RASSEGNA STAMPA
Transcript
RASSEGNA STAMPA
RASSEGNA STAMPA mercoledì 8 aprile 2015 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SPETTACOLO ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Ansa del 07/04/15 DIAZ: ARCI, OGGI SANCITO CHE CI FU SOSPENSIONE DEMOCRAZIA (ANSA) - RA, 7 APR - «Si sancisce finalmente, a 14 anni dal G8 di Genova, che in Italia si assistette alla più grave sospensione della democrazia in un paese occidentale. La democrazia formale e sostanziale venne sospesa con un atto di imperio dall'allora governo Berlusconi per dare via libera alla brutale repressione dei movimenti di protesta che portò alla uccisione di Carlo Giuliani, al ferimento di molti manifestanti, alle violenze continue sui fermati, alla messa in stato di assedio di un'intera città»: così in una nota l'Arci commenta la sentenza della Corte europea dei diritti umani sulla Diaz. «La Corte di Strasburgo ci dice oggi che si è potuti giungere a queste conclusioni solo a diversi anni di distanza per la mancata collaborazione e il boicottaggio delle forze di polizia impegnate in quelle giornate, con la evidente copertura del ministeri competenti e del governo nel suo complesso» sottolinea l'Arci, che prosegue: «quelle torture commesse alla Diaz e a Bolzaneto contro manifestanti pacifici e inermi non sono mai state punite, dal momento che nel nostro codice penale il reato di tortura non è contemplato, a differenza della maggior parte dei paesi europei che lo prevedono come fattispecie specifica per i pubblici funzionari». «La proposta di legge che introduce questo tipo di reato è all'esame del Parlamento da più di due anni. Qualsiasi rinvio non è più accettabile» insiste l'associazione, che conclude: «Quel che è successo a Genova resta, per chi vi ha partecipato e per il nostro sistema democratico, una ferita aperta e insanabile. Non può quindi essere dimenticata. Per questo da anni chiediamo verità e giustizia. Lo dobbiamo alle vittime della repressione e alle loro famiglie, lo dobbiamo alla salvaguardia della democrazia nel nostro paese. Perchè non possa mai più accadere. Il tempo è adesso». (ANSA). AB Da Redattore Sociale del 07/04/15 Diaz, Italia condannata. L'Arci: "Ferita ancora aperta, che non può essere dimenticata" L’associazione: “Da anni chiediamo verità e giustizia. Lo dobbiamo alle vittime della repressione e alle loro famiglie, lo dobbiamo alla salvaguardia della democrazia nel nostro paese. Perché non possa mai più accadere” ROMA - La Corte europea dei diritti umani ha condannato il nostro paese non solo per le violenze e torture commesse nel 2001 dalle forze dell’ordine alla Diaz, ma anche per la mancanza di una legislazione adeguata a punire il reato di tortura. “Si sancisce così, finalmente, a 14 anni dal G8 di Genova che, come denunciò subito Amnesty International, in Italia si assistette alla più grave sospensione della democrazia in un paese occidentale – afferma l’Arci -. La democrazia formale e sostanziale venne sospesa con un atto di imperio dall’allora governo Berlusconi per dare via libera alla brutale repressione dei movimenti di protesta che portò alla uccisione di Carlo Giuliani, al ferimento di molti manifestanti, alle violenze continue sui fermati, alla messa in stato di assedio di un’intera città”. 2 Aggiunge l’Arci: “La Corte di Strasburgo ci dice oggi che si è potuti giungere a queste conclusioni solo a diversi anni di distanza per la mancata collaborazione e il boicottaggio delle forze di polizia impegnate in quelle giornate, con la evidente copertura del ministeri competenti e del governo nel suo complesso. Quelle torture commesse alla Diaz e a Bolzaneto contro manifestanti pacifici e inermi non sono mai state punite, dal momento che nel nostro codice penale il reato di tortura non è contemplato, a differenza della maggior parte dei paesi europei che lo prevedono come fattispecie specifica per i pubblici funzionari. La proposta di legge che introduce questo tipo di reato è all’esame del Parlamento da più di due anni. Qualsiasi rinvio non è più accettabile”. E conclude: “Quel che è successo a Genova resta, per chi vi ha partecipato e per il nostro sistema democratico, una ferita aperta e insanabile. Non può quindi essere dimenticata. Per questo da anni chiediamo verità e giustizia. Lo dobbiamo alle vittime della repressione e alle loro famiglie, lo dobbiamo alla salvaguardia della democrazia nel nostro paese. Perché non possa mai più accadere. Il tempo è adesso”. Da Askanews del 07/04/15 Arci: dopo condanna Strasburgo basta rinvii su reato tortura Roma, 7 apr. (askanews) - La condanna della Corte europea dei diritti umani per i fatti della scuola Diaz sancisce "finalmente, a 14 anni dal G8 di Genova che, come denunciò subito Amnesty International, in Italia si assistette alla più grave sospensione della democrazia in un paese occidentale. La democrazia formale e sostanziale venne sospesa con un atto di imperio dall'allora governo Berlusconi per dare via libera alla brutale repressione dei movimenti di protesta che portò alla uccisione di Carlo Giuliani, al ferimento di molti manifestanti, alle violenze continue sui fermati, alla messa in stato di assedio di un'intera città". E' quanto si legge in una nota dell'Arci, che stigmatizza il fatto che "si è potuti giungere a queste conclusioni solo a diversi anni di distanza per la mancata collaborazione e il boicottaggio delle forze di polizia impegnate in quelle giornate, con la evidente copertura del ministeri competenti e del governo nel suo complesso". "Quelle torture commesse alla Diaz e a Bolzaneto contro manifestanti pacifici e inermi sottolinea il comunicato dell'associazione - non sono mai state punite, dal momento che nel nostro codice penale il reato di tortura non è contemplato, a differenza della maggior parte dei paesi europei che lo prevedono come fattispecie specifica per i pubblici funzionari". "La proposta di legge che introduce questo tipo di reato - si fa notare ancora nella nota dell'Arci - è all'esame del Parlamento da più di due anni. Qualsiasi rinvio non è più accettabile". Da Vita.it del 07/04/15 La Corte europea sollecita l'Italia a introdurre il reato di tortura La sentenza della Corte europea dei diritti umani che denuncia come tortura le violenze della Scuola Diaz di Genova, nel 2001, sono un 3 monito alle istituzioni italiane ad agire, dopo oltre 25 anni di ritardo nell'introduzione del reato di tortura nel codice penale italiano La sentenza della Corte europea dei diritti umani, che ha qualificato come "tortura" le violenze compiute la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz di Genova, è un monito alle istituzioni italiane a fare presto e bene, dopo oltre un quarto di secolo di ritardo nell'introduzione del reato di tortura nel codice penale italiano. Un ritardo rilevato e stigmatizzato dalla stessa Corte europea, nella sentenza che ha dato ragione al ricorso di Arnaldo Cestaro, una delle vittime dei pestaggi seguiti all'irruzione notturna nella scuola Diaz, uscitone in barella con diverse fratture. Il collegamento tra la violazione dei diritti umani e l'assenza del reato di tortura emerge con evidenza dalla lettura della sentenza. Lo scorso 10 dicembre, durante la Giornata Internazionale per i Diritti Umani, Amnesty International, insieme a diverse associazioni, tra cui Arci, Cild e CittadinanzAttiva si erano riunite a Montecitorio per mantenere accesa l’attenzione sul tema. Nella stessa occasione erano state consegnate le 16.000 firme raccolte da maggio 2014 e dirette al presidente del Consiglio e ai presidenti di Camera e Senato per chiedere l'introduzione del reato di tortura nel codice penale. Dal 1989, quando venne pubblicata sulla Gazzetta ufficiale la legge di ratifica della Convenzione Onu contro la tortura, Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani chiedono al parlamento di onorare l'impegno assunto all'epoca. Secondo Amnesty, ciò che successe alla Diaz, e con ancora maggiore evidenza e gravità nella caserma di Bolzaneto nelle ore e nei giorni immediatamente successivi ci dice che la presenza del reato di tortura nel codice penale avrebbe, allora (e in seguito in ulteriori casi), fatto la differenza: evitato la prescrizione, fatto emergere anche sul piano della sanzione la gravità degli atti commessi dai pubblici ufficiali giudicati responsabili (ma di altri reati...). All'esame della Camera, ora, è un testo precedentemente approvato dal Senato, secondo Amnesty non perfetto, ma comunque un passo nella direzione giusta. http://www.vita.it/it/article/2015/04/07/la-corte-europea-sollecita-litalia-a-introdurre-il-reatodi-tortura/132014/ Da Repubblica.it (Torino) del 07/04/15 Una sede storica è il primo sogno della Coalizione targata Landini Mosse a sinistra. Il movimento nato a Torino attorno alla Fiom cerca spazio nel resto del Piemonte, con l'obiettivo di recuperare un vuoto di rappresentanza sociale. Airaudo: "Vorrei aprire a Mirafiori o in Barriera di Milano" di Vera Schiavazzi Ieri sera alle 5, nella sede della Fiom torinese, una strana riunione assai poco sindacale si teneva al pian terreno. C'erano i leader del sindacato, come Federico Bellono, il parlamentare Giorgio Airaudo, i residui delle forze a sinistra del Pd . Ma anche Luca Spadon delle Officine Corsare. All'ordine del giorno, l'assemblea di domani sera ad Asti, quella del 17 aprile a Vercelli, quella del 20 ad Alessandria, e le molte altre da programmare nei Comuni della cintura di Torino. Assemblee quasi del tutto identiche a 4 quella che si è già tenuta il 2 marzo alla Fabbrica delle E, assemblee che, a Torino, hanno di fatto preceduto la Coalizione sociale lanciata a Roma dal leader Fiom Maurizio Landini, al punto che ora l'eterogenea compagnia torinese deve trovare il modo di rimettersi al passo col calendario nazionale. Ma nessuno sembra spaventato. Giorgio Airaudo, ex leader della Fiom torinese e ora deputato di Sel, ha un primo sogno: aprire un'unica sede a Torino, a Mirafiori o a Barriera di Milano, dove la nuova sinistra possa non solo parlare, ma servire a qualcosa, come informare sull'assistenza già prevista per legge, fornire alcune prestazioni mediche o legali gratuite a chi non può più permettersi di farlo, insomma, pescare dal mare della rappresentanza sociale che si sta cercando di ricreare per dare a chi come lui fa politica al di là del Pd "il mare in cui pescare". Il suo è anche un appello: "Abbiamo già molti contatti con organizzazioni come Emergency. Ma ci piacerebbe incontrarci presto con i medici di base, con le associazioni dei legali". Federico Bellono, segretario della Fiom torinese, si aggiudica la primazia dell'iniziativa: "Noi a Torino, con l'assemblea alla Fabbrica delle E, abbiamo in qualche modo anticipato il problema che la Fiom ha posto con la coalizione sociale: recuperare un vuoto di rappresentanza politica". E per colmare questo vuoto, la neo-coalizione sociale torinese – che ha partecipato con mille persone alla manifestazione romana – si propone di raccogliere almeno 5.000 firme in calce alla proposta di legge che prevede di cancellare dalla Costituzione un pareggio di bilancio che impedirebbe di pensare a un reddito di cittadinanza. Su questo terreno, il mare delle alleanze diventa vasto e imprevedibile. Anche Libera sta raccogliendo firme per il reddito. Ma né Libera in quanto tale, né il torinese Gruppo Abele possono pensare di partecipare a pieno titolo alla Coalizione. Airaudo minimizza: "C'è stato un equivoco, noi non stiamo progettando un partito politico ma solo cercando di ridare rappresentanza a chi non ce l'ha più e di organizzare, caso mai, una domanda verso una buona politica". Altri organizzatori di realtà sociali, come il presidente di Arci Torino Ugo Zamburru (70.000 iscritti in città e provincia, 120.000 in Piemonte) sanno che la situazione è più complicata: "Credo che sia ora di svoltare, di tornare alla ricerca di una rappresentanza sociale. Noi dell'Arci ci sentiamo in basso a sinistra, come gli zapatisti. Ma io come presidente, pur essendo personalmente interessantissimo alla coalizione, so benissimo che il nostro è un mondo estremamente variegato e distinto. Non potrei in nessun caso apporre il cappello dell'Arci a questa iniziativa». Davide Mattiello, parlamentare "ospite" del Pd (come lui si definisce, non avendo mai preso la tessera) aggiunge: "Io non mi muovo lungo il percorso della coalizione perché sono leale verso la lista che mi ha eletto. Ma sono estremamente interessato a ciò che fanno, e spero che il loro pezzo di percorso non vada in direzioni opposte a quella in cui vado io, che mi occupo soprattutto di antimafia e di legalità". Come chiede Marco Revelli, altro ospite illustre dell'assemblea torinese, "si può immaginare una coalizione sociale committente nei confronti di un soggetto politico? E con quale forma organizzativa, che non sia più quella del partito di massa? Oppure che si riapra la strada a ipotesi di sindcalismo di azione diretta?". La domanda è questa. E anche la Cgil ci sta, a suo modo, pensando. http://torino.repubblica.it/hermes/inbox/2015/04/08/news/mosse_a_sinistra_il_movimento_ nato_a_torino_attorno_alla_fiom_cerca_spazio_nel_resto_del_piemonte_con_tappe_a_as ti_e_ale-111399822/ 5 Da Redattore Sociale del 07/04/15 I lavoratori del sociale, condannati ad amare una “professione malpagata” In un libro delle Edizioni dell’Asino a cura di Giulio Marcon, 20 protagonisti del non profit raccontano l’evoluzione e le sfide di un lavoro che conta oltre 680 mila addetti in Italia. “Basta con la storia di un settore parastatale e prono al business, commisto alla politica e senza valori” ROMA - Un manuale, una roadmap per il futuro, e anche un’inchiesta sui rischi e sulle opportunità che si incontrano nel mondo del terzo settore. “Lavorare nel sociale - Una professione da ripensare”, pubblicato dalle Edizioni dell’Asino e a cura di Giulio Marcon, attualmente deputato per Sinistra ecologia e libertà, ma da anni impegnato su tematiche sociali (Associazione per la pace, Lunaria, campagna Sbilanciamoci!), fotografa il lavoro sociale agli albori della riforma del terzo settore e ai tempi di un welfare “smantellato”. Una mappa dettagliata, con consigli pratici, suggerimenti e testimonianze, che attraversa un settore ampio che va dal carcere alla disabilità, dal microcredito alla cooperazione internazionale, dal lavoro di comunità all'altra economia, dai diritti umani alle tossicodipendenze, dalla scuola agli ospedali psichiatrici giudiziari. Un mondo in evoluzione costante che ha visto l’impegno volontario diventare strutturale fino a costituire una “parte integrante di un welfare mix”. Un fenomeno che ha determinato la nascita di “una economia di grande importanza poggiata su tantissime imprese sociali con enormi bilanci e fatturati”. Un passaggio storico, spiega Marcon, “che porta il terzo settore a essere un soggetto economico importante che dà lavoro a centinaia di migliaia di persone”. Oggi, i lavoratori di questo ampio settore sono oltre 680 mila, così come numerosi sono gli albi professionali, le nuove qualifiche, i corsi, i master, le lauree e le scuole di formazione. Una giungla dove non mancano “ambiguità e storture” emerse anche con le ultime vicende giudiziarie romane, ovvero Mafia Capitale, o quelle raccontate dal romanzo “I buoni” di Luca Rastello, spiega Marcon. Un mondo che spesso si trova ad operare in una “opacità gestionale, quasi fisiologica, per gran parte indotta dai meccanismi istituzionali e dei finanziamenti pubblici da cui è dipendente”. Più di 20 i contributi raccolti dal libro dai protagonisti del lavoro sociale in Italia, dalla scuola al tema dei diritti, dal welfare alle nuove frontiere della finanza etica. Apre la lunga serie di interventi Cecilia Bartoli, fondatrice di Asinitas (associazione romana per l’integrazione dei rifugiati), che pone subito l’accento sui rischi “dell’affannosa ricerca sul come auto-sostenersi in un panorama fortemente instabile e privo di punti di riferimento”. Un contesto in cui l’educatore è diventato un “professionista, molto mal pagato e precario cui vengono richieste prestazioni sempre più disparate”. Sullo stesso tema, le riflessioni di Giovanni Zoppoli, coordinatore del Centro territoriale Mammut di Scampia a Napoli e Nicola Ruganti, insegnante, che mette in guardia da “approssimazione e professionalizzazione” del lavoro sociale con gli adolescenti, in una scheda che approfondisce il rapporto tra operatore e ragazzo all’interno di un insieme di fattori, fatto di regole, contesti e rischi da tenere in considerazione. Una riflessione ampia anche quella di Franco Lorenzoni, che da anni gestisce la Casa Laboratorio di Cenci ad Amelia, che pone l’attenzione sulla necessità degli operatori di una continua ricerca. “Lavorare nell’educazione senza ricercare - spiega - è come tentare di respirare senza polmoni” Formazione sì, ma conta anche l’esperienza sul campo. Lo ricorda Antonio Marchesi, presidente della sezione italiana di Amnesty International che elenca le tante nuove figure 6 professionali, dai campaigner a coloro che si dedicano al fact-finding o al fundraising, senza dimenticare le attività di advocacy. Per costruirsi una buona professionalità, però, non basta studiare, spiega Marchesi la "cosa migliore è probabilmente quella di buttarsi nella mischia”. Esperienza pratica suggerita anche da Gianfranco Schiavone, dell’Asgi, associazione studi giuridici sull’immigrazione, secondo cui occorre scegliere percorsi che offrano la “possibilità di un tirocinio in una realtà che concretamente eroga servizi ai cittadini stranieri”. Per Sergio Giovagnoli, presidente di Arci Lazio Immigrazione, lavorare nel sociale richiede una “sempre più attrezzata coscienza critica capace di leggere i processi e le mutazioni della politica” da “coniugare con le competenze più avanzate”. Francesco Carchedi, responsabile dell'area ricerca del consorzio Parsec, invita gli operatori sociali a "sapere fare connessioni multiple e saper co-programmare", saper fare rete e lavorare insieme. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, afronta invece il delicato e difficile ruolo dell’operatore in carcere che “va ben oltre il suo mandato specifico” poiché “il carcere è un luogo dove la presenza della società esterna è un antidoto alla violenza e agli arbitrii”. Tuttavia, il contesto e il confronto con l’istituzione carcere non semplifica le cose dal momento che “per il sistema penitenziario sono tutti volontari”. “Il carcere è un luogo difficile dove lavorare”, ricorda Gonnella. “Solo un operatore informato, conoscitore delle norme, rispettato per la sua autorevolezza, supportato dalla sua organizzazione avrà modo di non restare solo, silente e triste”. Un lavoro, quello nel sociale, che inoltre deve essere “amato”, racconta don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco che sul tema del lavoro di comunità mette subito in chiaro le cose: “Sono definitivamente terminati i tempi nei quali era facile confondere le funzioni di volontario e di operatore addetto a un servizio”. Un lavoro che ha bisogno di “professionalità adeguata”, ma non solo. “Da parte di chi presta la propria opera è fondamentale che il lavoro sia cercato e amato”. Per Marina Galati e Isabella Saraceni, della Comunità Progetto Sud, serve un "sapere professionale che sia empiricamente situato, sperimentato e accompagnato dallo sviluppo della riflessività”. Agli operatori del sistema sanitario dedica un capitolo Roberto Landolfi, esperto di medicina sociale e del lavoro, mentre Pietro Barbieri, oggi portavoce del Forum del terzo settore, evidenzia le difficoltà nell’ambito della disabilità dove quello dell’operatore "è un lavoro disarticolato rispetto al quadro normativo nazionale e internazionale". Vittorio Agnoletto, fondatore della Lila e da anni impegnato nella lotta all’Aids sottolinea la necessità del saper lavorare in équipe, suggerita anche da Massimo Costantini, assistente sociale del Cnca. “Formarsi anche sul campo - spiega Costantini permette di collegare teoria e pratica, per non rimanere delusi da false aspettative”. Esperienza “sul campo” necessaria anche nell’ambito della salute mentale, come ricorda Dario Stefano Dell’Aquila, giornalista e ricercatore, secondo cui “l’operatore sociale che voglia acquisire una specifica competenza non ha altra strada”. L’ultima parte del libro è dedicata ai “mestieri di un mondo diverso”, con i contributi di Domenico Chirico, direttore di “Un Ponte per...” sul lavoro del cooperante internazionale, Alessandro Messina, responsabile delle relazioni con le imprese per Federcasse, e Monica Di Sisto, vicepresidente di Fairwatch, si confrontano su ulteriori tre ambiti, in parte nuovi, tra cui le nuove frontiere della finanza etica e quelli dell’altra economia. Un manuale ricco di spunti, quindi, ma anche di nodi da sciogliere, conclude Marcon. “Bisogna archiviare una volta per tutte la storia di un terzo settore parastatale e prono al business, commisto alla politica e senza valori, privo di radicalità e di volontà di cambiamento. Bisogna ricominciare da capo, facendo tesoro degli errori e delle cose buone fatte, ma consapevoli che serve un nuovo inizio con alla base rinnovate 7 fondamenta sociali, etiche e politiche. È quello che si aspettano le tante persone che vogliono fare bene il mestiere degli operatori sociali”. (ga) 8 INTERESSE ASSOCIAZIONE del 08/04/15, pag. 2 «La tortura in Italia un problema strutturale» Katia Bonchi Genova Diritti umani. La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per le violenze della Diaz. Censure pesanti contro stato e polizia: manca il reato specifico e l’identificativo degli agenti, le istituzioni coprirono i violenti Il blitz alla Diaz durante il G8 di Genova deve essere qualificato come «tortura», alla polizia è stato consentito di non collaborare alle indagini e la reazione dello Stato italiano non è stata efficace violando l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Lo ha stabilito la Corte europea di Strasburgo (Cedu) che ha accolto il ricorso di Arnaldo Cestaro, uno dei 92 manifestanti, picchiati e ingiustamente arrestati la notte del 21 luglio 2001. Cestaro, all’epoca 62 enne, uscì dalla scuola con fratture a braccia, gambe e costole che hanno richiesto numerosi interventi negli anni successivi. Una sentenza che pesa come un macigno per un Paese le cui istituzioni hanno minimizzato fino all’ultimo quanto accadde in quella che, grazie alle parole di uno dei poliziotti intervenuti, è nota come la «macelleria messicana». La sentenza, decisa all’unanimità, per la prima volta condanna l’Italia per violenze qualificabili come tortura, escludendo che i fatti possano essere considerati solo come «trattamenti inumani e degradanti» e sottolineando la gravità delle sofferenze inflitte e la volontarietà deliberata di infliggerle. La Corte respinge anche la difesa del governo italiano secondo cui gli agenti intervenuti quella notte erano sottoposti a una particolare tensione: «La tensione – scrivono i giudici – non dipese tanto da ragioni oggettive quanto dalla decisione di procedere ad arresti con finalità mediatiche utilizzando modalità operative che non garantivano la tutela dei diritti umani». La Cedu entra poi nel cuore del problema: la reazione (o non reazione) dello Stato italiano a ciò che avvenne. «Gli esecutori materiali dell’aggressione non sono mai stati identificati e sono rimasti, molto semplicemente, impuniti» e la principale responsabilità di ciò è addebitabile alla «mancata collaborazione della polizia alle indagini». Ma la Corte va anche oltre e lamenta che «alla polizia italiana è stato consentito di rifiutare impunemente di collaborare con le autorità competenti nell’identificazione degli agenti implicati negli atti di tortura». I giudici ricordano che gli agenti devono portare un «numero di matricola che ne consenta l’identificazione». Per quanto riguarda le condanne «nessuno è stato sanzionato per le lesioni personali» a causa della prescrizione mentre sono stati condannati solo alcuni funzionari per i «tentativi di giustificare i maltrattamenti». Ma anche costoro hanno beneficiato di tre anni di indulto su una pena totale non superiore ai 4 anni. La responsabilità di tutto ciò non è stata né della Procura né dei giudici ai quali il Governo italiano secondo la Corte ha provato ad attribuire la «colpa» della prescrizione. Anzi, al contrario, i magistrati hanno operato «diligentemente, superando ostacoli non indifferenti nel corso dell’inchiesta». Il problema, secondo la Corte, è «strutturale»: «La legislazione penale italiana si è rivelata inadeguata all’esigenza di sanzionare atti di tortura in modo da prevenire altre violazioni simili». Infatti «la prescrizione in questi casi è inammissibile», come inammissibili sono amnistia e indulto. 