Contestazione di esterovestizione di società

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Contestazione di esterovestizione di società
Stefano Morri - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Procedure
Contestazione
di esterovestizione di società
comunitaria: la rilevanza
dei certificati fiscali esteri
di Massimo Gabelli e Davide Attilio Rossetti
Nel caso di contestazioni di “esterovestizione societaria” il contribuente è chiamato a fornire la
prova della residenza effettiva all’estero. In tale contesto, si analizza quale valenza probatoria possano assumere i certificati di residenza fiscale rilasciati dall’Amministrazione competente dello Stato
estero nel caso in cui la società dichiari la residenza in altro Stato membro dell’Unione Europea.
Introduzione
Il tema della residenza fiscale delle società estere ha assunto particolare rilevanza negli ultimi anni
con l’introduzione di norme di contrasto del fenomeno della c.d. esterovestizione societaria. In
particolare, si ricorda l’introduzione nel 2006 del comma 5-bis all’art. 73 del D.P.R. n. 917 del 22
dicembre 1986 (“T.U.I.R.”), disposizione che ha, appunto, l’obiettivo di contrastare pratiche di
“esterovestizione” societaria da parte di soggetti nazionali, al fine di sottrarre alla potestà impositiva
dello Stato i redditi tassabili in Italia1.
Al concetto di esterovestizione è possibile ricondurre due principali fattispecie.
La prima fattispecie (c.d. esterovestizione di fatto) si configura ogniqualvolta sia possibile ravvisare
nel territorio nazionale, alternativamente, la sede legale, la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale2 della società.
L’effettività della localizzazione all’estero della sede legale e dell’oggetto principale è raramente
oggetto di contestazione da parte dell’Agenzia delle entrate; più spesso l’Agenzia si focalizza sulla
valutazione della localizzazione, o meno, all’estero della sede effettiva dell’amministrazione.
Alla luce di tali verifiche, in tutti quei casi in cui è possibile rinvenire in Italia la sede dell’amministrazione di un soggetto “formalmente” residente all’estero, la residenza fiscale estera di quest’ultimo
verrà considerata fittizia, o, comunque, contestata ritenendo decisivo e prevalente il collegamento
con la nostra giurisdizione.
Massimo Gabelli - Studio Legale e Tributario Morri Cornelli e Associati, Milano
Davide Attilio Rossetti - Studio Legale e Tributario Morri Cornelli e Associati, Milano
Note:
1 Cfr. Assonime, circ. n. 67/E del 31 ottobre 2007. Come osservato da C. Sacchetto (a cura di), L’esterovestizione societaria, Torino,
2013: “L’esterovestizione societaria può essere definita, in altre parole, come un’operazione attraverso la quale una società riesce
formalmente ad allocare in un altro Paese la residenza fiscale, pur conducendo nel territorio italiano la propria attività principale,
ovvero abbia localizzato in Italia la sede della propria amministrazione”.
2 Da intendersi, in forza dell’art. 73, comma 4, del D.P.R. n. 917/1986, come l’attività essenziale per realizzare direttamente gli
scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto.
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La prova circa la sussistenza della residenza in Italia e non all’estero è, nell’esterovestizione di fatto,
a carico dell’Amministrazione finanziaria3. Tale onere della prova, oltre che su elementi di natura
formale, deve necessariamente vertere su fatti e circostanze concreti, atti a provare il difetto di
autonomia giuridica, contrattuale, economica e finanziaria, ma soprattutto funzionale della sede
estera rispetto alle attività esercitate in Italia. Pertanto, l’Amministrazione finanziaria deve avvalersi
di elementi di prova sia di natura formale che di natura sostanziale4.
La seconda fattispecie (c.d. esterovestizione di diritto), disciplinata dall’art. 73, comma 5-bis, del
T.U.I.R., dispone che si presumono residenti in Italia, salvo prova contraria, le società (ed Enti)
che, pur avendo sede legale, sede dell’amministrazione, ovvero l’oggetto principale, al di fuori del
territorio dello Stato, detengano partecipazioni di controllo in società (o Enti commerciali)
residenti soggetti all’IRES e, alternativamente:
(i) siano controllate (ai sensi dell’art. 2359, comma 1, c.c.), anche indirettamente, da soggetti (persone fisiche, società o Enti) residenti in Italia; ovvero
(ii) siano amministrate da un Consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto
in prevalenza da consiglieri residenti nel territorio dello Stato5.
