"Arskey", mag. / lug. 2012

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"Arskey", mag. / lug. 2012
ArsKey Magazine | Articolo
HUMA BHABHA E I SUOI “PLAYERS” POST-UMANI
Autore: Fulvio Chimento
Data: 07.03.2012
Huma Bhabha nel suo studio, 1995
La maschera, a differenza della statua, realizza la propria funzione solo se viene indossata, presupponendo quindi un atto
performativo da parte di un individuo all'interno di una cerimonia. Come sostiene Mario Diacono, autore della
presentazione del catalogo che accompagna la mostra “Players” di Huma Bhabha: “La maschera è indice di un'entità
spirituale né maschile né femminile, la maschera tribale non ha sesso né referenzialità al visibile, né età, spesso neanche
una fisionomia umana”. Le maschere dell'artista pakistana, trapiantata da anni a New York, sono in grado di unire e dare
sfogo a riferimenti culturali e temporali distanti tra loro, che si manifestano sul volto esprimendo il proprio significato
attraverso la materia. È la stessa artista a dichiarare: “Divinità; ritratti fatti di detriti e di frammenti di effetti speciali in
film di fantascienza. Attori/esecutori/giocatori... maschere per quale genere di rito, convegno, torneo?”. Huma Bhabha
fonde simboli e ritualità antiche e moderne; gli uomini, infatti, sono attori che recitano la propria parte, coscienti di
essere la metafora di se stessi, ovvero rappresentazione tangibile dell'imperfezione umana dinnanzi a quella divinità che
la maschera sempre richiama. “Baracconi comici e teatrali di mucchi di facce che sudano, traversate da circuiti di fluidi
corporali e tubature indefinite. Leoni, guerrieri, clown, mostri, impastati insieme a formare una specie di gesso sintetico
del ventunesimo secolo, mutati e reinventati in una nuova/vecchia razza” (Bhabha). È particolare, dunque, notare come
le opere dell'artista siano frutto di una fusione che rimanda a prototipi tribali e contemporaneamente alle maschere
moderne della saga di “Star Trek”, una miscela, questa, che rende i suoi soggetti post-umani, e che, quindi, racchiude in
sé l'elemento arcaico e quello industriale.
Mario Diacono fa notare come già negli anni 60 e 70 un artista come Paul Thek (personaggio della controcultura
americana morto di AIDS nel 1988 all'età di 55 anni) portasse avanti una ricerca molto simile a quella di Bhabha. In
opere di grande impatto come la serie “Technological Reliquaries” (1964), oppure “Fishman in Exelsis Table” (1971),
infatti, l'artista newyorkese metteva in scena un campionario completo di scomposizione e ricomposizione del corpo
umano, aggregando materiali di provenienza molto differente.
Bhabha, tuttavia, più che sul corpo, si concentra sul volto. Centro attrattivo di tutte le forze e le latenze fisiche e mentali,
il viso viene rappresentato nella sua fissità frontale, come un trofeo di caccia. I soggetti dell'artista pakistana incutono
timore, poiché ciascuno può rintracciare in essi il principio della propria mostruosità: l'umano e l'animalesco si
sovrappongono, specchio della stessa immagine interiore. I volti creati dall'artista sono il simbolo del camaleontismo
strisciante dell'uomo moderno, abitualmente nascosto sotto la sua maschera quotidiana.
Un'arte, quella di Bhabha, sicuramente poco edificante, ma molto attuale, poiché i suoi “Players” sono giocatori di una
post-vita, frutto di drammi storici irrisolti. In ambito strettamente storico artistico, il modo di concepire l'opera da parte
di Bhabha si contrappone alla visione occidentale della scultura intesa come forma di rappresentazione. Mario Diacono ci
viene in soccorso anche questa volta: “l'obiettivo delle sue maschere è sospendere la scultura modernista, evocando
l'arcaico e il fantascientifico, invocando l'etnografia e il fumetto, inscrivendo le iconografie del divino e del demoniaco per
interrogare ancora il che fare della contemporaneità”.
La scultura tribale continua dunque a costituire un'inesauribile fonte d'ispirazione. Non è un mistero che il Picasso delle
“Damoiselles d'Avignon” (1907) si ispirò proprio ai volti di alcune maschere grebo della Costa d'Avorio. I lavori della
stessa Huma Bhabha sono la dimostrazione di come, a distanza di più di cento anni dal primo cubismo, l'arte
contemporanea continui a considerare fertile e generativo questo percorso, al fine di svincolarsi dalla propria radice
razionalistica e rinascimentale.
Un momento dell'inaugurazione della mostra Players di Huma Bhabha, Fondazione Maramotti (RE), 2012. Foto di C.
Mattia Quartieri
Huma Bhabha, Untitled, 1994