9 La Corte ritiene necessario che «i responsabili di atti di tortura siano sospesi durante le indagini e il processo e, destituiti dopo la condanna». Esattamente il contrario di quanto accaduto. Forse anche per questo «il Governo italiano non ha mai risposto alla specifica richiesta di chiarimenti avanzata dai giudici di Strasburgo». Dall’ex capo dell’Ucigos Giovanni Luperi al direttore dello Sco Francesco Gratteri al suo vice Gilberto Caldarozzi, al capo del reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini, i massimi vertici della polizia hanno proseguito le loro brillanti carriere fino alla condanna definitiva. Per molti di loro è arrivata nel frattempo l’agognata pensione, per gli altri nessuna destituzione da parte del Viminale ma solo l’interdizione per 5 anni dai pubblici uffici disposta dai giudici, terminata la quale potranno rientrare in servizio. Per i capisquadra dei picchiatori del nucleo sperimentale antisommossa di Roma, condannati ma prescritti prima della Cassazione (ritenuti però responsabili agli affetti civili) non risultano sanzioni disciplinari, tantomeno per i loro sottoposti mai identificati. «I vertici delle forze di polizia hanno ricevuto in questi anni soltanto attestazioni di stima e solidarietà» commenta il procuratore generale di Genova Enrico Zucca, che ha sostenuto l’accusa contro i poliziotti in primo e secondo grado — e mi rifiuto di credere che lo stato non abbia funzionari migliori di quelli che sono stati condannati». «Quando nel corso dei processi insieme al collega Cardona parlavamo di tortura citando proprio casi della Cedu ci guardavano come fossimo pazzi», ricorda con un pizzico di amarezza mista alla soddisfazione per una sentenza che considera però «scontata». Per il magistrato, che spesso si trovò isolato anche all’interno della stessa Procura nell’inchiesta più scomoda «bisogna prevenire fatti di questo genere e in Italia non abbiamo antidoti all’interno del corpo di appartenenza. Le dichiarazioni dopo la sentenza definitiva dell’allora capo della polizia Manganelli non sono solo insufficienti ma dimostrano la mancata presa di coscienza di quello che è successo. Fece delle scuse, sì, ma parlando di pochi errori di singoli, senza riflettere sulla vastità del fenomeno». La sentenza che ha condannato l’Italia a un risarcimento di 45 mila euro ad Arnaldo Cestaro arriva a quattro anni dal ricorso. I legali di Cestaro, gli avvocati Niccolò e Natalia Paoletti, che non hanno neppure atteso la sentenza di Cassazione per rivolgersi alla Cedu, esprimono soddisfazione: «Siamo molto contenti, soprattutto per il fatto che la corte ha rilevato l’enorme mancanza dell’ordinamento interno italiano, vale a dire la non previsione del reato di tortura e lo invita quindi a a porre dei rimedi». Per il loro cliente anche un risarcimento superiore a quanto normalmente disposto dalla Corte per casi simili «anche se – dice l’avvocato — parlare di cifre rispetto alla violazione di determinati diritti, è svilente». «La sentenza della Corte di Strasburgo – commenta il sindaco di Genova Marco Doria — riconosce la tragica realtà delle violenze perpetrate alla Diaz e mette a nudo la responsabilità di una legislazione che non prevede il reato di tortura e, per questa ragione, lascia sostanzialmente impuniti i colpevoli. È una sentenza di grande valore, non solo da rispettare, ma da condividere pienamente». «Uno stato democratico – aggiunge il sindaco — non deve mai tollerare che uomini che agiscono in suo nome compiano atti di brutale violenza contro le persone e i diritti dell’uomo. È, questa, una condizione essenziale anche per difendere la dignità di quanti operano invece negli apparati dello Stato secondo i principi della Costituzione». L’Italia, che potrebbe fare ricorso contro la sentenza, sarà costretta a ottemperare con una legge ad hoc. «Il modello – spiega l’avvocato Paoletti – potrebbe essere per esempio quello francese, che prevede per la tortura una pena base di 15 anni, aumentata a 20 in caso sia un pubblico ufficiale a commetterla e a 30 in caso di infermità permanente per la vittima, ma 10 si sa che il nostro Paese è molto ’bravo’ a ottemperare con molta lentezza alle sentenze della Cedu». Nell’attesa, comunque lo Stato italiano potrebbe essere costretto a sborsare molto per risarcire le altre circa 60 parti civili della Diaz che hanno fatto ricorso in blocco dopo la sentenza definitiva. Se quella di Cestaro può essere considerata una sentenza-pilota, si può ipotizzare un risarcimento di quasi 3 milioni di euro. Senza contare i processi civili per le vittime non solo della Diaz ma anche di Bolzaneto, che sono appena cominciati. del 08/04/15, pag. 1/3 Il vero scandalo è in Parlamento Patrizio Gonnella C’è un giudice in Europa. I fatti di Genova risalgono al 20 luglio del 2001. In quella circostanza una buona parte delle istituzioni si è sentita legittimata a ragionare e ad agire come se fosse in uno stato di eccezione. La presenza di due ministri nella cabina di regia delle operazioni di polizia contro i manifestanti assunse il significato di legittimare l’eccezionalità di quanto stava accadendo. Ci furono le brutalità della Diaz e poi le torture di Bolzaneto. Non furono episodi marginali o «mele marce». Fu qualcosa di sistemico e strutturale. L’anno prima vi erano state le violenze al Global forum di Napoli e quelle denunciate nel carcere di San Sebastiano a Sassari. Tre anni prima, ovvero nel luglio 1998, l’Italia solennemente aveva firmato lo Statuto della Corte Penale Internazionale che avrebbe dovuto giudicare su scala globale i gravi crimini contro l’umanità, tra cui per l’appunto la tortura. Tredici anni prima, nel 1988, l’Italia aveva firmato e ratificato la Convenzione Onu contro la tortura che all’articolo 1 definiva il crimine e agli articoli successivi impegnava tutti i Paesi a punirlo in modo adeguato ed efficace. In Italia la tortura invece non è un reato. A Strasburgo se ne sono accorti e così è arrivata la condanna per quanto accaduto alla Diaz. La parola chiave di questa storia è «scandalo». La pietra dello scandalo non è la tortura praticata, in quanto essa non è mai purtroppo una sorpresa, neanche nelle più consolidate delle democrazie. Chi si sorprende della tortura fa sempre il gioco dei torturatori. È uno scandalo il fatto che per 25 anni la classe dirigente di questo paese non ha avuto alcuno slancio nel nome dei diritti umani. La storia parlamentare ci rimanda a inerzie, meline, opposizioni nel nome ora della ragion di stato, ora dello spirito di corpo, ora delle mani libere. Una storia politica dove è difficile capire chi non sia responsabile. Dal 1988 si sono succeduti governi della prima e della seconda Repubblica, governi di centrodestra e di centrosinistra, eppure la tortura non è mai stata criminalizzata per quel che è, ovvero un delitto proprio del pubblico ufficiale. Nei prossimi giorni riparte il dibattito alla Camera. La Commissione Giustizia ha modificato il testo – imperfetto e incoerente rispetto al dettato Onu – approvato in Senato. Per cui riprenderà il ping pong parlamentare che nelle scorse legislature ha decretato la morte delle varie proposte di legge pendenti. In tutti questi anni, abbiamo sentito parlamentari chiedere che non fosse punita la sofferenza psichica prodotta dalla tortura altrimenti alcuni pubblici ministeri avrebbero rischiato l’incriminazione o altri deuatti evocare la punizione solo per chi tortura almeno due volte. Nel frattempo la cronaca ci ha ricordato che la tortura non è un crimine da terzo mondo, ma anche del secondo e del primo. Tre anni fa un giudice ad Asti non ha potuto punire due agenti di polizia penitenziaria in quanto, come lui stesso ha scritto nella 11 sentenza, «in Italia manca il delitto di tortura» e le condotte dei due agenti coincidevano con la descrizione del crimine presente nel Trattato delle Nazioni Unite. Sappiamo – grazie a Voltaire — che il meglio è nemico del bene. Sappiamo anche che abbiamo bisogno di una legge che non perpetui l’impunità dei torturatori. * Presidente di Antigone Dell’8/04/2015, pag. 1-2 Il vero nome di quella violenza cieca che il nostro Paese non sa pronunciare CONCITA DE GREGORIO BISOGNA essere molto longevi, in questo Paese, molto ostinati, un po’ fortunati certo e bisogna anche vivere di poco, consumare l’essenziale per avere — se non sei nessuno — giustizia, perché quattordici anni di ricorsi costano e se non hai soldi chi paga. Bisogna anche essere dotati di una certa ironia e autoironia, o fatalismo almeno, o fede in una qualche divinità celeste o laica perché se no c’è il rischio molto serio e comprensibile — se per esempio la polizia ti ha massacrato di botte mentre dormivi senza che tu avessi alcuna colpa (ma anche se avessi avuto colpa: la polizia ti ha massacrato di botte) — c’è il rischio si diceva che l’iniziale incredulità per quel che ti è successo e poi la rabbia diventino un’ossessione che ti fa impazzire. In questo caso non ti ospitano più neppure nei talk show perché sei quel vecchio pazzo che parla solo della Diaz, o la madre annegata nel dolore di un figlio pestato di notte per strada, o ammazzato nell’infermeria di un carcere o colpito da una pallottola “vagante”, che vagava. Queste storie qui, che non fanno ascolti nessuno le vuole sentire, la gente cerca ottimismo e sorrisi, e poi tanto si sa che quando c’è di mezzo il potere, per giunta in divisa, non è mai colpa di nessuno. Non è stato nessuno. Ogni tanto però c’è l’Europa. Deve essere insieme consolante e deprimente per Arnaldo Cestaro, 75 anni, vedere accolto dalla corte di Strasburgo il suo ricorso sul massacro nella scuola Diaz: sì, fu tortura ed è molto grave che l’Italia non preveda nel suo ordinamento il reato di tortura, dice la Corte europea dei diritti umani. L’Europa condanna, l’Italia no. L’Italia manda assolti i mandanti, condanna a pene lievi gli esecutori materiali (non tutti) e assegna risarcimenti ridicoli alle vittime. Vi hanno resi zoppi e ciechi, vi hanno ridotto in sedia a rotelle, ok: prendete questi 30 mila euro e tornatevene a casa. L’ordine di massacrarvi non ci risulta l’abbia mai dato nessuno. Vedete? 150 udienze, anni e anni di processo e non ci sono le prove. Promossi, i capi, o trasferiti ad altro più prestigioso incarico. Comunque assolti. Arnaldo Cestaro aveva poco più di 60 anni, quella notte. Era arrivato al G8 di Genova con i suoi compagni della sezione di Rifondazione Comunista di Vicenza e Montecchio Maggiore, aveva sfilato pacificamente per strada poi, la sera, aveva chiesto consiglio su un posto dove andare a dormire. Una donna gli aveva indicato la scuola Diaz, messa a disposizione dagli enti locali come alloggio per i manifestanti. Era l’ultima sera, l’indomani come tutti sarebbe tornato a casa. Per una notte poteva anche sistemarsi per terra, nel sacco a pelo, proprio nell’atrio dietro al portone d’ingresso. Io me lo ricordo, Arnaldo Cestaro. Mi ricordo nel buio il bianco dei suoi occhi mentre usciva dal cancello della scuola, i ragazzi affacciati all’edificio di fronte che gridavano “è un vecchio, hanno picchiato un vecchio”, e lui che urlava senza che gli uscisse la voce, urlava solo col viso e con lo sguardo. Un braccio, una gamba, dieci costole rotte. Mi ricordo di lui e di tutti quelli che uscivano in barella, uno per uno che non si finiva più di contare, quello 12 che sembrava morto, quella che piangeva perché non trovava più il suo libro e aveva il naso sulla destra della faccia, quelle due rannicchiate in un angolo, abbracciate dentro una pozza di sangue, le Bibbie, le carte d’identità, i Don Chisciotte, le spazzole per capelli, le scie rosse che arrivavano ai maniglioni antipanico delle porte chiuse coi lucchetti e le catene, le impronte rosse delle mani sui registri ancora aperti nell’ufficio della preside. E su una colonna “ don’t clean up this blood ”, non lavate questo sangue. E poi mi ricordo di Arnaldo Cestaro, un po’ più vecchio, al processo: ero andata a testimoniare contro le menzogne di chi diceva «li stiamo solo aiutando, non vedete, è una semplice perquisizione, erano feriti da prima», ma non è servito a nulla dire io c’ero, ho visto, posso giurare. Mi ricordo il suo sguardo, nell’aula. Non serve dire che abbiamo visto, dicevano i suoi occhi: vedi, i padroni sono loro, i loro avvocati menano la danza, la politica li copre. Non serve. È anche per questo che sono particolarmente felice che Arnaldo Cestaro sia un uomo longevo. Più dell’attesa che serve e non sempre basta, abbastanza da sentirsi dire oggi da un giudice che non vive in Italia: avevi ragione, hai sempre avuto ragione. Ti hanno torturato, ed erano per giunta uomini in divisa dello Stato: infierire a calci e colpi di manganello su chi dorme è tortura. Non c’era nessuna ragione per farlo e comunque non si può fare: perché le vostre leggi non lo dicono? Ecco. Non c’era nessuna ragione — vale per lui e per tutte le altre vittime di quella notte — e non si può fare. Difatti è questo che Cestaro chiede dopo la sentenza: «Mi sentirò risarcito solo dopo che lo Stato avrà introdotto il reato di tortura perché se il Parlamento non agisce il male che hanno fatto a me potranno sempre farlo ad altri». Sempre, potranno. La proposta di legge c’è: giace da due anni in Parlamento. È passata alla Camera, modificata, dovrà tornare al Senato. Molto ostacolata. Non prioritaria. Bisogna essere molto longevi, ostinati. Ancora, Cestaro. Bisogna credere nella giustizia: se non in quella degli uomini almeno in quella del tempo. Dell’8/04/2015, pag. 3 IL MAGISTRATO / ENRICO ZUCCA “Il messaggio europeo è chiaro: dovete spaventare chi sevizia ma il Parlamento fa il contrario” MARCO PREVE ENRICO Zucca, oggi sostituto procuratore generale, è stato il pm della più difficile inchiesta sui fatti del G8, quella della Diaz. La sentenza della Corte Europea cosa insegna all’Italia? «Che contrariamente a quanto sostenuto dai nostri governi proprio a Strasburgo, la tortura non è una pratica lontana dalla nostra mentalità. Non è vero, e la storia recente ce lo dimostra. In determinati periodi, vedi la lotta al terrorismo o alla mafia, la polizia italiana non è capace di evitare il ricorso a pratiche vietate. Il waterboarding ne è un esempio lampante». C’è una cura? «La tortura è un fenomeno endemico a tutte le strutture militari come la corruzione alla pubblica amministrazione. Non bisogna nascondersi il pericolo e affrontarlo creando anticorpi. Avere la consapevolezza che in certe condizioni è facile scivolare verso la tortura. Se si nega come hanno fatto vari governi italiani ci si cade dentro. Gli Stati Uniti, in 13 un contesto assai più stressante rispetto alla Diaz, come la guerra al terrorismo, hanno praticato la tortura. Ma poi hanno saputo riconoscere l’errore. Ed è importante che i primi a imporre degli stop siano stati proprio i procuratori militari che rifiutavano confessioni estorte con la violenza». Oggi la legge sulla tortura sembra vicina anche in Italia. «Il disegno di legge è un compromesso che sembra voler proteggere la polizia da forzature della magistratura. Ho sentito parlare di emendamenti che tutto fanno tranne che rispettare le indicazioni della Convenzione dei diritti dell’uomo. O si capisce che la tortura è il reato commesso da uomini dello Stato oppure siamo lontani. La Corte europea lancia all’Italia un messaggio preciso: “Dovete spaventare i torturatori”. Il contrario di quello che sta facendo il Parlamento». La paura dell’Is potrebbe aprire la porta alle maniere forti. «Proprio perché la tortura è la tentazione di tutte le democrazie, oggi dobbiamo fare i conti con una duplice minaccia proveniente dal terrorismo. La prima è quella più diretta, di chi attenta alla vita democratica con violenza brutale e sanguinaria. Ma poi c’è la minaccia più insidiosa, quella per cui lo Stato scende sullo stesso terreno del terrorismo e rinnega i propri principi. È quel che dobbiamo evitare perché sarebbe la vittoria dei nemici della democrazia ». del 08/04/15, pag. 4 Tortura e codici su divise: le leggi impossibili Eleonora Martini Roma Giustizia. La Camera domani riprende i lavori sull’introduzione del reato. Ma tipizzato all’italiana. Mentre il governo blocca al Senato il testo di Sel sugli identificativi per gli agenti Reato di tortura e codice identificativo per le forze dell’ordine: fino a quando l’Italia non provvederà a colmare queste lacune nel proprio ordinamento, la «natura strutturale del problema» rimarrà — per usare le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo — «evidente». Appurato infatti che il comportamento da “macelleria messicana” tenuto dalle forze dell’ordine alla Diaz «deve essere qualificato come tortura», nella condanna contro Roma la Corte di Strasburgo pronuncia un esplicito imperativo a rispettare i principi della legislazione internazionale. Insomma, ciò che gli italiani discutono inutilmente da decenni, all’impasse per i veti delle divise di cui la destra si fa portavoce ma che riescono ad imbalsamare anche il Pd, incapace di procedere sulla strada segnata dalla stessa Costituzione italiana, dalla Convenzione di Ginevra del 1949 e da una lunga serie di patti internazionali fino alla Convenzione Onu ratificata dal nostro Paese nel 1988 ma mai attuata, appare invece chiaro ai giudici europei. Il collegio presieduto da Päivi Hirvelä infatti scrive che il diritto penale italiano ha dimostrato di essere «inadeguato» non solo perché non prevede alcuna sanzione contro i pubblici ufficiali che abusando dei propri poteri compiono atti di «tortura» o anche solo «azioni disumane e degradanti», ma anche perché è «privo di disincentivi in grado di prevenire efficacemente il ripetersi di possibili violenze da parte della polizia». Già un anno fa la Corte europea, condannando l’Italia a risarcire un uomo picchiato dai carabinieri, aveva bacchettato anche la magistratura troppo spesso inerte davanti simili fatti. 14 E sebbene qualcosa si sia mosso, negli ultimi anni, da quando alcuni tribunali hanno sottolineato l’impossibilità di procedere alla condanna delle forze dell’ordine colpevoli di violenza per mancanza di leggi appropriate (G8 di Genova e caso Cucchi, primi tra tutti), il reato di tortura e il codice identificativo per gli agenti di polizia non sono ancora strumenti a disposizione. Alla Camera però è calendarizzata già per domani la discussione iniziata il 23 marzo scorso sul ddl tortura, il cui testo è stato licenziato dal Senato nel marzo 2014 e modificato dalla commissione Giustizia al fine di armonizzarlo maggiormente — ma non del tutto — alle convenzioni internazionali. «Abbiamo innanzitutto raddoppiato i tempi di prescrizione che ora arrivano fino a 24 anni — spiega la presidente della commissione Donatella Ferranti (Pd) — e abbiamo cercato di tipizzare meglio la fattispecie di reato, soprattutto nel caso di pubblico ufficiale che abusa dei propri poteri, specificando le finalità della condotta volta ad ottenere informazioni, a vincere una resistenza, per punizione o per discriminazione». Ma la prima e più importante “pecca” del testo, che dopo l’approvazione della Camera dovrà comunque tornare in seconda lettura al Senato, sta nel fatto che la tortura non è qualificata come reato proprio ma comune, quindi imputabile a qualunque cittadino e non solo alle forze dell’ordine, come avviene in molti Paesi occidentali. «È stata una scelta politica — ammette Ferranti — ma non cambia nulla perché nel caso di reato commesso da pubblico ufficiale è prevista un’aggravante con pena autonoma, come se fosse un reato specifico. Abbiamo scelto di non stravolgere ulteriormente il testo del Senato, dove comunque si è svolto un alto dibattito per più di un anno, in modo da velocizzare l’approvazione finale. Ora mi auguro che la Camera approvi all’unanimità il provvedimento, in modo da poter avere la legge definitiva entro l’estate». Il nuovo testo modificato dalla commissione Giustizia punisce con la reclusione da 4 a 10 anni «chiunque, con violenza o minaccia o violando i propri obblighi di protezione cura o assistenza, intenzionalmente cagiona a una persona a lui affidata o sottoposta alla sua autorità sofferenze fisiche o psichiche». La pena è aggravata da 5 a 12 anni quando a torturare è un incaricato di pubblico servizio, il quale può essere accusato anche di un nuovo reato, l’istigazione specifica, punito con il carcere fino a 3 anni anche se l’istigazione non è stata accolta e la tortura infine non c’è stata. Per i codici alfanumerici sulle divise invece c’è da aspettare di più, perché il governo ha di fatto bloccato i lavori in commissione Affari costituzionali del Senato sul testo presentato da Sel e che avrebbe dovuto arrivare in Aula la scorsa settimana, annunciando provvedimenti in questo senso in un prossimo ddl sulla sicurezza urbana. «L’accordo con il ministro Alfano è che la commissione analizzerà contemporaneamente i due ddl — spiega la senatrice di Sel Loredana De Petris — Ma aspetteremo ancora quindici giorni, poi, se il ddl governativo non arriverà, faremo pressioni per riprendere i lavori sul nostro testo e introdurre i codici con i quali a Genova si sarebbero potuti identificare i torturatori». Dell’8/04/2015, pag. 4 Il Pd accelera sul reato, i dubbi di Ncd La proposta alla Camera: fino a dieci anni di carcere per l’aggressore, dodici se appartiene alle forze dell’ordine e trenta se la vittima muore. Ma i democratici temono il muro del centrodestra. Cicchitto: non demonizzare gli agenti 15 LIANA MILELLA Ancora sull’onda di uno schiaffo. Di Strasburgo questa volta. Dei delitti comuni, vedi omicidio stradale. Della corruzione che dilaga, vedi ddl anti-corruzione. Dei processi in fumo, vedi Eternit e le norme sulla prescrizione. La politica insegue l’emergenza, e si divide. La tortura è un caso di scuola. Dice adesso Laura Boldrini, la presidente della Camera: «Giovedì si vota. Il Parlamento colma un vuoto intollerabile ». Già, un buco clamoroso. Ironicamente twitta Saviano che «a 14 anni dai fatti di Genova la tortura è un reato che neppure esiste». Eppure, come ricorda Mauro Palma, per undici anni presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, che il Guardasigilli Orlando vorrebbe come vice al Dap, «in Italia se ne parla dall’89, visto che cinque anni prima era stata votata la convenzione Onu, poi recepita nella nostra legislazione ». Prima proposta quella del senatore Nereo Battello del Pci. Era, appunto, l’89. Ma siamo ancora qui, senza il reato che tutti i Paesi civili hanno, in un Parlamento pronto a fare la guerra. Perché la destra frena, in questo caso la Lega e un po’ Ncd, perché c’è sempre chi vuole proteggere le forze di polizia, perché pure la sinistra si divide. Vedi il conflitto in nuce tra Manconi, Pd Senato, e Ferranti, Pd Camera. Il primo ha proposto la legge, la seconda l’ha integrata. Palma dice che ha fatto bene. Lui stesso, sentito in commissione Giustizia, ha proposto quelle integrazioni. Che spiega così: «Il testo che la Camera si appresta, spero, ad approvare, ricalca la Convenzione Onu. Si può solo dire che è il passo avanti che aspettiamo dal lontano ‘84». Guardiamo il testo. Tortura, nuovo articolo 613-bis del codice penale. Reato comune, 4-10 anni. Con un’aggravante per i pubblici ufficiali o gli incaricati di pubblico servizio, 5-12 anni. Un terzo o la metà in più se c’è una lesione. Trent’anni se il torturato muore. L’ergastolo se la tortura era voluta e mirata. Prescrizione raddoppiata comunque (l’ha pretesa Ferranti). Rischia chi «con violenza o minaccia, o con violazione dei propri obblighi di protezione, cura o assistenza, intenzionalmente cagiona a una persona a lui affidata o sottoposta alla sua autorità, vigilanza o custodia, acute sofferenze fisiche o psichiche, al fine di ottenere informazioni o dichiarazioni o di infliggere una punizione o di vincere una resistenza, ovvero in ragione dell’appartenenza etnica, dell’orientamento sessuale o delle opinioni politiche e religiose». Troppi dettagli, secondo Manconi. Specificazioni «indispensabili» per Donatella Ferranti, la presidente Pd della commissione Giustizia della Camera. «Fino a oggi non c’è mai stato lo spazio politico, la destra ha fatto muro sulle forze di polizia, anche qui in commissione sono venuti a ripeterlo, che il reato di tortura è inutile, che ci sono nel codice i maltrattamenti e le lesioni gravi. Per questo sono stata puntigliosa, ho sentito Palma, che considero un’autorità in materia, e valenti giuristi come Viganò, ma anche Amnesty International, e le organizzazioni della polizia e del Dap, Sabelli dell’Anm, il capo della polizia Pansa. Alla fine sono soddisfatta». Il Pd è con lei. Il Guardasigilli Orlando, il relatore Vazio, Verini e Fiano, il vice capogruppo Rosato che la difende da Falanga che l’accusa di ritardi. I rischi, semmai, vengono dalla stessa maggioranza, basta sentire l’Ncd Cicchitto quando mette in guardia dal rischio di «demonizzare le forze dell’ordine». «E già, bisogna stare molto attenti» raccomanda il Pd Felice Casson. «Me li ricordo bene questi anni. Berlusconi, Prodi, poi di nuovo Berlusconi, tanti ddl sulla tortura, l’accordo pareva raggiunto, poi la destra faceva saltar tutto. Perché è ideologicamente contro. È giusto che sia un reato comune. Punito il pubblico ufficiale, ma anche i camorristi che hanno la camera della morte o gli infermieri delle cliniche private. Se passa così è un successo». 