In tale seconda fattispecie, al fine di superare la presunzione di residenza in Italia di società (o Enti)
formalmente residenti al di fuori del territorio nazionale, opera, invece, l’inversione dell’onere della
prova: è necessario, invero, che il soggetto estero dia prova, con idonea documentazione, che la sua
sede amministrativa è situata nel Paese estero in cui ha la sede legale6 e che, dunque, è di fatto amministrata all’estero, senza presentare un radicamento rilevante nel territorio nazionale7 8.
Note:
3 Come evidenziato da Assonime, cit., il punto centrale della disciplina della esterovestizione “attiene alla ripartizione dell’onere
della prova ed ai soggetti su cui incombe: l’Amministrazione finanziaria è tenuta a provare la sussistenza dei presupposti della
presunzione (…) mentre grava sul contribuente, una volta attivata la presunzione, l’onere di fornire la prova contraria”. L’Agenzia
delle entrate nella circ. n. 28/E del 4 agosto 2006 ha chiarito che “Nel suo complesso la previsione normativa vale a circoscrivere
l’inversione dell’onere della prova alle ipotesi in cui il collegamento con il territorio dello Stato è particolarmente evidente e
continuativo. Ovviamente, la norma non preclude all’Amministrazione la possibilità di dedurre - anche in altri casi e assumendosene l’onere - la residenza in Italia di entità esterovestite”. Al riguardo, P.Valente - D.M. Cardone, Esterovestizione - profili probatori
e metodologie di difesa nelle verifiche, Milano, 2015, hanno osservato che in tali casi, secondo le regole generali, l’onere della prova
grava sull’Amministrazione stessa.
4 Si consenta di rinviare a M. Gabelli - D. Rossetti, “Società esterovestite: gli elementi di prova per Fisco e contribuenti”, in questa
Rivista, n. 1/2012.
5 Cfr. A. Furlan - P. Galvagno, “Nuove tecniche di accertamento della stabile organizzazione occulta e dell’esterovestizione”, in
questa Rivista, n. 2/2014.
6 Così l’Agenzia delle entrate che, nella circolare cit., ha chiarito che “La norma prevede, in definitiva, l’inversione, a carico del
contribuente, dell’onere della prova, dotando l’ordinamento di uno strumento che solleva l’Amministrazione finanziaria dalla
necessità di provare l’effettiva sede dell’amministrazione di entità che presentano elementi di collegamento con il territorio dello
Stato molteplici e definitivi”. Peraltro, “il contribuente, per vincere la presunzione, dovrà dimostrare, con argomenti adeguati e
convincenti, che la sede della direzione effettiva della società non è in Italia, bensì all’estero. Tali argomenti e prove dovranno
dimostrare che, nonostante i citati presupposti di applicabilità della norma, esistono elementi di fatto, situazioni o atti, idonei a
dimostrare un concreto radicamento della direzione effettiva nello Stato estero”.
7 P.Valente e D.M. Cardone, op. cit. Si consenta di rinviare a M. Gabelli - D. Rossetti, cit., in questa Rivista, n. 1/2012, che osservano:
“In buona sostanza, l’Amministrazione finanziaria beneficia, in via generale, di una presunzione relativa di residenza nel territorio
dello Stato nei confronti di società ed Enti residenti in Paesi UE ed extra-UE, che si trovino in determinate situazioni oggettive,
non necessariamente espressione di una ‘direzione effettiva’ in Italia, obbligando, quindi, gli stessi all’onere di dimostrare un concreto radicamento nello Stato estero”.
8 La prova circa l’effettiva residenza all’estero di società partecipate da soggetti residenti deve essere fornita in sede di accertamento. Infatti, come osservato da P. Valente - D. M. Cardone, op. cit., non è prevista la possibilità di dimostrare in via preventiva
l’inapplicabilità della norma al caso concreto né consente di anticipare il momento del contradditorio entro i termini utili per
l’adempimento spontaneo. In senso conforme, P.Valente, “Residenza ed esterovestizione: profili strutturali e (dis) allineamenti tra
forma e sostanza”, in il fisco, n. 20/2008.
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Ciò posto, preme rilevarsi che, nel contesto di accertamenti volti a contestare fenomeni di esterovestizione societaria che coinvolgono, in particolare, società residenti in altri Stati appartenenti all’Unione Europea, è rilevante considerare anche, alla luce dei principi di diritto comunitario di mutuo
riconoscimento e leale cooperazione tra i diversi Stati membri, la validità probatoria dei certificati di
residenza fiscale, o altra certificazione attestante l’assoggettabilità ad imposizione, rilasciati dall’Amministrazione competente dello Stato membro di stabilimento della società sottoposta a verifica.
