 e non ritiene di avvalersi delle procedure di
conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il tentativo di
conciliazione ai sensi dell'articolo 410 del codice di procedura civile o,
rispettivamente, dell'articolo 69bis del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n.
29, anche tramite la consigliera o il consigliere di parità provinciale o
regionale territorialmente competente.
5. Le consigliere o i consiglieri di parità provinciali e regionali competenti
per territorio, ferme restando le azioni in giudizio di cui ai commi 8 e 10,
hanno facoltà di ricorrere innanzi al tribunale in funzione di giudice del
lavoro o, per i rapporti sottoposti alla sua giurisdizione, al tribunale
amministrativo regionale territorialmente competenti, su delega della
persona che vi ha interesse, ovvero di intervenire nei giudizi promossi dalla
medesima.
219
6. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto - desunti anche da dati di
carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi,
all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione
in carriera ed ai licenziamenti - idonei a fondare, in termini precisi e
concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti
discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere della prova
sull'insussistenza della discriminazione.
7. Qualora le consigliere o i consiglieri di parità regionali e, nei casi di
rilevanza nazionale, il consigliere o la consigliera nazionale, rilevino
l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori diretti o indiretti di
carattere collettivo, anche quando non siano individuabili in modo
immediato e diretto le lavoratrici o i lavoratori lesi dalle discriminazioni,
prima di promuovere l'azione in giudizio ai sensi dei commi 8 e 10, possono
chiedere all'autore della discriminazione di predisporre un piano di
rimozione delle discriminazioni accertate entro un termine non superiore a
120 giorni, sentite, nel caso di discriminazione posta in essere da un datore
di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, le
associazioni locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente
rappresentative sul piano nazionale. Se il piano è considerato di oneo alla
rimozione delle discriminazioni, la consigliera o il consigliere di parità
promuove il tentativo di conciliazione ed il relativo verbale, in copia
autenticata, acquista forza di titolo esecutivo con decreto del tribunale in
funzione di giudice del lavoro.
8. Con riguardo alle discriminazioni di carattere collettivo di cui al comma 7
le consigliere o i consiglieri di parità, qualora non ritengano di avvalersi
della procedura di conciliazione di cui al medesimo comma o in caso di esito
negativo della stessa, possono proporre ricorso davanti al tribunale in
funzione di giudice del lavoro o al tribunale amministrativo regionale
territorialmente competenti.
9. Il giudice, nella sentenza che accerta le discriminazioni sulla base del
ricorso presentato ai sensi del comma 8, ordina all'autore della
discriminazione di definire un piano di rimozione delle discriminazioni
accertate, sentite, nel caso si tratti di datore di lavoro, le rappresentanze
sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, gli organismi locali aderenti
alle organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative sul
piano nazionale, nonché la consigliera o il consigliere di parità regionale
competente per territorio o il consigliere o la consigliera nazionale. Nella
220
sentenza il giudice fissa i criteri, anche temporali, da osservarsi ai fini della
definizione ed attuazione del piano.
10. Ferma restando l'azione di cui al comma 8, la consigliera o il consigliere
regionale e nazionale di parità possono proporre ricorso in via d'urgenza
davanti al tribunale in funzione di giudice del lavoro o al tribunale
amministrativo regionale territorialmente competenti. Il giudice adito, nei
due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni,
ove ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, con decreto motivato e
immediatamente esecutivo ordina all'autore della discriminazione la
cessazione del comportamento pregiudizievole e adotta ogni altro
provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti delle discriminazioni accertate,
ivi compreso l'ordine di definizione ed attuazione da parte del responsabile
di un piano di rimozione delle medesime. Si applicano in tal caso le
disposizioni del comma 9. Contro il decreto è ammessa entro quindici giorni
dalla comunicazione alle parti opposizione avanti alla medesima autorità
giudiziaria territorialmente competente, che decide con sentenza
immediatamente esecutiva.
11. L'inottemperanza alla sentenza di cui al comma 9, al decreto di cui al
comma 10 o alla sentenza pronunciata nel relativo giudizio di opposizione è
punita ai sensi dell'articolo 650 del codice penale e comporta altresì la
revoca dei benefici di cui al comma 12 ed il pagamento di una somma di lire
centomila per ogni giorno di ritardo da versarsi al Fondo di cui all'artic olo 9.
12. Ogni accertamento di atti, patti o comportamenti discriminatori ai sensi
dei commi 1 e 2, posti in essere da soggetti ai quali siano stati accordati
benefici ai sensi delle vigenti leggi dello Stato, ovvero che abbiano stipulato
contratti di appalto attinenti all'esecuzione di opere pubbliche, di servizi o
forniture, viene comunicato immediatamente dalla direzione provinciale del
lavoro territorialmente competente ai Ministri nelle cui amministrazioni sia
stata disposta la concessione del beneficio o dell'appalto. Questi adottano le
opportune determinazioni, ivi compresa, se necessario, la revoca del
beneficio e, nei casi più gravi o nel caso di recidiva, possono decidere
l'esclusione del responsabile per un periodo di tempo fino a due anni da
qualsiasi ulteriore concessione di agevolazioni finanziarie o creditizie ovvero
da qualsiasi appalto. Tale disposizione si applica anche quando si tratti di
agevolazioni finanziarie o creditizie ovvero di appalti concessi da enti
pubblici, ai quali la direzione provinciale del lavoro comunica direttamente
la discriminazione accertata per l'adozione delle sanzioni previste. Le
221
disposizioni del presente comma non si applicano nel caso sia raggiunta una
conciliazione ai sensi dei commi 4 e 7 .
13. Ferma restando l'azione ordinaria, le disposizioni dell'articolo 15 della
legge 9 dicembre 1977, n. 903, si applicano in tutti i casi di azione
individuale in giudizio promossa dalla persona che vi abbia interesse o su
sua delega da un'organizzazione sindacale o dalla consigliera o dal
consigliere provinciale o regionale di parità.
14. Qualora venga presentato un ricorso in via di urgenza ai sensi del comma
10 o ai sensi dell'articolo 15 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, come
modificato dal comma 13, non trova applicazione l'articolo 410 del codice di
procedura civile.".
Art. 9 (Fondo per l'attività delle consigliere e dei consiglieri di parità)
1. E' istituito il Fondo nazionale per le attività delle consigliere e dei
consiglieri di parità, alimentato dalle risorse di cui all'articolo 47, comma 1,
lettera d), della legge 17 maggio 1999, n. 144. Il Fondo è destinato a
finanziare le spese relative alle attività della consigliera o del consigliere
nazionale di parità e delle consigliere o dei consiglieri regionali e provinciali
di parità, ai compensi degli esperti eventualmente nominati ai sensi
dell'articolo 4, comma 4, nonché le spese relative alle azioni in giudizio
promosse o sostenute ai sensi dell'articolo 4 della legge 10 aprile 1991, n.
125, come sostituito dal presente decreto. E' altresì destinato a finanziare le
spese relative al pagamento di compensi per indennità, rimborsi e
remunerazione dei permessi spettanti alle consigliere ed ai consiglieri di
parità, nonché quelle per il funzionamento e le attività della rete di cui
all'articolo 4 e per gli eventuali oneri derivanti dalle convenzioni di cui
all'articolo 5, comma 3, diversi da quelli relativi al personale. Le regioni e le
province possono integrare le risorse provenienti dal Fondo con risorse
proprie.
2. Con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto
con il Ministro per le pari opportunità, sentita la Conferenza Unificata di cui
all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, le risorse del
Fondo vengono annualmente ripartite tra le diverse destinazioni, sulla base
dei seguenti criteri:
222
a) una quota pari al 30% è riservata all'Ufficio del Consigliere nazionale di
parità ed è destinata a finanziare, oltre alle spese relative alle attività ed ai
compensi dello stesso, le spese relative al funzionamento ed ai programmi di
attività della rete delle consigliere e dei consiglieri di parità di cui all'articolo
4;
b) la restante quota del 70% è destinata alle Regioni e viene suddivisa tra le
stesse sulla base di una proposta di riparto elaborata dalla Commissione
interministeriale di cui al comma 4.
3. La ripartizione delle risorse deve comunque essere effettuata in base a
parametri oggettivi, che tengono conto del numero dei consiglieri provinciali
e di indicatori che considerano i differenziali demografici ed occupazionali,
di genere e territoriali, nonché in base alla capacità di spesa dimostrata negli
esercizi finanziari precedenti.
4. Presso il Ministero del lavoro e della previdenza sociale è istituita la
Commissione interministeriale per la gestione del Fondo di cui al comma 1.
La Commissione è composta dalla Consigliera o dal Consigliere nazionale di
parità o da un delegato scelto all'interno della rete di cui all'articolo 4, dal
vicepresidente del Comitato nazionale di cui all'articolo 5 della legge 10
aprile 1991, n. 125, da un rappresentante della Direzione generale del
Ministero del lavoro e della previdenza sociale preposta all'amministrazione
del Fondo per l'occupazione, da tre rappresentanti del Dipartimento per le
pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri, da un
rappresentante del Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione
economica, da un rappresentante del Dipartimento della funzione pubblica
della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonché da tre rappresentanti
della Conferenza Unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28
agosto 1997, n. 281. Essa provvede alla proposta di riparto tra le regioni
della quota di risorse del Fondo ad esse assegnata, nonché all'approvazione
dei progetti e dei programmi della rete di cui all'articolo 4. L'attività della
Commissione non comporta oneri aggiuntivi a carico della finanza pubblica.
5. Per la gestione del Fondo di cui al comma 1 si applicano, in quanto
compatibili, le norme che disciplinano il Fondo per l'occupazione.
223
Art. 10 (Disposizioni finali)
1. Con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, emanato
entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, di concerto
con i Ministri del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e
per le pari opportunità, in base alle indicazioni del Comitato di cui
all'articolo 5 della legge 10 aprile 1991, n. 125, sono stabilite le modalità di
presentazione delle richieste di cui all'articolo 2, comma 1, della citata legge
n. 125 del 1991, le procedure di valutazione e di verifica e quelle di
erogazione, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 31 marzo 1998,
n. 123. Con lo stesso decreto sono stabiliti i requisiti di onorabilità che i
soggetti richiedenti devono possedere. La mancata attuazione del progetto
comporta la decadenza dal beneficio e la restituzione delle somme
eventualmente già riscosse. In caso di attuazione parziale, la decadenza
opera limitatamente alla parte non attuata, la cui valutazione è effettuata in
base ai criteri determinati dal decreto di cui al presente comma.
2. In sede di prima applicazione del presente decreto, i rapporti di cui agli
articoli 3, comma 5, e 4, comma 5, sono presentati, rispettivamente, entro il
31 dicembre 2001 e il 31 marzo 2002.
3. Sono abrogati: gli articoli 2, commi 3 e 6, e 8, della legge 10 aprile 1991,
n. 125, e l'articolo 18 della legge 7 dicembre 1977, n. 903.
4. Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di
Bolzano adeguano la propria legislazione ai principi desumibili dal presente
decreto con le modalità previste dai rispettivi statuti. Fino all'emanazione
delle leggi regionali, le disposizioni del presente decreto trovano piena e
immediata applicazione nelle regioni a statuto speciale. Per le province
autonome di Trento e di Bolzano resta fermo l'articolo 2 del decreto
legislativo 16 marzo 1992, n. 266.
Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella raccolta
ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana.E' fatto obbligo a
chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.
Dato a Roma, addì 23 maggio 2000
CIAMPI
224
AMATO, Presidente del Consiglio dei Ministri
SALVI, Ministro del Lavoro e della previdenza sociale
BELLILLO, Ministro per le pari opportunità
VISCO, Ministro del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione
economica
FASSINO, Ministro della giustizia
BASSANINI, Ministro per la funzione pubblica
LOIERO, Ministro per gli affari regionali
Visto, il Guardasigilli: Fassino
225
DECRETO LEGISLATIVO 9 luglio 2003, n. 215
Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le
persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica.
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione;
Vista la direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000,
sull'attuazione del principio della parità di trattamento fra le persone
indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica;
Visto l'articolo 29 della legge 1° marzo 2002, n. 39, ed in particolare
l'allegato B;
Visto il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modific azioni;
Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella
riunione del 28 marzo 2003;
Acquisiti i pareri delle competenti Commissioni della Camera dei deputati e
del Senato della Repubblica;
Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del
3 luglio 2003;
Sulla proposta del Ministro per le politiche comunitarie, del Ministro del
lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità, di
concerto con il Ministro degli affari esteri, con il Ministro della giustizia e
con il Ministro dell'economia e delle finanze;
Emana il seguente decreto legislativo:
Art. 1.
Oggetto
1. Il presente decreto reca le disposizioni relative all'attuazione della parità di
trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine
etnica, disponendo le misure necessarie affinché le differenze di razza o di
origine etnica non siano causa di discriminazione, anche in un'ottica che
tenga conto del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione
possono avere su donne e uomini, nonché dell'esistenza di forme di razzismo
a carattere culturale e religioso.
226
Avvertenza:
Il testo delle note qui pubblicato è stato redatto dall'amministrazione
competente per materia, ai sensi dell'art. 10, comma 3, del testo unico delle
disposizioni sulla promulgazione delle leggi, sull'emanazione dei decreti del
Presidente della Repubblica e sulle pubblicazioni ufficiali della Repubblica
italiana, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre
1985, n. 1092, al solo fine di facilitare la lettura delle disposizioni di legge
alle quali è operato il rinvio.
Restano invariati il valore e l'efficacia degli atti legislativi qui trascritti.
- Per le direttive CEE vengono forniti gli estremi di pubblicazione nella
Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee (G.U.C.E).
Nota al titolo:
- Il testo della direttiva 2000/43/CE (Direttiva del Consiglio che attua il
principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla
razza e dall'origine etnica) è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della
Comunità europea 19 luglio 2000, n. L 180.
Note alle premesse:
- L'art. 76 della Costituzione regola la delega il Governo dell'esercizio della
funzione legislativa e stabilisce che essa non può avvenire se non con
determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e
per oggetti definiti.
- L'art. 87, comma quinto, della Costituzione conferisce al Presidente della
Repubblica il potere di promulgare le leggi e di emanare i decreti aventi
valore di legge e i regolamenti.
- Per il testo della citata Direttiva 2000/43/CE si veda nota al titolo.
- Il testo dell'art. 29 della legge 1° marzo 2002, n. 39 (Disposizioni per
l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle
Comunità europee. Legge comunitaria 2001), e' il seguente:
«Art. 29 (Attuazione della direttiva 2000/43/CE, che attua il principio della
parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e
dall'origine etnica).
- 1. Il Governo e' delegato ad emanare, entro il termine e con le modalità di
cui all'art. 1, commi 1 e 2, uno o più decreti legislativi al fine di dare
organica attuazione alla direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno
2000, e di coordinare le disposizioni vigenti in materia di garanzie contro le
discriminazioni per cause direttamente o indirettamente connesse con la
razza o l'origine etnica, anche attraverso la modifica e l'integrazione delle
norme in materia di garanzie contro le discriminazioni, ivi compresi gli
articoli 43 e 44 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto
227
legislativo 25 luglio 1998, n. 286, nel rispetto dei seguenti principi e criteri
direttivi:
a) assicurare il rispetto del principio della parità di trattamento fra le persone,
garantendo che le differenze di razza od origine etnica non siano causa di
discriminazione, in un'ottica che tenga conto del diverso impatto che le
stesse forme di razzismo possono avere su donne e uomini, dell'esistenza di
forme di razzismo e di forme di discriminazione a carattere culturale e
religioso mirate in modo particolare alle donne, e dell'esistenza di
discriminazioni basate sia sul sesso sia sulla razza od origine etnica;
b) definire la nozione di discriminazione come «diretta» quando, a causa
della sua razza od origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente
di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga;
definire la nozione di discriminazione come «indiretta» quando una
disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento
apparentemente neutri mettono persone di una determinata razza od origine
etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone,
salvo che tale disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento
siano giustificati da ragioni oggettive, non basate sulle suddette qualità
ovvero, nel caso di attività di lavoro o di impresa, riguardino requisiti
essenziali alloro svolgimento; nell'ambito delle predette definizioni sono
comunque fatte salve le disposizioni che disciplinano l'ingresso ed il
soggiorno dei cittadini dei Paesi terzi e il loro accesso all'occupazione e
all'impiego; prevedere che siano considerate come discriminazioni anche le
molestie quando venga posto in essere, per motivi di razza o di origine
etnica, un comportamento indesiderato che persista, anche quando è stato
inequivocabilmente dichiarato dalla persona che lo subisce come offensivo,
così pregiudic ando oggettivamente la sua dignità e libertà, ovvero creando
un clima di intimidazione nei suoi confronti;
c) promuovere l'eliminazione di ogni discriminazione diretta e indiretta e
prevedere l'adozione di misure specifiche, ivi compresi progetti di azioni
positive, dirette ad evitare o compensare svantaggi connessi con una
determinata
razza
od
origine
etnica;
d) prevedere l'applicazione del principio della parità di trattamento senza
distinzione di razza od origine etnica sia nel settore pubblico sia nel settore
privato, assicurando che, ferma restando la normativa sostanziale di settore,
la tutela giurisdizionale e amministrativa sia azionabile quando le
discriminazioni si verificano nell'ambito delle seguenti aree:
228
1. condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro sia dipendente che
autonomo, compresi i criteri di selezione, le condizioni di assunzione,
nonché gli avanzamenti di carriera;
2. accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale,
perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini
professionali;
3. occupazione e condizioni di lavoro, comprese le condizioni di
licenziamento e la retribuzione;
4. attività prestata presso le organizzazioni dei lavoratori o dei datori di
lavoro e accesso alle prestazioni erogate da tali organizzazioni;
5. protezione sociale, compresa la sicurezza sociale;
6. assistenza sanitaria;
7. prestazioni sociali;
8. istruzione;
9. accesso a beni e servizi e alla loro fornitura, incluso l'alloggio;
e) riconoscere la legittimazione ad agire nei procedimenti giurisdizionali e
amministrativi anche ad associazioni rappresentative degli interessi lesi dalla
discriminazione, su delega della persona interessata; prevedere che, in caso
di discriminazione collettiva, anche quando non siano individuabili in modo
immediato e diretto le persone lese dalla discriminazione, la domanda possa
essere proposta dalle suddette associazioni;
f) prevedere criteri oggettivi che dimostrino l'effettiva rappresentatività delle
associazioni di cui alla lettera e);
g) prevedere che quando la persona che si ritiene lesa dalla discriminazione
fornisce all'autorità' giudiziaria elementi di fatto idonei a fondare, in termini
gravi, precisi e concordanti, l'indizio dell'esistenza di una discriminazione
diretta o indiretta, spetti al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza
della discriminazione; tale onere non e' previsto per i procedimenti penali;
h) prevedere le misure necessarie per proteggere le persone da trattamenti o
conseguenze sfavorevoli, quale reazione a un reclamo o a un'azione volta a
ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento;
i) prevedere l'istituzione nell'anno 2003 presso il Dipartimento per le pari
opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri di un ufficio di
controllo e di garanzia della parità di trattamento e dell'operatività' degli
strumenti di garanzia, diretto da un responsabile nominato dal Presidente del
229
Consiglio dei ministri o da un Ministro da lui delegato, che svolga attività di
promozione della parità e di rimozione delle discriminazioni fondate sulla
razza o sull'origine etnica, in particolare attraverso:
1) l'assistenza indipendente alle persone lese dalle discriminazioni nei
procedimenti giurisdizionali o amministrativi intrapresi;
2) lo svolgimento di inchieste indipendenti in materia di discriminazione, nel
rispetto delle prerogative e delle funzioni dell'autorità' giudiziaria;
3) la promozione dell'adozione, da parte di soggetti pubblici o privati, di
misure specifiche, ivi compresi progetti di azioni positive, dirette a evitare o
compensare svantaggi connessi con una determinata razza od origine etnica;
4) la formulazione di pareri e la formulazione di proposte di modifica della
normativa vigente in materia;
5) la formulazione di raccomandazioni su questioni connesse con le
discriminazioni fondate sulla razza o sull'origine etnica;
6) la redazione di una relazione annuale al Parlamento sull'applicazione del
principio di parità di trattamento e sull'operatività' dei meccanismi di tutela
contro le discriminazioni fondate sulla razza o sull'origine etnica, nonché di
una relazione annuale al Presidente del Consiglio dei ministri sull'attività'
svolta nell'anno precedente;
7) la diffusione delle informazioni relative alle disposizioni vigenti in
materia di parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza
e dall'origine etnica;
l) prevedere che l'ufficio di cui alla lettera.
i) possa avvalersi anche di personale di altre amministrazioni pubbliche, ivi
compresi magistrati e avvocati e procuratori dello Stato, nonché di esperti e
di consulenti.
2. All'onere derivante dall'istituzione dell'ufficio di cui al comma 1, lettere i)
e l), valutato in 2.035.357 euro annui a decorrere dal 2003, si provvede
ai sensi dell'art. 21 della legge 16 aprile 1987, n. 183.
3. Fatto salvo quanto previsto dal comma 2, l'applicazione dei criteri e dei
principi enunciati nel presente articolo non comporta oneri aggiuntivi per il
bilancio dello Stato.
4. Gli schemi di decreto legislativo di cui al presente articolo sono trasmessi
alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica perché su di essi sia
espresso, entro sessanta giorni dalla data di trasmissione, il parere, dei
competenti organi parlamentari. Decorso inutilmente tale termine, i decreti
sono emanati anche in mancanza del parere parlamentare.».
- Il testo dell'allegato B della citata legge n. 39 del 2002, e' il seguente:
230
«Allegato B (Articolo 1, commi 1 e 3) 93/104/CE del Consiglio, del 23
novembre 1993, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di
lavoro.m 94/45/CE del Consiglio, del 22 settembre 1994, riguardante
l'istituzione di un comitato aziendale europeo o di una procedura per
l'informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di
imprese di dimensioni comunitarie.
96/61/CE del Consiglio, del 24 settembre 1996, sulla prevenzione e la
riduzione integrate dell'inquinamento. 1999/31/CE del Consiglio, del 26
aprile 1999, relativa alle discariche di rifiuti.