16 del 08/04/15, pag. 4 TUTTI PROMOSSI Le brillanti carriere dei poliziotti condannati Simone Pieranni Durante i procedimenti ospitati nelle aule del tribunale di Genova, i poliziotti a processo per l’irruzione nella scuola Diaz, hanno dato prova di grande «solidarietà» tra di loro. Alcuni hanno provveduto a «coprirsi», provando anche a modificare l’esito del procedimento, almeno secondo i le accuse dei pubblici ministeri di Genova. Nel frattempo le carriere dei poliziotti progredivano o, nel peggiore dei casi, nulla accadeva. Si è sempre detto che la «catena di comando» nell’operazione Diaz sia sempre rimasta nel dubbio. In realtà nelle carte processuali emergeva fin troppo nitidamente, complici foto scattate nel cortile della scuola genovese e testimonianze ai processi. E nel gennaio del 2014 il tribunale di sorveglianza, ha infine stabilito gli arresti domiciliari tre dei «super poliziotti» condannati per i fatti della Diaz. Stiamo parlando di Francesco Gratteri, Spartaco Mortola e Giovanni Luperi. Il primo, il funzionario di grado più alto tra quelli processati per la Diaz, era allora a capo dello Sco. Nell’aprile del 2006, durante una deposizione al processo, un ragazzo lo riconobbe nei video mostrati in aula. A tradire l’allora capo dello Sco, il vestito. Il teste, un ragazzo tedesco del 1975, lo aveva indicato, riconoscendolo in quell’uomo alto, in completo scuro, camicia chiara, con barba e casco. Francesco Gratteri, da lì a poco promosso a capo dell’antiterrorimo italiano, poi questore a Bari, oggi è ai domiciliari. Spartaco Mortola nel 2001 dirigeva la Digos a Genova. Nel febbraio del 2010 ricomparve sulla scena politica italiana, perché era lui a guidare le cariche contro i cortei no Tav in val di Susa. Eppure anche lui, nel gennaio scorso, è stato condannato ai domiciliari. Il suo nome emerge nelle cronache giudiziarie nel 2004, quando venne condannato il primo poliziotto del g8, responsabile di avere picchiato il minorenne diventato un simbolo di quelle giornate, per il suo volto sformato e tumefatto. Mortola, indagato, venne però assolto e ai giornalisti presenti in aula esclamò: «Uno a zero». Perché ci sarebbero stati altri «goal». Mortola, infatti, era tra i 28 poliziotti rinviati a giudizio per il processo per l’irruzione alla scuola Diaz. Come capo della Digos di Genova, era stato lui a scortare i reparti speciali alla scuola per l’azione. Poi, era rimasto fuori a chiacchierare, mentre il sacchetto con le due molotov - false secondo i pm, prova suprema del covo dei black bloc per la polizia - passava di mano in mano. Proprio quelle molotov finirono per mettere Mortola in un nuovo procedimento, da indagato. Nel frattempo era stato promosso: questore ad Alessandria. Poi questore vicario a Torino (ecco il collegamento con i no Tav). Ma Genova incombeva, anche perché Mortola si trovò invischiato nel caso delle molotov scomparse e nel procedimento con indagato l’ex capo della polizia De Gennaro. Quest’ultimo è oggi Presidente di Finmeccania, prima di essere stato Commissario Straordinario per l’Emergenza rifiuti in Campania. Nel 2008 è stato nominato direttore del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza, e nel 2012 sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri del Governo Monti. Gianni Luperi nel 2001 era il capo dell’Ucigos. Indagato, fu promosso: capo del Dipartimento analisi dell’Aisi (Agenzia informazioni e sicurezza interna), quello che era il Sisde. Durante l’operazione alla Diaz, Luperi - oggi in pensione - era da considerarsi riferimento per gli operatori appartenenti alle Digos. 17 ESTERI del 08/04/15, pag. 1/15 Iran e Turchia fronte comune contro l’Isis Alberto Negri L’Iran sostiene Bashar Assad mentre la Turchia ha aperto in questi anni a guerriglieri e terroristi “l’autostrada della Jihad” per abbattere il regime di Damasco e ora confina per 400 chilometri con il Califfato. L’Iran è stato invece il primo governo della regione a scendere in campo apertamente contro lo Stato Islamico. I due vicini di casa, eredi di antichi Imperi, non sono mai stati in apparenza così rivali negli ultimi tempi. «L’ascesa della mezzaluna sciita iraniana che con curdi ed Hezbollah ha fatto indietreggiare il Califfato in Iraq infastidisce non poco Erdogan», aveva confidato qualche giorno fa ad Ankara l’editorialista di Hurriyet Mura Yetkin e non è un caso che prima di volare a Teheran Erdogan abbia ricevuto la visita improvvisa del principe Nayef Al Saud, uno degli eredi al trono in Arabia Saudita, l’acerrimo avversario di Teheran nel Golfo e in Yemen dove Riad bombarda i ribelli sciiti Houthi. Eppure Tayyep Erdogan, preceduto dalle aspre polemiche della vigilia in cui aveva dichiarato che «l’Iran cominciava a dare fastidio», è stato ieri il primo leader mediorientale e della Nato a volare a Teheran dopo l’accordo di Losanna sul nucleare perché come ripeteva Henry Kissinger «le nazioni non hanno amici o nemici permanenti ma soltanto interessi». E con l’arte della retorica gli avversari riescono persino a superare i massacri sul campo di battaglia: «Ci impegneremo insieme a fermare il bagno di sangue in Medio Oriente e la guerra in Yemen», hanno dichiarato in una conferenza stampa congiunta Erdogan e il presidente iraniano Hassan Rohani, prima che il leader turco incontrasse anche la Guida Suprema Ali Khamenei. Le divergenze restano, sono forti, ma attutite dagli interessi reciproci. La diplomazia iraniana voleva a tutti i costi far sedere al tavolo Erdogan e lo stesso presidente turco, che aveva per altro incoraggiato l’accordo sul nucleare, non intendeva rinunciare a un asset strategico della Turchia: il rapporto diretto e senza mediazioni con Teheran che si concretizza in un giro d’affari di 14 miliardi di dollari, da portare, secondo il comitato bilaterale riunito ieri, a 30 entro fine dell’anno prossimo. Un traguardo ambizioso ma a portata di mano più di quanto non si creda. Le sanzioni hanno danneggiato anche la Turchia che spera in un accordo definitivo tra l’Iran e il Cinque più Uno entro la fine di giugno per superare ogni embargo e penetrare il mercato iraniano: 80 milioni di consumatori che possono essere facilmente raggiunti dalla merci turche (ed europee). Ma perché Erdogan è andato a Teheran vincendo le sue personali resistenze e quelle dei sauditi? L’Iran rientra nei piani strategici della Turchia di diventare un hub dell’energia diretta verso l’Europa. L’Iran già oggi esporta il 90% del suo gas in Turchia dove copre il 20% dei consumi interni, oltre al 16% di quelli petroliferi. Teheran, maggiore fornitore della Turchia dopo Mosca, ha le seconde riserve di gas al mondo ed è facilmente intuibile il piano di Ankara: mettere in concorrenza i suoi venditori principali, in primo luogo la Russia, con cui deve realizzare il gasdotto Turkish Stream fortemente osteggiato dagli americani, e poi anche l’Azerbaijan, al quale sarà collegata dal gasdotto Tanap. Erdogan ha subito scoperto le carte. «Se l’Iran riduce i prezzi siamo pronti ad aumentare le nostre importazioni di gas. Due Paesi amici e fratelli hanno il dovere di mostrarsi solidali», ha detto il presidente turco. Parole un po’ diverse da quelle pronuciate qualche giorno fa dallo stesso Erdogan quando aveva attaccato Teheran affermando che «l’Iran 18 sta provando a dominare il Medio Oriente infastidendo noi, i sauditi e gli altri Paesi del Golfo». L’uscita di Erdogan a Teheran, nel palazzo di Saadabad, è miele per le orecchie degli iraniani che puntano su Ankara per il loro export energetico verso l’Europa. Ma ci sono altre ragioni, forse meno evidenti, che hanno spinto Erdogan a Teheran. Il presidente turco, che sul suo territorio schiera i missili Nato contro l’Iran, intende controbilanciare i suoi stessi alleati occidentali e regionali mostrando di avere mano libera di fare accordi con gli ayatollah. Il Medio Oriente è nel caos ma Teheran e Ankara sono sempre state d’accordo su un punto: non consentire la nascita di un’entità curda (o di uno stato curdo) fuori dal loro controllo. Ecco perché due vicini distanti e con interessi in apparenza inconciliabili trovano quasi sempre un accordo, come del resto suggeriscono le sperimentate ricette diplomatiche di Kissinger. del 08/04/15, pag. 9 Yarmouk, tra le rovine Hamas combatte l’Isis Chiara Cruciati Siria. Intervista all'analista palestinese Nassar Ibrahim: nel campo di Damasco presenti tutti gli attori del conflitto siriano. Secondo l'Olp, i combattenti palestinesi hanno riconquistato parte del campo profughi Decapitazioni, assenza di cibo e medicinali, colpi di artiglieria contro le case e cecchini che mirano a chiunque provi a uscire o entrare nel campo. Yarmouk, la “capitale” dei rifugiati palestinesi, il simbolo della diaspora e dell’agognato diritto al ritorno, vive l’ennesimo capitolo della sua personale tragedia. A combattere dentro Yarmouk sono i gruppi palestinesi, nell’estremo tentativo di difendere quel poco di normalità che il campo ha sempre rappresentato fino allo scoppio della guerra civile siriana. Ma i residenti sono allo stremo, senza cibo, acqua né medicinali, fa sapere l’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi. Secondo Anwar Abdel-Hadi, responsabile dell’Olp in Siria, «lo Stato Islamico [entrato definitivamente a Yarmouk una settimana fa, ndr] controlla ora il 60% di Yarmouk, dopo aver preso il 90% ma essere stato poi respinto dai gruppi armati da alcuni quartieri del campo». Ancora sono in corso gli scontri tra le vie strette del campo profughi, scontri a cui prende parte l’artiglieria del governo di Damasco, intenzionato a non permettere agli islamisti di avvicinarsi ulteriormente al cuore della capitale. «Yarmouk il più grande campo profughi palestinese al mondo e base per decenni della leadership palestinese in esilio, è modello della guerra civile siriana ma anche del più ampio conflitto che oggi scuote la regione – spiega al manifesto l’analista palestinese Nassar Ibrahim – Dentro Yarmouk sono presenti, direttamente e indirettamente, tutti gli attori locali, regionali e internazionali che da quattro anni tentano di decidere le sorti di Damasco, facendo collassare il governo del presidente Bashar al-Assad. Ci sono i gruppi islamisti creati e finanziati dal Golfo e dalla Turchia; ci sono le opposizioni moderate, strumento occidentale; ci sono i gruppi pro-Assad, c’è l’esercito governativo; c’è il califfato di al-Baghdadi». Dentro Yarmouk sono in tanti a combattere, ma a pagarne le spese è quel che rimane della popolazione del campo, che prima oscillava tra le 150mila e le 180mila persone, per lo più rifugiati palestinesi, ma anche siriani poveri impossibilitati a vivere nella capitale. Difficile dare un bilancio esatto delle vittime: la stampa parla di 40 morti dallo scorso mercoledì, quando l’Isis ha fatto irruzione nel campo; fonti mediche di quasi 200. 19 I gruppi presenti coprono l’intero spettro del conflitto: due gruppi palestinesi pro-Assad, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina – General Command e Fatah al Intifada, vicino ad Hezbollah; i qaedisti di al-Nusra, i siriani islamisti di Ahrar al-Sham, i siriani moderati dell’Esercito Libero, opposizione a Damasco; e i gruppi palestinesi Aknaf Beit al-Maqdis (organizzati da Hamas) e i fuoriusciti del Pflp, al-Uhda al-Umariya. «Nel 2011 il governo di Damasco ha tentato di lasciare fuori i profughi palestinesi dal conflitto. Vi sono stati trascinati dalla decisione di Hamas di abbandonare l’ex alleato siriano, per schierarsi con l’asse di opposizione – continua Ibrahim – Fino al 2012 il capo di Hamas, Khaled Meshaal, aveva la sua base a Yarmouk. Questa rottura ha portato i gruppi palestinesi vicini ad Hamas a schierarsi con i ribelli siriani: Yarmouk è finita nel cuore del conflitto». «Oggi Yarmouk è il terzo fronte aperto in queste settimane dalle opposizioni interne e dai nemici esterni contro il governo Assad, a seguito delle vittorie segnate dall’asse sciita in Yemen (dove l’Arabia Saudita non riesce a frenare l’avanzata Houthi) e in Iraq (dove i pasdaran iraniani hanno liberato Tikrit). Il primo fronte è al confine con la Giordania: una settimana fa al-Nusra ha preso il principale valico con il regno hashemita, Nasib. Il secondo fronte è a nord, a Idlib, occupata dai qaedisti. E il terzo è Yarmouk, che dopo le battaglie per il controllo delle regioni settentrionali, da Aleppo a Raqqa, e quelle meridionali al confine con il Golan, ha fatto tornare centrale Damasco.Yarmouk è oggi fondamentale perché a pochi km dal cuore del governo Assad, perché modello del più ampio conflitto a livello nazionale e regionale e, infine, perché rappresenta la questione palestinese e i tentativi di strumentalizzazione da parte di tutti gli attori coinvolti». Chi paga le spese delle tante guerre per procura mediorientali è la popolazione civile. Lunedì il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha chiesto la creazione di un accesso umanitario al campo per garantire la protezione dei civili e la loro evacuazione. Ma la situazione, dice Pierre Krahenbuhl, capo dell’agenzia Onu Unrwa, «è più disperata che mai». Alle bombe governative che piovono sul campo, nel tentativo di colpire le postazioni dell’Isis, si aggiungono le atrocità dello Stato Islamico: almeno nove combattenti palestinesi sarebbero stati uccisi, due di loro decapitati. Così il numero di residenti di Yarmouk continua ad assottigliarsi: 18mila dopo lo scoppio della guerra civile, il 10% della popolazione totale; 15-16mila oggi, dopo la fuga disperata dalle barbarie dell’Isis di altri 2mila rifugiati che in qualche modo sono riusciti a rompere l’assedio e a darsi alla fuga. del 08/04/15, pag. 15 Orrore Isis. Appello delle Nazioni Unite: «Indicibili violenze nel campo profughi palestinese alla periferia di Damasco» Onu: corridoio umanitario per Yarmouk Cresce l’allarme internazionale per il campo profughi palestinese di Yarmouk, alle porte di Damasco, occupato quasi interamente dall’Isis. Il gruppo jihadista ha diffuso il primo video dei suoi miliziani mentre si aggirano all’interno della struttura, immagini probabilmente girate al momento della conquista del campo. Il campo dista cinque chilometri dal centro della capitale siriana e ieri l’aviazione del regime ha continuato per tutta la mattinata il bombardamento di varie zone. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha chiesto che sia consentito l’accesso alle agenzie umanitarie. Il plenum composto da 15 Paesi ha chiesto «la protezione dei civili, 20 l’assistenza umanitaria e di salvare vite» umane, come ha spiegato l’ambasciatrice giordana, Dina Kawar, il cui Paese ha la presidenza di turno. Chris Gunness, portavoce dell’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, ha avvertito che nel campo la situazione è «al di là del disumano». L’Isis ha attaccato il campo mercoledì scorso e ha il controllo del 90% della struttura. Il video che ha diffuso documenta per la prima volta la presenza dei suoi uomini nella zona di Damasco: nelle immagini i jihadisti, alcuni con i passamontagna e le armi, posano con le bandiere nere del Califfato in via al-Yarmouk, alla moschea Al-Wasim e in un complesso di sicurezza che secondo l’Isis è sotto il controllo dei miliziani. Un adolescente fuggito, Amjaad Yaaqub, 16 anni, ha raccontato di aver visto «due miliziani che tiravano al pallone con una testa decapitata come se giocassero a calcio». Lui si è salvato per miracolo, perché - picchiato selvaggiamente dai miliziani, è svenuto e i jihadisti, che cercavano il fratello maggiore, hanno pensato che fosse morto. L’Olp ha reso noto che una delegazione palestinese sta negoziando con Damasco gli aiuti agli abitanti del campo profughi. Ma finora sono riusciti ad abbandonare il campo solo poche centinaio di famiglie. Secondo Save the Children, all’interno sono rimasti intrappolati almeno 3.500 bambini, con il rischio di essere uccisi o feriti, senza cibo, acqua e assistenza medica. La delegazione palestinese avrà anche colloqui con le varie fazioni palestinesi per decidere come contrastare la minaccia dell’Isis. Intanto, nelle zone irachene appena liberate dall’Isis, si è cominciato a scavare a Tikrit, dove in almeno dodici siti si trovano fosse comuni in cui sarebbero sotterrati i corpi di 1.700 soldati uccisi l’anno scorso dallo Stato islamico. L’area è quella di Camp Speicher, una ex base americana, appena fuori dalla città sunnita. L’esumazione dei corpi avviene anche nel palazzo che fu di Saddam Hussein, giorni dopo che i miliziani dell’Isis sono stati spinti alla fuga dall’arrivo delle truppe irachene appoggiate dalle milizie sciite: «Finora abbiamo trovato 20 corpi», ha raccontato Khalid al-Atbi, un ufficiale sanitario, «ed è stata una scena da spezzare il cuore. Non possiamo impedire a noi stessi di cedere alle lacrime. Quale razza di selvaggio barbaro è in grado di uccidere 1.700 persone a sangue freddo?». L’orrore dell’Isis continua dunque senza fine, tra Siria e Iraq, mentre i Paesi del Golfo, guidati dall’Arabia Saudita, sono decisamente più motivati ad arginare la ribellione degli Houthi in Yemen, a loro volta appoggiati dalla grande potenza sciita della regione, l’Iran. Gli scontri tra opposte fazioni si intensificano e gli Stati Uniti hanno dichiarato ieri di aver accelerato la fornitura di armi alla coalizione guidata dai sauditi. A dichiararlo è stato il vice segretario del Dipartimento di Stato, Anton Blinken, in visita a Riad: «L’Arabia Saudita sta lanciando un messaggio forte agli Houthi: non si possono sovvertire gli equilibri in Yemen attraverso la forza. In questo ambito abbiamo accelerato alcune forniture belliche, intensificato la condivisione di informazioni e istituito una cellula congiunta di pianificazione nel centro operativo saudita». Dell’8/04/2015, pag. 16 Yarmuk, la strage dell’Is l’Onu lancia l’allarme “È un’altra Srebrenica” “Mille morti, giocavano con le teste mozzate” Tra i civili nel campo profughi anche 3.500 bambini ALIX VAN BUREN 21 «PIETÀ per Yarmuk», il campo martire dei profughi palestinesi a Damasco invaso dai carnefici del cosiddetto Stato islamico (Is) in combutta con Al Qaeda (Fronte Nusra) e con un nugolo di fazioni islamiste fino a poco fa rivali per il controllo del campo, ora confluite nei ranghi dei “vincitori”. Yarmuk era già alla fame e alla sete dopo due anni di scontri fratricidi e di assedio a opera dell’esercito siriano. «Le condizioni di vita sono al di là del disumano», avverte Christopher Guinness, portavoce dell’Unrwa, rilanciando l’appello del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Guinness implora l’apertura di un corridoio umanitario per soccorrere i 18 mila abitanti, compresi 3.500 bambini, rimasti nel campo e da lunedì trattenuti in ostaggio dai jihadisti senza riserve di cibo, né acqua e farmaci. «La comunità internazionale è sotto esame: recapiti gli aiuti», è sferzante Pierre Krähenbühl, il commissario generale, mentre Andrea Iacomini, portavoce di Unicef-Italia, profila «una nuova Srebrenica», e pensa al genocidio dei bosniaci musulmani nel luglio ‘95: l’osceno livido sulla faccia dell’Occidente, che non seppe evitare il massacro. I racconti delle 500 famiglie fuggite — «strisciando lungo i muri per scampare ai cecchini», dice Um Ussama all’ Afp — descrivono la selvaggia barbarie dell’Is già testimoniata altrove in Siria e in Iraq: «In via Palestina due membri di Daesh (sigla in arabo dell’Is, ndr) giocavano a palla con una testa mozza», dice Amjad Yaacub, 16 anni. Lo stesso sadismo ha messo in fuga Ibrahim Abdel Fatah, 55 anni: «Ho visto delle teste mozze. Uccidevano i bambini prima degli adulti. Avevo sentito parlare della loro crudeltà, ora l’abbiamo osservata coi nostri occhi». La resa dei conti tra fazioni rivali è impietosa: sette miliziani affiliati ad Hamas sono stati decapitati, altri 23 combattenti e otto civili sono stati uccisi nella lotta per il controllo di questo sito strategico, ad appena dieci minuti dal centro di Damasco. L’Is e i suoi alleati hanno preso il 90 per cento del campo, con le forze palestinesi arroccate a Nord e Nord Est, e i civili intrappolati nelle case. Ai missili dei jihadisti si aggiungono i bombardamenti dell’esercito. «Ci sono mille morti», dice un deputato araboisraeliano citato dal quotidiano Haaretz.Tutto questo fa disperare il Commissario Krähenbühl, alla vana ricerca di un interlocutore: non è chiaro — dice — chi eserciti un’influenza sui leader. Perciò Krähenbühl rigira l’appello ai membri dell’Onu con contatti con l’Is: costringano i jihadisti a deporre le armi e consentano la distribuzione di cibo e medicinali. Considerato che gli abitanti già stentavano con un’alimentazione di appena 400 calorie al giorno sulle 2.000 necessarie, «qui si tratta di pura sopravvivenza». Dell’8/04/2015, pag. 17 Imporre la jihad ai palestinesi lo sfregio del Califfo al popolo martire GAD LERNER LA DECAPITAZIONE dell’imam Yahya Hourani, considerato la principale autorità religiosa del campo palestinese di Yarmuk, e la sua testa conficcata per spregio su un palo da parte dei miliziani jihadisti dell’Is e di Al Nusra, infrange l’ennesimo tabù. I seguaci del sedicente califfo Abu Bakr al Baghdadi, nella loro offensiva terroristica per la leadership sull’islam sunnita, sono disposti a calpestare anche la causa palestinese. Tabula rasa. I tagliagole conoscono perfettamente il valore simbolico di Yarmuk, trasformatosi lungo oltre mezzo secolo in una vera e propria città: di fatto la capitale della diaspora palestinese, suo centro culturale e terminale di una rete d’assistenza sociale egemonizzata da Hamas. 