I chiarimenti dell’Agenzia delle entrate
L’Agenzia delle entrate si è espressa sulla valenza probatoria dei certificati fiscali esteri fornendo
opportuni chiarimenti nelle Note9 emanate a fronte dell’indagine condotta dalla Commissione
Europea, avente ad oggetto la concreta applicazione in Italia della norma sulla “esterovestizione di
diritto” e della conformità della stessa norma alle disposizioni comunitarie.
In particolare, a seguito di formale denuncia presentata dall’Associazione Italiana Dottori Commercialisti (AIDC) alla Commissione Europea, concernente i profili di illegittimità comunitaria dell’art.
73, comma 5-bis, del T.U.I.R., per presunta violazione dei generali principi comunitari di
proporzionalità, libero stabilimento e non discriminazione da parte della normativa de quo10, la
Commissione Europea ha avviato il procedimento EU Pilot/2010/777.TAXU, volto ad ottenere
chiarimenti da parte dell’Amministrazione finanziaria italiana circa: le modalità di valutazione dei requisiti della residenza fiscale di soci o amministratori adottate dall’Agenzia delle entrate ai fini dell’applicazione della presunzione di residenza, l’onus probandi gravante sul contribuente per contrastare il
ragionamento presuntivo dell’Amministrazione finanziaria e gli esiti pratici dell’applicazione della
procedura in oggetto, con specifico riguardo agli eventuali profili sanzionatori ad essa conseguenti.
Note:
9 Prot. nn. 2010/39678 del 19 marzo 2010 e 2010/157346 del 20 dicembre 2010.
10 Le principali argomentazioni dell’AIDC possono sintetizzarsi come segue: (i) l’art. 73, comma 5-bis, del T.U.I.R. ostacolerebbe,
con conseguenze discriminatorie, la scelta del management più idoneo ad amministrare la società, introducendo una penalizzazione per i prestatori d’opera residenti in Italia; (ii) la norma in questione non ammetterebbe la verifica, in via preventiva, della idoneità della prova contraria, con conseguente lesione del principio di certezza del diritto ed eccessivo potere discrezionale in capo
all’Amministrazione finanziaria; (iii) il contribuente sarebbe obbligato ad adempiere all’onere di fornire mezzi di prova diversi
ed ulteriori rispetto al certificato rilasciato dall’Autorità estera attestante l’effettiva residenza fiscale all’estero e l’assoggettabilità
all’imposta sui redditi locale (cfr. da C. Sacchetto, op. cit.).
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A seguito di tale procedimento, l’Agenzia delle entrate ha fornito opportuni chiarimenti e lineeguida di comportamento da adottare in caso di accertamenti in materia di esterovestizione11, soffermandosi, in particolar modo, sulla c.d. prova contraria finalizzata a dimostrare l’effettiva residenza
all’estero di una società.
Nel rispondere alle interrogazioni della Commissione Europea, l’Agenzia delle entrate ha evidenziato come il meccanismo presuntivo di cui all’art. 73, comma 5-bis, del T.U.I.R. non limita, in alcun
modo, il contenuto della prova contraria a carico del contribuente, né rende l’esercizio particolarmente difficoltoso. Peraltro, “è lasciata al contribuente ogni possibilità di dotarsi, caso per caso, degli
elementi probatori idonei a dimostrare che la società estera, indipendentemente dal rapporto di controllo ovvero dalla residenza dei consiglieri, è di fatto amministrata al di fuori del territorio italiano”.
L’Agenzia delle entrate ha, altresì, chiarito la questione della validità probatoria del certificato rilasciato dalle
Autorità fiscali dello Stato membro di residenza della società, attestante la residenza fiscale e/o l’assoggettabilità
ad imposizione in tale Stato membro.
In particolare, l’Agenzia ha precisato che tale certificato rileva “significativamente” ai fini della
prova dell’insussistenza di un attendibile collegamento con lo Stato italiano12.
Tuttavia, ha proseguito l’Agenzia delle entrate, il suddetto documento, pur trattandosi di prova necessaria, non è da solo sufficiente per rigettare la presunzione di “esterovestizione”.
A supporto di tale considerazione, l’Agenzia ha richiamato l’art. 4 del Modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni, il quale non definisce in modo univoco la locuzione luogo
di direzione effettiva (place of effective management). Pertanto, nell’applicazione delle “tie breaker
rules” previste dal medesimo art. 4, gli Stati contraenti devono far riferimento alla propria legislazione domestica.
