RASSEGNA STAMPA

Transcript

RASSEGNA STAMPA
RASSEGNA STAMPA
mercoledì 8 aprile 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SPETTACOLO
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Ansa del 07/04/15
DIAZ: ARCI, OGGI SANCITO CHE CI FU
SOSPENSIONE DEMOCRAZIA
(ANSA) - RA, 7 APR - «Si sancisce finalmente, a 14 anni dal G8 di Genova, che in Italia si
assistette alla più grave sospensione della democrazia in un paese occidentale. La
democrazia formale e sostanziale venne sospesa con un atto di imperio dall'allora governo
Berlusconi per dare via libera alla brutale repressione dei movimenti di protesta che portò
alla uccisione di Carlo Giuliani, al ferimento di molti manifestanti, alle violenze continue sui
fermati, alla messa in stato di assedio di un'intera città»: così in una nota l'Arci commenta
la sentenza della Corte europea dei diritti umani sulla Diaz. «La Corte di Strasburgo ci dice
oggi che si è potuti giungere a queste conclusioni solo a diversi anni di distanza per la
mancata collaborazione e il boicottaggio delle forze di polizia impegnate in quelle giornate,
con la evidente copertura del ministeri competenti e del governo nel suo complesso»
sottolinea l'Arci, che prosegue: «quelle torture commesse alla Diaz e a Bolzaneto contro
manifestanti pacifici e inermi non sono mai state punite, dal momento che nel nostro
codice penale il reato di tortura non è contemplato, a differenza della maggior parte dei
paesi europei che lo prevedono come fattispecie specifica per i pubblici funzionari». «La
proposta di legge che introduce questo tipo di reato è all'esame del Parlamento da più di
due anni. Qualsiasi rinvio non è più accettabile» insiste l'associazione, che conclude:
«Quel che è successo a Genova resta, per chi vi ha partecipato e per il nostro sistema
democratico, una ferita aperta e insanabile. Non può quindi essere dimenticata. Per
questo da anni chiediamo verità e giustizia. Lo dobbiamo alle vittime della repressione e
alle loro famiglie, lo dobbiamo alla salvaguardia della democrazia nel nostro paese.
Perchè non possa mai più accadere. Il tempo è adesso». (ANSA). AB
Da Redattore Sociale del 07/04/15
Diaz, Italia condannata. L'Arci: "Ferita ancora
aperta, che non può essere dimenticata"
L’associazione: “Da anni chiediamo verità e giustizia. Lo dobbiamo alle
vittime della repressione e alle loro famiglie, lo dobbiamo alla
salvaguardia della democrazia nel nostro paese. Perché non possa mai
più accadere”
ROMA - La Corte europea dei diritti umani ha condannato il nostro paese non solo per le
violenze e torture commesse nel 2001 dalle forze dell’ordine alla Diaz, ma anche per la
mancanza di una legislazione adeguata a punire il reato di tortura. “Si sancisce così,
finalmente, a 14 anni dal G8 di Genova che, come denunciò subito Amnesty International,
in Italia si assistette alla più grave sospensione della democrazia in un paese occidentale
– afferma l’Arci -. La democrazia formale e sostanziale venne sospesa con un atto di
imperio dall’allora governo Berlusconi per dare via libera alla brutale repressione dei
movimenti di protesta che portò alla uccisione di Carlo Giuliani, al ferimento di molti
manifestanti, alle violenze continue sui fermati, alla messa in stato di assedio di un’intera
città”.
2
Aggiunge l’Arci: “La Corte di Strasburgo ci dice oggi che si è potuti giungere a queste
conclusioni solo a diversi anni di distanza per la mancata collaborazione e il boicottaggio
delle forze di polizia impegnate in quelle giornate, con la evidente copertura del ministeri
competenti e del governo nel suo complesso. Quelle torture commesse alla Diaz e a
Bolzaneto contro manifestanti pacifici e inermi non sono mai state punite, dal momento
che nel nostro codice penale il reato di tortura non è contemplato, a differenza della
maggior parte dei paesi europei che lo prevedono come fattispecie specifica per i pubblici
funzionari. La proposta di legge che introduce questo tipo di reato è all’esame del
Parlamento da più di due anni. Qualsiasi rinvio non è più accettabile”.