22 Dunque uno schiaffo in faccia ai Fratelli Musulmani, la galassia integralista che non si è lasciata annettere dal progetto dello Stato Islamico, evitando che l’onda nera dilagasse anche nella Striscia di Gaza. Così come l’Autorità Nazionale Palestinese è riuscita finora a reprimerne la diffusione in Cisgiordania. La brutalità omicida è l’unico linguaggio riconosciuto come efficace dai jihadisti: se i palestinesi non aderiscono spontaneamente al loro progetto di conquista del potere, viene demolita anche la loro funzione di popolosimbolo dei soprusi perpetrati in terra musulmana dagli occidentali. Più precisamente, l’ideologia premoderna del ritorno all’Età dei Califfi, salta a piè pari la vicenda novecentesca. Il popolo-martire non serve più a unire i musulmani, essendo ormai giunto il tempo apocalittico di una islamizzazione globale, la cui prima tappa è espugnare le grandi città della tradizione post-coranica: oggi Damasco, Aleppo, Bagdad; domani la Mecca, Istanbul e il Cairo. Alle quali si aggiungono come bottino necessario, Beirut e Damasco. Lo shock per l’occupazione jihadista di Yarmuk sarà grande anche nelle moschee dell’islam europeo, dove finora si è predicata la solidarietà attiva con il popolo palestinese come primo dovere di ogni buon fedele. Perfino riconoscendo legittimità religiosa agli attentati suicidi, purché insanguinassero la terra “occupata dall’entità sionista”. Impossessandosi del campo profughi di Yarmuk - con totale indifferenza per le sofferenze inflitte ai suoi abitanti, liquidati anch’essi come infedeli che non meritano di vivere - i jihadisti non esitano a ribaltare le priorità della guerra mediorientale. Lo stesso Israele diviene per loro un dettaglio secondario. Il mondo arabo che da oltre un secolo cerca la sua faticosa unità – dapprima col panarabismo di stampo nasseriano, poi con l’integralismo religioso - nella riconquista di Gerusalemme empiamente occupata, viene chiamato per prima cosa all’obbligo di assoggettarsi al Califfato. La distruzione di Israele e la causa dei palestinesi, vengono dopo. Con un salto all’indietro di nove secoli, il nemico da sopprimere ovunque tornano ad essere “i crociati e gli ebrei”. Cui si aggiungono gli eretici, primi fra tutti i musulmani sciiti, senza nessuna pietà per gli stessi sunniti che osano frapporsi al disegno oscurantista del Califfo. C’è, naturalmente, una buona dose di disinvoltura storica in questo salto all’indietro della storia. Poco importa ai seguaci di Al Baghdadi (Is) e Al Zawahiri (Al Qaeda) che gli ebrei, insieme ai cristiani bizantini, fossero anch’essi tra le vittime dei cavalieri crociati, nell’Undicesimo secolo: oggi viene comodo confonderli nella nozione indistinta di Occidente pagano, arrogandosi la missione di unico monoteismo legittimato a dare la morte per abbattere l’idolatria. Diviene così assai significativo che la conquista del campo profughi palestinese di Yarmuk sia un’altra azione congiunta sul campo dell’Is e di Al Nusra, finora organizzazioni jihadiste spesso concorrenti fra loro. Ciò che rende purtroppo credibile la loro prossima unificazione sotto il comando militare di Al Baghdadi, trapelata nei giorni scorsi. I due eserciti, forse prossimi a riunirsi sotto la bandiera nera, hanno già dimostrato in Siria di considerare almeno tatticamente prioritario il braccio di ferro con il regime di Assad, rispetto a un confronto diretto con l’esercito d’Israele. Lo conferma la prudenza con cui si sono mossi finora sull’altopiano del Golan, cioè al confine con lo Stato ebraico, nonostante quella regione sia da tempo sottoposta al loro controllo. I tagliagole avranno di certo calcolato di non essere attrezzati, per il momento, a uno scontro diretto con Tshaal. Circostanza che ha alimentato fantasiose teorie del complotto sul sostegno di cui i jihadisti avrebbero goduto da parte degli israeliani, come se questi ultimi fossero masochisti. Additare l’ombra del Mossad dietro l’Is resta così l’ultima formula autoassolutoria di un islam che non riesce a capacitarsi della proliferazione di un tale mostro crudele dal suo utero. Come è noto, il dilagare della guerra dalla Siria alla Mesopotamia ha già prodotto più di quattro milioni di profughi, venuti a sommarsi ai palestinesi che dal 1948 vivono senza diritti di cittadinanza riconosciuti in Libano, Siria, Giordania e a Gaza. 23 I campi di raccolta dei nuovi profughi non riescono a soccorrere adeguatamente una popolazione vittima di una vera e propria catastrofe umanitaria. La distruzione di Yarmuk, il campo profughi palestinese trasformatosi nei decenni in una vera e propria nuova città alle porte di Damasco, ci rammenta che le ferite del passato, mai curate, sono fonte di nuove infezioni devastanti. Per affrontare l’esodo palestinese, disseminato in ben 59 campi riconosciuti, le Nazioni Unite istituirono fin dal 1949 una apposita agenzia: l’Unrwa. Ma da almeno un decennio all’interno dei campi palestinesi si sono organizzate, grazie ai petrodollari del Golfo e alla propaganda salafita, pericolose fazioni qaediste come Fatah al Islam, che ne contendono con le armi la leadership all’Anp e a Hamas. È la peste jihadista che si propaga nella miseria della diaspora palestinese, dal campo di Nahr al Bared limitrofo a Tripoli di Libano, fino alla polveriera di Ain al Helwe nei pressi di Sidone. Campi che ospitano ciascuno più di centomila disperati, di fatto reclusi in balia delle fazioni in guerra tra loro. Anche Yarmuk, che si proponeva come capitale della diaspora palestinese, è stata oggetto di una contesa che vi ha visto dapprima prevalere il leader politico di Hamas, Khaled Meshaal, fuggito nel 2012 in Qatar essendo venuta meno, a causa della guerra civile siriana, la sua intesa con Assad. Ma non basta. L’altro leader del campo di Yarmuk, rimasto fedele a Assad, è Ahmed Jibril, fondatore del Fplp Comando Generale, organizzazione nemica dell’Is che di fatto ha circondato Yarmuk nel mentre veniva ridotta in macerie. Così adesso i diciottomila sopravvissuti in quell’inferno si trovano imprigionati fra due fuochi. E i palestinesi che volevano mantenersi neutrali dentro la guerra civile siriana, vengono trattati da traditori da entrambe le fazioni. La memoria inevitabilmente corre ad altri momenti storici in cui i campi palestinesi furono oggetto di violenze atroci, di cui spesso si resero colpevoli i confratelli arabi. Come nel 1970 in Giordania, dove il tristemente celebre Settembre Nero provocò fra i tre e i cinquemila morti ad opera delle truppe beduine di re Hussein di Giordania. E poi Tell Al Zaatar, nell’agosto 1976 in Libano, dove furono i siriani a uccidere circa duemila palestinesi. Fino a Sabra e Chatila, nel settembre 1982, dove i falangisti maroniti protetti dall’esercito israeliano sterminarono più di ottocento innocenti. Le cifre dell’odierna ecatombe siriana fanno impallidire le stragi del passato. E forse, più ancora delle crudeltà commesse a Yarmuk, il mondo è spaventato dalle bandiere nere giunte alla periferia di Damasco. Ma ancora una volta sono i palestinesi le vittime sacrificali di un passaggio storico che annuncia guerra totale. del 08/04/15, pag. 8 Yemen, i civili fra due fuochi L’Unicef: è strage di bambini Centomila i profughi, 540 vittime accertate e tra loro almeno 74 minori Aden occupata dai ribelli sciiti e bombardata dai sauditi è una “città fantasma” Centomila profughi, almeno 540 vittime, carenza di cibo, acqua e medicinali: la nuova emergenza umanitaria è nello Yemen teatro della guerra civile fra milizie pro-saudite e pro-iraniane. È l’Unicef a far sapere che «sono almeno centomila» le persone che hanno abbandonato case e proprietà a seguito dell’intervento militare panarabo, guidato dall’Arabia Saudita, per reinstaurare il governo del presidente Abdel Rabbo Mansur Hadi rovesciato dai ribelli houthi, ziadi assimilati agli sciiti, sostenuti da Teheran. «In gran parte i profughi sono donne e bambini» fa sapere Rajat Madhok, portavoce di Unicef, secondo il quale «i 24 profughi vengono da Al-Dhale, Abyan, Amran, Saada e Hajia» ovvero le aree dove i combattimenti sono più intensi. Il bilancio delle vittime L’Unicef, basandosi su informazioni in loco, aggiunge che fra le almeno 540 vittime «i bambini hanno pagato un prezzo alto» perché 74 sarebbero stati uccisi e 44 feriti dal 26 marzo, quando Riad ha iniziato l’intervento aereo a sostegno dei miliziani di Mansour Hadi. I comandi sauditi imputano il bilancio di vittime civili alla «scelta degli houthi di posizionare i centri militari in zone densamente popolate» seguendo l’esempio di quanto fatto da Hamas a Gaza la scorsa estate e dagli Hezbollah in Libano durante il conflitto del 2006. Il portavoce dei ribelli houthi, Mohammed al-Bukhaiti, respinge tali accuse, imputa agli «aggressori sauditi ed ai loro alleati» gli «attacchi ai civili» e lamenta una «situazione umanitaria in deterioramento a causa dell’esaurimento delle scorte di cibo e medicinali». Ciò è vero anzitutto ad Aden, dove i combattimenti sono più aspri, e nella capitale Sana’a dove la Croce Rossa Internazionale sta tentando invano da lunedì di fare atterrare due aerei cargo con aiuti umanitari. Un piccolo velivolo della Cri è riuscito ad arrivare ma da qual momento l’aeroporto è stato inagibile a causa dei raid aerei arabi e dei colpi dell’antiaerea degli houthi, che sono sostenuti dalle truppe dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh. «Ci troviamo di fronte ad un’emergenza umanitaria che accelera - afferma Sitara Jabeen, portavoce della Cri - perché il conflitto sta diventando più intenso, i civili ne sono le vittime ed è impossibile raggiungerli». Fra le preoccupazioni maggiori c’è l’interruzione della rete idrica, colpita negli scontri, che priva di acqua potabile vaste aree di Aden e Sana’a. «Aden è diventata una città fantasma - afferma Robert Ghosen, capo dell’unità della Cri per lo in Yemen - perché è stretta fra l’assedio degli houthi e i bombardamenti sauditi». Le testimonianze Testimonianze locali parlano di ospedali di Aden travolti da ondate di feriti che non riescono ad accogliere, con le ambulanze fermate da bande di armati che gettano in terra feriti e malati pur di impossessarsene. Per l’Organizzazione mondiale della sanità i feriti sarebbero «almeno duemila», le attività economiche «sono paralizzate» e le «strade sono inondate da rifiuti» innescando il timore di epidemie. Le Nazioni Unite intanto, con l’inviato Ashok Nigam, hanno ringraziato Riad per «il contributo all’evacuazione dallo Yemen» del personale dell’Onu, che contava oltre 100 persone.[M. MOL.] Dell’8/04/2015, pag. 16 Dalla Giordania all’Iraq: la rotta maledetta I camionisti che portano medicine e generi alimentari guadagnano anche 2.000 dollari a viaggio, ma rischiano la vita di Carlo Antonio Biscotto È forse la strada più pericolosa del mondo; ma dove c’è il pericolo ci sono anche i soldi”, dice un giovane camionista che si appresta a lasciare la Giordania per raggiungere, con un carico di generi alimentari e farmaci, gli iracheni che combattono i miliziani dell’Isis. Dozzine di camionisti attirati dalla possibilità di guadagnare forti somme di denaro affrontano periodicamente il “viaggio all’inferno”, come lo chiamano loro. Era già pericoloso in passato, ma da quando i combattenti dell’Isis hanno conquistato il nord e l’ovest dell’Iraq, questi uomini rischiano la vita dietro ogni curva. 25 Lungo la strada per Baghdad attraversano terre desolate dove è facile incontrare i miliziani o semplici criminali. Di tanto in tanto c’è un posto di blocco dei jihadisti costituito da un pick up o da un Hummer messo di traverso. La strada per Mosul – sostengono i camionisti – è ancora più pericolosa: solo miliziani jihadisti, oleodotti e niente altro. Sallah Ali Addin fa il camionista da 25 anni. Ha percorso queste strade all’epoca di Saddam, della ribellione sunnita, della rivolta dei combattenti di al Qaeda e ora dello Stato islamico. È pronto a giurare che non ha mai avuto la paura che ha adesso: “Ci sono le granate sparate dall’esercito iracheno, i bombardamenti aerei, le città assediate, i posti di blocco, le deviazioni, i banditi. Tutti vogliono una fetta del carico. Mentre viaggi sai che la tua vita è in mano ai jihadisti e alle milizie sciite”. Lungo il percorso uno dei pochi rifugi sicuri è la cittadina di Ruwaished, piena di officine e guarnigioni militari. È il posto ideale per riposarsi, far revisionare il camion e comprare benzina irachena al mercato nero. La cittadina è circondata dalla sabbia del deserto e dalle rocce di basalto. “Le incursioni aeree ci spaventano a morte – racconta Addin – gli aerei che bombardano la regione sono quelli della coalizione guidata dagli americani”. Apparentemente finora nessun camionista è stato rapito o ucciso, ma tutti conoscono la reputazione dei jihadisti. “Sono capacissimi di spararti a freddo, sul ciglio della strada”, dice Mahmoud. La strada che collega la Giordania all’Iraq era un tempo una importante via commerciale sulla quale transitavano merci per un miliardo di dollari l’anno. Ai tempi di Saddam Hussein ogni giorno circa 2.000 camion varcavano la frontiera. Dopo l’invasione americana il numero è sceso a 400 per crollare a circa 30 dopo la conquista da parte dell’Isis di Mosul e di una grossa fetta della provincia di Anbar. L’inasprirsi del conflitto ha fatto lievitare la domanda di merci giordane: importatori, grossisti, mercanti e persino privati cittadini ordinano migliaia di tonnellate di generi alimentari, farmaci, verdura e materiali da costruzione praticamente introvabili a Fallujah, Ramadi e Mosul. Per ragioni di sicurezza i camionisti si muovono sempre formando dei convogli. “Al momento sono le merci giordane a garantire la sopravvivenza dell’Iraq occidentale – dice Dawood del sindacato camionisti – dal canto nostro li avvertiamo dei pericoli, ma è tutta gente che ha bisogno di guadagnare”. Oltre al salario – tre volte superiore al normale – le società di spedizione offrono spesso premi in denaro e indennità di rischio. Chi ha un autocarro di proprietà può arrivare a guadagnare 2.000 dollari per ogni viaggio. “Certo, è pericoloso”, commenta Abdul Kareem Athamat, un giordano che ha da poco comprato un articolato Mercedes 1635. Il governo iracheno ha piazzato un unico avamposto in prossimità del confine giordano dove i funzionari ispezionano il carico e timbrano i passaporti. Superato il controllo i camion si avventurano nel territorio controllato dall’Isis i cui miliziani chiedono dai 200 ai 300 dollari a ogni camionista. “Dobbiamo pagare; non abbiamo scelta – racconta Mohammed Omar, uno dei veterani – ci dicono che è una tassa imposta dallo Stato islamico di cui tutti prima o poi faremo parte”. I miliziani forniscono una ricevuta con il timbro dell’Isis. Il commento di Mohammad Abu Bakar, proprietario di quattro camion e originario di Fallujah, è sconsolato: “La strada sembra tranquilla. Ma i miliziani possono sbucare fuori dal nulla. Però basta pagare. In fin dei conti, lavoriamo per chiunque abbia un’arma”. Dell’8/04/2015, pag. 9 Dall’Iraq alla Somalia, gli italiani al fronte 26 Il ministro degli Esteri Gentiloni e l’ipotesi di un intervento militare contro la minaccia estremista Il nostro Paese ha oltre 500 soldati già impegnati a Bagdad. In Libano la missione più esposta L’ipotesi di un’opzione militare contro il terrorismo di matrice islamica, svela un’Italia già impegnata su molti e diversi fronti difficili, basta analizzare il materiale in possesso delle commissioni Difesa della Camera e del Senato dopo la recente audizione del ministro della Difesa, Roberta Pinotti, che risale al 19 marzo scorso. Cominciamo dall’Iraq, dove l’Italia fa parte della coalizione militare multinazionale. Il nostro Paese schiererà complessivamente nei primi nove mesi di quest’anno 525 militari in media (ma potranno aumentare, nel caso di un’emergenza) quattro cacciabombardieri Tornado per la ricognizione con i relativi supporti logistici e tecnologici più un KC-767 da rifornimento in volo e diversi droni tipo Predator per la sorveglianza. Nessun mezzo aereo è dotato di armi offensive, il loro compito è raccogliere le informazioni per sorvegliare le aree più critiche e gli spostamenti dell’Isis, escludendo sorvoli sulla Siria. Tre i fronti: regione di Anbar, area di Tikrit quella di Kirkuk. Si sta anche pianificando l’invio di un contingente di carabinieri che supervisioneranno la costituzione di unità di polizia militare irachene che dovranno riportare la sicurezza nelle aree sottratte all’Isis. Somalia Il 24 febbraio è cominciata la Missione di addestramento italiana dei carabinieri, decisa con un accordo bilaterale italo-somalo. Circa 40 carabinieri, di stanza nella Repubblica di Gibuti, addestreranno 200 allievi somali e 40 gibutini. Sono carabinieri ultraspecializzati (Gis, Gruppo intervento speciale; paracadutisti del «Tuscania»; Ros, Raggruppamento operativo speciale; Racis, Raggruppamento carabinieri investigazioni scientifiche) che preparano forze speciali locali per il controllo del territorio, soprattutto dopo il tragico attacco dei terroristi somali di al Shebab al campus universitario keniota di Garissa. Tunisia Dopo l’attentato al Museo nazionale del Bardo a Tunisi del 18 marzo, è stata decisa l’operazione «Mare Sicuro» nelle acque di fronte alla Tunisia. E’ previsto l’impegno di un migliaio di militari italiani, lo schieramento di quattro navi tra cui unità dotate di attrezzature sanitarie ed elicotteri, droni del tipo Predator. Probabile la presenza di una nave da sbarco (classe San Marco o San Giusto), una o più fregate e cacciatorpedinieri. Non si tratta di un blocco navale ma di una missione operativa per proteggere le navi commerciali e sorvegliare comunque l’attività delle formazioni jiahdiste. Libano Continua la presenza del contingente a guida Onu dell’Unifil: 1.100 militari italiani impegnati in un’area (la regione meridionale del Paese) dove il pericolo di infiltrazione dell’Isis e di al Qaeda è elevatissimo. Il comando è affidato al generale Luciano Portolano. Est Europa Nel quadro della tensione tra Ucraina e Russia, la Nato è impegnata nella difesa dei Paesi partner dell’Ue e della Nato in generale. L’Italia contribuisce all’attività di polizia aerea con 7 aerei in Lituania, di cui 4 Eurofighter da difesa aerea. Tra gennaio e febbraio gli italiani hanno già realizzato 10 «interventi di intercettazione nei confronti di velivoli potenzialmente ostili» più altre operazioni legate alla difesa aerea, in tutto 150 ore di volo. Nei Balcani l’Italia è tuttora presente in Kosovo con 540 uomini nel contingente Nato KFor. E anche lì si temono infiltrazioni terroristiche. Afghanistan Il ministro Pinotti, nella sua audizione, ha confermato la conclusione della missione Nato a Herat. Fino ad agosto 2015 rimarranno circa 800 militari con 6-8 elicotteri tra Mangusta da attacco e NH-90 da trasporto. Poi il contingente residuo verrà collocato a Kabul. Paolo Conti 27 del 08/04/15, pag. 8 La sinistra turca contro «la gigantesca censura» Geraldina Colotti Ankara. Le autorità impongono a giornali e siti di ritirare le foto del sequestro del procuratore Una «censura gigantesca». Così la stampa indipendente turca definisce il blocco di Twitter, Facebook e Youtube e le minacce a Google provenienti dalla procura di Istanbul. La magistratura ha imposto a 170 siti di togliere la foto del procuratore Mehmet Selim Kiraz, rapito dal gruppo armato marxista-leninista Fronte rivoluzionario di liberazione del popolo (Dhkp-C). Il procuratore e i sequestratori sono stati uccisi dall’intervento delle squadre speciali. Prima di morire, i militanti del Dhkp-C avevano spiegato il loro gesto in un comunicato: chiedere giustizia per la morte di Berkin Elvan, il ragazzo ucciso durante le proteste di Gezi Park e su cui il procuratore indagava. La rivendicazione si concludeva con una frase sull’«amore verso il popolo», e subito sulle reti sociali, accanto all’immagine del sequestro si erano moltiplicate le scritte: «anche noi vi amiamo». Nei giorni seguenti, c’erano state altre azioni armate e dimostrative, finite con l’uccisione di un’altra giovane militante. Come di consueto, il regime islamista-conservatore di Recep Erdogan ha reagito con una dura repressione, che ha portato in carcere attivisti, sindacalisti e avvocati. Le tre reti sociali si sono piegate al diktat, hanno ritirato le immagini e hanno ripreso a funzionare dopo alcume ore. Durante il sequestro, l’organismo di controllo dell’audiovisivo ha proibito a tutte le televisioni del paese di trasmettere in diretta le immagini dell’evento. Uno dei principali gruppi editoriali del paese, Dogan, che pubblica anche Hurriyet e Posta è stato costretto a pubblicare scuse ufficiali sui siti internet e sulle pagine dei giornali, chiedendo venia per «il cattivo uso di una foto raffigurante i simboli di una organizzazione terrorista». Secondo Cumhuriyet, la Turchia di Erdogan ha imposto «il maggiore black-out delle reti sociali» mai avvenuto nel paese. Per Birgun, in vista delle cruciali elezioni politiche del 7 giugno, il paese si sta avviando verso «il caos e la censura» in una «democrazia dimezzata: una «gigantesca censura», titola Yurt, mentre Taraf rileva che Erdogan ha mantenuto la promessa di «stroncare twitter». Sette quotidiani turchi, critici con il governo islamico, che avevano pubblicato la foto del pm sono stati incriminati per supposta «propaganda per un gruppo terroristico». Che il blitz delle forze speciali abbia provocato anche la morte del pm, è un’ipotesi avanzata da più parti. I risultati dell’autopsia non sono stati resi pubblici. Il capo dell’opposizione Kemal Kilicdaroglu ha chiesto vengano comunicati al paese. La Turchia di Erdogan è chiamata in causa per aver agevolato il corso dell’Isis. Diverse organizzazioni per i diritti umani lo denunciano dal 2013. Giovedì scorso, il ministro degli Esteri tunisino, Taieb Baccouche ha indetto una conferenza stampa per chiedere alle autorità di Ankara di impedire il passaggio sul loro territorio dei giovani tunisini che vanno ad accrescere le fila del Califfato in Siria «o che ritornano dalla Turchia, verso la Libia e poi clandestinamente verso la Tunisia». Non è però contro i tagliagole che Ankara ritiene di dover reagire con pugno di ferro. Ben più pericolose appaiono al governo Erdogan quelle sinistre, divise o diffuse, che potrebbero catalizzare altrimenti lo scontento sociale: da quelle che hanno manifestato a Gezi Park, a quelle che occupano le fabbriche come la Kazova, ai gruppi marxisti messi fuorilegge, e che hanno pagato con centinaia di morti lo 28 sciopero della fame durato sette anni. Il governo offre 3 milioni di dollari a chiunque fornisca informazioni sui ricercati. Una messa al bando che serve per montare operazioni poliziesche con l’Europa come quella che, a Mestre, ha portato in carcere un cittadino turco in vacanza con la famiglia. E intanto l’Isis avanza. del 08/04/15, pag. 16 «Eravamo con Shaimaa» Giuseppe Acconcia IL CAIRO Egitto. Reportage dal Cairo dove i compagni di partito di Shaimaa alSabbagh, la giovane militante e poetessa comunista uccisa dalla polizia egiziana in piazza Talaat Harb il 24 gennaio scorso, raccontano le ultime ore dell’attivista e gli attacchi della polizia alla sede dell’Alleanza socialista (i comunisti egiziani). E parlano degli ultimi spiragli di libertà in attesa di nuova repressione. Mentre i Fratelli musulmani diventano i capri espiatori di ogni malefatta degli agenti Lungo via Talaat Harb sono sparite le bancarelle dei venditori ambulanti che dopo le rivolte affollavano il centro del Cairo. Le facciate dei palazzi dei primi del Novecento, in stile belga come li chiamano da queste parti, sono state ridipinte insieme ai palazzi di piazza Tahrir. La conferenza economica di Sharm el-Sheikh, sebbene sia un fiasco senza precedenti perché riproduce lo stesso schema che ha causato la fine del regime di Mubarak di azzeramento della spesa pubblica per attrarre finanziamenti del Fondo monetario internazionale e investimenti internazionali, sembra piacere non poco a quegli egiziani che si riconoscono nel nuovo nazionalismo poliziesco militare, incarnato dal presidente Abdel Fattah al-Sisi. In questa fase però ancora qualcosa è permesso, mentre dietro le quinte si consuma la più segreta e acerrima battaglia di potere del dopo rivolte tra polizia, militari e islamisti, culminata nella scarcerazione di Mubarak, dei suoi figli e dell’ex ministro dell’Interno, Habib el-Adli, così come del benservito al sanguinario Mohamed Ibrahim, il suo successore e responsabile della strage di Rabaa el-Adaweya, licenziato ed espulso dal paese in fretta e furia, prima che le autorità annunciassero la cancellazione delle parlamentari. Sisi, la democrazia può attendere «Non è tempo per la democrazia», ha assicurato al-Sisi, da molti considerato un (pessimo) riformatore dell’islamismo politico a forza di repressione brutale di tutti, dai moderati ai radicali, In nome della stabilità in Egitto ha rimosso i vertici dell’Intelligence militare, dato il via agli attacchi in Libia e Yemen e appoggiato Israele nell’operazione «Margine protettivo». E così le prossime liste elettorali, se mai ci saranno, saranno forse piene degli scagnozzi del partito di Mubarak. «È pronto un esercito di baltageya (criminali, n.d.r.)», ci spiega Mustafa, attivista dei Fratelli musulmani. Secondo lui, in seguito alla repressione (inclusa l’esecuzione della pena capitale contro l’attivista della Fratellanza, Mohamed Ramadan), stanno per essere chiusi i rubinetti del movimento e questo cambierebbe non poco le cose per la tenuta del regime. Ogni crimine che viene commesso sembra responsabilità esclusiva della Fratellanza, come nel caso dei 22 ultras dello Zamalek (i White Knights), uccisi alle porte dello Stadio 29 del Cairo dalla polizia lo scorso febbraio. Secondo gli inquirenti anche quella strage sarebbe responsabilità della Fratellanza. In verità si punta il dito contro ambienti salafiti legati agli squadroni armati Harar, nati nel 2013 con il via libera del leader salafita Hazem Abu Ismail con il nome di Hazimun, come gruppo moralizzatore, e che avrebbero partecipato anche al sit-in islamista di Rabaa alAdaweya. Gli Hazimun si ritirarono dagli scontri di via Mohamed Mahmud nel novembre 2011 al primo richiamo della Fratellanza, lasciando al loro destino i giovani dei movimenti. Nostalgia di Nasser Ma il revival nasserista si percepisce davvero al Cairo, non solo per le campagne yemenite che rinverdiscono il vecchio nazionalismo di Gamal Abdel Nasser ma anche per un clima politico-culturale che si respira per le vie del Cairo. La birreria Lotus ospita i nostalgici dell’antico idillio tra Egitto ed Unione Sovietica che ogni sera si attardano sui piccoli terrazzi di questo antico albergo parlando di politica, criticando sia gli islamisti sia i militari golpisti. «Mi hanno appena telefonato per comunicarmi che non possiamo andare oltre le undici di sera», ci spiega concitato lo scrittore e attivista comunista del partito Tahaluf al-Shaabi alIshtiraki (Alleanza socialista), Sonallah Ibrahim. Da giorni, giovani e intellettuali si incontrano nelle stanze della sua casa editrice a due passi dalla Borsa del Cairo per leggere poesie e per parlare di politica, intrattenendosi fino a tarda notte. L’ultima occasione è stato il ricordo di Shaimaa al-Sabbagh, la giovane attivista comunista uccisa in piazza Talaat Harb il 24 gennaio scorso, perché dopo la sua