Da ciò consegue che il certificato di residenza fiscale rappresenta, a giudizio dell’Agenzia delle entrate, un elemento probatorio rilevante ai fini della dimostrazione della non-residenza in Italia
del soggetto comunitario ma, allo stesso tempo, non sufficiente. Esso, dunque, necessita di ulteriori
mezzi di prova, di natura fattuale che dimostrino che il soggetto è effettivamente amministrato al di fuori del territorio italiano13.
L’Agenzia delle entrate14 ha, poi, fornito chiarimenti su un altro aspetto posto alla sua attenzione
dalla Commissione Europea vale a dire il ricorso, da parte delle Autorità italiane, agli strumenti
dell’assistenza amministrativa al fine di accertare l’effettiva residenza di un soggetto ritenuto “esterovestito” confrontandosi con l’Amministrazione estera.
In particolare, l’Agenzia ha sostenuto che laddove, in sede di controllo del contribuente, si ravvisino elementi idonei a far operare il ragionamento presuntivo di cui all’art. 73, comma 5-bis ss.,
del T.U.I.R. (sussistendo il fondato dubbio che la società sia amministrata, di fatto, in territorio
italiano), “viene, di prassi, attivata l’assistenza amministrativa con gli Stati membri dell’Unione Europea ai sensi della Direttiva 77/799/CE15 e delle Convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni in vigore tra l’Italia e gli Stati membri”.
Note:
11 Note prot. nn. 2010/39678 del 19 marzo 2010 e 2010/157346 del 20 dicembre 2010.
12 L’Agenzia delle entrate, nella Nota prot. 2010/157346, ha chiarito che: “Certamente, il certificato di residenza fiscale o altra certificazione attestante l’assoggettabilità a imposizione nello Stato membro di stabilimento della società rilevano significativamente
ai fini della prova dell’insussistenza di un attendibile collegamento con l’Italia”.
13 Al riguardo, A. Furlan, “Esterovestizione: il vademecum dell’Agenzia”, in questa Rivista, n. 1/2012.
14 Cfr. Nota prot. n. 2010/157346.
15 La citata Dir. n. 77/799/CEE è stata abrogata e sostituita dalla Dir. n. 2011/16/UE in materia di cooperazione amministrativa in
ambito fiscale.
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LE RICHIESTE DI INFORMAZIONI
Le richieste di informazioni indirizzate alle Autorità competenti saranno volte ad appurare se: “nonostante
i citati presupposti di applicabilità della norma, esistono elementi di fatto, situazioni od atti, idonei a
dimostrare un concreto radicamento della direzione effettiva nello Stato estero”16 vale a dire se la società
non residente, indipendentemente dai rapporti di controllo ovvero dalla residenza dei singoli membri del
Consiglio di amministrazione, è di fatto amministrata al di fuori del territorio italiano. “Gli elementi richiesti
riguardano, dunque, l’effettiva localizzazione all’estero del place of effective management della società ovvero
l’insussistenza di un attendibile collegamento con il territorio nazionale”.
Con riferimento, invece, alla residenza fiscale dei singoli membri del Consiglio di amministrazione, l’Agenzia
delle entrate ha precisato che “viene richiesta all’Autorità estera conferma della composizione del Consiglio
medesimo con specificazione dell’identità e residenza dei singoli componenti oltre - eventualmente - a
informazioni atte a dimostrare che l’entità in questione è di fatto amministrata al di fuori del territorio italiano
e che gode di autonomia sotto il profilo organizzativo, amministrativo, finanziario e contabile”17.
Si tratta, quindi, di un indirizzo operativo importante, perché la sua concreta, effettiva, attuazione
permette all’Agenzia delle entrate, attivando una procedura istruttoria e di confronto con l’Amministrazione fiscale dell’altro Stato membro, di avere riscontri obiettivi e affidabili per esaminare una
questione che ha, di regola, profili fattuali complessi da acquisire e valutare. Evidentemente, una
istruttoria condotta con questo metodo scrupoloso, garantisce anche il contribuente che non è sempre nelle condizioni di svolgere una adeguata istruttoria difensiva (paradossalmente tanto più la c.d.
esterovestizione è insussistente), non disponendo dei poteri di indagine della nostra Autorità fiscale.