1999/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 giugno 1999, che
istituisce un meccanismo di riconoscimento delle qualifiche per le attività
professionali disciplinate dalle direttive di liberalizzazione e dalle direttive
recanti misure transitorie e che completa il sistema generale di
riconoscimento delle qualifiche. 1999/63/CE del Consiglio, del 21 giugno
1999, relativa all'accordo sull'organizzazione dell'orario di lavoro della gente
di mare concluso dall'Associazione armatori della Comunità europea (ECSA)
e dalla Federazione dei sindacati dei trasportatori dell'Unione europea (FST).
1999/64/CE della Commissione, del 23 giugno 1999, che modifica la
direttiva 90/388/CEE al fine di garantire che le reti di telecomunicazioni e le
reti televisive via cavo appartenenti ad un unico proprietario siano gestite da
persone giuridiche distinte.
1999/92/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 1999,
relativa alle prescrizioni minime per il miglioramento della tutela della
sicurezza e della salute dei lavoratori che possono essere esposti al rischio di
atmosfere esplosive (quindicesima direttiva particolare ai sensi dell'art. 16,
paragrafo 1, della direttiva 89/391/CEE).
2000/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 marzo 2000,
relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti
l'etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa
pubblicità.
2000/26/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 maggio 2000,
concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in
materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla
circolazione di autoveicoli e che modifica le direttive 73/239/CEE e
88/357/CEE del Consiglio (quarta direttiva assicurazione autoveicoli).
2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'8 giugno 2000,
relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell'informazione, in
particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («direttiva sul
commercio elettronico»).
2000/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 giugno 2000, che
modifica la direttiva 93/104/CE del Consiglio concernente taluni aspetti
231
dell'organizzazione dell'orario di lavoro, al fine di comprendere i settori e
le attività esclusi dalla suddetta direttiva.
2000/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 giugno 2000,
relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.
2000/36/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 giugno 2000,
relativa ai prodotti di cacao e di cioccolato destinati all'alimentazione umana.
2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, che attua il principio della
parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e
dall'origine etnica.
2000/53/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 settembre 2000,
relativa ai veic oli fuori uso.
2000/59/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 novembre 2000,
relativa agli impianti portuali di raccolta per i rifiuti prodotti dalle navi e i
residui del carico.
2000/75/CE del Consiglio, del 20 novembre 2000, che stabilisce disposizioni
specifiche relative alle misure di lotta e di eradicazione della febbre catarrale
degli ovini.
2000/77/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 dicembre 2000,
recante modifica della direttiva 95/53/CE del Consiglio che fissa i principi
relativi all'organizzazione dei controlli ufficiali nel settore dell'alimentazione
animale.
2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro
generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni
di lavoro.
2000/79/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, relativa all'attuazione
dell'accordo europeo sull'organizzazione dell'orario di lavoro del personale di
volo nell'aviazione civile concluso da Association of European Airlines
(AEA), European Transport Workers' Federation (ETF), European Cockpit
Association (ECA), European Regions Airline Association (ERA) e
International Air Carrier Association (IACA).
2001/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2001,
che modifica la direttiva 91/440/CEE del Consiglio relativa allo sviluppo
delle ferrovie comunitarie.
2001/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio2001,
che modifica la direttiva 95/18/CE del Consiglio relativa alle licenze delle
imprese ferroviarie.2001/14/CE del Parla mento europeo e del Consiglio, del
26 febbraio 2001, relativa alla ripartizione della capacità di infrastruttura
ferroviaria, all'imposizione dei diritti per l'utilizzo dell'infrastruttura
ferroviaria
e alla certificazione di sicurezza. 2001/15/CE della
Commissione, del 15 febbraio 2001, sulle sostanze che possono essere
232
aggiunte a scopi nutrizionali specifici ai prodotti alimentari destinati ad
un'alimentazione particolare.
2001/16/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 marzo 2001,
relativa
all'interoperabilità del sistema ferroviario transeuropeo
convenzionale. 2001/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12
marzo 2001, sull'emissione deliberata nell'ambiente di organismi
geneticamente modificati e che abroga la direttiva 90/220/CEE del
Consiglio. 2001/19/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14
maggio 2001, che modifica le direttive 89/48/CEE e 92/51/CEE del
Consiglio relative al sistema generale di riconoscimento delle qualifiche
professionali e le direttive 77/452/CEE, 77/453/CEE, 78/686/CEE,
78/687/CEE, 78/1026/CEE, 78/1027/CEE, 80/154/CEE, 80/155/CEE,
85/384/CEE, 85/432/CEE, 85/433/CEE e 93/16/CEE del Consiglio
concernenti le professioni di infermiere responsabile dell'assistenza generale,
dentista, veterinario, ostetrica, architetto, farmacista e medico. 2001/23/CE
del Consiglio, del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento delle
legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei
lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di
imprese o di stabilimenti. 2001/29/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 22 maggio 2001, sull'armonizzazione di taluni aspetti del
diritto d'autore e dei diritti connessi nella società dell'informazione.
2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 giugno 2001,
concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi
sull'ambiente.
2001/45/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 giugno 2001,
che modifica la direttiva 89/655/CEE del Consiglio relativa ai requisiti
minimi di sicurezza e di salute per l'uso delle attrezzature di lavoro da parte
dei lavoratori durante il lavoro (seconda direttiva particolare ai sensi dell'art.
16, paragrafo 1, della direttiva 89/391/CEE).
2001/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 luglio 2001,
recante modificazione della direttiva 95/53/CE del Consiglio che fissa i
principi relativi all'organizzazione dei controlli ufficiali nel settore
dell'alimentazione animale e delle direttive 70/524/CEE, 96/25/CE e
1999/29/CE del Consiglio, relative all'alimentazione animale.
2001/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 settembre 2001,
che modifica le direttive 78/660/CEE, 83/349/CEE e 86/635/CEE per quanto
riguarda le regole di valutazione per i conti annuali e consolidati di taluni tipi
di società nonché di banche e di altre istituzioni finanziarie.
2001/77/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 settembre 2001,
sulla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche
rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità'.
233
2001/84/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 settembre 2001,
relativa al diritto dell'autore di un'opera d'arte sulle successive vendite
dell'originale. 2001/86/CE del Consiglio, dell'8 ottobre 2001, che completa
lo statuto della società europea per quanto riguarda il coinvolgimento dei
lavoratori.
Il testo del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero), e' pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 18 agosto
1998, n. 191, S.O.
Art. 2.
Nozione di discriminazione
1. Ai fini del presente decreto, per principio di parità di trattamento si
intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della
razza o dell'origine etnica.
Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta
o indiretta, così come di seguito definite:
a) discriminazione diretta quando, per la razza o l'origine etnica, una persona
e' trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata
un'altra in situazione analoga;
b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi,
un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere
le persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di
particolare svantaggio rispetto ad altre persone.
2. E' fatto salvo il disposto dell'articolo 43, commi 1 e 2, del testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998,
n. 286, di seguito denominato: «testo unico».
3. Sono, altresì, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1,
anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per
motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l'effetto di violare la
dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante,
umiliante e offensivo.
4. L'ordine di discriminare persone a causa della razza o dell'origine etnica è
considerato una discriminazione ai sensi del comma 1.
Note all'art. 2:
- Il testo dell'art. 43, commi 1 e 2 del citato decreto legislativo n. 286 del
1998 e' il seguente:
«Art. 43 (Discriminazione per motivi razziali, etnici,nazionali o religiosi).
234
1. Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento
che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione,
restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine
nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo
o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento
o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà
fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni
altro settore della vita pubblica.
2. In ogni caso compie un atto di discriminazione:
a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la
persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell'esercizio delle
sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che,
soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una
determinata razza, religione, etnia o nazionalità, lo discriminino
ingiustamente;
b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o
servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua
condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione,
etnia o nazionalità;
c) chiunque illegittimamente imponga condizioni piu' svantaggiose o si
rifiuti di fornire l'accesso all'occupazione, all'alloggio, all'istruzione, alla
formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero
regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione
di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o
nazionalità;
d) chiunque impedisca, mediante azioni od omissioni, l'esercizio di
un'attività' economica legittimamente intrapresa da uno straniero
regolarmente soggiornante in Italia, soltanto in ragione della sua condizione
di straniero o di appartenente ad una determinata razza, confessione
religiosa, etnia o nazionalità;
e) il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dell'art. 15 della legge
20 maggio 1970, n. 300, come modificata e integrata dalla legge 9 dicembre
1977, n. 903, e dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, compiano qualsiasi atto
o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando,
anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una
razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una
cittadinanza. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento
pregiudizievole conseguente all'adozione di criteri che svantaggino in modo
proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata
razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata
235
confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non
essenziali allo svolgimento dell'attività' lavorativa.».
Art. 3.
Ambito di applicazione
1. Il principio di parità di trattamento senza distinzione di razza ed origine
etnica si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed e'
suscettibile di tutela giurisdizionale, secondo le forme previste dall'articolo
4, con specifico riferimento alle seguenti aree:
a) accesso all'occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente,
compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione;
b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera,
la retribuzione e le condizioni del licenziamento;
c) accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale,
perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini
professionali;
d) affiliazione e attività nell'ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori
di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle
medesime organizzazioni;
e) protezione sociale, inclusa la sicurezza sociale;
f) assistenza sanitaria;
g) prestazioni sociali;
h) istruzione;
i) accesso a beni e servizi, incluso l'alloggio.
2. Il presente decreto legislativo non riguarda le differenze di trattamento
basate sulla nazionalità e non pregiudica le disposizioni nazionali e le
condizioni relative all'ingresso, al soggiorno, all'accesso all'occupazione,
all'assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel
territorio dello Stato, né qualsiasi trattamento, adottato in base alla legge,
derivante dalla condizione giuridica dei predetti soggetti.
3. Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell'ambito
del rapporto di lavoro o dell'esercizio dell'attività' di impresa, non
costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 quelle differenze
di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla razza o all'origine etnica
di una persona, qualora, per la natura di un'attività' lavorativa o per il
contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che
costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento
dell'attività medesima.
4. Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell'articolo
2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente
236
discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime
perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari.
Art. 4.
Tutela giurisdizionale dei diritti
1. La tutela giurisdizionale avverso gli atti e i comportamenti di cui
all'articolo 2 si svolge nelle forme previste dall'articolo 44, commi da 1 a 6, 8
e 11, del testo unico.
2. Chi intende agire in giudizio per il riconoscimento della sussistenza di una
delle discriminazioni di cui all'articolo 2 e non ritiene di avvalersi delle
procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il
tentativo di conciliazione ai sensi dell'articolo 410 del codice di procedura
civile o, nell'ipotesi di rapporti di lavoro con le amministrazioni pubbliche, ai
sensi dell'articolo 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, anche
tramite le associazioni di cui all'articolo 5, comma 1.
3. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento
discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio, anche sulla base di
dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il
giudice valuta ai sensi dell'articolo 2729, primo comma, del codice civile.
4. Con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere,
se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina la
cessazione del comportamento, della condotta o dell'atto discriminatorio, ove
ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti. Al fine di impedirne la
ripetizione, il giudice può ordinare, entro il termine fissato nel
provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate.