uccisione è stata pubblicata ad Alessandria una raccolta di sue poesie; l’iniziativa è stata promossa dal candidato alle presidenziali del 2014, il sindacalista Hamdin Sabbahi. Proprio l’Alleanza socialista e il partito liberale Dostur che fu di Mohammed el-Baradei, ora in esilio in Austria, stanno preparando una lista elettorale unitaria per le parlamentari, rinviate sine die, che però difficilmente potrà raggiungere il 10%, ottenuto dal Blocco (Kutla) alle politiche del 2011. Shaimaa ormai è un simbolo fortissimo per il movimento, una donna di sinistra che per anni motiverà le lotte e le rivendicazioni dei comunisti egiziani, paragonabile alla forza evocativa di Khaled Said, il giovane ucciso dalla polizia nel 2010 che ha motivato le proteste ad Alessandria e in tutto l’Egitto. Eppure il processo in corso contro i responsbaili della morte di Shaimaa è pieno di lacune. L’ufficiale delle Forze di sicurezza centrali, Yassin el-Imam, non viene arrestato ed è incriminato solo per aver «percosso a morte» Shaimaa e non per omicidio. «Era troppo magra» Nella perizia medica le cause della morte sono addirittura addossate a Shaimaa: «era troppo magra» per essere morta a causa di proiettili di gomma, si legge con orrore. La sede del suo partito, l’Alleanza socialista, ad Alessandria è stata presa d’assalto dalla polizia. «La polizia è arrivata alle due di notte del 12 marzo alla sede del partito in via Saad Zaghlul. Hanno sfondato la porta e non sapevamo cosa fare. Ci hanno arrestati e interrogati per ore», ci spiegano Hussam, Mustafa ed altri amici e compagni di Shaimaa. «Eravamo con lei al Cairo il 24 gennaio, siamo partiti in treno da Alessandria», ci raccontano questi giovani attivisti. «Gridavamo i canti rivoluzionari, abbiamo attraversato Hoda Sharaawi, siamo arrivati a piazza Talaat Harb, nel mezzo della piazza abbiamo incontrato un altro gruppo di manifestanti – continuano — C’erano sette poliziotti: alcuni in borghese. «Hanno sparato senza motivo» Hanno sparato senza motivo mentre il segretario del partito, Ahmed Fahmy, chiedeva alla polizia se due o tre di noi potessero andare in piazza Tahrir per protare una rosa». I due 30 giovani erano al fianco di Shaimaa quando è stata uccisa. «La tenevamo per mano a destra e sinistra, in quel momento ci hanno sparato. Mi hanno ferito», spiega Hussama. A quel punto Mustafa, come si vede nella nota foto della morte di Shaimaa, l’ha presa tra le braccia, perché era il più vicino a lei. Questi giovani hanno partecipato a tanti scioperi con Shaimaa, attivista anche tra i lavoratori e con il sindacato. «Mi ricordo di un lungo sciopero al quale ho partecipato con lei, un mese prima che venisse uccisa» dice Husama, «una volta è rimasta finché i lavoratori non ottennero le loro richieste, tornava in fabbrica tutti i giorni, informava i lavoratori dei loro diritti, mentre i militari mandavano messaggi minatori ai lavoratori e non ci lasciavano protestare con loro», racconta. «È la nostra lotta quotidiana. Ora siamo deboli ma le cose cambieranno», commenta Mahiennur el-Masry, anche lei attivista comunista in prigione per sei mesi lo scorso anno. Anche il festival D-Caf interpreta questo finto ritorno al nasserismo. «C’è un’altra via oltre il capitalismo», ci assicurano i registi de «A micro history of world economy» di Pascal Rambert e Rami Sami. «Nel testo si cerca di capire perché c’è stata la crisi economica del 2008, noi lo abbiamo semplificato e adattato alle esigenze egiziane usando sia attori professionisti sia persone comuni che hanno preso parte a workshop preparatori», ha aggiunto Hani. E poi al minuscolo cinema Zawya non mancano proiezioni di documentari davvero interessanti come «Garbage dream» di Mai Iskander, «Scent of Revolution» di Viola Shafik, «Electro Shaabi» di Hind Mehddeb e «On boys girls and the veil» di Yusry Nassrallah. Dell’8/04/2015, pag. 24 Bruxelles contro Atene “Sbagliate le vostre riforme” Nuova lite sui danni di guerra I ministri greci presentano il conto a Berlino: 278 miliardi di euro Immediata replica tedesca: “È solo una richiesta stupida” Tornano a rullare i tamburi di guerra tra Grecia e i creditori. «La proposte di riforme fatte finora da Atene vanno nella direzione sbagliata», hanno detto all’ Ansa fonti vicine alle trattative a Bruxelles, gelando gli ottimisti che speravano in un’intesa entro la prossima settimana. Affondo cui il governo Tsipras ha risposto a stretto giro di posta presentando a Berlino il conto finale per i danni della seconda guerra mondiale: «Abbiamo messo assieme tutte le fonti ufficiali disponibili e possiamo dare la cifra esatta — ha detto in tono ragioneristico il viceministro alle Finanze Dimitris Mardas—. La Germania ci deve 278,2 miliardi di euro». Poco più di 10 miliardi sono i debiti legati al prestito forzoso imposto dal Terzo Reich alla Banca di Grecia. Il resto sono la parcella per le distruzioni alle infrastrutture e i rimborsi alle vittime degli eccidi nazisti. «Abbiamo prove schiaccianti per pretendere il rimborso», ha detto battagliero il ministro alla difesa Panos Kammenos. La richiesta di pagamento è stata rispedita al mittente dalla Germania, che considera il capitolo chiuso dagli accordi del ‘90: «È un dibattito stupido — ha liquidato la questione il vicecancelliere Sigmar Gabriel — che non fa fare un passo avanti di un millimetro ai negoziati per salvare la Grecia». La partita per tenere Atene nell’euro si avvicina dunque tra le polemiche alle battute finali. Il tempo è ormai esaurito. Atene punta a un accordo all’Eurogruppo del 24 aprile a Riga che consenta di sbloccare un po’ di finanziamenti. In assenza di intese e (soprattutto) di iniezioni di liquidità la situazione rischierebbe di avvitarsi in tempi brevissimi visto che il governo Tsipras deve raccogliere entro fine mese 1,5 miliardi per pagare stipendi e pensioni e subito dopo è atteso da un altro paio di 31 scadenze di prestiti del Fondo Monetario. La freddezza di Bruxelles di queste ore si spiega in buona parte con la difficoltà con cui starebbero procedendo i negoziati tecnici nella capitale ellenica. Bce, Ue e Fmi pretendono che la Grecia presenti un piano di riforme omnicomprensivo, dettagliato fino all’ultimo centesimo, in cui siano presenti interventi per ridurre il costo del lavoro e pensioni e dove le leggi umanitarie promesse da Syriza possono starci solo se a costo zero. Compensate cioè da nuove entrate o altri tagli. Tsipras — almeno per ora — non sembra destinato a fare concessioni oltre le «linee rosse» che non può superare. Pena una frattura all’interno del suo partito. Non solo. Mentre i negoziati non decollano, il governo accelera sui provvedimenti anticrisi come l’aumento dello stipendio minimo che potrebbe arrivare a brevissimo in Parlamento. Atene è convinta che alla fine si troverà la quadra perché la Ue non può permettersi un’uscita della Grecia dall’euro. E pensa a elezioni anticipate o referendum in caso di impasse. I falchi del rigore sono invece certi che la Grexit oggi sia gestibile senza effetto-domino. Una prova di forza che rischia tra poche settimane di precipitare il vecchio continente di nuovo nel caos. Dell’8/04/2015, pag. 25 Tsipras da Putin, sfida su gas e sanzioni a Usa e Ue ETTORE LIVINI MILANO . Atene bussa. Mosca (forse) risponde. Alexis Tsipras incontra oggi al Cremlino Vladimir Putin in un appuntamento che Europa e Stati Uniti seguono con il fiato sospeso. «Non chiederemo alcun prestito alla Russia», ha messo le mani avanti il ministro alle finanze Yanis Varoufakis. Le sue rassicurazioni non sono bastate però a placare i sospetti delle cancellerie occidentali dove l’ultima intervista del premier ellenico alla Tass – «le sanzioni per l’Ucraina sono una strada che non porta da nessuna parte », ha detto – hanno fatto drizzare le antenne a Washington e Bruxelles. «Sarebbe inaccettabile se la Grecia mettesse a repentaglio la politica comune della Ue», ha detto senza giri di parole il presidente dell’Europarlamento Martin Schulz. Cosa può ottenere allora il governo ellenico dal summit di oggi? Soldi, quello di cui c’è più bisogno sotto il Partenone, è difficile. «Se la Grecia ci chiederà aiuto finanziario, valuteremo », ha promesso dopo la vittoria di Syriza alle elezioni il ministro delle finanze Anton Siluanov. Peccato che di quattrini in cassa ce ne siano pochi anche sulle rive della Moscova. Il Pil russo calerà quest’anno del 4% e Putin (che pure ha prestato 2 miliardi alla Bielorussia e 200 milioni all’Armenia) non è in grado di farsi carico dei 240 miliardi di prestiti con cui la ex Troika ha puntellato i conti di Atene. Sul tavolo dei negoziati, invece, finiranno con ogni probabilità gas, kiwi e fragole. Il Cremlino potrebbe garantire ad Atene uno sconto sulle forniture di energia. Il 70% del fabbisogno ellenico è garantito dalle importazioni dalla Russia. La Depa, il colosso pubblico degli idrocarburi, ha già ottenuto quest’anno un sconto del 15% da Gazprom. Mosca può dare un’altra sforbiciata al prezzo in cambio dell’ok di Tsipras al gasdotto Turkish Stream, ad alcune licenze per la ricerca di giacimenti a sud di Creta e nello Ionio e a un sostegno (leggi veto) se l’Europa vorrà appesantire le sanzioni alla Russia. La Grecia punta pure a far saltare le sanzioni contro i prodotti agricoli nazionali imposte come ritorsione dopo quelle della Ue per la crisi Ucraina. Il 40% delle esportazioni greche di frutta e verdura viaggiava verso est. Accordi minori, dunque. Non sufficienti però a far 32 abbassare la guardia alle diplomazie occidentali che temono la creazione di un asse preferenziale tra Atene e Mosca in grado di sconvolgere gli equilibri geopolitici nel Mediterraneo. Barack Obama, non a caso, si è speso più volte in prima persona chiedendo a Bruxelles di dare un po’ di respiro alla Grecia. Tsipras, questo è certo, si muoverà per ora con prudenza. Forzare la mano adesso potrebbe essere un boomerang: la possibile intesa con Bce, Ue e Fmi dovrà andare al voto dei paesi baltici. Che di fronte a una luna di miele di Syriza con la Russia ben difficilmente darebbero il via libera. Dell’8/04/2015, pag. 14 Altro che Grecia, l’Ucraina sta fallendo Mentre si parla della crisi greca, poca attenzione viene dedicata all’economia ucraina che per molti aspetti è in una situazione molto più grave. Il 17 marzo, il ministro delle Finanze ucraino Natalie Yalesko, in una conferenza negli Stati Uniti, ha dichiarato che, nonostante il nuovo prestito di 17,5 miliardi di dollari da parte del Fondo monetario internazionale, la situazione del Paese rimane gravissima. Il governo e la presidenza devono “stabilizzare l’economia, riformare il Paese, combattere la corruzione, migliorare la trasparenza dell’attività pubblica, l’applicazione delle leggi, creare le condizioni per ritornare alla crescita economica e alla prosperità”. Le cifre fornite dall’ufficio centrale di statistica ucraino sottolineano quanto grave sia la situazione: l’anno scorso il reddito nazionale è caduto del 6,8% e un ulteriore calo del 12% è previsto per il 2015. L’inflazione è al 35% su base annua, il deficit di bilancio al 10,3%, le riserve ammontano ad appena 5 miliardi di dollari e la moneta ucraina si è svalutata del 70% in un anno. Il tasso di sconto è stato innalzato al 30%, ma il deflusso dei capitali continua nonostante le misure prese dalla banca centrale. L’agenzia di rating Moody’s ha declassato il debito ucraino al penultimo livello del merito di credito, praticamente affermando che l’Ucraina è in uno stato di default. L’Ucraina occupa il 142° posto su 175 nella classifica stilata da Transparency International e quindi risulta come una delle economie più corrotte del mondo. Il primo ministro Yatseniuk ha affermato che la corruzione costa allo Stato ucraino 10 miliardi di dollari all’anno. Il sistema bancario ucraino praticamente non funziona; a parte il livello dei saggi di interesse, esperti del settore stimano che i prestiti rischiosi e non-performing siano fra un terzo e una metà degli attivi del sistema. Dall’inizio della guerra sono fallite 40 banche, mentre l’altra settimana è fallita la Delta Bank, la quarta banca del Paese. L’Ucraina viene ormai percepita come uno Stato in fallimento, che non riesce più a svolgere i suoi compiti istituzionali. Non riesce a proteggere i suoi confini, le decisioni economiche e politiche che vengono prese con molte difficoltà dal governo centrale e trasmesse alla periferia che spesso non le osserva, essendo governata da oligarchi. Il caso più eclatante è quello della regione di Dniepropetrosk dominata da Kolomoyski che fino a pochi giorni fa ne era il governatore. Kolomoisky controlla non solo Dniepropetrosk ma anche Odessa attraverso un suo affiliato. Lo scontro fra Poroshenko e Kolomoiski, estromesso dal presidente dal governatorato di Dniepropetrosk e privato del controllo di una grande impresa energetica, ha causato come reazione l’occupazione della sede dell’impresa da parte di truppe del battaglione Dnipro, finanziato proprio da Kolomoisky. Un altro oligarca, Akmetov, controlla parte del Donbass. Kiev legifera in un contesto quasi semifeudale in cui esistono milizie armate private, un debole esercito centrale, una magistratura poco indipendente. 33 In marzo il Fondo Monetario ha approvato un extended fund facility per 17,5 miliardi di dollari che potrà raggiungere i 40 miliardi di dollari in quattro anni. È il decimo programma che il Fmi ha lanciato per l’Ucraina dal 1994, nessuno è mai stato portato a termine. Prevede misure molto dure sul piano fiscale che peggioreranno il tenore di vita dei cittadini ucraini con un aumento dei prezzi dell’energia e una netta diminuzione delle pensioni. L’aiuto è condizionato al fatto che l’Ucraina raggiunga un accordo con i debitori e tagli il debito da 18 a 3 miliardi di dollari, con una più che sostanziale perdita per gli investitori. Questo implica un accordo con la Russia che ha prestato 3 miliardi di dollari allo Stato ucraino. La situazione è talmente drammatica che viene da chiedersi se l’Ucraina possa continuare a esistere come Stato sovrano unitario. A Kiev non esiste una classe dirigente capace di portare il Paese fuori dalla tragica situazione in cui si trova. Al di là dei presidenti e dei governi che si sono succeduti dal 1991 a oggi, la classe dirigente ha evidentemente fallito nel costruire un’economia e uno Stato funzionante. Non è un caso che tre ministri dell’attuale governo siano stranieri e che a essi sia stata data dal presidente Poroshenko in una mattina, con procedura eccezionale, la cittadinanza ucraina. Requisito indispensabile per una possibile, ancorché difficile soluzione è che l’attuale classe dirigente accetti la tutela di chi contribuirà al risanamento del Paese: Europa e Russia. Questo può avvenire soltanto senza l’adesione dell’Ucraina al blocco occidentale e alla Nato, con una sorta di finladizzazione del Paese, e con un esplicito accordo fra Mosca e Bruxelles che comporti notevoli aiuti finanziari. Se non sarà possibile, è molto difficile che l’Ucraina conservi la sua integrità territoriale. Con conseguenze imprevedibili per tutta l’Europa. * professore di Politica economica all’Università di Modena e Reggio Emilia del 08/04/15, pag. 10 Tangenti, crisi, favelas in fiamme Il Brasile di Dilma scivola a destra Presidente in affanno, il Parlamento le sfugge di mano e vuole il carcere per i minorenni Emiliano Guanella Un video di una manciata di secondi ha fatto rapidamente il giro delle reti sociali scuotendo il Brasile in un momento di forte conflitto sociale e di rinascita dell’ala più conservatrice della popolazione. Nel filmato si vede tutta la disperazione di Terezina Moraes, la madre di Eduardo de Jesus Ferreira, un bambino di 10 anni ucciso da un colpo di pistola in piena fronte sparato, secondo almeno due testimoni, da un poliziotto che partecipava ad una grossa operazione anti-droga nelle favelas del complesso dell’Alemao, nella periferia Nord di Rio de Janeiro. Il bambino ucciso Eduardo era appena tornato da scuola e si trovava sulla porta di casa, con il quaderno dei compiti in mano. Freddato per errore o per negligenza, le autorità hanno aperto un’inchiesta contro gli agenti, il suo caso è l’ultimo simbolo della violenza che pervade le periferie delle grandi metropoli brasiliane, proprio quando in Parlamento si sta discutendo la riduzione dell’imputabilità dai 18 ai 16 anni. Si tratta di un vecchio cavallo di battaglia della destra, che ora ha trovato un consenso tra parlamentari di diversi partiti, nonostante l’opposizione della presidente Dilma Rousseff. Oggi solo i maggiorenni possano finire in carcere, mentre i ragazzi dai 12 ai 18 anni 34 vengono destinati ad istituti correzionali. A guidare la riforma è lo stesso presidente della Camera Eduardo Cunha, teoricamente alleato della Rousseff, ma che da mesi si comporta come un primo ministro in pectore, con una grande capacità di dialogare e trovare accordi con l’opposizione che mettono spesso in minoranza quel governo che, sulla carta, dovrebbe appoggiare. Conservatore, evangelico convinto, profondamente contrario al matrimonio fra le persone dello stesso sesso o a una parziale depenalizzazione dell’aborto, Cunha è diventato una vera spina nel fianco della presidente, la cui popolarità è scesa molto negli ultimi mesi. Alleanze troppo fragili Rieletta ad ottobre al termine di un ballottaggio molto disputato, Rousseff soffre le ripercussioni del maxi scandalo di corruzione dell’impresa petrolifera pubblica Petrobras e si trova ad affrontare una crisi economica che ormai nessuno può più negare. La sua maggioranza si appoggia in parlamento su un’alleanza fin troppo eterogenea di dodici partiti, dove il Pmdb di Eduardo Cunha la fa da padrone, dettando spesso l’agenda politica. Il Brasile vive così il paradosso di una strana «coabitazione»; governato da un centrosinistra sempre più debole, scivola tra il Parlamento e la piazza verso destra. Domenica prossima si terrà la seconda giornata di mobilitazione nazionale contro la corruzione e contro il governo. Un mese fa scesero complessivamente in piazza più di un milione di persone, con una serie di parole d’ordine che andava dall’inasprimento delle pene per i politici corrotti, alla richiesta di impeachment per la stessa Dilma a causa dell’affaire Petrobras, alla convocazione di una nuova assemblea costituente. Alcuni gruppi minori chiedevano addirittura l’intervento delle forze armate, un «golpe bianco» per cacciare via tutta la classe politica. La riforma «punitiva» La mano dura contro la delinquenza, anche nei casi di minorenni è una delle rivendicazioni più diffuse. Diverse ong hanno ricordato che, secondo l’Unicef, soltanto il 3% dei delitti commessi sono ad opera di minori d’età, mettendo in guardia sui rischi di un ulteriore allargamento della popolazione carceraria, considerando che le prigioni sono spesso delle vere scuole del crimine. «Invece di ridurre l’imputabilità – spiega Ariel de Castro Alves dell’Università di San Paolo – dovremmo ripensare interamente il nostro sistema punitivo, che oggi presenta più del 60% di recidività gli ex reclusi adulti e solo il 15% fra i minorenni provenienti dagli istituti». Mentre Dilma Roussef esprimeva le sue condoglianze ai famigliari del piccolo Eduardo, il suo scomodo alter ego politico ha ribadito la necessità della riforma costituzionale. «Il narcotraffico – ha detto Cunha - usa i minori perché sa che non possono andare in carcere. Cambiare la legge sull’età penale è un passo fondamentale per salvare dalle barbarie il nostro Paese». del 08/04/15, pag. 15 IL DISGELO AVANZA. ?DOPO LA SVOLTA DEL 17 DICEMBRE LA CNN ANTICIPA UN’ALTRA DECISIONE STORICA: «NEI PROSSIMI GIORNI L’ANNUNCIO DELLA CASA BIANCA» Usa pronti a togliere Cuba dalla lista nera Trasformazioni in corso. A L’Avana “El enemigo” (il nemico americano) si è trasformato nel “Pais vecino”. A Washington il Paese nella black list (Cuba) si è trasformato nel partner economico con cui fare affari. 35 Ieri, un’altra svolta storica. Cuba verrà cancellata, entro un paio di giorni, dalla “lista nera” degli Stati sponsor del terrorismo. L’annuncio della cancellazione dal famigerato elenco arriva dalla Cnn, che cita fonti dell’amministrazione Obama. La “lista nera” è un elenco stilato dagli Stati Uniti che ha condizionato la politica estera di gran parte dei Paesi europei e mediorientali, direttamente o indirettamente sconsigliati a intrattenere rapporti con i politici dell’isola tropicale. Il disgelo avanza: nel negoziato tra Cuba e Stati Uniti si registra quindi un passo avanti sostanziale. Il dialogo tra L’Avana e Washington, iniziato lo scorso 17 dicembre, procede rapidamente: lo storico annuncio, contestuale, di Barack Obama e Raul Castro è stato il prodromo di una serie di provvedimenti “distensivi”: meno restrizioni alle rimesse dall’estero, maggior numero di visti per l’espatrio, collaborazione nel settore delle telecomunicazioni. La cancellazione di Cuba dalla lista degli Sati sponsor del terrorismo avverrà alla vigilia dell’atteso primo incontro tra i due leader previsto il 10 aprile a Panama a margine del Summit dell’Organizzazione degli Stati Americani (Osa). Se il presidente americano accetterà la richiesta del Dipartimento di Stato, come è prevedibile, il Congresso avrà 45 giorni di tempo per approvare la decisione. Obama avrà una “interazione” con il presidente cubano Raul Castro, anche se la Casa Bianca non ha ancora definito la tipologia dell’incontro. L’iscrizione di Cuba nella lista nera dei Paesi che sponsorizzano il terrorismo è stata finora uno dei maggiori ostacoli alla riapertura dell’Ambasciata americana a L’Avana e di quella cubana a Washington. I titolari delle microimprese private nate a Cuba con le riforme economiche lanciate da Raul Castro – i cosiddetti “cuentapropistas”, che hanno raggiunto ormai il mezzo milione potranno avvalersi di un nuovo giornale, a colori, contenente annunci commerciali. Le aperture economiche, per la prima volta da decenni, seguono un ritmo sostenuto. E, contrariamente al passato, pare non vi sia una linea sincopata, caratterizzata da annunci e successive “marce indietro”. La Agenzia di Informazione Nazionale (Ain), organismo statale che pubblicherà la nuova rivista, ha annunciato che verranno stampate 60mila copie della testata, «dedicata ai nuovi attori economici, i lavoratori autonomi e le cooperative». Oltre agli annunci dei “cuentapropistas”, la rivista includerà «consigli, orientamenti e suggerimenti utili per chi vuole fare affari nell’isola», si legge in un comunicato dell’Ain, nel quale si specifica che la testata «avrà un prezzo molto competitivo rispetto alle altre pubblicazioni nel paese». Nel giorno dell’annuncio-upgrading, la Corte suprema americana ha respinto il ricorso di Alan Gross, il contractor statunitense che trascorse cinque anni in un carcere cubano per reati di spionaggio. Gross aveva accusato il governo americano di negligenza e chiesto un risarcimento di 60 milioni di dollari. L’Alta corte ha confermato la sentenza di un tribunale di Washington DC. Gross, che era stato accusato di aver distribuito pc clandestinamente nell’isola, era stato condannato dall’Avana a 15 anni di carcere ma é stato rilasciato il 17 dicembre scorso, lo stesso giorno in cui Cuba e Usa annunciarono la ripresa delle relazioni diplomatiche reciproche. 