La posizione della giurisprudenza comunitaria
I chiarimenti forniti dall’Agenzia delle entrate in seno al procedimento EU Pilot/2010/777.TAXU
vanno analizzati in connessione con quanto statuito dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea
(Corte di Giustizia UE), in materia di mutuo riconoscimento dei certificati emessi dalla pubblica Autorità di un altro Stato membro.
La Corte di Giustizia UE il 3 giugno 1992, all’esito della causa C-45/90 (Alberto Paletta e altri c. Brennet AG - c.d.
Sentenza “Paletta I”), concernente una controversia in materia previdenziale, ha statuito l’obbligo, in via generale,
di riconoscimento dei documenti prodotti dalle Amministrazioni fiscali di Stati membri dell’Unione Europea, in
ottemperanza ai principi di mutuo riconoscimento e leale cooperazione, disconoscendo, dunque, ogni forma di
abuso di potere palesatosi nella non accettazione della documentazione ufficiale di altri Stati membri.
Si tratta, come è agevole constatare, di un principio che assume una valenza generale nei rapporti tra Stati membri
e tra questi e le Istituzioni Europee, come tale applicabile non soltanto alle fattispecie aventi rilevanza fiscale18.
Nel dettaglio, la Corte di Giustizia UE ha stabilito che lo Stato, diverso da quello di cittadinanza, nel
quale un lavoratore esercita la sua attività salariata è tenuto ad erogare a questi le prestazioni previdenziali di malattia sulla base della certificazione rilasciata dalla competente Autorità dello Stato di
origine del lavoratore, non potendola unilateralmente disconoscere se non nel caso in cui ne provi
l’inattendibilità19. Risulta evidente il ragionamento alla base della decisione della Corte di Giustizia
UE finalizzato a riconoscere valenza probatoria alla certificazione rilasciata da uno Stato membro e
ciò al fine di garantire una leale collaborazione tra i singoli Stati appartenenti all’Unione Europea.
Note:
16 Circ. Agenzia delle entrate n. 28/E del 4 agosto 2006, par. 8.3.
17 L’Agenzia delle entrate ha citato, a titolo esemplificativo: gli atti statutari attestanti la specializzazione operativa del soggetto, i verbali delle riunioni del Consiglio di amministrazione, le relative delibere, i bilanci, la struttura gestionale/organizzativa dell’entità,
il corretto adempimento degli obblighi fiscali nello Stato di stabilimento.
18 Anche se in queste ultime è probabilmente destinato ad assumere un’esponenziale considerazione, in ragione della evidente
espansione della fase relativa al procedimento amministrativo tributario e della contestuale inversione dell’onere della prova a
carico del contribuente (cfr. G. Marino, “Esterovestizione ed esterocertificazione: due facce della stessa medaglia”, in Rass. trib., n.
4/2012).
19 S. Dorigo, Residenza fiscale delle società e libertà di stabilimento nell’Unione Europea, Milano, 2012.
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Nello stesso senso si è espressa la Corte di Giustizia UE nella Sentenza 10 febbraio 2000, causa C-202/97
(Fitzwilliam Executive Search Ltd contro Bestuur van het Landelijk instituut sociale verzekeringen), laddove
ha chiarito che il certificato rilasciato dall’Ente designato dalla competente Autorità di uno Stato membro
vincola gli Enti previdenziali degli altri Stati membri in quanto esso attesta l’iscrizione dei lavoratori distaccati
da un’impresa di collocamento temporaneo al regime previdenziale dello Stato membro in cui quest’ultima
ha sede. Tuttavia, qualora gli Enti degli altri Stati membri manifestino riserve in ordine all’esattezza dei fatti sui
quali il certificato si basa, ovvero sulla valutazione giuridica di tali fatti, l’Ente che ha rilasciato il certificato è
tenuto a riesaminare la correttezza di quest’ultimo ed eventualmente a revocarlo.
Il principio espresso con riguardo ai certificati rilasciati in ambito previdenziale è stato mutuato
dalla Corte di Giustizia UE con riferimento alla materia della residenza fiscale, seppur (per ora) ai
fini IVA, nella Sentenza 28 giugno 2007, causa C-73/06 (Planzer Luxembourg Sàrl contro Bundeszentralamt für Steuern - c.d. Sentenza Planzer), nella quale è stato affermato che le certificazioni
relative alla residenza fiscale permettono “di presumere che l’interessato sia non soltanto soggetto
passivo dell’IVA nello Stato membro di rilascio, ma anche che vi risieda nell’una o nell’altra
forma, disponendo ivi o della sede della sua attività economica o di un centro di attività stabile
a partire da quale sono svolte le operazioni”20. L’Amministrazione finanziaria è, in linea di principio,
vincolata alle indicazioni riportate nella certificazione21.
