Ad Haiti la ricostruzione passa da uno sguardo nuovo
Transcript
Ad Haiti la ricostruzione passa da uno sguardo nuovo
Utente e-GdP: sport - Data e ora della consultazione: 23 ottobre 2010 10:36 GIORNALEdelPOPOLO VENERDÌ 22 OTTOBRE 2010 TESTIMONIANZA + Dopo sei mesi dal terremoto, il paese si presenta ancora caotico Ad Haiti la ricostruzione passa da uno sguardo nuovo Pagina a cura di CHIARA GEROSA La repubblica delle ONG. La chiamano così Haiti da quando il terremoto l’ha scossa lo scorso 12 gennaio. Un nome che ricorda l’imponente presenza di stranieri, ma che non ricorda quanto bisogno c’è di queste organizzazioni. E non parlo solo di quelle grandi, dai nomi celebri, ma soprattutto delle organizzazioni piccole, sconosciute ai più, che stanno davvero lavorando con il popolo haitiano per condividere, dialogare e ricostruire. La ricostruzione più importante - me ne accorgo al mio arrivo ad Haiti a sei mesi dal terremoto non è quella materiale, di case, negozi e chiese ma quella umana. Il popolo haitiano ha infatti vissuto il sisma come l’ennesima pagina di una serie di avvenimenti distruttori, tanto gravi quanto inevitabili. Prima del terremoto, gli haitiani hanno infatti dovuto sopportare altre catastrofi naturali ma soprattutto, hanno dovuto per anni vivere sotto dittature feroci che li hanno costretti al silenzio. Anni di dominazione tirannica che hanno prolungato fino ai nostri giorni una mentalità condizionata dal passato di schiavitù coloniale, che ha impedito la nascita di una vera e propria società civile corresponsabile accanto allo Stato nella costruzione del Paese. Il terremoto, distruggendo anche i pochi resti della struttura statale, costituisce quindi il terribile coronamento di una storia di disillusioni e abbandono. L’intervento delle autorità internazionali e delle ONG si inserisce quindi in questo quadro di sostanziale assenza di strutture locali in grado di coordinare l’immenso sforzo di cui necessita la sopravvivenza immediata e la ricostruzione di Haiti. Fin dal mio arrivo a Port-au-Prince la situazione è caotica: a colpire sono certamente i colori vivaci delle numerose tendopoli sparse anche nel bel mezzo delle strade, tendopoli che oggi, a nove mesi di distanza sono ancora nello stesso posto. Infatti nulla sembra essere cambiato. La gente cerca di sopravvivere, inventandosi ogni giorno il modo di guadagnare qualcosa. I bisogni restano quindi immensi e ciò stride con il silenzio dei media internazionali: una volta terminato lo spettacolo delle cifre a cinque-sei zeri di morti, feriti e senzatetto che ha riempito le prime pagine dei giornali dello scorso inverno, oggi, sul paese caraibico è caduto anche il silenzio mediatico. Silenzio che sarà rotto quando si tornerà a parlare delle INTERVISTA SPECIALE 17 Ascoltando le cifre e guardando le immagini, Haiti può sembrare un inferno da cui è impossibile uscire. Per fortuna nel paese sono presenti molti missionari che con le loro testimonianze portano segni di speranza ai terremotati. elezioni previste per il 28 novembre. Elezioni che, a detta della Commissione Giustizia e Pace haitiana, si riveleranno probabilmente una farsa dato che fino ad oggi non ci sono neppure le cifre esatte dei morti, de- gli scomparsi, degli elettori. Si dice che con tutto il denaro giunto nel paese si potrebbero ricostruire tre Haiti, ma per poter affrontare questa sfida se ne deve vincere un’altra: quella di rendere gli stessi Haitia- ni protagonisti della loro storia. La “repubblica delle organizzazioni non governative” deve riuscire a superare il proprio passato massacrante, che pesa almeno quanto i circa 20 milioni di metri cubi di macerie che si trovano ancora nella capitale. A suon di cifre ed immagini, Haiti può sembrare un inferno