36 del 08/04/15, pag. 8 130 personalità statunitensi contro le sanzioni Geraldina Colotti Usa-Venezuela. Da Noam Chomsky a Ramsey Park, un appello per chiedere a Obama di ritirare il decreto contro Caracas Mentre le firme per chiedere a Obama di togliere le sanzioni al Venezuela hanno oltrepassato gli otto milioni, un gruppo di 130 personalità pubbliche statunitensi, riconosciute a livello mondiale, ha unito il proprio «no» al decreto. Intellettuali come Noam Chomsky, attivisti, avvocati, difensori per i diritti umani e anche l’ex ministro della Giustizia Usa, Ramsey Clark, hanno invitato il presidente degli Stati uniti ad annullare il decreto con il quale, il 9 marzo, ha definito il Venezuela «una minaccia straordinaria per la sicurezza nazionale». Nel loro appello, chiedono a Obama di smetterla «di interferire nei processi democratici mediante finanziamenti o dichiarazioni pubbliche imprudenti», e soprattutto, lo invitano a «dimostrare ai nostri vicini latinoamericani che gli Stati uniti possono avere relazioni di pieno rispetto della sovranità dei loro paesi». I firmatari ricordano il fallimento del blocco economico contro Cuba, che per anni ha «isolato gli Stati uniti dal resto dell’emisfero e dal mondo», giacché «per 23 anni di seguito, l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha votato per condannare il blocco». In questo contesto — ricorda ancora l’appello — l’Onu «ha invitato gli Stati uniti ad astenersi dal promulgare ed applicare leggi e dispositivi che violino la sovranità degli altri stati, gli interessi legittimi di entità o persone sotto sua giurisdizione e la libertà di commercio e navigazione». Le personalità ricordano anche il pronunciamento contro il decreto di paesi alleati di Washington come la Colombia e anche di parte dell’opposizione venezuelana. Rilevano l’assurdità di considerare il Venezuela una minaccia, poiché non ha mai aggredito nessuno, e denunciano l’intenzione degli Usa di «intensificare l’attività per un cambiamento di governo a Caracas». Al contrario, un gruppo di 19 ex presidenti di destra cerca di rigirare la frittata e denuncia una presunta «alterazione democratica» nel Venezuela di Nicolas Maduro. E lancia un appello «per la costruzione di un’alternativa». Intanto, in vista del VII Vertice delle Americhe, che si terrà a Panama il 10 e 11 aprile, la delegazione cubana ha presentato una Dichiarazione di principi per mettere in chiaro le condizioni del suo rientro nel vertice, dopo anni di esclusione. Cuba ritiene «inammissibile che a Panama vi siano mercenari pagati dalla Usaid», l’Agenzia Usa per lo sviluppo internazionale. Il governo cubano ha espresso a più riprese appoggio al Venezuela e respinto il decreto Obama. A Panama, nonostante gli Usa abbiamo dichiarato che cercheranno di non centrare il vertice sulla questione, i contrasti con il Venezuela saranno al centro del summit. Gli anticastristi e l’opposizione venezuelana stanno preparando il loro show, ma è previsto anche, in parallelo, il vertice dei movimenti sociali. 37 INTERNI Dell’8/04/2015, pag. 12 Italicum, l’ultimo appello dei dissidenti pd al premier “Meno nominati o è rottura” Documento di Area riformista, la corrente dei pontieri Tra i 70 firmatari il ministro Martina. Bersani non aderisce GIOVANNA CASADIO «All’orizzonte si profila un altro enorme rischio: una frattura dentro il Pd. Se così fosse, su quale terreno facciamo camminare le riforme? Questa rottura non possiamo permettercela». È l’sos della corrente dem “Area riformista”, che fa capo a Roberto Speranza, lanciato nel giorno in cui inizia in commissione Affari costituzionali a Montecitorio l’esame dell’Italicum. È un appello a Renzi: «Riapra il dialogo sulla legge elettorale». Segue una proposta precisa, una soltanto: ridurre il numero dei nominati in lista. Nell’Italicum infatti sono previsti i capilista bloccati, e poi gli eletti con le preferenze. Se una lista vince e ha il premio di maggioranza, saranno un centinaio i nominati sui 340 deputati ottenuti con il premio. Ma per chi perde, la quota dei nominati è invasiva. Ecco quindi la richiesta della sinistra dem di Speranza: «È per noi prioritaria l’esigenza di ridurre il numero dei nominati tra i partiti che non prendono il premio di maggioranza». A sottoscrivere già il documento, che ha tra i suoi promotori il ministro Maurizio Martina, sono una settantina di deputati: da Gugliemo Epifani, l’ex segretario del Pd a Paola De Micheli, sottosegretario all’Economia, Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro, Andrea Giorgis, Enzo Lattuca, Danilo Leva, anche Micaela Campana e Enzo Amendola che sono nella segreteria renziana. Lo hanno scritto materialmente Nico Stumpo e Matteo Mauri. Non lo firmano né Pierluigi Bersani (pronto a farsi sostituire in commissione se si andasse al muro contro muro con Renzi e a non votare in aula l’Italicum senza modifiche), né Speranza, che è capogruppo alla Camera, e comunque dell’appello è l’ispiratore. I 70 per ora “pontieri” insieme con le altre sinistre dem rappresentano lo zoccolo duro del dissenso che potrebbe rendere pericolosa la navigazione dell’Italicum, sommandosi all’opposizione di Forza Italia, Lega, Sel e 5Stelle. Meno minimalista è la posizione della corrente di Gianni Cuperlo, Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre come scettico è Pippo Civati. «Se una legge elettorale non va bene e si è detto che non si vota, bisogna essere conseguenti», va all’attacco Civati per il quale i “trattativisti” farebbero bene a sciogliere le loro contraddizioni. I “pontieri” però non si arrendono, nonostante la blindatura dell’Italicum. Renzi lo ha ripetuto: «L’Italicum non si cambia più». Nell’appello scrivono: «Riflettiamo. Senza fermarci. Possiamo andare avanti al doppio della velocità, se necessario. Però attenzione perché le riforme devono poggiarsi su un terreno largo. E questo terreno si è già ristretto. E’ solo la maggioranza a fare le riforme, perché il Patto del Nazareno non c’è più. E se anche un pezzo del Pd non ci sta, rendiamo quel disegno essenziale più debole e non più forte. C’è ancora uno spazio possibile per trovare un’intesa? Sì, c’è». Pensano che il testo dell’Italicum si possa riaprire con un accordo preventivo al Senato di tutta la maggioranza di governo, così da evitare brutte sorprese. Ma Renzi evidentemente non si fida. D’Attorre sospetta che il premier sia pronto a elezioni anticipate: «Se Renzi anticipa così la riforma elettorale, e dice che non vuole un nuovo passaggio al Senato - dove c’è la riforma costituzionale - perché non ha i numeri, vuol dire che sta pensando di abbandonare la 38 riforma costituzionale al suo destino e tutto fa pensare che voglia andare a elezioni anticipate ». Damiano invita a non smettere di cercare il confronto: «Non bisogna lasciare nulla di intentato». Nel Pd è alta tensione. Oggi in commissione ci saranno i primi colpi di scena. Dell’8/04/2015, pag. 15 Blitz di Silvio sulle liste, 50% ai giovani I nuovi criteri per le regionali già approvati da Berlusconi, mentre si rincorrono le voci di una sua fuga ad Antigua Campagna elettorale ferma in attesa del tribunale di sorveglianza. Fitto: “Escludere chi ha consenso è suicida” CARMELO LOPAPA Cinquanta per cento di uscenti, cinquanta di volti nuovi. Sarà il criterio guida che seguirà Forza Italia per la composizione delle liste alle prossime regionali e destinato a essere ripreso alle future politiche. Eccolo il rinnovamento — guai a chiamarlo “rottamazione” — secondo Berlusconi. «Mi sembra il metodo più normale, il più razionale, al quale nessuno potrà opporsi», spiegava ieri sera a cena con colleghe la tesoriera (e plenipotenziaria su simbolo e liste) Mariarosaria Rossi. È la declinazione in numeri e percentuali della sua circolare di un paio di settimane fa. Nuovi criteri, neanche a dirlo, varati d’intesa con Berlusconi, con l’auspicio di porre fine alla guerra giovani-vecchi già aperta nel partito. Ma è tutt’altro che certo che un mix così congegnato, soprattutto in vista delle politiche, possa attenuare i tanti timori dei parlamentari in carica. Paure, contestazioni e faide interne che lasciano l’ex Cavaliere di pessimo umore. «Pensano che non mi renda conto che ad essere nel mirino sono io, continuano ad attaccare voi perché non hanno il coraggio di affrontare me», continua a masticare amaro Silvio Berlusconi nei colloqui privati coi dirigenti più vicini che ha visto e sentito a Villa Certosa. Dalla Sardegna non ha avuto alcuna voglia di allontanarsi ieri, non lo farà a quanto pare neanche oggi. Nessuna intenzione di ripiombare nelle guerre interne. La voglia invece di ripianare tutto e ripartire dopo le regionali è tanta. Tra i deputati e senatori rientrati a Roma prevale il pessimismo, le previsioni sono cupe. «Abbiamo la sensazione che voglia mollare, che voglia liquidare il partito come intende fare col Milan, magari per andare via e ritirarsi ad Antigua», si sente ripetere da più di un deputato della vecchia guardia. Stamattina il capogruppo Brunetta e la portavoce Bergamini ribadiranno alla riunione di gruppo convocata a Montecitorio (in assenza del leader) che sull’Italicum e più in generale sulle riforme non ci sarà alcun cedimento. Linea dura. Con buona pace dei 18 firmatari del documento pro-riforme che ha avuto in Verdini il suo ispiratore. L’ormai ex Manuela Repetti propone di già «un’alleanza tra un’area di centro e la sinistra moderna» di Renzi. Il terreno minato per Fi resta però quello delle regionali. L’ex Cavaliere non ha ancora pianificato la campagna, attende la prossima settimana: il Tribunale di Sorveglianza di Milano tra il 9 e il 14 emetterà la sentenza di estinzione della pena per la condanna Mediaset. Il nodo più complicato è la Puglia, sebbene ieri sera il candidato governatore Schittulli parlasse di spiraglio di intesa con i forzisti del commissario Vitali. Fitto è tornato alla carica in difesa dei suoi: «Per le regionali, escludere chi ha consenso è suicida», come lo è «lasciare tutto in mano ai soliti autonominati». Ma la sua guerra alla dirigenza forzista non lo spingerà fino al punto di sostenere coi suoi uomini il candidato pd in Campania Vincenzo De Luca, come invece ha 39 annunciato di voler fare il senatore Vincenzo D’Anna, che minaccia anche un’istanza al tribunale contro la nomina della tesoriera Mariarosaria Rossi. Lei, che simbolo e liste invece presenterà in tutta Italia, non sembra darsi pensiero di accuse e minacce. Convinta che «la vera preoccupazione di alcuni è il fatto che non saranno più loro a decidere sulle liste, come avvenuto fino a poco tempo fa». Dell’8/04/2015, pag. 5 Verdini mette avanti i Bondi sul carro del Nazareno bis L’ex vate di B. e la compagna strizzano l’occhio a Renzi: “È lui l’alternativa” Dopo un quarto di secolo, Sandro Bondi torna a sinistra. Ancora una volta, a parlare, è la compagna Manuela Repetti, senatrice come lui. Così dopo l’addio al berlusconismo cadente del cerchio magico (la Rossi, Toti e Dudù), il martedì pasquale è trasfigurato in una dichiarazione d’amore per il renzismo: “La mia opinione è che oggi il problema non sia quello di costruire un’alternativa di centrodestra al governo Renzi. Semmai, di fronte al rinnovamento della sinistra incarnata da Renzi, per le forze liberali e riformiste la sfida è di proporre un progetto politico nuovo, per oggi e per il futuro, cioè l’alleanza tra un’area oggi ancora dispersa di centro e la realtà di una sinistra per la prima volta davvero moderna che Renzi rappresenta”. La notizia della svolta ideologica dei Bondi, da sommi sacerdoti del Condannato ad aspiranti novizi del giglio magico del premier, non è tanto nei contenuti. Già nell’aprile di un anno fa, per esempio, il poeta senatore Bondi scrisse una lettera a La Stampa che traboccava entusiasmo per la nuova stella renziana: “La forza di Renzi nasce in fondo dal fatto di proporsi di realizzare quel cambiamento e quella modernizzazione che il centrodestra non può dichiarare di aver realizzato pienamente. Renzi rappresenta senza dubbio la prima vera cesura nella sinistra italiana rispetto alla sua tradizione comunista”. Sintesi e punto d’arrivo: “Forza Italia ha fallito tutto, a questo punto Berlusconi sostenga Renzi”. Piuttosto, allora, la mossa repettian-bondiana di ieri è la conferma dei movimenti filonazareni dentro e fuori Forza Italia che fanno capo a Denis Verdini, toscano di Fivizzano come Bondi e custode della scatola nera del fu (?) patto del Nazareno tra il premier e l’ex Cavaliere. Racconta un verdiniano informato: “Denis e Bondi si sentono regolarmente e i loro rapporti sono buonissimi, direi idilliaci. Il gruppo al Senato? È un’ipotesi seria e Bondi e Repetti rientrano in questo progetto”. Ecco quindi il punto di caduta dello strappo familiare dei Bondi, di fatto cacciati o emarginati come tanti altri (compreso Verdini) dal nuovo corso dei guardiani della Salò berlusconiana, dalla Rossi a Toti. Al momento, la Repetti e Bondi si sono iscritti al gruppo misto, ma l’annunciata disfatta forzista alle Regionali potrebbe generare un gruppo verdiniano filogovernativo a Palazzo Madama: c’è chi addirittura prevede dodici o tredici senatori pronti a sostenere l’attuale maggioranza. Un gruppo che avrebbe poi l’equivalente nei 17 verdiniani che alla Camera firmarono un documento a favore delle riforme, tra questi anche Daniela Santanchè, Laura Ravetto, Ignazio Abrignani, Massimo Parisi, Monica Faenzi e Luca D’Alessandro.Giorno dopo giorno, tra gli azzurri sta emergendo sempre di più la questione della doppia scissione di maggio, a urne regionali chiuse. Da un lato i fedelissimi di 40 Verdini, filonazareni ma anche diciottisti, nel senso che il loro appoggio è dettato soprattutto dalla speranza di arrivare alla fine naturale della legislatura, nel 2018. Dall’altro i ribelli di Raffaele Fitto, che oggi peraltro riunirà a Roma i suoi per un vertice sul tormentone delle candidature in Puglia. Sul fronte fittiano la notizia del giorno è però un’altra: in Campania l’azzurro Vincenzo D’Anna, ufficialmente nel Gal al Senato, ha ufficializzato la sua lista civica a favore di Vincenzo De Luca, candidato governatore del Pd. La lista avrà pure il logo di Scelta Civica e D’Anna specifica che resta fittiano e che Nicola Cosentino non c’entra nulla con il progetto. Ancora una volta, alla base di uno strappo contro la Casa Madre di Arcore, c’è la ribellione contro il cerchio magico di Berlusconi. Dice D’Anna: “La Campania ha assaggiato prima degli altri la tracotanza e l’insipienza politica del cerchio magico, l’ingerenza patronale della Pascale e della Rossi, che hanno determinato, sulla base dei propri umori e amicizie, la selezione della classe dirigente”. Ma nel bollettino forzista di guerra del giorno, la battuta più azzeccata è quella di Maurizio Bianconi, altro fittiano. A proposito dello scontro generazionale tra gli azzurri dopo la promozione tv di Silvia Sardone: “Siamo proprio alla frutta. La Sardone in campo è l’epilogo. Come Hitler nel bunker si affidò alla hitlerjugend, Mussolini alle Fiamme Bianche, Stalin ai Pionieri del popolo, così c’è sempre una Sardone pronta a interpretare la fine della storia”. Dell’8/04/2015, pag. 9 La rivolta di Regioni e Comuni: basta sacrifici In 6 anni gli enti locali potrebbero arrivare a tagli ai trasferimenti per 30 miliardi. Sindaci e governatori temono una nuova stangata con conseguenze negative per i servizi resi ai cittadini: dalle mense scolastiche ai trasporti, fino all’assistenza domiciliare ROBERTO MANIA I tagli agli enti locali sono destinati a sfiorare l’asticella dei 30 miliardi in sei anni. Una media di cinque miliardi l’anno. Che nel complesso hanno diminuito gli sprechi, prodotto efficienza, certo; ma anche brutalmente ridotto i servizi di welfare territoriale e aumentato a dismisura le tasse locali. Ed è questo lo scenario che temono i sindaci e i governatori delle Regioni in vista del varo del prossimo Def (Documento di economia e finanza) che dovrebbe cifrare dai 2,5 miliardi ai 4 miliardi l’apporto di Regioni, Comuni e vecchie Province all’operazione di spending review da 10 miliardi di euro complessivi che verrà poi definita con la legge di Stabilità. Governo e sindaci si vedranno giovedì alla vigilia della riunione del Consiglio dei ministri che darà il via libera al Def. Ma ieri è proseguito lo scontro tra il premier Matto Renzi e il presidente dell’Anci che è anche sindaco di Torino, Piero Fassino. «Fassino — ha detto Renzi — si lamenta perché lo scorso anno la Provincia di Torino ha sforato il patto di Stabilità». Poi ha aggiunto: «Trovo stravaganti alcune osservazioni che ho letto in questi giorni da parte degli amministratori locali. Io sono pronto a un confronto all’americana con i sindaci in materia fiscale». Fassino ha ricordato, appunto, che «la città metropolitana di Torino eredita oggi le negative conseguenze di una scelta della Provincia senza alcuna responsabilità». In serata però ha gettato acqua sul fuoco dopo che Renzi aveva escluso tagli con la manovra: «Da Renzi — ha detto il sindaco di Torino — sono arrivate affermazioni importanti che vanno incontro alle esigenze dei Comuni ». 41 Fatta la tara sulle polemiche già da campagna elettorale (a maggio si vota in diverse Regioni), rimane la convinzione che per i Comuni (quelli non virtuosi che non potranno beneficiare dell’ulteriore allentamento del Patto di stabilità interno), molto più che per le Regioni (dove probabilmente c’è ancora molto da razionalizzare), la riduzione dei trasferimenti possa tradursi effettivamente in meno servizi, dalle mense scolastiche ai trasporti fino all’assistenza domiciliare e agli interventi sanitari. E poiché la spesa dello Stato centrale, una volta deciso che non si toccherà quella pensionistica, è ormai poco comprimibile questa prospettiva potrebbe non essere irrealistica. Nega il governo sostenendo un’opzione diversa, metodologicamente e culturalmente diversa: «Noi — ha detto il neo commissario alla spending review, Yoram Gutgeld — non stiamo dando indicazioni ai sindaci di tagliare qua e là. Stiamo facendo un processo molto più semplice di equità: ci sono città più efficienti che spendono poco e dobbiamo riportare tutti all’efficienza delle città migliori». Il governo punta ad estendere il meccanismo dei costi standard a tutti gli enti locali e a razionalizzare le società partecipate. La prossima legge di Stabilità dovrebbe, da una parte, confermare il superamento del Patto di stabilità interno per i Comuni virtuosi così da consentire loro di investire le risorse disponibili, e dall’altra introdurre la local tax per sistemare il caos fiscale sulla tassazione degli immobili e dei servizi municipali. E con la pubblicazione on line di tutte le spese comunali il governo intende dimostrare che i Comuni non sono gestiti tutti allo stesso modo. Ma giovedì Renzi dovrà anche decidere se varare il cosiddetto “decreto enti locali”, fortemente voluto dai sindaci, per risolvere una serie di vecchi problemi tra i quali il ristorno dei 625 milioni del fondo Imu/Tasi necessario per evitare il dissesto finanziario di circa 1.800 Comuni. Dell’8/04/2015, pag. 11 Al gran bazar delle Regionali «I politici locali usano i partiti come fossero un franchising» Il politologo Campi: restano solo potentati e consensi personali Milano Se perdi una puntata rischi di non capirci più nulla. Le Regionali 2015 sono un tale intreccio di alleanze e spaccature — tra i partiti, ma soprattutto dentro ai singoli partiti — da mettere a dura prova la buona volontà di informarsi degli elettori. Si vota domenica 31 maggio in sette Regioni (e anche in 1.089 Comuni) per un totale di circa 17 milioni di italiani chiamati alle urne. A meno di due mesi dall’election day «il dato più significativo — secondo Alessandro Campi, che insegna Storia del pensiero politico all’Università di Perugia — è l’estrema difficoltà con cui sono stati trovati i candidati, le guerre in corso per definire le liste: ci dicono molto sul cattivo stato della politica in Italia». Il quadro, con l’«estrema difficoltà» di cui parla il professor Campi, si è quasi composto: il Pd, che a Roma governa con Alleanza popolare (Ncd+Udc), non ripropone la stessa formula sul territorio. Ma nemmeno l’alleanza con Sel, il vecchio centrosinistra, è in buona salute: in Liguria, Toscana, Marche e Campania i vendoliani avranno un loro candidato. Al partito «a vocazione maggioritaria» guidato da Matteo Renzi giocarsi da solo la partita non dispiace e il cuore della sfida a sinistra sarà in Liguria. Dopo primarie contestate e l’addio polemico di Sergio Cofferati, un parlamentare (Luca Pastorino) ha lasciato il Pd per correre contro la candidata del Pd (Raffaella Paita). Mai visto. Forza Italia e Lega, dopo settimane di tentennamenti, hanno quindi deciso di giocare nella regione la carta di Giovanni Toti, consigliere politico di Berlusconi. 42 Per il centrodestra il caso simbolo è il Veneto. Qui è stata la Lega a spaccarsi, da una parte il governatore uscente Luca Zaia, dall’altro il sindaco di Verona Flavio Tosi. In mezzo Alessandra Moretti, Pd, che tenta il colpaccio in una regione da sempre «impossibile» per la sinistra. Mai visto anche qui, se poi si aggiunge che ieri l’ex ministro di FI Raffaele Fitto ha ipotizzato di sostenere Tosi mentre il suo partito corre per Zaia. Liguria e Veneto sono solo i casi più eclatanti dei tanti «inediti» di queste Regionali: in Campania ci sono i dissidenti di FI che si dicono pronti a sostenere Vincenzo De Luca (Pd), nelle Marche c’è un governatore uscente ex Pd (Gian Mario Spacca) che si ripresenta con il sostegno del centrodestra, in Puglia ci sono gli esponenti di Ncd che avevano lasciato Forza Italia proprio per non stare con Fitto, e che ora si ritrovano insieme a Fitto a sostenere il candidato del centrodestra Francesco Schittulli. «La verità — dice Alessandro Campi — è che i partiti non sono più in grado di tenere sotto controllo gli apparati a livello locale. Ciò che succede in periferia ormai sfugge perfino al Pd, che è il partito più strutturato». Una volta non era così: «Il legame con la politica nazionale era molto più stretto, ma negli ultimi tre-quattro anni è cambiato tutto. A livello locale contano solo i gruppi di potere, spesso sono trasversali e il personale politico passa da una parte all’altra: è una specie di neo feudalesimo, un livello di disgregazione inimmaginabile, basta vedere cosa è successo dentro al Pd romano». Eppure non molti anni fa chi perdeva le Regionali (Massimo D’Alema nel 2000) o addirittura ne perdeva una sola (Walter Veltroni nel 2009 con la Sardegna) si dimetteva da premier: «Anche se è passato poco tempo, quella era un’altra Italia: centrosinistra e centrodestra erano fronti compatti, con differenze politiche riconoscibili. I partiti erano già deboli, ma ora — sostiene Campi — siamo alla conclusione di un processo: restano solo potentati locali e consensi personali. E i politici sul territorio spesso usano i referenti nazionali come se fosse un franchising : se uno si dice “fittiano” in Liguria o in Veneto, per esempio, lo fa solo per posizionarsi dentro a un partito». A mano a mano che le urne si avvicinano, la posta in palio diventerà più chiara anche a livello nazionale: il Pd farà l’en plein o il centrodestra riuscirà a vincere in qualche regione? E i Cinquestelle avranno ancora risultati in doppia cifra? «Alla fine una lettura nazionale ci sarà — conclude Campi. Ma sarà meglio che, dopo le Regionali, i partiti affrontino seriamente questa deriva preoccupante che ha preso la politica locale». del 08/04/15, pag. 7 L’Expo ha perso anche l’Oscar Luca Fazio Milano. Non passa giorno senza una piccola grande grana per il Commissario unico Giuseppe Sala. Ieri l'organizzazione dell'evento planetario ha perso un altro pezzo pregiato: lo scenografo Dante Ferretti, tre volte premio Oscar, si è infuriato perché il suo progetto non è ancora stato realizzato. "Ci ho lavorato quattro anni e ci ho messo la faccia, adesso ci penseranno i miei legali" Si prega per l’Expo. La madonnina come non l’avete mai vista non è un miracolo ma un’opera fatta e compiuta. Non sarà artisticamente ineccepibile ma ad oggi risulta essere l’unico atto di fede tangibile a pochi giorni dall’inaugurazione dell’evento, secondo solo all’ottimismo del Commissario Giuseppe Sala che deve fare i salti mortali per spiegare come mai non passa giorno senza una piccola grande grana. 43 La riproduzione della madonnina veglierà sui visitatori dell’Expo con una cascata d’acqua alle spalle, sarà alta più di quattro metri e verrà posizionata in cima a una scala per salvaguardare “l’effetto di verticalità”. Col sacro è finita qui: Papa Bergoglio non ha nessuna intenzione di fare un salto a Milano. L’ ha confermato il presidente della Veneranda Fabbrica del Duomo monsignor Gianantonio Borgonovo: forse manderà un videomessaggio guasta feste, insistendo col paradosso dell’abbondanza in un mondo dove si muore di fame. L’illustrissima defezione dispiace ma ce ne faremo una ragione, penserà Giuseppe Sala. Buona ma anche imbarazzante l’altra idea della Veneranda Fabbrica: per sei mesi, all’Expo, distribuirà pane ai bisognosi, sempre che riescano ad entrare senza pagare il biglietto. Dunque ci saranno anche i poveri, anche se non sta bene dirlo davanti a tanto ben di dio. Ma le grane sono altre. Gli “extra costi”, per esempio, come ha sottolineato ieri il presidente dell’Anac Raffaele Cantone dopo la sua visita di rito ai cantieri di Rho-Pero. Dice che il conto presentato dalle aziende che hanno vinto gli appalti è “molto, molto più alto” rispetto al preventivo iniziale. L’azienda Mantovani, per esempio, dopo aver vinto l’appalto per la costruzione della piastra con un’offerta di 165 milioni, avrebbe preteso 120 milioni in più. A questo “errore” di valutazione si devono poi aggiungere ulteriori costi dichiarati da altre aziende (il Padiglione Italia, per esempio, costerà 92 milioni e non 60 come era previsto). Raffaele Cantone i conti li farà sicuramente alla fine dell’Expo, nel frattempo ha deciso di fidarsi, “Sala ci ha spiegato che quasi tutti gli extracosti saranno pagati dagli sponsor”. Sull’affare Padiglione Italia, intanto, a giorni dovrà pronunciarsi l’avvocatura dello Stato. La polemica del giorno, invece, non contempla considerazioni troppo meditate. Chi si lamenta di certo non le manda a dire. E’ Dante Ferretti, lo scenografo tre volte premio Oscar (sta lavorando ancora con Martin Scorsese) che ha progettato lo scenario che avrebbe dovuto impreziosire la viabilità del sito espositivo. Ma i lavori non sono ancora cominciati, ecco perché è “sconcertato e arrabbiato”. Lo ha già comunicato ai suoi legali, ha intenzione di diffidare i responsabili dell’Expo (leggi Giuseppe Sala) dall’utilizzare il suo progetto in maniera parziale. “Sono quattro anni che ci lavoro — ha dichiarato — ci ho messo la faccia e il nome. E’ stato approvato da tempo, ma la gara d’appalto è stata perfezionata da poco: non sarà mai pronto per l’apertura. Sento dire che forse sarà realizzato per il 2 giugno, festa della Repubblica. Ma non ci penso proprio a una realizzazione parziale e li diffido dall’usare il mio nome”. Dante Ferretti a Milano non ci viene di sicuro: “Certamente all’inaugurazione non parteciperò, ho un nome da difendere”. Perso un altro prestigioso pezzetto, il Commisario è rimasto quasi senza parole: “Non riesco a rispondere, prima devo informarmi” ha detto Giuseppe Sala. Dalla sua c’è che “la motivazione è totale e le polemiche non fanno che rinforzarla”. Per scacciare i momenti di comprensibile scoramento ogni giorno prende e va a farsi un giro in cantiere, “guardo i seimila operai che lavorano, le polemiche invece vengono da gente che sta dietro la scrivania”. A proposito, proprio da una scrivania è arrivata la notizia più tragicomica del giorno. Il segretario milanese del Pd, Pietro Bussolati, finalmente ha avuto un’idea geniale per rimpolpare il tesseramento giovanile del Pd — praticamente il deserto. “Per tutti gli under 30 che si iscriveranno al partito, con la tessera daremo in omaggio un biglietto Expo, del valore di 25 euro”. E un pacco di pasta per nutrire il pianeta? 