La Corte di Giustizia UE ha, altresì, chiarito che qualora l’Amministrazione finanziaria di uno Stato
nutra dubbi circa il contenuto dell’attestazione di residenza di una società rilasciata da altro Stato
membro, non è precluso alla stessa di “accertarsi della realtà in questione ricorrendo alle misure
amministrative a tal fine previste dalla normativa comunitaria in materia IVA”22; in tale circostanza
l’Amministrazione finanziaria darà impulso ad una procedura formale che coinvolge la corrispondente Autorità estera mediante gli appositi strumenti dello scambio di informazioni23.
Note:
20 In altri termini, l’attestazione rilasciata dall’Autorità fiscale dello Stato di incorporazione di una società nella quale essa dichiari
di essere ivi fiscalmente residente rappresenta una presunzione che va tenuta in debita considerazione dall’Amministrazione finanziaria dello Stato che pretende di disconoscere l’effettività di tale dato formale. Se il suddetto Stato decide di disconoscere il
contenuto dell’attestazione, esso dovrà motivare la sua decisione in maniera puntuale e circostanziata. Cfr. S. Dorigo, op. cit.
21 Come osservato da M. Piazza - Daniela del Frate, “Quando il Fisco presume che una società estera risieda fiscalmente in uno
Stato terzo”, in questa Rivista, n. 1/2013, tale principio è, altresì, sancito nella Relazione governativa al D.Lgs. n. 136/1993 in
cui si afferma che: “l’individuazione della residenza fiscale della società può essere risolta in via procedimentale sulla base di un
certificato delle competenti Autorità dello Stato comunitario che attesti il possesso del requisito in parola”.
22 Cfr. Sentenza Planzer, par. 50.
23 Se l’Amministrazione fiscale nutre dubbi circa la realtà economica dell’impresa indicata nell’attestazione essa ha anche a sua
disposizione gli strumenti comunitari di cooperazione e di assistenza amministrativa adottati per permettere la corretta applicazione dell’IVA e lottare contro la frode e l’evasione fiscale in tale settore” (quali le misure previste dal Reg. CE del Consiglio 7
ottobre 2003, n. 1798, che abroga il Reg. CEE n. 218/92 - GU L 264, pag. 1 -, nonché dal Reg. CE della Commissione 29 ottobre 2004, n. 1925 che stabilisce le modalità d’applicazione di talune disposizioni del Reg. CE n. 1798/2003 del Consiglio relativo
alla cooperazione amministrativa in materia d’IVA) (Sentenza Planzer, par. 48). Non è precluso all’Amministrazione tributaria
dello Stato membro di rimborso, che nutra dubbi circa la realtà economica dell’impresa il cui indirizzo è menzionato nell’attestazione di residenza, di accertarsi della realtà in questione ricorrendo alle misure di cooperazione e di assistenza amministrativa
previste dalla Dir. n. 2011/16/UE (che ha sostituito la Dir. n. 77/799/CEE) (Sentenza Planzer, par. 50). In particolare, le Autorità
fiscali interessate possono rivolgersi, in forza della citata Direttiva, relativa alla reciproca assistenza fra le Autorità competenti degli
Stati membri nel settore delle imposte dirette alle Autorità di un altro Stato membro per ottenere ogni informazione necessaria
per determinare correttamente l’imposta dovuta da un contribuente, ivi inclusa la possibilità di concedergli un’esenzione fiscale
(CGE, sentenza 14 settembre 2006, causa C-386/04, punto 50 - Centro di Musicologia Walter Stauffer contro Finanzamt München für Körperschaften). Nello stesso senso, sentenze 28 ottobre 1999, causa C-55/98,Vestergaard, punto 26, e 26 giugno 2003,
causa C-422/01, Skandia e Ramstedt, punto 42. Nell’impossibilità per le Autorità fiscali di uno Stato membro di richiedere,
sulla base di una convenzione conclusa con lo Stato membro nel territorio del quale la persona giuridica interessata abbia la
sede della direzione, la cooperazione delle Autorità fiscali di tale Stato membro, nulla impedirebbe alle stesse Autorità di esigere
dal contribuente le prove che esse reputino necessarie per la corretta determinazione delle imposte di cui trattasi e, se del caso,
di negare l’esenzione richiesta qualora tali prove non vengano fornite (CGE, Sentenza 28 ottobre 2010, causa C-72/09, punto
37 - Établissements Rimbaud SA contro Directeur général des impôts e Directeur des services fiscaux d’Aix-en-Provence, che
ribadisce i concetti espressi dalla Sentenza 11 ottobre 2007, causa C-451/05, Européenne et Luxembourgeoise d’investissements
SA - ELISA - contro Directeur général des impôts e Ministère public).