5. Il giudice tiene conto, ai fini della liquidazione del danno di cui al comma
4, che l'atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad
una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente
attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità
di trattamento.
6. Il giudice può ordinare la pubblicazione della sentenza di cui ai commi 4 e
5, a spese del convenuto, per una sola volta su un quotidiano di tiratura
nazionale.
7. Resta salva la giurisdizione del giudice amministrativo per il personale di
cui all'articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.
Note all'art. 4:
- Il testo dell'art. 44 del citato decreto legislativo n. 286 del 1998, e' il
seguente: «Art. 44 (Azione civile contro la discriminazione).
237
(Legge 6 marzo 1988, n. 40, art. 42) - 1. Quando il comportamento di un
privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione per
motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice può, su istanza di parte,
ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni
altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti
della discriminazione.
2. La domanda si propone con ricorso depositato, anche personalmente dalla
parte, nella cancelleria del pretore del luogo di domicilio dell'istante.
3. Il pretore, sentite le parti, omessa ogni normalista non essenziale al
contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di
istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del
provvedimento richiesto.
4. Il pretore provvede con ordinanza all'accoglimento o al rigetto della
domanda. Se accoglie la domanda emette i provvedimenti richiesti che sono
immediatamente esecutivi.
5. Nei casi di urgenza il pretore provvede con decreto motivato, assunte, ove
occorre, sommarie informazioni. In tal caso fissa, con lo stesso decreto,
l'udienza di comparizione delle parti davanti a sé entro un termine non
superiore a quindici giorni, assegnando all'istante un termine non superiore a
otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. A tale udienza, il
pretore, con ordinanza, conferma, modifica o revoca i provvedimenti emanati
nel decreto.
6. Contro i provvedimenti del pretore e' ammesso reclamo al tribunale nei
termini di cui all'art. 739, secondo comma, del codice di procedura civile. Si
applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737, 738 e 739 del codice di
procedura civile.
7. Con la decisione che definisce il giudizio il giudice può altresì condannare
il convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale.
8. Chiunque elude l'esecuzione di provvedimenti del pretore di cui ai commi
4 e 5 e dei provvedimenti del tribunale di cui al comma 6 e' punito ai sensi
dell'art. 388, primo comma, del codice penale.
9. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza a proprio danno del
comportamento discriminatorio in ragione della razza, del gruppo etnico o
linguistico, della provenienza geografica, della confessione religiosa o della
cittadinanza può dedurre elementi di fatto anche a carattere statistico relativi
alle assunzioni, ai regimi contributivi, all'assegnazione delle mansioni e
qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti
dell'azienda interessata. Il giudice valuta i fatti dedotti nei limiti di cui all'art.
2729, primo comma, del codice civile.
10. Qualora il datore di lavoro ponga in essere un atto o un comportamento
discriminatorio di carattere collettivo, anche in casi in cui non siano
238
individuabili in modo immediato e diretto i lavoratori lesi dalle
discriminazioni, il ricorso può essere presentato dalle rappresentanze locali
delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello
nazionale. Il giudice, nella sentenza che accerta le discriminazioni sulla base
del ricorso presentato ai sensi del presente articolo, ordina al datore di lavoro
di definire, sentiti i predetti soggetti e organismi, un piano di rimozione delle
discriminazioni accertate.
11. Ogni accertamento di atti o comportamenti discriminatori ai sensi dell'art.
43 posti in essere da imprese alle quali siano stati accordati benefici ai sensi
delle leggi vigenti dello Stato o delle regioni, ovvero che abbiano stipulato
contratti di appalto attinenti all'esecuzione di opere pubbliche, di servizi o di
forniture, e' immediatamente comunicato dal Pretore, secondo le modalità
previste dal regolamento di attuazione, alle amministrazioni pubbliche o enti
pubblici che abbiano disposto la concessione del beneficio, incluse le
agevolazioni finanziarie o creditizie, o dell'appalto. Tali amministrazioni, o
enti
revocano
il
beneficio
e,
nei
casi più gravi, dispongono l'esclusione del responsabile per due anni da
qualsiasi ulteriore concessione di agevolazioni finanziarie o creditizie,
ovvero da qualsiasi appalto.
12. Le regioni, in collaborazione con le province e con i comuni, con le
associazioni di immigrati e del volontariato sociale, ai fini dell'applicazione
delle norme del presente articolo e dello studio del fenomeno, predispongono
centri di osservazione, di informazione e di assistenza legale per gli stranieri,
vittime delle discriminazioni per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi».
- Il testo dell'art. 410 del codice di procedura civile, e' il seguente: «Art. 410
(Tentativo obbligatorio di conciliazione).
Chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti
dall'art. 409 e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione
previste dai contratti e accordi collettivi deve promuovere, anche tramite
l'associazione sindacale alla quale aderisce o conferisca mandato, il tentativo
di conciliazione presso la commissione di conciliazione individuata secondo i
criteri di cui all'art. 413.
La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di
conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del
tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione,
il decorso di ogni termine di decadenza.
La commissione, ricevuta la richiesta tenta la conciliazione della
controversia, convocando le parti, per una riunione da tenersi non oltre dieci
giorni dal ricevimento della richiesta.
Con provvedimento del direttore dell'ufficio provinciale del lavoro e della
massima occupazione è istituita in ogni provincia presso l'ufficio provinciale
239
del lavoro e della massima occupazione, una commissione provinciale di
conciliazione composta dal direttore dell'ufficio stesso, o da un suo delegato,
in qualità di presidente, da quattro rappresentanti effettivi e da quattro
supplenti
dei
datori
di
lavoro
e
da
quattro
rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei lavoratori, designati dalle
rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative su base
nazionale. Commissioni di conciliazione possono essere istituite, con le
stesse modalità e con la medesima composizione di cui al precedente comma,
anche presso le sezioni zonali degli uffici provinciali del lavoro e della
massima occupazione. Le commissioni, quando se ne ravvisi la necessità,
affidano il tentativo di conciliazione a proprie sottocommissioni, presiedute
dal direttore dell'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione
o da un suo delegato che rispecchino la composizione prevista dal precedente
terzo comma. In ogni caso per la validità della riunione e'
necessaria la presenza del presidente e di almeno un rappresentante dei datori
di lavoro e di uno dei lavoratori.
Ove la riunione della commissione non sia possibile per la mancata presenza
di almeno uno dei componenti di cui al precedente comma, il direttore
dell'ufficio provinciale del lavoro certifica l'impossibilita' di procedere al
tentativo di conciliazione.».
- Il testo dell'art. 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme
generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche), è il seguente:
«Art. 66 (Collegio di conciliazione).
1. Ferma restando la facoltà del lavoratore di avvalersi delle procedure di
conciliazione previste dai contratti collettivi, il tentativo obbligatorio di
conciliazione di cui all'art. 65 si svolge, con le procedure di cui ai commi
seguenti, dinanzi ad un collegio di conciliazione istituito presso la Direzione
provinciale del lavoro nella cui circoscrizione si trova l'ufficio cui il
lavoratore e' addetto, ovvero era addetto al momento della cessazione del
rapporto.
Le medesime procedure si applicano, in quanto compatibili, se il tentativo di
conciliazione è promosso dalla pubblica amministrazione. Il collegio di
conciliazione è composto dal direttore della Direzione o da un suo delegato,
che lo presiede, da un rappresentante del lavoratore e da un rappresentante
dell'amministrazione.
2. La richiesta del tentativo di conciliazione, sottoscritta dal lavoratore, è
consegnata alla Direzione presso la quale è istituito il collegio di
conciliazione competente o spedita mediante raccomandata con avviso di
ricevimento. Copia della richiesta deve essere consegnata o spedita a cura
dello stesso lavoratore all'amministrazione di appartenenza.
240
3. La richiesta deve precisare:
a) l'amministrazione di appartenenza e la sede alla quale il lavoratore è
addetto;
b) il luogo dove gli devono essere fatte le comunicazioni inerenti alla
procedura;
c) l'esposizione sommaria dei fatti e delle ragioni poste a fondamento della
pretesa;
d) la nomina del proprio rappresentante nel collegio di conciliazione o la
delega per la nomina medesima ad un'organizzazione sindacale.
4. Entro trenta giorni dal ricevimento della copia della richiesta,
l'amministrazione, qualora non accolga la pretesa del lavoratore, deposita
presso la Direzione osservazioni scritte. Nello stesso atto nomina il proprio
rappresentante in seno al collegio di conciliazione. Entro i dieci giorni
successivi al deposito, il Presidente fissa la comparizione delle parti per il
tentativo di conciliazione. Dinanzi al collegio di conciliazione, il lavoratore
può farsi rappresentare o assistere anche da un'organizzazione cui aderisce o
conferisce mandato. Per l'amministrazione deve comparire un soggetto
munito del potere di conciliare.
5. Se la conciliazione riesce, anche limitatamente ad una parte della pretesa
avanzata dal lavoratore, viene redatto separato processo verbale sottoscritto
dalle parti e dai componenti del collegio di conciliazione. Il verbale
costituisce titolo esecutivo. Alla conciliazione non si applicano le
disposizioni dell'art. 2113, commi, primo, secondo e terzo del codice civile.
6. Se non si raggiunge l'accordo tra le parti, il collegio di conciliazione deve
formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia. Se la
proposta non e' accettata, i termini di essa sono riassunti nel verbale con
indicazione delle valutazioni espresse dalle parti.
7. Nel successivo giudizio sono acquisiti, anche di ufficio, i verbali
concernenti il tentativo di conciliazione non riuscito. Il giudice valuta il
comportamento tenuto dalle parti nella fase conciliativa ai fini del
regolamento delle spese.
8. La conciliazione della lite da parte di chi rappresenta la pubblica
amministrazione, in adesione alla proposta formulata dal collegio di cui al
comma 1, ovvero in sede giudiziale ai sensi dell'art. 420, commi primo,
secondo e terzo, del codice di procedura civile, non può dar luogo a
responsabilità amministrativa.».
- Il testo dell'art. 2729, del codice civile è il seguente: «Art. 2729
(Presunzioni semplici). - Le presunzioni non stabilite dalla legge sono
lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che
presunzioni gravi, precise e concordanti. Le presunzioni non si possono
ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni.».
241
- Il testo dell'art. 3, del citato decreto legislativo n. 165 del 2001, è il
seguente:
«Art. 3 (Personale in regime di diritto pubblico).
1. In deroga all'art. 2, commi 2 e 3, rimangono disciplinati dai rispettivi
ordinamenti: i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e
procuratori dello Stato, il personale militare e le Forze di polizia di Stato, il
personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia nonché i
dipendenti degli enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate
dall'art. 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio
1947, n. 691, e dalle leggi 4 giugno 1985, n. 281, e successive modificazioni
ed integrazioni, e 10 ottobre 1990, n. 287.
2. Il rapporto di impiego dei professori e dei ricercatori universitari resta
disciplinato dalle disposizioni rispettivamente vigenti, in attesa della
specifica disciplina che la regoli in modo organico ed in conformità ai
principi della autonomia universitaria di cui all'art. 33 della Costituzione ed
agli articoli 6 e seguenti della legge 9 maggio 1989, n. 168, e successive
modificazioni ed integrazioni, tenuto conto dei principi di cui all'art. 2,
comma 1, della legge 23ottobre 1992, n. 421.».