44 LEGALITA’DEMOCRATICA Dell’8/04/2015, pag. 10 “Così truccavamo gli appalti in tutta Italia” sulle tangenti Coop indagano altre procure Svolta dopo le confessioni del supermanager pentito. Nelle intercettazioni i legami con i politici: “Ho dato una mano a Tremonti e sono più schifato di prima” CONCHITA SANNINO Sta raccontando la “prassi”. Quella che in azienda qualcuno chiamava solo “metodo operativo”. Era la modalità della coop Concordia prima di scendere sui terreni: ovvero, secondo Francesco Simone, distribuire tangenti, travestite da consulenze, collaborazioni per aggirare gli ostacoli della burocrazia, per annullare le rigidità degli ingranaggi. In tre parole: per aprire porte. Quindi, per accedere a commesse e soldi di Stato. Si scrive “collaborazione”, si legge: la svolta dell’inchiesta di Napoli sulla corruzione negli appalti della metanizzazione, e non solo. Francesco Simone, l’ex potente capo delle relazioni istituzionali del colosso modenese dell’energia, l’uomo che ancora ai giorni nostri rispondeva «Sono al Raphael», ha parlato per 12 ore, dal carcere, ai pm Henry John Woodcock, Celeste Carrano e Giusi Loreto. Verifiche e accertamenti dell’inchiesta coordinata dall’aggiunto Alfonso D’Avino non si sono fermati neanche nelle feste pasquali. E le sue parole saranno vagliate anche da altre Procure. Verosimile che stia rispondendo sulla sua rete di rapporti con eccellenti. E sui “cammelli” — leggi, soldi in nero — di cui si parla negli atti. Già dalle centinaia di intercettazioni che riguardano Simone affiorano riferimenti a divise che sarebbero «a libro paga». A rapporti con ministeri e con la politica, «che mi ha schifato». LA RETE DELLA CONCORDIA Interrogatori no stop. Divisi per capitoli, divisi per territori. Simone, l’uomo che per la Procura ha costruito «una struttura che utilizzava anche lo strumento del voto politico di scambio» per truccare “l’assegnazione di appalti”, registrato a lungo a ridosso di Pasqua. Che si sia trattato di full immersion, o di diversi interrogatori, cambia poco: la certezza è che Simone va ben oltre l’ambito campano. E le sue parole costituirebbero spunti investigativi considerati molto importanti e che saranno sottoposti anche alle verifiche di «altre Procure italiane», stando a fonti qualificate. Non c’è solo la serie di ammissioni sulle tangenti di Ischia. Non c’è solo la nuova ipotesi di corruzione per l’ex parlamentare ed ex sindaco di Procida, Luigi Muro. Simone avrebbe risposte anche a domande su altri appalti e lavori che hanno spinto Concordia ad avvicinare amministratori o imprese, in varie regioni italiane. “LA SHALABAJEVA? ALFANO NON SAPEVA“ È il 16 aprile del 2013, e al telefono Simone fa sfoggio delle sue conoscenze. Lo chiama un certo Giorgio, e tra le altre cose l’ex manager accenna alla nota vicenda dell’espulsione dall’Italia di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Ablyazov. «Com’è che la vedi tu», chiede Giorgio. E Simone: «La vedo che politicamente è un disastro... Questi litigano sul kazako che è una vergogna. Perché che cazzo. Io conosco bene l’ambasciatore del Kazakistan, è a libro paga più di qualcuno lì, dalle parti della questura (di Roma, ndr). Quello è andato, gli ha detto che è un pericoloso delinquente, senza dirgli che è un rifugiato politico, Quelli si sono come dire scappellati... e gli hanno fatto ‘sta 45 marchetta, senza che secondo me veramente il ministro (Alfano, ndr) sapesse un cazzo». Giorgio annuisce. Simone continua: «Questa è la mia opinione. L’ambasciatore kazako che è uno molto generoso con qualcuno da quelle parti... Questo lo so quasi per certo». L’AIUTO ALL’EX MINISTRO Scrivono i carabinieri del Noe in una delle loro copiose informative: «La vicinanza all’ambiente politico-istituzionale, e nello specifico la conoscenza con Giulio Tremonti, rappresenta per Francesco Simone un mezzo per agevolare l’iter delle trattative e dei progetti». Il 27 aprile 2013, Simone parla al telefono, lamenta d’aver «problemi per la concessione dal comune di Milano», parla di politica. E dice: «Ho dato una mano a lui (Tremonti) — specificano in parentesi gli investigatori — e adesso sono più schifato di prima, ovviamente il suo rapporto e la sua vicinanza con lui mi crea delle opportunità, di relazioni importanti, però faccio il mio lavoro, faccio le relazioni istituzionali per alcuni gruppi importanti che sono nel settore energetico, nel settore infrastrutture » I “CAMMELLI” Nel giugno 2013, uno scambio di sms ritenuti interessanti corre tra Simone e Giuseppe Incarnato, il manager della società Crif, che si occupa di banche dati, e finito di recente al centro di un’altra inchiesta su voto di scambio che coinvolge anche Geppino Demitry, ex sottosegretario di Prima Repubblica. Incarnato scrive all’altro: «Ma arrivano i 18 cammelli? ». Simone risponde: «I cammelli vanno all’andatura dei cammelli come tu ben sai!!!». E l’altro: «Sei un grande!! Hai un’intelligenza unica. Ma falli arrivare i cammelli che ho sete e devo bere dai gibbi». Una settimana dopo, altro sms più rassicurante: «Sono a San Marino dal direttore generale Bsm. Campania è in lavorazione. e Torre del Greco? I cammelli sono stati abbeverati a riguardo». 46 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 08/04/15, pag. 7 Via i migranti, i padri sigillano la scuola Silvio Messinetti Reggio Calabria Calabria. Una brutta storia da Focà, sul litorale Jonico, dove a 200 africani recuperatio in mare a pasqua è stata negata la possibilità di dormire per una notte in un edificio scolastico La propaganda di Salvini e della stampa di destra attecchisce anche dove si erano sperimentate forme innovative di accoglienza. La Locride, la terra di Riace e di Caulonia, dei film di Wenders sui migranti, fa parlare di sé per motivi opposti. Proteste, minacce, la saldatura del cancello della scuola che avrebbe dovuto ospitarli. Così i cittadini di Focà, frazione di Caulonia, piccolo borgo del litorale jonico reggino, hanno negato ospitalità ai 200 migranti salvati nella notte di Pasqua dal mare dopo un travagliato sbarco. Cristo è morto, ma a Focà non è risorto. La storia ha dell’incredibile per come è stata gestita dal Viminale. Tutto ha inizio intorno alle 2 della notte di Pasqua. Un barcone si arena sulla spiaggia di Caulonia. Da un non meglio identificato porto della Libia, approdano 30 donne, di cui una incinta, 9 bambini e 170 uomini. Si tratta di gente che ha lasciato le terre di origine (Sudan, Eritrea, Unione delle isole di Comore, Madagascar ed Egitto) alla ricerca di una vita migliore. Sarebbero arrivati con due barconi. Il primo si è incagliato sulla spiaggia a sud dell’abitato di Caulonia, l’altro avrebbe ripreso il largo. Alle operazioni di soccorso, trasferimento e assistenza partecipano Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia. I tre scafisti vengono arrestati. Tratti in salvo, i 209 migranti vengono invece portati al mercato coperto della marina di Caulonia per poi essere rifocillati. Dopo le identificazioni, 21 vengono trasferiti a Riace, 10 a Monasterace. Per gli altri si preparano i letti nella scuola di Focà. Ma la voce ben presto inizia a girare in paese. Una ventina di cittadini di Focà si ribella, dicono di essere genitori degli alunni della scuola elementare. Urlano il loro disprezzo contro chi vuole trasportare i migranti nella frazione. «Contageranno tutti i nostri figli», strepitano. Ma qualcuno osa ancora di più. Prende una saldatrice con tanto di elettrodi e sigilla il cancello della scuola. Al solo scopo di impedire l’ingresso a donne, uomini e soprattutto ad altri bambini, in questo caso nordafricani. E lo stato? Sparisce. La prefettura balbetta, indietreggia, cede. E per millantate «ragioni di ordine pubblico» decide qualche ora dopo di trasferire i migranti a Roccella Jonica. Dandola così vinta ai seminatori d’odio e rancore. Una struttura pubblica da adibire per una sola notte a centro di prima accoglienza viene così definitivamente negata. E solo dopo la mezzanotte, e dopo una giornata di calvario, i migranti arrivano a Roccella, trasportati dal pulmino del comune di Caulonia. I bambini addormentati e avvolti nelle coperte, i volti degli adulti stravolti dalla stanchezza. I fascioleghisti esultano e tornano nelle loro case. Hanno vinto loro, ha perso lo Stato. 47 Dell’8/04/2015, pag. 31 COSA SERVE DAVVERO PER INTEGRARE I ROM NILS MUIZNIEKS POCHI argomenti scatenano reazioni più viscerali delle discussioni sui rom, di cui oggi ricorre la giornata internazionale. Stereotipi, sensazionalismo e luoghi comuni spesso hanno la meglio sui fatti. Molte persone sembrano credere che i rom scelgano di vivere ai margini della società in accampamenti di baracche in condizioni abominevoli, e che rientri nella loro cultura far crescere i bambini nella melma, togliendoli dalla scuola per mandarli a chiedere l’elemosina. Eppure, nella maggior parte dei casi, coloro che nutrono questi pregiudizi nei confronti dei rom e alimentano queste voci non hanno mai rivolto loro la parola. Ho fatto visita ad alcuni campi rom in Italia e in molti altri paesi europei, e le persone con le quali ho parlato non volevano vivere lì. Non vogliono vivere in luoghi demoralizzanti nei quali sono segregati contro la loro stessa volontà. Non ci si dovrebbe dimenticare che molti rom che vivono in accampamenti ghetto sono stati scacciati a forza dai loro alloggi precedenti, e nessuno degli abitanti di quei campi che ho conosciuto durante il mio sopralluogo del 2012 ha dichiarato di essersi trasferito lì di sua volontà. Anzi: mi sono stati riferiti molti esempi che spiegano in che modo — rispetto alla loro situazione abitativa precedente — vivere in quei campi limita il contatto, e quello dei loro figli, con la popolazione in generale, e in che modo vivere lì contribuisce quindi alla loro emarginazione. Già nel mio rapporto del 2012 sull’Italia e in una lettera spedita al sindaco di Roma nel 2013 raccomandavo alcune misure atte a facilitare l’integrazione dei rom nella società tradizionale e facevo presente la necessità di porre fine alle politiche che portano alla creazione di campi isolati ed emarginati e agli sfratti coatti. Malgrado ciò, sono stati fatti pochi passi avanti: queste pratiche proseguono e così pure continuano a esserci ostacoli che precludono ai rom che vivono in accampamenti fatiscenti di accedere all’edilizia popolare. In alcuni comuni, tra i quali Roma, Torino e Milano, sono stati costruiti o ristrutturati campi ghetto. Questa strada è chiaramente sbagliata. I campi ghetto portano a gravi violazioni dei diritti umani. Violano sia i parametri internazionali e nazionali sia la politica delle stesse autorità italiane in materia: la Strategia nazionale per l’inclusione dei rom del 2012 non lascia spazio alcuno agli accampamenti che emarginano. Si devono dunque trovare valide alternative abitative. Per agevolare l’inclusione dei rom nella società, si rende necessario un cambiamento di politica. Gli sfratti coatti e i campi ghetto devono finire nel dimenticatoio. Nuovi sforzi devono essere fatti per andare incontro alle necessità abitative dei rom. Tutto ciò è importante perché l’accesso a un’abitazione decorosa è un requisito fondamentale per usufruire di molti altri diritti umani, in particolare l’istruzione. Come possono i bambini che vivono in baraccopoli di località remote, circondate da fango e prive di accesso all’acqua potabile, a sistemi fognari, alla rete elettrica e ai trasporti pubblici, frequentare la scuola con regolarità e apprendere, restando alla pari con gli altri bambini? Per cercare alternative migliori, l’Italia non ha bisogno di guardare tanto lontano. Alcune esperienze incoraggianti portate avanti a livello locale potrebbero essere prese a esempio. A Messina alcuni edifici comunali abbandonati sono stati ristrutturati direttamente dai rom del campo di San Ranieri che in seguito vi si sono trasferiti. Ad Alghero il 15 gennaio è 48 stato chiuso il campo di Arenosu e 51 rom hanno ricevuto un aiuto quadriennale dalla Regione, dal Comune e dalle associazioni per pagare l’affitto di normali appartamenti. Queste iniziative dimostrano che, con un adeguato impegno politico, alcuni progetti ben strutturati possono effettivamente migliorare l’integrazione dei rom e una reciproca comprensione con la popolazione maggioritaria. È di fondamentale importanza finanziare e attuare la strategia nazionale di inclusione di rom e sinti. Alcune risorse, comprese quelle provenienti da finanziamenti Ue, potrebbero essere convenientemente mobilitate per promuovere iniziative adeguate di edilizia e integrazione. È giunto il momento di smettere di trattare i rom come cittadini di serie B. Emarginarli non può che portare a maggiore alienazione, emarginazione, pregiudizi. L’Italia deve mostrare molta più determinazione nel risolvere i problemi di abitazione che i rom si trovano ad affrontare, anche facilitando il loro accesso all’edilizia popolare. Le vigenti leggi antidiscriminatorie dovrebbero renderlo possibile: le si deve quindi applicare. Questo è il prerequisito di base per garantire che i diritti umani dei rom, siano essi italiani o originari di altri paesi europei, siano interamente rispettati. L’autore è il Commissario ai Diritti Umani del Consiglio d’Europa ( Traduzione di Anna Bissanti) 49 BENI COMUNI/AMBIENTE del 08/04/15, pag. 15 Hera e Acea Il modello è più debiti e meno investimenti Corrado Oddi Ci siamo. E’ iniziato un nuovo e forte ciclo di privatizzazione e finanziarizzazione dei servizi pubblici locali, con cui si intende dare il colpo mortale all’esito referendario del giugno 2011 per la loro ripubblicizzazione. Punte di diamante di questa operazioni sono due grandi multiutilities, Hera e Acea, in una mirabile sintonia tra le scelte del governo Renzi e gli orientamenti della grande maggioranza delle amministrazioni locali incentrate sul Pd. Per quanto riguarda Hera, nei giorni scorsi e con l’intenzione di procedere entro la fine di questo mese, con il piè veloce che sembra essere la cifra di questa stagione controriformatrice, il sindaco di Bologna, assieme agli altri enti locali, in primis emiliani, dove è presente Hera, ha annunciato l’intenzione di far scendere la quota di proprietà pubblica dall’attuale 57% al 38%, arrivando così per la prima volta sotto la maggioranza assoluta, da sempre propagandata come elemento di garanzia per il controllo pubblico dell’azienda. Acea, dal suo canto, sta lavorando per un riassetto societario in base al quale la sua espansione in Toscana e parte della Campania si porterebbe dietro l’entrata in Borsa del servizio idrico di queste regioni. Anche grazie all’ “infaticabile” opera di Cassa Depositi e Prestiti e del suo presidente Bassanini, che ha messo a disposizione 500 milioni di euro allo scopo, il movimento di Hera e di Acea sono semplicemente le mosse di apertura di un grande processo, al cui termine le grandi multiutilities quotate in Borsa gestiranno l’insieme dei servizi pubblici locali in tutto il Paese. Iren in Piemonte, Liguria e l’Emilia orientale, A2a in Lombardia, Hera nella restante parte dell’Emilia e nel Triveneto, Acea in Lazio, Umbria, Toscana e parte della Campania saranno i grandi players che si spartiranno un grande mercato totalmente privatizzato, contando sulla rendita di tariffe che aumentano sempre più e che garantiscono ampi e certi margini di profitto. Il Mezzogiorno, poi, in questo quadro, conferma di essere lontano dai pensieri del ciclo renziano di “modernizzazione”, destinato a dividersi tra l’influenza dell’Acquedotto Pugliese, magari da privatizzare nel 2018, e la riaffermazione del ruolo della criminalità organizzata e il suo intreccio con la politica, come molti fatti recenti hanno fatto riemergere. Si svende il patrimonio pubblico per far cassa, in un’ottica tutta incentrata sul profitto a breve, seguendo uno dei pilastri del capitalismo finanziario, e contraddicendo in radice l’idea di preservarli per le generazioni future. Ancora, li si consegna al primato della finanza e della Borsa e all’ “economia del debito”: basta guardare Hera — che peraltro non è neanche l’esempio più negativo tra le multiutilities quotate in Borsa– per realizzare che la vera variabile indipendente e la sua vocazione di fondo è quella di distribuire dividenti ai soci, sempre più privati, fissati da un bel po’ di anni in qua, in 9 centesimi per azione, pari a più di 100 milioni di euro all’anno. Poco importa se questo si traduce in un calo fortissimo degli investimenti – dal 16,1% sui ricavi nel 2002 al 5,6% sui ricavi stessi nel 2013, 2/3 in meno– e, soprattutto, in un incremento dell’indebitamento ad un livello di guardia, salito dall’ 1,3% sul margine operativo lordo nel 2002 al 3,1% 2013. Non c’è bisogno di dire che il movimento dell’acqua si sta mobilitando a partire dalle regioni dove sono insediate Hera e Acea. Per quanto mi riguarda, poi, non è possibile 50 separare questa necessaria fase di iniziativa del movimento per l’acqua dalla riflessione che sta alla base dell’idea della costruzione di una nuova coalizione sociale lanciata dalla Fiom, e cioè dalla consapevolezza che, nell’era del renzismo decisionista, anche se non in condizione di risolvere i problemi della Grande crisi, “nessuno si salva da solo” e che occorre, invece, pensare, nell’autonomia di ciascuno, di connettere le lotte e le iniziative contro lo smantellamento dei diritti del lavoro, la totale privatizzazione del ruolo pubblico, lo stravolgimento del welfare, a partire dalla scuola. In questo senso, la decisione della Cgil dell’Emilia-Romagna di proclamare lo sciopero dei lavoratori di Hera contro la sua definitiva privatizzazione è un segnale importante, anche se non risolutivo delle ambiguità che la stessa Cgil, a partire dal livello nazionale, continua a mantenere sia sul tema delle privatizzazione dei servizi pubblici, sia, ancor più, su quello della coalizione sociale. Che è bene che, invece, si consolidi, inizi a indicare gli obiettivi e i terreni su cui può strutturarsi, anche nella dimensione territoriale, avendo consapevolezza che essa, per sua natura, non può che essere, contemporaneamente, plurale e di tutti i soggetti che intendono costruirla. E che, prima o poi, dovrà incrociare anche il tema di una nuova rappresentanza politica: ma ci sarà tempo, dentro la situazione di oggi che è complessa e non procede in modo lineare, per sviluppare la discussione e i ragionamenti del caso. *Forum Italiano Movimenti per l’Acqua 51 INFORMAZIONE del 08/04/15, pag. 14 LicenzieRai Vincenzo Vita Saranno clementi i Venticinque Lettori di «Ri-mediamo» se si tornerà, come in un sequel, sulla vicenda della Rai. Del resto, la lettura dell’articolato normativo del governo — pubblicato lo scorso venerdì sera su uno dei siti attivi di Palazzo Chigi — induce a qualche considerazione aggiuntiva. «Non c’è niente di nuovo» potrebbero dire «I Camaleonti», sull’onda di un loro celebre brano del 1967. E infatti i sei articoli del testo non riservano particolari sorprese rispetto ai due annunci precedenti. Non è inedito il tetto di spesa che può toccare l’amministratore delegato, 10 milioni di euro già previsti per l’attuale presidente, che ha facoltà di firmare contratti sino a tale cifra su proposta del direttore. La rivoluzione sta solo nel salto di un passaggio? Mah. E che fine ha fatto il mantra del «fuori i partiti»? Miserrima, visto che quattro dei sette consiglieri di amministrazione sono eletti dal parlamento e che — udite, udite — la commissione di vigilanza (il cui ruolo è da tempo logoro ed eccentrico rispetto al tempo dell’integrazione tecnologica) rimane sic et simpliciter. Qualche spunto è avventuroso: in caso di cessione di olte il 10% delle azioni (?) cesserebbe l’affidamento all’azienda del servizio pubblico; perde vigore per la Rai il codice degli appalti pubblici, con curiosa discrasia rispetto all’urgenza — se mai — di rafforzare vincoli e criteri etici. Insomma, il diavolo ancora una volta si annida nei particolari. Ed eccoci al maggiore dei particolari: il conclamato licenziamento dell’amministratore delegato con riduzione della buonuscita a tre mesi in luogo dei dodici di prassi. Di nuovo si potrebbe chiedere conto di quale sia la novità. Infatti, è così nelle imprese che si dotano di un capo-azienda: oneri e onori del management. Ma, attenzione. Proprio qui passa un messaggio simbolicamente (e semanticamente) forte. In linea con lo spirito ideologico alla moda, il verbo licenziare prende la scena e minaccia di riguardare — più che l’amministrazione prossimo venturo — tutti gli altri. Licenziare, licenziare…. uno dei marchi identificativi del governo e dell’attuale stagione culturale. Insieme a decidere, rottamare uno storico tabù appare ora un trofeo da esibire, di fronte ad una parte della società che si vuole solleticare negli istinti plebei e vendicativi. E’ una china generale, che adesso fa capolino pure in viale Mazzini di Roma. Dove da sempre si fanno le prove generali per qualche altra cosa. Si comincia da amministratore e consiglieri — per dire — ma il varco si apre e la soglia delle tutele si abbassa. Tra l’altro, in tanta evocazione del mercato, viene il dubbio che solo chi ha ambizioni «extra» è sospinto ad imbarcarsi in un’avventura apparentemente così curiosa. Non mancano, poi, alcune «chicche» che oscillano tra commedia e tragedia e non per una scelta estetica. Si tratta dei decreti delegati previsti per la definizione del finanziamento e per la revisione della vecchia legge Gasparri. L’inserimento del canone nella bolletta elettrica sembrava deciso. Al contrario, si riparte da zero, con l’unica notizia incoraggiante della sostanziale tenuta degli introiti. Come se i cittadini, in fondo, mostrassero una fedeltà che chi ha in mano il pallino sembrerebbe avere smarrito. Quanto all’urgentissima abrogazione dell’architettura giuridica in vigore, madre e figlia della stagione berlusconiana, ci si poteva aspettare ben altra determinazione, almeno simile alla grinta mostrata nella modifica dello Statuto dei lavoratori (Jobs Act) e della Costituzione. 