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La Corte di Giustizia UE ha, quindi, affermato chiaramente il principio per cui l’Agenzia delle
entrate è tenuta a dare riconoscimento alle attestazioni ufficiali circa lo status fiscale di determinati soggetti, provenienti dalle competenti Autorità di un altro Stato membro di stabilimento
degli stessi.
Pertanto, il rifiuto dall’Agenzia delle entrate all’attestazione proveniente dall’Autorità dello Stato
di incorporazione della società è da ritenersi illegittimo se opposto in difetto di qualsivoglia verifica preliminare. Diversamente, l’Agenzia delle entrate dovrà ricorrere, nell’eventualità in cui nutra
dubbi circa l’effettiva corrispondenza di quanto attestato nel documento con la realtà dei fatti, alle
misure amministrative a tal fine previste dalla normativa comunitaria.
Il punto di vista della giurisprudenza italiana
I giudici nazionali, sia di legittimità che di merito, nel solco di quanto affermato dalla Corte di
Giustizia UE, hanno riconosciuto la validità dei certificati di residenza rilasciati dalle Autorità fiscali
estere e lo hanno fatto anche in materia di imposte sui redditi ed, in particolare, con riguardo alle
plusvalenze generate dallo scambio intracomunitario di partecipazioni. La Sentenza della Corte
di cassazione 3 febbraio 2012, n. 1553 si è pronunciata su una controversia sorta nell’ambito di
un’operazione di conferimento transfrontaliero di partecipazioni effettuato in neutralità fiscale
ai sensi della Dir. n. 90/434/CEE24 ed avente per oggetto la determinazione della residenza di
una società di diritto olandese (la conferitaria) che l’Amministrazione finanziaria ha reputato
essere residente in Italia (sebbene la residenza fosse stata attestata da una certificazione rilasciata
dalle competenti Autorità olandesi) stante la circostanza che, a suo giudizio, questa fosse soltanto
formalmente residente all’estero.
Nelle sue argomentazioni, la Suprema Corte ha valorizzato la valenza probatoria della certificazione
rilasciata dalle Autorità fiscali dei Paesi Bassi posta alla base della decisione del giudice di appello.
Al riguardo, i giudici di legittimità hanno rammentato che l’art. 3 della Dir. n. 90/434/CEE garantisce l’applicazione dei regimi fiscali in essa contenuti alle società che abbiano il loro domicilio
fiscale in uno Stato membro e che, ai sensi di una convenzione in materia di doppia imposizione
conclusa con uno Stato terzo, non siano considerate come aventi il loro domicilio fiscale al di fuori
della Comunità. Pertanto, ogni certificazione attestante la residenza fiscale in forza di una convenzione per evitare le doppie imposizioni tra uno Stato UE ed uno Stato extra-UE, è legittimata ad
assumere piena efficacia probatoria all’interno del procedimento amministrativo tributario.
Nel caso di specie, dunque, la Corte di cassazione ha ritenuto che la certificazione rilasciata dall’istituzione finanziaria olandese attestante la residenza nei Paesi Bassi della conferitaria fosse da ritenersi valida ed idonea al fine di negare la presunzione di esterovestizione societaria, stante la
circostanza che la presunta esterovestizione della società olandese non era stata supportata né dalla
richiesta di informazioni allo Stato estero, sulla base della Dir. n. 90/434/CEE, né dal contradditorio con il contribuente (delineato peraltro dalla stessa Agenzia dell’entrate come passaggio fondamentale a supporto della presunzione di esterovestizione). In altri termini, l’Agenzia delle entrate
aveva, erroneamente, pensato di poter considerare motu proprio irrilevante il certificato estero: la
Suprema Corte nell’arresto ha respinto questa impostazione, considerata illegittima.
Nota:
24 Come recepita dal D.Lgs. n. 544/1992, ora trasfuso nell’art. 178 del T.U.I.R. Lo scopo della Direttiva è porre fine, tramite l’istituzione di un regime fiscale comune, alle distorsioni di concorrenza derivanti dalle singole legislazioni nazionali e di agevolare
le operazioni di riorganizzazione tra le società di Stati membri diversi di modo da evitare un’imposizione in occasione della
realizzazione di tali operazioni, così da tutelare, al tempo stesso, i diversi interessi finanziari degli Stati membri coinvolti.