Art. 5.
Legittimazione ad agire
1. Sono legittimati ad agire ai sensi dell'articolo 4, in forza di delega,
rilasciata, a pena di nullità, per atto pubblico o scrittura privata autenticata, in
nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, le
associazioni e gli enti inseriti in un apposito elenco approvato con decreto del
Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari
opportunità ed individuati sulla base delle finalità programmatiche e della
continuità dell'azione.
2. Nell'elenco di cui al comma 1 possono essere inseriti le associazioni e gli
enti iscritti nel registro di cui all'articolo 52, comma 1, lettera a), del decreto
del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, nonché le
associazioni e gli enti iscritti nel registro di cui all'articolo 6.
3. Le associazioni e gli enti inseriti nell'elenco di cui al comma 1 sono,
altresì, legittimati ad agire ai sensi dell'articolo 4 nei casi di discriminazione
collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le
persone lese dalla discriminazione.
Nota all'art. 5:
- Il testo dell'art. 52, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 31
agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del testo
242
unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero, a norma dell'art. 1, comma 6, del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286), e' il seguente:
«Art. 52 (Registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività a
favore degli immigrati). - 1. Presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri
Dipartimento per gli affari sociali, e' istituito il registro delle associa zioni,
degli enti e degli altri organismi privati che svolgono le attività a favore degli
stranieri immigrati previste dal testo unico. Il registro è diviso in tre sezioni.
a) nella prima sezione sono iscritti associazioni, enti e altri organismi privati
che svolgono attività per favorire l'integrazione sociale degli stranieri, ai
sensi dell'art. 42 del testo unico;
b) nella seconda sono iscritti associazioni ed enti che possono essere
ammessi a prestare garanzia per l'ingresso degli stranieri per il loro
inserimento nel mercato del lavoro, ai sensi dell'art. 23 del testo unico;
c) nella terza sezione sono iscritti associazioni, enti ed altri organismi privati
abilitati alla realizzazione dei programmi di assistenza e protezione sociale
degli stranieri di cui all'art. 18 del testo unico.».
Art. 6.
Registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività nel campo della
lotta alle discriminazioni
1. Presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le pari
opportunità è istituito il registro delle associazioni e degli enti che svolgono
attività nel campo della lotta alle discriminazioni e della promozione della
parità di trattamento.
2. L'iscrizione nel registro è subordinata al possesso dei seguenti requisiti:
a) avvenuta costituzione, per atto pubblico o per scrittura privata autenticata,
da almeno un anno e possesso di uno statuto che sancisca un ordinamento a
base democratica e preveda come scopo esclusivo o preminente il contrasto
ai fenomeni di discriminazione e la promozione della parità di trattamento,
senza fine di lucro;
b) tenuta di un elenco degli iscritti, aggiornato annualmente con l'indicazione
delle quote versate direttamente all'associazione per gli scopi statutari;
c) elaborazione di un bilancio annuale delle entrate e delle uscite con
indicazione delle quote versate dagli associati e tenuta dei libri contabili,
conformemente alle norme vigenti in materia di contabilità delle associazioni
non riconosciute;
d) svolgimento di un'attività continuativa nell'anno precedente;
e) non avere i suoi rappresentanti legali subito alcuna condanna, passata in
giudicato, in relazione all'attività dell'associazione medesima, e non rivestire
243
i medesimi rappresentanti la qualifica di imprenditori o di amministratori di
imprese di produzione e servizi in qualsiasi forma costituite, per gli stessi
settori
in
cui
opera
l'associazione.
3. La Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per le pari
opportunità provvede annualmente all'aggiornamento del registro.
Art. 7.
Ufficio per il contrasto delle discriminazioni
1. E' istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento
per le pari opportunità un ufficio per la promozione della parità di
trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o
sull'origine etnica, con funzioni di controllo e garanzia delle parità di
trattamento e dell'operatività degli strumenti di tutela, avente il compito di
svolgere, in modo autonomo e imparziale, attività di promozione della parità
e di rimozione di qualsiasi forma di discriminazione fondata sulla razza o
sull'origine etnica, anche in un'ottica che tenga conto del diverso impatto che
le stesse discriminazioni possono avere su donne e uomini, nonché
dell'esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso.
2. In particolare, i compiti dell'ufficio di cui al comma 1 sono i seguenti:
a) fornire assistenza, nei procedimenti giurisdizionali o amministrativi
intrapresi, alle persone che si ritengono lese da comportamenti
discriminatori, anche secondo le forme di cui all'articolo 425 del codice di
procedura civile;
b) svolgere, nel rispetto delle prerogative e delle funzioni dell'autorità
giudiziaria, inchieste al fine di verificare l'esistenza di fenomeni
discriminatori;
c) promuovere l'adozione, da parte di soggetti pubblici e privati, in
particolare da parte delle associazioni e degli enti di cui all'articolo 6, di
misure specifiche, ivi compresi progetti di azioni positive, dirette a evitare o
compensare le situazioni di svantaggio connesse alla razza o all'origine
etnica;
d) diffondere la massima conoscenza possibile degli strumenti di tutela
vigenti anche mediante azioni di sensibilizzazione dell'opinione pubblica sul
principio della parità di trattamento e la realizzazione di campagne di
informazione e comunicazione;
e) formulare raccomandazioni e pareri su questioni connesse alle
discriminazioni per razza e origine etnica, nonché proposte di modifica della
normativa vigente;
f) redigere una relazione annuale per il Parlamento sull'effettiva applicazione
del principio di parità di trattamento e sull'efficacia dei meccanismi di tutela,
244
nonché una relazione annuale al Presidente del Consiglio dei Ministri
sull'attività' svolta;
g) promuovere studi, ricerche, corsi di formazione e scambi di esperienze, in
collaborazione anche con le associazioni e gli enti di cui all'articolo 6, con le
altre organizzazioni non governative operanti nel settore e con gli istituti
specializzati di rilevazione statistica, anche al fine di elaborare linee guida in
materia di lotta alle discriminazioni.
3. L'ufficio ha facoltà di richiedere ad enti, persone ed imprese che ne siano
in possesso, di fornire le informazioni e di esibire i documenti utili ai fini
dell'espletamento dei compiti di cui al comma 2.
4. L'ufficio, diretto da un responsabile nominato dal Presidente del Consiglio
dei Ministri o da un Ministro da lui delegato, si articola secondo le modalità
organizzative fissate con successivo decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri, con cui si provvede ad apportare le opportune modifiche al decreto
del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 23 luglio 2002, recante
ordinamento delle strutture generali della Presidenza del Consiglio dei
Ministri, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 207 del 4 settembre 2002.
5. L'ufficio può avvalersi anche di personale di altre amministrazioni
pubbliche, ivi compresi magistrati e avvocati e procuratori dello Stato, in
posizione di comando, aspettativa o fuori ruolo, conche di esperti e
consulenti esterni. Si applica l'articolo 17, commi 14 e 17, della legge 15
maggio 1997, n. 127.
6. Il numero dei soggetti di cui al comma 5 è determinato con il decreto di
cui al comma 4, secondo quanto previsto dall'articolo 29 della legge 23
agosto 1988, n. 400 e dall'articolo 9 del decreto legisla tivo 23 luglio 1999, n.
303.
7. Gli esperti di cui al comma 5 sono scelti tra soggetti, anche estranei alla
pubblica amministrazione, dotati di elevata professionalità nelle materie
giuridiche, nonché nei settori della lotta alle discriminazioni, dell'assistenza
materiale e psicologica ai soggetti in condizioni disagiate, del recupero
sociale, dei servizi di pubblica utilità, della comunicazione sociale e
dell'analisi delle politiche pubbliche.
8. Sono fatte salve le competenze delle regioni e delle province autonome di
Trento e di Bolzano.
Note all'art. 7:
- Il testo dell'art. 425 del Codice di procedura civile è il seguente:
«Art. 425 (Richiesta di informazioni e osservazioni alle associazioni
sindacali). - Su istanza di parte, l'associazione sindacale indicata dalla stessa
ha facoltà di rendere in giudizio, tramite un suo rappresentante, informazioni
e osservazioni orali o scritte. Tali informazioni e osservazioni possono essere
245
rese anche nel luogo di lavoro ove sia stato disposto l'accesso ai sensi del
terzo comma dell'art. 421.
A tal fine il giudice può disporre ai sensi del sesto comma dell'art. 420. Il
giudice può richiedere alle associazioni sindacali il testo dei contratti e
accordi collettivi di lavoro, anche aziendali, da applicare nella causa.».
- Il testo dell'art. 17, commi 14 e 17, della legge 15 maggio 1997, n. 127
(Misure urgenti per lo snellimento dell'attività' amministrativa e dei
procedimenti di decisione e di controllo), è il seguente:
«Art. 17 (Ulteriori disposizioni in materia di semplificazione dell'attività'
amministrativa e di snellimento dei procedimenti di decisione e di controllo).
(Omissis).
14. Nel caso in cui disposizioni di legge o regolamentari dispongano
l'utilizzazione presso le amministrazioni pubbliche di un contingente di
personale in posizione di fuori ruolo o di comando, le amministrazioni di
appartenenza sono tenute ad adottare il provvedimento di fuori ruolo o di
comando entro quindici giorni dalla richiesta (Omissis).
17. Al comando si provvede con decreto dei Ministri competenti, sentito
l'impiegato.».
- Il testo dell'art. 29 della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina
dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei
Ministri), è il seguente:
«Art. 29 (Consulenti e comitati di consulenza).
1. Il Presidente del Consiglio dei ministri può avvalersi di consulenti e
costituire comitati di consulenza, di ricerca o di studio su specifiche
questioni.
2. Per tali attività si provvede con incarichi a tempo determinato da conferire
a magistrati, docenti universitari, avvocati dello Stato, dirigenti e altri
dipendenti delle amministrazioni dello Stato, degli Enti pubblici, anche
economici, delle aziende a prevalente partecipazione pubblica o anche ad
esperti estranei all'amministrazione dello Stato.».
- Il testo dell'art. 9 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303
(Ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, a norma dell'art.
11 della legge 15 marzo 1997, n. 59), è il seguente:
«Art. 9 (Personale della Presidenza).
1. Gli incarichi dirigenziali presso la Presidenza sono conferiti secondo le
disposizioni di cui agli articoli 14, comma 2, e 19 del decreto legislativo 3
febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni, relativi,
rispettivamente, alle strutture individuate come di diretta collaborazione ed
alle altre strutture, ferma restando l'applicabilità, per gli incarichi di direzione
di dipartimento, dell'art. 28 della legge 23 agosto 1988, n. 400, come
246
modificato dal presente decreto, e ferma altresì restando l'applicabilità degli
articoli 18, comma 3, e 31, comma 4, della legge stessa.
2. La Presidenza si avvale per le prestazioni di lavoro di livello non
dirigenziale: di personale di ruolo, entro i limiti di cui all'art. 11, comma 4; di
personale di prestito, proveniente da altre amministrazioni pubbliche, ordini,
organi, enti o istituzioni, in posizione di comando, fuori ruolo, o altre
corrispondenti posizioni disciplinate dai rispettivi ordinamenti; di personale
proveniente dal settore privato, utilizzabile con contratti a tempo determinato
per le esigenze delle strutture e delle funzioni individuate come di diretta
collaborazione; di consulenti o esperti, anche estranei alla pubblica
amministrazione, nominati per speciali esigenze secondo criteri e limiti
fissati dal Presidente.