da cui è impossibile uscire. Eppure, nei miei viaggi attraverso la capitale e nella parte sud del paese, ho potuto raccogliere testimonianze e incontrare persone (vedi colonne a fianco e sotto) che provano a rispondere alla disperazione che mi si è presentata in un primo momento. Sono piccoli semi, testimonianze di una fede che genera operosità, coraggio quotidiano, che non cerca il trionfalismo delle cifre ma che si carica della realtà fino in fondo e risveglia la ragione degli stessi Haitiani, spingendoli anche a una riflessione sul futuro. Nel postterremoto questi semi di vita potrebbero fiorire: la forza della fede del popolo, il coraggio di molti pastori ecclesiali potrebbero aiutare la crescita di una nuova Haiti già nel presente. I politici locali seguiranno ? Gli Haitiani per questa sfida necessitano di un sostegno chiaro e duraturo da parte della comunità internazionale, e ciò al di là dei soldi e delle strutture. Al paese infatti serve un abbraccio che ascolti ed educhi un popolo in attesa della vera liberazione. Da cinque anni ad Haiti, lavora in un dispensario per combattere la malnutrizione Suor Marcella: seminatrice di speranza in una delle peggiori baraccopoli di Port au Prince Modi decisi e spirito sempre aperto alla realtà. Questa è Suor Marcella, una francescana di Busto Arsizio che lavora da 5 anni con i poveri di Waaf Jeremie, una delle baraccopoli peggiori di Port au Prince. In capitale la conoscono in molti per il suo lavoro e tutti ci consigliano di andarla a trovare. Ci siamo così lasciati sorprendere dai suoi racconti. Suor Marcella, che cosa hai trovato ad Haiti quando sei arrivata? Una miseria tremenda, ma soprattutto la solitudine dell’uomo. La cosa che mi ha sempre colpito di questo paese è come non sia ancora stata riconosciuta un’esperienza che possa generare unità di popolo per cui l’unica cosa che unisce la gente è la rabbia verso qualcosa. Ma il cuore dell’uomo non cerca questo, il cuore dell’uomo è mosso da un positivo, da un bello, da un gusto. E allora chi o che cosa può creare quest’unità? Per me c’è solo un chi ed un che cosa e si chiama Gesù Cristo, nel senso che il cristianesimo deve arrivare alla radice della cultura, rendere cultura la fede. Tu fai parte di una diocesi della repubblica dominicana dove potresti vivere in condizioni migliori, che cosa ti tiene in questa povertà? La sfida che il cristianesimo è per l’uomo. Io ho incontrato Cristo e desidero che ogni uomo possa incontrarlo, anche nella povertà di questa baraccopoli sterminata. Qui come altrove quello che la gente domanda è l’abbraccio di Cristo alla propria vita, allora si sta qui e si fanno tutte le cose col desiderio e con la domanda che Cristo usi delle mie braccia, del mio tempo, della mia energia, della mia testa per abbracciare questi suoi figli. Dopo il sisma la domanda ricorrente delle persone che vedevano le immagini era “dov’è Dio in questa tragedia?” Tu cos’hai risposto? A me nessuno l’aveva ancora fatta ma rivoltiamola: se non ci fosse stato Dio? O se non ci fosse adesso? Qualcuno ci parlava qualche anno fa della carezza del Nazareno, se non ci fosse la carezza del Nazareno adesso per questa gente, che arriva attraverso i 100’000 missionari nascosti che fanno un’opera grandissima in Haiti come in altre parti del mondo? Chissà che in una situazione drammatica come quella che Haiti ha vissuto col terremoto, quando uno tocca il fondo di sé, non si spalanchi la domanda più vera. Ad Haiti non hai la poesia del missionario, arrivi la sera che sei morto e te ne andresti 20 volte in una giornata da Waaf Jeremie. Però proprio questa stanchezza e questa fatica, o diventano l’obiezione o di- ventano la possibilità per andare a fondo della ragione che ti tiene lì e allora resto