FISCALITÀ &
COMMERCIO
INTERNAZIONALE
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Procedure
Pertanto, sulla scorta delle argomentazioni della Suprema Corte, in difetto di qualsivoglia prova o
documentazione idonea ad invalidare la portata applicativa della certificazione di residenza nello
Stato Estero e considerando quest’ultimo alla stregua di una prova necessaria e valida, non sussisterebbe alcuna ragione per non considerare il certificato fiscale come strumento valido al fine di
provare l’effettiva residenza estera del soggetto25.
La posizione della giurisprudenza di legittimità è, peraltro, condivisa da recenti posizioni dei giudici di merito.
In particolare, la Commissione tributaria regionale della Lombardia si è espressa nella Sentenza n. 76 del
4 luglio 2012 (udienza del 25 giugno 2012) in relazione al caso di una società lussemburghese, che aveva
distribuito dividendi ad una società italiana, ritenuta dai verificatori avente la residenza effettiva in un Paese
extra-UE sulla base di alcuni riscontri materiali reperiti presso la società italiana. In sede di verifica, la società
italiana aveva esibito un certificato rilasciato dalle competenti Autorità fiscali del Lussemburgo attestante la
residenza fiscale della società distributrice di dividendi in Lussemburgo, cui valenza probatoria non veniva
riconosciuta in Italia. I giudici di merito hanno, sul punto, affermato che non sussiste alcuna valida ragione
affinché venga disconosciuta l’efficacia di un certificato emesso dall’Autorità fiscale di altro Stato membro.
La Commissione tributaria regionale della Lombardia, nella Sentenza n. 16 del 24 febbraio 2012 (udienza
del 12 gennaio 2012), in senso analogo ha riconosciuto la validità della certificazione ai fini fiscali rilasciata
dalle Autorità fiscali del Regno Unito ad un cittadino italiano, lavoratore dipendente nel Regno Unito, al
fine di evitare la doppia imposizione causata dal contestuale assoggettamento all’IRPEF della retribuzione
convenzionale stabilita dallo Stato italiano.
Considerazioni conclusive
Il certificato di residenza rilasciato dalle Autorità fiscali di uno Stato membro rappresenta un rilevante elemento probatorio al fine di contrastare contestazioni di esterovestizione da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Laddove l’insediamento di una società in uno Stato membro avvenga nel rispetto dei criteri di
collegamento previsti dall’ordinamento di tale Stato, tale realtà di fatto, cristallizzata in una certificazione formale, non potrà essere negata dallo Stato che pretende di attrarre il soggetto sotto la
propria potestà fiscale, se non a seguito dell’accertamento di una pratica abusiva.
Non va, peraltro, sottaciuto che, come chiarito dall’Agenzia delle entrate nell’ambito del procedimento EU Pilot/2010/777.TAXU, la certificazione fiscale non è ex se esaustiva per il superamento
della presunzione di fittizia localizzazione della residenza in Stati diversi dall’Italia ma deve essere,
necessariamente, corroborata da ulteriori elementi di prova - anche fattuali - idonei a dimostrare
l’effettiva sede dell’amministrazione della società estera fuori dal territorio nazionale.
Peraltro, in caso di esibizione della certificazione fiscale emessa da parte delle Autorità fiscali di Stati
membri, lo strumento della cooperazione fiscale internazionale tra le Amministrazioni finanziarie
mediante l’attivazione degli strumenti comunitari messi a disposizione dalla Dir. n. 2011/16/UE
assume rilevanza centrale, esistendo, invero, un’esigenza di leale collaborazione per le Amministrazioni stesse, laddove sussistano dubbi circa il contenuto dell’attestazione di residenza di una società
rilasciata ad uno Stato da altro Stato membro.
Viceversa un certificato validamente emesso non può essere considerato tout court irrilevante dai
funzionari dell’Agenzia delle entrate senza avere prima acquisito evidenze fattuali (interne) che lo
smentiscano e senza quindi attivare un fondato confronto con l’Amministrazione estera emittente,
nel doveroso rispetto dei principi del diritto comunitario e dei doveri di cooperazione ed assistenza
amministrativa tra Stati membri dell’Unione Europea.
Nota:
25 Cfr. G. Marino, op. cit.
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