3. In materia di reclutamento del personale di ruolo, il Presidente, con
proprio decreto, può istituire, in misura non superiore al 20 per cento dei
posti disponibili, una riserva di posti per l'inquadramento selettivo, a parità di
qualifica, del personale di altre amministrazioni in servizio presso la
Presidenza ed in possesso di requisiti professionali adeguati e comprovati nel
tempo.
4. Il rapporto di lavoro del personale di ruolo della Presidenza è disciplinato
dalla contrattazione collettiva e dalle leggi che regolano il rapporto di lavoro
privato, in conformità delle norme del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n.
29, e successive modificazioni e integrazioni, anche per quanto attiene alla
definizione del comparto di contrattazione per la Presidenza. Tale regime si
applica, relativamente al trattamento economico accessorio e fatta eccezione
per gli estranei e per gli appartenenti a categorie sottratte alla contrattazione
collettiva, al personale che presso la Presidenza ricopre incarichi dirigenziali
ed al personale di prestito in servizio presso la Presidenza stessa.
5. Il Presidente, con proprio decreto, stabilisce il contingente del personale di
prestito, ai sensi dell'art. 11, comma 4, il contingente dei consulenti ed
esperti, e le corrispondenti risorse finanziarie da stanziare in bilancio.
Appositi contingenti sono previsti per il personale delle forze di polizia, per
le esigenze temporanee di cui all'art. 39, comma 22, della legge 27 dicembre
1997, n. 449, nonché per il personale di prestito utilizzabile nelle strutture di
diretta collaborazione. Il Presidente può ripartire per aree funzionali, in
relazione alle esigenze ed alle disponibilità finanziarie, i contingenti del
personale di prestito, dei consulenti ed esperti. Al giuramento di un nuovo
Governo,
cessano
di
avere
effetto
i
decreti
di
utilizzazione del personale estraneo e del personale di prestito addetto ai
gabinetti e segreterie delle autorità politiche. Il restante personale di prestito
e' restituito entro sei mesi alle amministrazioni di appartenenza, salva
proroga del comando o conferma del fuori ruolo disposte sulla base di
247
specifica e motivata richiesta dei dirigenti proposti alle strutture della
Presidenza.
6. Il Presidente, con proprio decreto, stabilisce il trattamento economico del
Segretario generale e dei vicesegretari generali, nonché i compensi da
corrispondere ai consulenti, agli esperti, al personale estraneo alla pubblica
amministrazione.
7. Ai decreti di cui al presente articolo ed a quelli di cui agli articoli 7 e 8 non
sono applicabili la disciplina di cui all'art. 17 della legge 23 agosto 1988, n.
400, e quella di cui all'art. 3, commi 1, 2 e 3, della legge 14 gennaio 1994, n.
20. Il Presidente può richiedere il parere del Consiglio di Stato e della Corte
dei conti sui decreti di cui all'art. 8.».
Art. 8.
Copertura finanziaria
1. Agli oneri finanziari derivanti dall'istituzione e funzionamento dell'ufficio
di cui all'articolo 7, nel limite massimo di spesa di 2.035.357 euro annui a
decorrere dal 2003, si provvede ai sensi dell'articolo 29, comma 2, della
legge 1° marzo 2002, n. 39.
2. Fatto salvo quanto previo dal comma 1, dall'attuazione del presente
decreto non derivano oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato. Il presente
decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale
degli atti normativi della Repubblica italiana. E' fatto obbligo a chiunque
spetti di osservarlo e di farlo osservare.
Dato a Roma, addì 9 luglio 2003
CIAMPI
Berlusconi, Presidente del Consiglio dei Ministri
Buttiglione, Ministro per le politiche comunitarie
Maroni, Ministro del lavoro e delle politiche sociali
Prestigiacomo, Ministro per le pari opportunità
Frattini, Ministro degli affari esteri
Castelli, Ministro della giustizia
Tremonti, Ministro dell'economia e delle finanze
Visto, il Guardasigilli: Castelli
248
DECRETO LEGISLATIVO 9 luglio 2003, n.216
Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia
di occupazione e di condizioni di lavoro.
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione;
Vista la direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che
stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di
occupazione e di condizioni di lavoro;
Vista la legge 1° marzo 2002, n. 39, ed in particolare l'allegato B;
Vista la legge 20 maggio 1970, n. 300, recante «Norme sulla tutela della
libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale
nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento»;
Visto il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286;
Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella
riunione del 28 marzo 2003;
Acquisiti i pareri delle Commissioni della Camera dei deputati e del Senato
della Repubblica;
Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 3
luglio 2003;
Sulla proposta del Ministro per le politiche comunitarie, del Ministro del
lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità, di
concerto con il Ministro degli affari esteri, con il Ministro della giustizia e
con il Ministro dell'economia e delle finanze;
Emana il seguente decreto legislativo:
Art. 1.
Oggetto
1. Il presente decreto reca le disposizioni relative all'attuazione della parità di
trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle
convinzioni personali, dagli handicap, dall'età e dall'orientamento sessuale,
per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro, disponendo le
misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di discriminazione, in
249
un'ottica che tenga conto anche del diverso impatto che le stesse forme di
discriminazione possono avere su donne e uomini.
Avvertenza:
Il testo delle note qui pubblicato è stato redatto ai sensi dell'art. 10, commi 2
e 3 del testo unico delle disposizioni sulla promulgazione delle leggi,
sull'emanazione dei decreti del Presidente della Repubblica e sulle
pubblicazioni ufficiali della Repubblica italiana, approvato con D.P.R. 28
dicembre 1985, n. 1092, al solo fine di facilitare la lettura delle disposizioni
di legge modificate o alle quali e' operato il rinvio. Restano invariati il
valore e l'efficacia degli atti legislativi qui trascritti. Per le direttive CEE
vengono forniti gli estremi di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale delle
Comunità europee (GUCE).
Nota al titolo:
- Il testo della direttiva 2000/78/CE (Direttiva del Consiglio che stabilisce un
quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di
condizioni di lavoro), è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Comunità
europea 2 dicembre 2000, n. L 303.
Note alle premesse:
- Il testo dell'art. 76 della Costituzione e' il seguente:
«Art. 76. - L'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al
Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto
per tempo limitato e per oggetti definiti.».
- L'art. 87, comma quinto, della Costituzione conferisce al Presidente della
Repubblica il potere di promulgare le leggi e di emanare i decreti aventi
valore di legge e i regolamenti.
- Per il testo della citata direttiva 2000/78/CE, si veda nota al titolo.
- Il testo della legge 1° marzo 2002, n. 39 (Disposizioni per l'adempimento
di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee.
Legge comunitaria 2001), e' pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 26 marzo
2002, n. 72, supplemento ordinario.
- Il testo dell'allegato B della citata legge n. 39 del 2002, e' il seguente:
«Allegato B (Articolo 1, commi 1 e 3) 93/104/CE del Consiglio, del 23
novembre 1993, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di
lavoro.
94/45/CE del Consiglio, del 22 settembre 1994, riguardante l'istituzione di un
comitato aziendale europeo o di una procedura per l'informazione e la
consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di
dimensioni comunitarie.
250
96/61/CE del Consiglio, del 24 settembre 1996, sulla prevenzione e la
riduzione integrate dell'inquinamento.
1999/31/CE del Consiglio, del 26 aprile 1999, relativa alle discariche di
rifiuti.
1999/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 giugno 1999, che
istituisce un meccanismo di riconoscimento delle qualifiche per le attività
professionali disciplinate dalle direttive di liberalizzazione e dalle direttive
recanti misure transitorie e che completa il sistema generale di
riconoscimento delle qualifiche.
1999/63/CE del Consiglio, del 21 giugno 1999, relativa all'accordo
sull'organizzazione dell'orario di lavoro della gente di mare concluso
dall'Associazione armatori della Comunità europea (ECSA) e dalla
Federazione dei sindacati dei trasportatori dell'Unione europea (FST).
1999/64/CE della Commissione, del 23 giugno 1999, che modifica la
direttiva 90/388/CEE al fine di garantire che le reti di telecomunicazioni e le
reti televisive via cavo appartenenti ad un unico proprietario siano gestite da
persone giuridiche distinte.
1999/92/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 1999,
relativa alle prescrizioni minime per il miglioramento della tutela della
sicurezza e della salute dei lavoratori che possono essere esposti al rischio di
atmosfere esplosive (quindicesima direttiva particola re ai sensi dell'art. 16,
paragrafo 1, della direttiva 89/391/CEE).
2000/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 marzo 2000,
relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti
l'etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa
pubblicità.
2000/26/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 maggio 2000,
concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in
materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla
circolazione di autoveicoli e che modifica le direttive 73/239/CEE e
88/357/CEE del Consiglio (quarta direttiva assicurazione autoveicoli).
2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'8 giugno 2000,
relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell'informazione, in
particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («direttiva sul
commercio elettronico»). 2000/34/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 22 giugno 2000, che modifica la direttiva 93/104/CE del
Consiglio concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro,
al fine di comprendere i settori e le attività esclusi dalla suddetta direttiva.
2000/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 giugno 2000,
relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.
251
2000/36/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 giugno 2000,
relativa ai prodotti di cacao e di cioccolato destinati all'alimentazione umana.
2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, che attua il principio della
parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e
dall'origine etnica.
2000/53/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del1 8 settembre 2000,
relativa ai veicoli fuori uso.
2000/59/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 novembre 2000,
relativa agli impianti portuali di raccolta per i rifiuti prodotti dalle navi e i
residui del carico.
2000/75/CE del Consiglio, del 20 novembre 2000, che stabilisce disposizioni
specifiche relative alle misure di lotta e di eradicazione della febbre catarrale
degli ovini.
2000/77/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 dicembre 2000,
recante modifica della direttiva 95/53/CE del Consiglio che fissa i principi
relativi all'organizzazione dei controlli ufficiali nel settore dell'alimentazione
animale.
2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro
generale per la parita' di trattamento in materia di occupazione e di
condizioni di lavoro.
2000/79/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, relativa all'attuazione
dell'accordo europeo sull'organizzazione dell'orario di lavoro del personale di
volo nell'aviazione civile concluso da Association of European Airlines
(AEA), European Transport Workers' Federation (ETF), European Cockpit
Association (ECA), European Regions Airline Association (ERA) e
International Air Carrier Association (IACA).
2001/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2001,
che modifica la direttiva 91/440/CEE del Consiglio relativa allo sviluppo
delle ferrovie comunitarie.
2001/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2001,
che modifica la direttiva 95/18/CE del Consiglio relativa alle licenze delle
imprese ferroviarie.
2001/14/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2001,
relativa alla ripartizione della capacita' di infrastruttura ferroviaria,
all'imposizione dei diritti per l'utilizzo dell'infrastruttura ferroviaria e alla
certificazione di sicurezza.