52 Dell’8/04/2015, pag. 21 Riforma Rai: si sa chi comanda, il resto chissà Renzi ha usato il giorno della Via Crucis, per pubblicare integralmente, sul sito del governo, il disegno di legge sulla Rai, sapendo che i tg, un po’ sguarniti dalle ferie pasquali e concentrati sull’accordo di Obama sul nucleare con l’Iran e sulla strage dei cristiani in Kenya, vi avrebbero prestato poca attenzione. I quotidiani, poi, si sono limitati a commentare solo i nuovi dettagli riguardanti l’uomo forte: l’amministratore delegato che potrà nominare direttamente direttori di rete e tg. Nei sei articoli del disegno di legge non si parla del rinnovo della concessione alla Rai del ruolo di “servizio pubblico generale radiotelevisivo”, la cui scadenza, fissata dalla legge Gasparri, è a maggio 2016. Ciò che non è contenuto nella nuova legge e che dovrà inevitabilmente essere deciso, è dovuto alla scelta di Renzi di delegarlo direttamente al governo. Nell’art. 1 si parla solo di rinnovo del contratto di servizio che passerà da 3 a 5 anni. Il premier è intenzionato a privatizzarne una parte della Rai e un’altra quotarla in Borsa, per questo ha lasciato inalterato l’articolo 21 della Gasparri (Dismissione della partecipazione dello Stato nella Rai), nell’art. 2 comma 12-ter si afferma che la quota non potrà superare il “10 per cento del capitale della Rai, in considerazione dei rilevanti e imprescindibili motivi di interesse generale connessi allo svolgimento del servizio”. Nella conferenza stampa Renzi-Giacomelli si era capito che vi era la volontà di consentire alla Rai di liberarsi dalla trappola di essere un “Organismo di Diritto pubblico”, soggetta alle regole della P.a, sovraccaricandola di burocrazia che poco ha che fare con la tv. Leggendo l’art. 3 non è così chiaro, vi è scritto che il nuovo ad, a proposito dei “criteri e modalità del reclutamento del personale”, dovrà fare riferimento all’art. 35 comma 3 del decreto n. 165/2001, legiferato per le “società in totale partecipazione pubblica”. La Rai dovrà continuare ad operare come una pubblica amministrazione o no? Il governo nominerà il capo e lui comanderà su tutto, questo si è capito, sul resto: troppe lacune. Un paio di esempi. Come verrà finanziato? Il duo è in disaccordo sia sul metodo che sulla sostanza. Soprattutto non si capisce cosa dovrà essere finanziato. Il disegno di legge non definisce la nuova Rai. Così com’è la proposta Renzi non è votabile, ma se ciò non dovesse accadere entro luglio, il prossimo cda verrà nominato ancora con la legge Gasparri. Grande confusione. Incapacità o strategia? 53 CULTURA E SPETTACOLO Dell’8/04/2015, pag. 53 Cinema, più spettatori ma i film italiani incassano meno Solo otto titoli di nostri autori sui 25 usciti nel 2015 hanno superato il milione di euro di guadagno ARIANNA FINOS LAPasqua e la pioggia hanno raddoppiato gli incassi cinematografici dell’ultimo fine settimana. E i primi tre mesi del 2015 hanno portato maggiori incassi rispetto agli anni precedenti: 206 milioni totali, contro i 193 del 2014 e i 172 del 2013. Di questa primavera in sala non beneficiano però i film italiani. L’avvio d’anno è stato buono, Si accettano miracoli di Alessandro Siani a quota 15 milioni e mezzo. Ma dei 25 film usciti nei primi tre mesi del 2015 solo otto hanno superato il milione di euro. Sette commedie e Nessuno si salva da solo di Sergio Castellitto (3 milioni e 400 mila euro). Oltre i 5 milioni Che bella sorpresa con la coppia Bisio-Matano, a quota 4 milioni Maccio Capatonda con Italiano medio. Tra le delusioni La solita commedia di Biggio e Mandelli, Le leggi del desiderio di Gabriele Muccino, malgrado i budget corposi e il numero massiccio di copie. Accolte male anche opere passate in concorso a festival internazionali: Hungry Hearts di Costanzo, a Venezia, Cloro di Sanfelice al Sundance e Vergine giurata di Bispuri a Berlino. «E il bellissimo Anime nere di Munzi ha avuto successo nel mondo, non da noi. Bisogna che il nostro pubblico sia meno provinciale rispetto ai film drammatici» dice Michele Placido. Il suo La scelta ha incassato all’esordio 654mila euro «ma speriamo di superare il traguardo del milione: c’è un ottimo passaparola». Se il dramma respinge, le commedie quest’anno non hanno convinto. «Sono ripetitive — spiega Placido — si scambiano gli attori come le figurine: sempre gli stessi, una tendenza inspiegabile. E sono operazioni che costano, anche 4,5 milioni di euro. Ci sono commedie che mi sono piaciute: quella, drammatica, di Castellitto, Nessuno si salva da solo, Latin Lover di Cristina Comencini, Noi e la Giulia . E sono convinto che ci sarà un ripensamento dei produttori, nel settore commedie, si punterà più sulla qualità che sulla quantità e l’anno prossimo il mercato sarà meno pieno di mediocrità». Per Andrea Occhipinti, presidente dei distributori dell’Anica, «la stagione va valutata nel complesso. Spesso c’è una concentrazione di uscite in inverno, in particolare di film italiani che si mangiano l’uno con l’altro e dividono il pubblico. E invece i nostri film, specie le commedie, vanno spalmati su tutto l’anno. È presto fare valutazioni perché la stagione non è finita, specie quest’anno in cui, dopo Cannes, arriveranno grandi film in sala capaci di regalare alla stagione il segno positivo ». Rispetto ai molti film italiani dagli incassi esigui degli ultimi mesi, Occhipinti valuta: «Premesso che il bilancio su un film va fatto in base ai costi, al numero di copie, alla promozione, il dato fisiologico è che non tutti i film vanno bene, belli o brutti che siano. Il dato oggettivo, più importante, è che in generale sono aumentate le uscite. Escono troppi film, che abbassano la media generale. Oggi chiunque riesce a finanziarsi un film e tutti vogliono uscire in sala, anche se non tutti lo meritano. Allora è meglio pensare a sbocchi alternativi, alla grande risorsa del video on demand che esiste in cinematografie più mature, come quella americana». Perché, spiega Occhipinti, «troppi film buttati in sala confondono il pubblico, che si radicalizza nelle scelte: individua e aspetta l’opera passata a un festival e lodata da un critico, oppure punta sul grande evento popolare. Finisce per perdersi tutto quello che c’è in mezzo». Di sale 54 cinematografiche, produzione e creatività si discuterà nel convegno promosso dall’Anec a Roma il 16 e 17 aprile. 55 ECONOMIA E LAVORO Dell’8/04/2015, pag. 6 Renzi e Padoan: “Nella manovra 2016 esclusi tagli ai servizi e nuove tasse” Def, 10 miliardi dalla spending review Stime “prudenti” su Pil e occupazione ferma Fassina attacca: misure recessive e inique Forza Italia: solo illusioni. I vaffa di Salvini VALENTINA CONTE «Niente tagli né aumento delle tasse, chi dice il contrario dice il falso». Il Documento di economia e finanza che sarà approvato venerdì - sottoposto ieri all’esame preliminare del Consiglio dei ministri (la bozza conta 128 pagine) - non conterrà brutte notizie, per il prossimo anno almeno. Il premier Renzi l’ha ribadito ieri più volte: «Le previsioni di sventura sono smentite». Anche se poi ammette che dopo il bonus da 80 euro, non arriverà una nuova diminuzione delle tasse. «La discussione proseguirà in autunno con la legge di Stabilità e se saremo in condizioni, le abbasseremo ancora». A scorrere le pagine del Def, scendono deficit e debito, sale il Pil, ma la disoccupazione resta alta: 12,3% quest’anno (dal 12,7 del 2014) e 11,7 il prossimo, ancora 10,5 nel 2019. «È finito il tempo in cui i politici chiedono i sacrifici ai cittadini», esulta Renzi. Annunciando che il governo cancellerà le clausole di salvaguardia per il 2016-2017 («saranno eliminate, valgono un punto di Pil», dunque 16 miliardi di tasse, tra maggiore Iva e accise). «Uno 0,4% sarà coperto dalla riduzione degli interessi e dall’aumento della crescita, il resto dalla spending review ». A proposito di riduzione della spesa, il premier non fornisce una cifra precisa (parla di «5-10-15 miliardi»), ma spiega che non implicherà «tagli alle prestazioni per i cittadini» né toccherà «la carne viva degli italiani, ma gli sprechi della Pa». Certo, «se i sacrifici li fanno i politici male non fa». E come esempio porta il taglio delle centrali di acquisto e delle società partecipate dagli enti locali: «Se saltano le poltrone dei cda, non lo considero un sacrificio per i cittadini». Questo Def «non è una manovra, non toglie i soldi dalle tasche», insiste Renzi. Che poi cifra in 18 miliardi la diminuzione delle tasse messa in campo per quest’anno, sommando ai 10 miliardi per il bonus da 80 euro gli 8 miliardi «delle misure legate al costo del lavoro, ma non solo». Anzi, «sarebbero 21, se aggiungiamo i 3 miliardi della clausola di salvaguardia ereditata e disattivata». Trionfale anche il comunicato stampa di Palazzo Chigi che parla di «prospettiva non più emergenziale», «finestra temporale favorevole », «ciclo della fiducia». Ovvero di «circolo virtuoso» che farà crescere l’Italia a un ritmo più elevato (0,7% quest’anno, 1,4 nel 2016, 1,5 nel 2017). «L’economia internazionale e italiana è migliore di quanto si pensava qualche mese fa, dire che le tasse aumenteranno è semplicemente falso», si rallegra il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Anzi, «le aspettative che abbiamo adesso potrebbero essere sbagliate per difetto, potremmo avere numeri più positivi, ma per il momento preferiamo essere prudenti». Il deficit sarà contenuto entro il 3% del Pil (2,6 quest’anno, 1,8 il prossimo e 0,8 nel 2017). Il pareggio di bilancio strutturale sarà centrato nel 2017, sebbene «il quadro consentirebbe di raggiungerlo già il prossimo anno, ma lo abbiamo confermato al 2017 per conferire una natura espansiva alla programmazione per il 2016». La regola europea del debito («questo incubo della montagna di debito che può attivare le terribili regole della ghigliottina», la definisce Padoan) sarà soddisfatta nel 2018, «risultato estremamente importante». Il debito pubblico scenderà dal 132,5% del Pil di 56 quest’anno al 123,4 del 2017. Tra il 2015 e il 2018 si procederà con le privatizzazioni, con ricavi attesi per 1,7-1,8% di Pil, «spalmati sui quattro anni». Padoan cita Enel, Poste, Fs, Enav. Tra le reazioni, veemente Matteo Salvini (Lega), con il suo vaffa a Renzi via twitter, definito «bugiardo al servizio di Bruxelles». Stefano Fassina (Pd) critico: «Purtroppo il governo conferma la linea di finanza pubblica recessiva e iniqua in atto». I Cinquestelle delusi: «Renzi è un bluff, il buio oltre le slide». Forza Italia perplessa: «Def senza tagli né tasse? Allora siamo nel Paese dei balocchi». del 08/04/15, pag. 5 Spending review: signori si taglia. E al Sud si paga doppio Mario Pierro Svimez. L'analisi «Spending review e divari regionali in Italia»: «Il taglio alla spesa penalizza il Sud soprattutto per quanto riguarda gli investimenti pubblici, la componente della spesa pubblica più colpita, e una delle componenti di domanda in grado di stimolare la ripresa nell'economia meridionale» Spending Review. Parafrasi italiana che significa tagli generalizzati degli investimenti pubblici, e degli incentivi alle imprese, che hanno colpito il Sud in maniera doppia rispetto al Nord. Effetti diretti di questa politica dell’austerità praticata in continuità da tutti i governi sono: depressione economica, aumento dei divari socio-economici tra aree macroregionali, povertà e deprivazione nella popolazione. Nella loro durezza, a prova di propaganda governativa, ecco i dati forniti ieri da un’anticipazione di un’analisi di Svimez sulla «Spending review e divari regionali in Italia», a cura di Adriano Giannola, Riccardo Padovani e Carmelo Petraglia, in corso di pubblicazione sulla rivista «Economia Pubblica – The Italian Journal of Public Economics». Nel 2013–2015 i tagli alle spese operati dai vari Governi hanno inciso molto più al Sud che al Centro-Nord. Prendiamo il 2013: a livello nazionale il taglio è stato del 2,7% sul Pil. La riduzione ha pesato sul Centro-Nord del 2,2%, mentre al Sud più del doppio: –4,5%. Stessa situazione nel 2014: al Centro-Nord – 2,8%, al Sud –5,5%. Il taglio della spesa continuerà a crescere nel 2015: –3,7% a livello nazionale, –2,9% del Centro-Nord e addirittura del 6,2% al Sud. «Il taglio alla spesa penalizza il Sud soprattutto per quanto riguarda gli investimenti pubblici, la componente della spesa pubblica più colpita, e una delle componenti di domanda in grado di stimolare la ripresa nell’economia meridionale – si legge nello studio — La spesa pubblica in conto capitale ha registrato al Sud riduzioni da due a tre volte in più rispetto al Centro-Nord: –1,6% nel 2013 contro il –0,5% del Centro-Nord; nel 2014 – 1,9% contro –0,7% dell’altra ripartizione, arrivando nel 2015 a –2,1% al Sud contro –0,8% del Centro-Nord’. Dal 2001 al 2012 la spesa in conto capitale per le aree sottoutilizzate al Sud è scesa del 58%».Se si prendono i tagli praticati nel lungo periodo, la situazione non migliora affatto. “In dieci anni, dal 2001 al 2012, la spesa in conto capitale per le aree sottoutilizzate, fondamentale per le azioni di riequilibrio territoriale, al Sud è scesa del 58%, passando da 16,5 a 6,9 miliardi di euro – continua il rapporto — al Centro-Nord è scesa nello stesso periodo del 10%, calando da 3,7 a 3,3 miliardi di euro. In altri termini, i 791 euro che ogni cittadino del Mezzogiorno riceveva nel 2001 sono scesi nel 2012 a 334, 57 mentre i 99 euro destinati pro capite alle aree sottoutilizzate del Centro-Nord sono diventati 85 undici anni dopo». Secondo le stime Svimez «le manovre effettuate dal 2010 ad oggi dai vari Governi (il cui valore cumulato arriva a oltre 109 miliardi di euro nel 2014) in rapporto al Pil sono pesate più nel Mezzogiorno rispetto al Centro Nord. In particolare, il peso cumulato delle manovre sul Pil per il 2013 sarebbe del 6% a livello nazionale, ma assai differente a livello territoriale: 5,5% nelle regioni centro settentrionali e 7,8% in quelle meridionali. Stesse dinamiche negli anni successivi: per il 2014 l’impatto sul Pil è stimato al 6,5% quale risultato del 5,9% al Centro-Nord e dell’8,7% al Sud. L’impatto delle manovre sul Pil cresce ancora nel 2015, arrivando al 6,8% a livello nazionale. Ma se al Centro-Nord il peso sul Pil si ferma al 6%, al Sud sale fino al 9,5%». Per gli analisti una «spending review» servirebbe per «trasformare gli sprechi in spesa produttiva per i servizi pubblici fortemente carenti specie nelle aree svantaggiate del Paese». del 08/04/15, pag. 5 PUBBLICO IMPIEGO · Madia accelera sulla mobilità. Fra gaffe e problemi In 20mila nel limbo delle Province Sabato manifestazione a Roma Massimo Franchi Abolizione delle Province e mobilità orizzontale per i lavoratori. Ad un anno dai soliti annunci, i due caposaldi della politica del governo Renzi in fatto di pubblica amministrazione mostrano i loro ritardi, problemi e ambiguità. Tutti trasferiti sulla pelle dei lavoratori. Se sabato Cgil, Cisl e Uil terranno a Roma una manifestazione nazionale dei lavoratori delle Province (ore 10, piazza Santi Apostoli con la presenza di Susanna Camusso) per denunciare «il caos della non-riforma», nel frattempo il governo cerca di accelerare sulla mobilità a 50 chilometri prevista dal decreto Madia della scorsa estate, tutta ancora sulla carta. A 8 mesi dall’approvazione definitiva, nessun lavoratore è stato spostato: solo un apposito bando per «mobilità volontaria » nel comparto giustizia ha incentivato 1.031 operatori del settore a trasferirsi. Ad oggi oltre 20mila lavoratori delle Province sono ancora nel limbo: la legge di stabilità ha tagliato i fondi del 50 per cento (25 per cento per le città metropolitane) ma nessuno di loro sa dove, come e perché si sposterà. Se le occupazioni di molte sedi a fine anno hanno portato a «sventare l’immediatezza degli esuberi ed ottenere la proroga dei contratti precari», il caos non è per niente sopito. Secondo il protocollo Delrio le Regioni dovevano approvare leggi per prevedere quali funzioni e personale delle Province assorbire. Per ora solo 4 su 20 lo hanno fatto. «A tre mesi esatti dagli annunci trionfalistici del governo denunciano in una nota unitaria Fp-Cgil, Cisl-Fp e Uil-Fpl - la situazione delle Province e delle Città metropolitane è semplicemente in stallo, ben al di là delle nostre peggiori previsioni. L’11 aprile spiegheremo al governo e alle Regioni come sia ancora possibile fare una riforma vera che garantisca occupazione e servizi di qualità ai cittadini. La smettano di fare il gioco dello struzzo e - concludono Fp-Cgil, Cisl-Fp e Uil-Fpl - tirino la testa fuori dalla sabbia». Ora il ministero guidato da Marianna Madia ha deciso di «cambiare marcia» anche sulla mobilità. Per farlo sta predisponendo il decreto ministeriale sulle «tabelle di equiparazione propeduetiche ad attivare la mobilità fra amministrazioni pubbliche». Si tratta di stabilire 58 una relazione fra gli inquadramenti nei vari settori. Ma così facendo il criterio per spostare un lavoratore rischia di essere solamente quello di una «prossimità salariale fra due posizioni - ad esempio una segretaria negli enti locali con una posizione similare in una azienda di unità sanitaria locale - con l’ulteriore beffa di prevedere che la eventuale differenza di salario, dovuta ad esempio alla parte accessoria (premi, straordinari, festivi, indennità) sia regolata con un assegno ad personam che andrebbe però ad assorbire i prossimi aumenti salariali - spiega Federico Bozzanca, segretario nazionale della Fp Cgil senza tenere assolutamente in conto la professionalità acquisita dal lavoratore nell’impiego precedente». L’accelerazione governativa poi deve fare i conti con inusuali aspetti formali. La tabella di equiparazione infatti è uno dei pochi casi in cui questo governo deve tenere in conto il parere dei sindacati, che naturalmente stanno protestando. «Il ministro Madia vuole portare il testo alla Conferenza Stato regioni entro metà aprile, ma noi chiediamo forti modifiche, vogliamo discutere i criteri perché la mobilità non si può fare senza un progetto complessivo di riorganizzazione della pubblica amministrazione », continua Bozzanca. L’ultima perla del ministero della Pubblica amministrazione riguarda infine il modulo per la «Ricognizione dei posti da destinare alla ricollocazione del personale coinvolto nei processi di mobilità », pubblicato sul sito. Ogni amministrazione pubblica che avesse necessità di personale deve compilarlo. Ma i problemi non mancano: la legge di stabilità prevede lo stop alle assunzioni fino al 2016 con sole due deroghe: assunzioni di vincitori di concorso e mobilità di dipendenti delle (abolende) Province. «Parecchi Comuni però hanno pubblicato bandi senza prevedere la riserva per queste due categorie », chiude Bozzanca. Dell’8/04/2015, pag. 13 Derivati, lo scontro sul rosso di 42 miliardi Il caso Morgan Stanley ha aperto le ostilità tra Parlamento e Tesoro. Che difende i suoi segreti di Stefano Feltri Ci sono le teorie del complotto di Renato Brunetta. Ma ci sono anche le perplessità dell’Ufficio parlamentare di Bilancio, l’organismo indipendente che vigila sui conti pubblici, guidato dal professor Giuseppe Pisauro. E ci sono i silenzi del ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan. Sintesi minima: i contratti derivati costruiti sul debito pubblico italiano al momento stanno causando una perdita potenziale di 42 miliardi (al 31 dicembre 2014), ma non si può capire esattamente perché e soprattutto che possibilità ci sono che da potenziale quella perdita diventi concreta. Perché i contratti sono segreti. Nel 2011 il governo Monti decide di “chiudere” un derivato con Morgan Stanley e paga 2,6 miliardi di euro. I derivati sono scommesse tra due soggetti, se si verificano alcune circostanze uno vince e l’altro perde, chi vince incassa e chi perde paga. I più diffusi sono gli swap sul tasso di interesse. Una parte paga all’altra un flusso di interessi calcolato sulla base di un tasso fisso e riceve in cambio un flusso di interessi sulla base di un tasso variabile (o viceversa). Secondo la Procura di Trani, una decisione immotivata di Standard & Poor’s, l’agenzia americana di rating, di declassare il debito pubblico italiano spinge Morgan Stanley a decidere di terminare la “scommessa” col Tesoro e incassare la vincita. Secondo il capogruppo di Forza Italia, Brunetta, è la prova del complotto: anche perché 59 Morgan Stanley ha una (piccola) quota di McGraw Hill, la società che controlla Standard & Poor’s. I mercati hanno voluto abbattere il governo di allora, quello di Silvio Berlusconi. Il caso arriva nella commissione Finanze della Camera, guidata da Daniele Capezzone (Forza Italia) che ha lanciato un’indagine conoscitiva sui derivati. Il Tesoro risponde con una controffensiva di comunicazione: documenti, spiegazioni, FAQ e anche una sezione “vero o falso” sul sito del ministero. La spiegazione del caso Morgan Stanley smonta la ricostruzione di Brunetta ma conferma anche il fatto che in quei mesi difficili i protagonisti della finanza hanno preso decisioni molto politiche: “Morgan Stanley avrebbe potuto chiudere la propria posizione molto prima del declassamento annunciato da S&P nel settembre 2011 perché tale focalità era collegata a un limite contrattuale prestabilito di esposizione di minimo 50 e massimo 150 milioni di dollari. L’esposizione di Morgan Stanley era invece di circa 3 miliardi di euro”. E quindi la banca americana avrebbe potuto chiudere il contratto già molto tempo prima. Invece lo fa soltanto nel 2011 perché, spiegazione del Tesoro, “alla fine del 2011 la reputazione della Repubblica appariva così fragile che Morgan Stanley ritenne di non poter tralasciare di avvalersi della posizione di forza che la clausola le conferiva”. Cioè temevano che, nonostante il passaggio da Silvio Berlusconi al governo tecnico di Mario Monti, l’Italia fosse a rischio default e quindi hanno preteso di avere indietro i loro soldi. Se il Tesoro non avesse pagato, l’Italia avrebbe certificato di non essere in grado di onorare i suoi impegni e “il danno reputazionale che ne sarebbe derivato sarebbe stato enorme”. Ma quel caso è soltanto l’inizio della contesa sui derivati. La commissione Finanze, con un arco di parlamentari molto attivi che va da Forza Italia al Movimento Cinque Stelle, ha ingaggiato da mesi un duello con il Tesoro per sapere quanti altri casi come quello Morgan Stanley ci sono e qual è la condizione del portafoglio derivati italiano. Sappiamo che i contratti riguardano circa 160 miliardi di debito (il cosiddetto “nozionale”) e che al momento sono in perdita di circa 42 miliardi, dato in crescita. Ma non sappiamo esattamente perché e quale rischio c’è che la perdita si concretizzi. I funzionari del Tesoro hanno lavorato molto in questi anni per arginare quel buco nero che erano i derivati nelle amministrazioni locali: firmati da assessori poco competenti e corrotti e da banchieri con pochi scrupoli, hanno stritolato parecchi Comuni e Regioni. I derivati per gli enti locali da un paio d’anni sono vietati, quelli sopravvissuti riguardano soltanto 1,4 miliardi di nozionale (la cifra sottostante) e a giugno 2012 erano in perdita di 1,3 miliardi. Ma è anche in corso un’operazione di riacquisto da parte del Tesoro che permette a molte Regioni di chiudere il derivato indebitandosi col ministero e guadagnando anche somme consistenti. Il punto critico restano i derivati sul debito pubblico nazionale: in gran parte swap stipulati per proteggere l’Italia da un rialzo dei tassi come quello sperimentato nel 2011-2012. Visto che da allora i tassi sono scesi, per le scelte della Bce, invece che risparmiare siamo in negativo (il Tesoro ricorda giustamente che, senza quei contratti, forse il conto sarebbe stato più pesante, anche se non è dato sapere quanto). Secondo le precisazioni del Tesoro, il caso Morgan Stanley è unico, ci sono invece altri contratti in cui entrambe le parti possono chiedere la chiusura anticipata: al momento la posizione italiana è in rosso di 9,3 miliardi su questi contratti, 2,7 su quelli che si possono estinguere tra 2016 e 2018. Niente drammi, quindi, dicono Pier Carlo Padoan e la responsabile del debito pubblico, Maria Cannata. Secondo Eurostat, l’agenzia statistica europea, l’Italia è però il Paese più esposto al rischio di pesanti perdite sui derivati. A fine 2013 pochi Paesi avevano un mark to market (valore teorico di realizzo) pesantemente negativo: l’Italia con 28,9 miliardi (nel frattempo cresciuti a 42), la Grecia con 3,9 e la Germania con 16,8. La piccola Olanda, invece, grazie ai derivati guadagnava 9,6 miliardi teorici. 60 Padoan ha risposto alle richieste di Brunetta e della commissione Finanze che non si possono rivelare tutti i dettagli perché “determinerebbe uno svantaggio competitivo dello Stato” e inoltre “porrebbe in svantaggio competitivo anche le controparti stesse del Tesoro nei confronti di altri operatori di mercato”. Traduzione: il Tesoro potrebbe strappare condizioni meno favorevoli e le banche che lavorano con l’Italia sarebbero danneggiate nel confronto con chi fa affari con altri Paesi, col risultato che pagheremmo interessi più alti. Brunetta non è convinto, ma neppure l’Ufficio parlamentare di bilancio, l’istituzione che deve certificare alla Commissione europea la correttezza dei nostri conti pubblici: “Un problema che è rimasto e continua ad alimentare incertezza è l’assenza di un’informazione pubblica periodica sulle caratteristiche delle operazioni stipulate”, si legge in un approfondimento firmato da Emilia Marchionni e Maria Rosaria Marino. Lo scontro continua. In attesa di capire quanta parte di quei 42 miliardi di “rosso” teorico dovremo davvero pagare. 61