ad Haiti perché è una grazia. I cattolici riescono ad essere diversi nel loro aiuto e a testimoniare colui che abita in loro? Essere cattolico non è questione di coerenza, noi abbiamo bisogno di testimoni e allora il cattolico è quello che ha incontrato Cristo e appartiene alla Chiesa quindi dà la vita perché Cristo sia sempre più tutto in tutti. Allora, sono diversi? Non so, la libertà di ognuno lo fa essere diverso o non diverso, libertà di dire di sì a Cristo nell’istante o libertà di dire di si a se stesso nell’istante. Io chiedo ogni mattina nelle mie preghiere questa diversità, chiedo di saper dare la vita per Cristo, poi la grazia di Dio farà quello a cui non arrivo io. Un’umanità che desta stupore Anche nel sud del paese, sperduto nella campagna, c’è un esempio di un’umanità talmente grande da far credere che qualcosa può seriamente cambiare. Lui è padre David Fontaine, un francese che ha lasciato Lyon dove faceva parte dell’Oratorio di San Filippo Neri, per farsi inviare ai confini della terra, ad Anse-à-Veau. Il paesaggio ad Anse-à-Veau è idilliaco: verde lussureggiante e acqua del mare turchese. Molto meno idilliaca è invece la situazione della popolazione che non solo è povera e riesce a cavare poco dalla terra, ma muore ancora di fame. Il territorio della parrocchia di padre David è immenso ed ogni giorno lui cerca di rispondere ai bisogni vitali della popolazione, cosciente che per settimane in alcune parti della parrocchia non lo vedranno. «È difficile - ci dice - non poter rispondere ai bisogni materiali e spirituali delle persone, ma si fa tutto il possibile, lasciando il resto nelle mani di Dio». Ed è forse questo affidamento totale a Dio, che si vede anche nei suoi occhi limpidissimi, che colpisce. Padre David incarna la figura del missionario in modo completo e pensare che ha lasciato una vita di agio per venire a condividere la vita con i più poveri fra gli haitiani, commuove seriamente. Seguirlo nelle sue attività quotidiane è impossibile perché troppo stancante: lui ha occhi e mani per tutti ed il “no” esce raramente dalla sua bocca. Altro esempio di grande carisma è il Vescovo di Anse-à-Veau et Miragoâne Pierre-André Dumas, superiore di padre David. Dumas è presidente di Caritas Haiti e da anni si batte perché la popolazione sia ascoltata e abbia diritto alle condizioni basilari per vivere. Per anni è stato protagonista di un dialogo schietto con i governi dittatoriali e ancora oggi non perde occasione per cercare un’intesa e per sensibilizzare il presidente in carica sui bisogni degli haitiani. Dopo il terremoto Dumas continua incessantemente nella sua azione di mediazione fra il governo ed il popolo cercando di far capire al potere che non si tratta di agire solo materialmente, ma di attuare anche una ricostruzione dell’essere umano puntando sull’educazione, sulla salute e su altre basilari esigenze. Fra gli argomenti della sua lotta, Dumas punta anche su una decentralizzazione che crei poli di sviluppo nell’intero paese e non solo nella capitale dove tutto, aiuti dopo il terremoto compresi, si è concentrato. «Questo momento - ci spiega - credo sia il tempo in cui ritorniamo alle realtà delle piccole comunità viventi, piccole comunità cristiane in cui il Vangelo non si vive solo a livello di parrocchia ma già nelle famiglie, nelle case, nei palazzi, nei quartieri». Il Vescovo , appoggiandosi all’enciclica Caritas in veritate, spinge perché si formino piccole comunità in cui ogni uomo viene concepito nella sua integralità e dove la persona umana sia al centro. «Credo fermamente - ha terminato Dumas - che il popolo di Haiti, con le risorse nascoste che ha dentro l’anima e il cuore, possa andare avanti e creare una nuova esperienza di umanità e di giustizia».