2001/15/CE della Commissione, del 15 febbraio 2001, sulle sostanze che
possono essere aggiunte a scopi nutrizionali specifici ai prodotti alimentari
destinati ad un'alimentazione particolare.
252
2001/16/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 marzo 2001,
relativa all'interoperabilità del sistema ferroviario transeuropeo
convenzionale.
2001/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 marzo 2001,
sull'emissione deliberata nell'ambiente di organismi geneticamente modificati
e che abroga lad irettiva 90/220/CEE del Consiglio.
2001/19/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 maggio 2001,
che modifica le direttive 89/48/CEE e 92/51/CEE del Consiglio relative al
sistema generale di riconoscimento delle qualifiche professionali e le
direttive 77/452/CEE, 77/453/CEE, 78/686/CEE, 78/687/CEE, 78/1026/CEE,
78/1027/CEE, 80/154/CEE, 80/155/CEE, 85/384/CEE, 85/432/CEE,
85/433/CEE e 93/16/CEE del Consiglio concernenti le professioni di
infermiere responsabile dell'assistenza generale, dentista, veterinario,
ostetrica, architetto, farmacista e medico.
2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento
delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei
lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di
imprese o di stabilimenti.
2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2001,
sull'armonizzazione di taluni aspetti del diritto d'autore e dei diritti connessi
nella società dell'informazione.
2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 giugno 2001,
concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi
sull'ambiente.
2001/45/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 giugno 2001, che
modifica la direttiva 89/655/CEE del Consiglio relativa ai requisiti minimi di
sicurezza e di salute per l'uso delle attrezzature di lavoro da parte dei
lavoratori durante il lavoro (seconda direttiva particolare ai sensi dell'art. 16,
paragrafo 1, della direttiva 89/391/CEE).
2001/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 luglio 2001,
recante modificazione della direttiva 95/53/CE del Consiglio che fissa i
principi relativi all'organizzazione dei controlli ufficiali nel settore
dell'alimentazione animale e delle direttive 70/524/CEE, 96/25/CE e
1999/29/CE del Consiglio, relative all'alimentazione animale.
2001/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 settembre 2001,
che modifica le direttive 78/660/CEE, 83/349/CEE e 86/635/CEE per quanto
riguarda le regole di valutazione per i conti annuali e consolidati di taluni tipi
di società nonché di banche e di altre istituzioni finanziarie.
2001/77/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 settembre 2001,
sulla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche
rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità.
253
2001/84/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 settembre 2001,
relativa al diritto dell'autore di un'opera d'arte sulle successive vendite
dell'originale.
2001/86/CE del Consiglio, dell'8 ottobre 2001, che completa lo statuto della
società europea per quanto riguarda il coinvolgimento dei lavoratori.».
- Il testo della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà
e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività' sindacale nei
luoghi di lavoro e norme sul collocamento), è pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale 27 maggio 1970, n. 131.
- Il testo del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero), e' pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 191 del
18 agosto 1998, supplemento ordinario.
Art. 2.
Nozione di discriminazione
1. Ai fini del presente decreto e salvo quanto disposto dall'articolo 3, commi
da 3 a 6, per principio di parità di trattamento si intende l'assenza di qualsiasi
discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni
personali, degli handicap, dell'età o dell'orientamento sessuale. Tale principio
comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così
come di seguito definite:
a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali,
per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata
meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una
situazione analoga;
b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi,
un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere
le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra
natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di
un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto
ad altre persone.
2. E' fatto salvo il disposto dell'articolo 43, commi 1 e 2 del testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998,
n. 286.
3. Sono, altresì, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1,
anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per
uno dei motivi di cui all'articolo 1, aventi lo scopo o l'effetto di violare la
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dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante,
umiliante od offensivo.
4. L'ordine di discriminare persone a causa della religione, delle convinzioni
personali, dell'handicap, dell'età o dell'orientamento sessuale e' considerata
una discriminazione ai sensi del comma 1.
Nota all'art. 2:
- Il testo dell'art. 43, commi 1 e 2 del citato decreto legislativo n. 286 del
1998, è il seguente:
«Art. 43 (Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi). 1.
Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento
che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione,
restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine
nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo
o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento
o
l'esercizio,
in
condizioni
di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico,
economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.
2. In ogni caso compie un atto di discriminazione:
a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la
persona esercente un servizio di pubblica necessitò che nell'esercizio delle
sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che,
soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una
determinata razza, religione, etnia o nazionalità, lo discriminino
ingiustamente;
b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o
servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua
condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione,
etnia o nazionalità;
c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti
di fornire l'accesso all'occupazione, all'alloggio, all'istruzione, alla
formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero
regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione
di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o
nazionalità;
d) chiunque impedisca, mediante azioni od omissioni, l'esercizio di
un'attività' economica legittimamente intrapresa da uno straniero
regolarmente soggiornante in Italia, soltanto in ragione della sua condizione
di straniero o di appartenente ad una determinata razza, confessione religiosa,
etnia o nazionalità;
255
e) il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dell'art. 15 della legge
20 maggio 1970, n 300, come modificata e integrata dalla legge 9 dicembre
1977, n. 903, e dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, compiano qualsiasi atto o
comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche
indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza,
ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una
cittadinanza. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento
pregiudizievole conseguente all'adozione di criteri che svantaggino in modo
proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata
razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata
confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non
essenziali allo svolgimento dell'attività' lavorativa.».
Art. 3.
Ambito di applicazione
1. Il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di
convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si
applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile
di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall'articolo 4, con
specifico riferimento alle seguenti aree:
a) accesso all'occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente,
compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione;
b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera,
la retribuzione e le condizioni del licenziamento;
c) accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale,
perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini
professionali;
d) affiliazione e attività nell'ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori
di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle
medesime organizzazioni.
2. La disciplina di cui al presente decreto fa salve tutte le disposizioni vigenti
in materia di:
a) condizioni di ingresso, soggiorno ed accesso all'occupazione, all'assistenza
e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio
dello
Stato;
b) sicurezza e protezione sociale;
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c) sicurezza pubblica, tutela dell'ordine pubblico, prevenzione dei reati e
tutela della salute;
d) stato civile e prestazioni che ne derivano;
e) forze armate, limitatamente ai fattori di età e di handicap.
3. Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell'ambito
del rapporto di lavoro o dell'esercizio dell'attività di impresa, non
costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 quelle differenze
di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle
convinzioni personali, all'handicap, all'età o all'orientamento sessuale di una
persona, qualora, per la natura dell'attività lavorativa o per il contesto in cui
essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito
essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell'attività medesima.
Parimenti, non costituisce atto di discriminazione la valutazione delle
caratteristiche suddette ove esse assumano rilevanza ai fini dell'idoneità allo
svolgimento delle funzioni che le forze armate e i servizi di polizia,
penitenziari o di soccorso possono essere chiamati ad esercitare.
4. Sono, comunque, fatte salve le disposizioni che prevedono accertamenti di
idoneità al lavoro per quanto riguarda la necessità di una idoneità ad uno
specifico lavoro e le disposizioni che prevedono la possibilità di trattamenti
differenziati in merito agli adolescenti, ai giovani, ai lavoratori anziani e ai
lavoratori con persone a carico, dettati dalla particolare natura del rapporto e
dalle legittime finalità di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di
formazione professionale.
5. Non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 le
differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata
religione o di determinate convinzioni personali che siano praticate
nell'ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private,
qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attività
professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse
sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai
fini dello svolgimento delle medesime attività.
6. Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell'articolo
2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente
discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime
perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari.
In particolare, resta ferma la legittimità di atti diretti all'esclusione dallo
svolgimento di attività lavorativa che riguardi la cura, l'assistenza,
l'istruzione e l'educazione di soggetti minorenni nei confronti di coloro che
siano stati condannati in via definitiva per reati che concernono la libertà
sessuale dei minori e la pornografia minorile.
257
Art. 4.
Tutela giurisdizionale dei diritti
1. All'articolo 15, comma 2, della legge 20 maggio 1970, n. 300, dopo la
parola «sesso» sono aggiunte le seguenti: «di handicap, di età o basata
sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali».
2. La tutela giurisdizionale avverso gli atti e i comportamenti di cui
all'articolo 2 si svolge nelle forme previste dall'articolo 44, commi da 1 a 6, 8
e 11, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.
3. Chi intende agire in giudizio per il riconoscimento della sussistenza di una
delle discriminazioni di cui all'articolo 2 e non ritiene di avvalersi delle
procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il
tentativo di conciliazione ai sensi dell'artic olo 410 del codice di procedura
civile o, nell'ipotesi di rapporti di lavoro con le amministrazioni pubbliche, ai
sensi dell'articolo 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, anche
tramite le rappresentanze locali di cui all'articolo 5.
4. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento
discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio, anche sulla base di
dati statistici, elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il
giudice valuta ai sensi dell'articolo 2729, primo comma, del codice civile.
5. Con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere,
se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina la
cessazione del comportamento, della condotta o dell'atto discriminatorio, ove
ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti. Al fine di impedirne la
ripetizione, il giudice può ordinare, entro il termine fissato nel
provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate.
6. Il giudice tiene conto, ai fini della liquidazione del danno di cui al comma
5, che l'atto o comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una
precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente
attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità
di trattamento.
7. Il giudice puoi ordinare la pubblicazione della sentenza di cui ai commi 5 e
6, a spese del convenuto, per una sola volta su un quotidiano di tiratura
nazionale.
8. Resta salva la giurisdizione del giudice amministrativo per il personale di
cui all'articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.
Note all'art. 4:
258
- Il testo dell'art. 15, comma 2, della citata legge n. 300 del 1970, come
modificato dal presente decreto, e' il seguente:
«Art. 15 (Atti discriminatori).
- E' nullo qualsiasi patto od atto diretto a:
a) subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o
non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte;
b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o
mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli
altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale
ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.
Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti
diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di
sesso, di handicap, di età o basata sull'orientamento sessuale o sulle
convinzioni personali.».
- Il testo dell'art. 44 del citato decreto legislativo n. 286 del 1998, è il
seguente:
«Art. 44 (Azione civile contro la discriminazione) (Legge 6 marzo 1988, n.
40, art. 42).
1. Quando il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione
produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi,
il giudice può, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento
pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le
circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione.
2. La domanda si propone con ricorso depositato, anche personalmente dalla
parte, nella cancelleria del pretore del luogo di domicilio dell'istante.
3. Il pretore, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al
contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di
istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del
provvedimento richiesto.
4. Il pretore provvede con ordinanza all'accoglimento o al rigetto della
domanda. Se accoglie la domanda emette i provvedimenti richiesti che sono
immediatamente esecutivi.
5. Nei casi di urgenza il pretore provvede con decreto motivato, assunte, ove
occorre, sommarie informazioni. In tal caso fissa, con lo stesso decreto,
l'udienza di comparizione delle parti davanti a sé entro un termine non
superiore a quindici giorni, assegnando all'istante un termine non superiore a
otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. A tale udienza, il
pretore, con ordinanza, conferma, modifica o revoca i provvedimenti
emanati nel decreto.
6. Contro i provvedimenti del pretore è ammesso reclamo al tribunale nei
termini di cui all'art. 739, secondo comma, del codice di procedura civile. Si
259
applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737, 738 e 739 del codice di
procedura civile.
7. Con la decisione che definisce il giudizio il giudice può altresì condannare
il convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale.
8. Chiunque elude l'esecuzione di provvedimenti del pretore di cui ai commi
4 e 5 e dei provvedimenti del tribunale di cui al comma 6 è punito ai sensi
dell'art. 388, primo comma, del codice penale.
9. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza a proprio danno del
comportamento discriminatorio in ragione della razza, del gruppo etnico o
linguistico, della provenienza geografica, della confessione religiosa o della
cittadinanza può dedurre elementi di fatto anche a carattere statistico relativi
alle assunzioni, ai regimi contributivi, all'assegnazione delle mansioni e
qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti
dell'azienda interessata. Il giudice valuta i fatti dedotti nei limiti di cui all'art.
2729, primo comma, del codice civile.
10. Qualora il datore di lavoro ponga in essere un atto o un comportamento
discriminatorio di carattere collettivo, anche in casi in cui non siano
individuabili in modo immediato e diretto i lavoratori lesi dalle
discriminazioni, il ricorso può essere presentato dalle rappresentanze locali
delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello
nazionale. Il giudice, nella sentenza che accerta le discriminazioni sulla base
del ricorso presentato ai sensi del presente articolo, ordina al datore di lavoro
di definire, sentiti i predetti soggetti e organismi, un pia no di rimozione delle
discriminazioni accertate.
11. Ogni accertamento di atti o comportamenti discriminatori ai sensi
dell'art. 43 posti in essere da imprese alle quali siano stati accordati benefici
ai sensi delle leggi vigenti dello Stato o delle regioni, ovvero che abbiano
stipulato contratti di appalto attinenti all'esecuzione di opere pubbliche, di
servizi o di forniture, è immediatamente comunicato dal Pretore, secondo le
modalità previste dal regolamento di attuazione, alle amministrazioni
pubbliche o enti pubblici che abbiano disposto la concessione del beneficio,
incluse le agevolazioni finanziarie o creditizie, o dell'appalto.
Tali amministrazioni, o enti revocano il beneficio e, nei casi più gravi,
dispongono l'esclusione del responsabile per due anni da qualsiasi ulteriore
concessione di agevolazioni finanziarie o creditizie, ovvero da qualsiasi
appalto.
12. Le regioni, in collaborazione con le province e con i comuni, con le
associazioni di immigrati e del volontariato sociale, ai fini dell'applicazione
delle norme del presente articolo e dello studio del fenomeno, predispongono
centri di osservazione, di informazione e di assistenza legale per gli stranieri,
260
vittime delle discriminazioni per motivi razziali, etnici, nazionali o
religiosi.».
- Il testo dell'art. 410 del codice di procedura civile è il seguente:
«Art. 410 (Tentativo obbligatorio di conciliazione).
Chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti
dall'art. 409 e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione
previste dai contratti e accordi collettivi deve promuovere, anche tramite
l'associazione sindacale alla quale aderisce o conferisca mandato, il tentativo
di conciliazione presso la commissione di conciliazione individuata secondo
i criteri di cui all'art. 413.
La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di
conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del
tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione,
il decorso di ogni termine di decadenza.
La commissione, ricevuta la richiesta tenta la conciliazione della
controversia, convocando le parti, per una riunione da tenersi non oltre dieci
giorni dal ricevimento della richiesta.
Con provvedimento del direttore dell'ufficio provinciale del lavoro e della
massima occupazione è istituita in ogni provincia presso l'ufficio provinciale
del lavoro e della massima occupazione, una commissione provinciale di
conciliazione composta dal direttore dell'ufficio stesso, o da un suo delegato,
in qualità di presidente, da quattro rappresentanti effettivi e da quattro
supplenti dei datori di lavoro e da quattro rappresentanti effettivi e da quattro
supplenti dei lavoratori, designati dalle rispettive organizzazioni sindacali
maggiormente rappresentative su base nazionale.
Commissioni di conciliazione possono essere istituite, con le stesse modalità
e con la medesima composizione di cui al precedente comma, anche presso
le sezioni zonali degli uffici provinciali del lavoro e della massima
occupazione.
Le commissioni, quando se ne ravvisi la necessità, affidano il tentativo di
conciliazione a proprie sottocommissioni, presiedute dal direttore dell'ufficio
provinciale del lavoro e della massima occupazione o da un suo delegato che
rispecchino la composizione prevista dal precedente terzo comma.
In ogni caso per la validità della riunione e' necessaria la presenza del
presidente e di almeno un rappresentante dei datori di lavoro e di uno dei
lavoratori.
Ove la riunione della commissione non sia possibile per la mancata presenza
di almeno uno dei componenti di cui al precedente comma, il direttore
dell'ufficio provinciale del lavoro certifica l'impossibilita' di procedere al
tentativo di conciliazione.».
261
- Il testo dell'art. 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme
generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche), e' il seguente:
«Art. 66 (Collegio di conciliazione).
1. Ferma restando la facoltà del lavoratore di avvalersi delle procedure di
conciliazione previste dai contratti collettivi, il tentativo obbligatorio di
conciliazione di cui all'art. 65 si svolge, con le procedure di cui ai commi
seguenti, dinanzi ad un collegio di conciliazione istituito presso la direzione
provinciale del lavoro nella cui circoscrizione si trova l'ufficio cui il
lavoratore è addetto, ovvero era addetto al momento della cessazione del
rapporto. Le medesime procedure si applicano, in quanto compa-tibili, se il
tentativo di conciliazione è promosso dalla pubblica amministrazione. Il
collegio di conciliazione e' composto dal direttore della direzione o da un
suo delegato, che lo presiede, da un rappresentante del lavoratore e da un
rappresentante dell'amministrazione.
2. La richiesta del tentativo di conciliazione, sottoscritta dal lavoratore, è
consegnata alla direzione presso la quale e' istituito il collegio di
conciliazione competente o spedita mediante raccomandata con avviso di
ricevimento. Copia della richiesta deve essere consegnata o spedita a cura
dello stesso lavoratore all'amministrazione di appartenenza.
3. La richiesta deve precisare:
a) l'amministrazione di appartenenza e la sede alla quale il lavoratore e'
addetto;
b) il luogo dove gli devono essere fatte le comunicazioni inerenti alla
procedura;
c) l'esposizione sommaria dei fatti e delle ragioni poste a fondamento della
pretesa;
d) la nomina del proprio rappresentante nel collegio di conciliazione o la
delega per la nomina medesima ad un'organizzazione sindacale.
4. Entro trenta giorni dal ricevimento della copia della richiesta,
l'amministrazione, qualora non accolga la pretesa del lavoratore, deposita
presso la direzione osservazioni scritte. Nello stesso atto nomina il proprio
rappresentante in seno al collegio di conciliazione. Entro i dieci giorni
successivi al deposito, il Presidente fissa la comparizione delle parti per il
tentativo di conciliazione. Dinanzi al collegio di conciliazione, il lavoratore
può farsi rappresentare o assistere anche da un'organizzazione cui aderisce o
conferisce mandato. Per l'amministrazione deve comparire un soggetto
munito del potere di conciliare.
5. Se la conciliazione riesce, anche limitatamente ad una parte della pretesa
avanzata dal lavoratore, viene redatto separato processo verbale sottoscritto
dalle parti e dai componenti del collegio di conciliazione. Il verbale
262
costituisce titolo esecutivo. Alla conciliazione non si applicano le
disposizioni dell'art. 2113 commi primo, secondo e terzo del codice civile.
6. Se non si raggiunge l'accordo tra le parti, il collegio di conciliazione deve
formulare un proposta per la bonaria definizione della controversia. Se la
proposta non e' accettata, i termini di essa sono riassunti nel verbale con
indicazione delle valutazioni espresse dalle parti.
7. Nel successivo giudizio sono acquisiti, anche di ufficio, i verbali
concernenti il tentativo di conciliazione non riuscito. Il giudice valuta il
comportamento tenuto dalle parti nella fase conciliativa ai fini del
regolamento delle spese.
8. La conciliazione della lite da parte di chi rappresenta la pubblica
amministrazione, in adesione alla proposta formulata dal collegio di cui al
comma 1, ovvero in sede giudiziale ai sensi dell'art. 420, commi primo,
secondo e terzo, del codice di procedura civile, non può dar luogo a
responsabilità amministrativa.». - Il testo dell'art. 2729 del codice civile è il
seguente:
«Art. 2729 (Presunzioni semplici). - Le presunzioni non stabilite dalla legge
sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che
presunzioni gravi, precise e concordanti.
Le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la
prova per testimoni.».
- Il testo dell'art. 3 del citato decreto legislativo n. 165 del 2001, è il
seguente:
«Art. 3 (Personale in regime di diritto pubblico).
1. In deroga all'art. 2, commi 2 e 3, rimangono disciplinati dai rispettivi
ordinamenti: i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e
procuratori dello Stato, il personale militare e le Forze di Polizia di Stato, il
personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia nonché i
dipendenti degli enti che svolgono la loro attività nelle materie contemplate
dall'art. 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 17 luglio
1947, n. 691, e dalle leggi 4 giugno 1985, n. 281, e successive modificazioni
ed integrazioni, e 10 ottobre 1990, n. 287.
2. Il rapporto di impiego dei professori e dei ricercatori universitari resta
disciplinato dalle disposizioni rispettivamente vigenti, in attesa della
specifica disciplina che la regoli in modo organico ed in conformità ai
principi della autonomia universitaria di cui all'art. 33 della Costituzione ed
agli articoli 6 e seguenti della legge 9 maggio 1989, n. 168, e successive
modificazioni ed integrazioni, tenuto conto dei principi di cui all'art. 2,
comma 1, della legge 23 ottobre 1992, n. 421.».
263
Art. 5.
Legittimazione ad agire
1. Le rappresentanze locali delle organizzazioni nazionali maggiormente
rappresentative a livello nazionale, in forza di delega, rilasciata per atto
pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità, sono legittimate ad
agire ai sensi dell'articolo 4, in nome e per conto o a sostegno del soggetto
passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui e'
riferibile il comportamento o l'atto discriminatorio.
2. Le rappresentanze locali di cui al comma 1 sono, altresì, legittimate ad
agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in
modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione.
Art. 6.
Relazione
1. Entro il 2 dicembre 2005 e successivamente ogni cinque anni, il Ministero
del lavoro e delle politiche sociali trasmette alla Commissione europea una
relazione contenente le informazioni relative all'applicazione del presente
decreto.
Art. 7.
Copertura finanziaria
1. Dall'attuazione del presente decreto non derivano oneri aggiuntivi per il
bilancio dello Stato.
Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta
ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E' fatto obbligo a
chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.
Dato a Roma, addiì 9 luglio 2003
CIAMPI
Berlusconi, Presidente del Consiglio dei Ministri
Buttiglione, Ministro per le politiche comunitarie
Maroni, Ministro del lavoro e delle politic he sociali
Prestigiacomo, Ministro per le pari opportunità
Frattini, Ministro degli affari esteri
Castelli, Ministro della giustizia
Tremonti, Ministro dell'economia e delle finanze
Visto, il Guardasigilli: Castelli
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