E conclude: “Quel che è successo a Genova resta, per chi vi ha partecipato e per il nostro
sistema democratico, una ferita aperta e insanabile. Non può quindi essere dimenticata.
Per questo da anni chiediamo verità e giustizia. Lo dobbiamo alle vittime della repressione
e alle loro famiglie, lo dobbiamo alla salvaguardia della democrazia nel nostro paese.
Perché non possa mai più accadere. Il tempo è adesso”.
Da Askanews del 07/04/15
Arci: dopo condanna Strasburgo basta rinvii
su reato tortura
Roma, 7 apr. (askanews) - La condanna della Corte europea dei diritti umani per i fatti
della scuola Diaz sancisce "finalmente, a 14 anni dal G8 di Genova che, come denunciò
subito Amnesty International, in Italia si assistette alla più grave sospensione della
democrazia in un paese occidentale. La democrazia formale e sostanziale venne sospesa
con un atto di imperio dall'allora governo Berlusconi per dare via libera alla brutale
repressione dei movimenti di protesta che portò alla uccisione di Carlo Giuliani, al
ferimento di molti manifestanti, alle violenze continue sui fermati, alla messa in stato di
assedio di un'intera città". E' quanto si legge in una nota dell'Arci, che stigmatizza il fatto
che "si è potuti giungere a queste conclusioni solo a diversi anni di distanza per la
mancata collaborazione e il boicottaggio delle forze di polizia impegnate in quelle giornate,
con la evidente copertura del ministeri competenti e del governo nel suo complesso".
"Quelle torture commesse alla Diaz e a Bolzaneto contro manifestanti pacifici e inermi sottolinea il comunicato dell'associazione - non sono mai state punite, dal momento che
nel nostro codice penale il reato di tortura non è contemplato, a differenza della maggior
parte dei paesi europei che lo prevedono come fattispecie specifica per i pubblici
funzionari".
"La proposta di legge che introduce questo tipo di reato - si fa notare ancora nella nota
dell'Arci - è all'esame del Parlamento da più di due anni. Qualsiasi rinvio non è più
accettabile".
Da Vita.it del 07/04/15
La Corte europea sollecita l'Italia a introdurre
il reato di tortura
La sentenza della Corte europea dei diritti umani che denuncia come
tortura le violenze della Scuola Diaz di Genova, nel 2001, sono un
3
monito alle istituzioni italiane ad agire, dopo oltre 25 anni di ritardo
nell'introduzione del reato di tortura nel codice penale italiano
La sentenza della Corte europea dei diritti umani, che ha qualificato come "tortura" le
violenze compiute la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz di Genova, è un monito alle
istituzioni italiane a fare presto e bene, dopo oltre un quarto di secolo di ritardo
nell'introduzione del reato di tortura nel codice penale italiano.
Un ritardo rilevato e stigmatizzato dalla stessa Corte europea, nella sentenza che ha dato
ragione al ricorso di Arnaldo Cestaro, una delle vittime dei pestaggi seguiti all'irruzione
notturna nella scuola Diaz, uscitone in barella con diverse fratture. Il collegamento tra la
violazione dei diritti umani e l'assenza del reato di tortura emerge con evidenza dalla
lettura della sentenza.
Lo scorso 10 dicembre, durante la Giornata Internazionale per i Diritti Umani, Amnesty
International, insieme a diverse associazioni, tra cui Arci, Cild e CittadinanzAttiva si erano
riunite a Montecitorio per mantenere accesa l’attenzione sul tema. Nella stessa occasione
erano state consegnate le 16.000 firme raccolte da maggio 2014 e dirette al presidente del
Consiglio e ai presidenti di Camera e Senato per chiedere l'introduzione del reato di
tortura nel codice penale.
Dal 1989, quando venne pubblicata sulla Gazzetta ufficiale la legge di ratifica della
Convenzione Onu contro la tortura, Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti
umani chiedono al parlamento di onorare l'impegno assunto all'epoca.
Secondo Amnesty, ciò che successe alla Diaz, e con ancora maggiore evidenza e gravità
nella caserma di Bolzaneto nelle ore e nei giorni immediatamente successivi ci dice che la
presenza del reato di tortura nel codice penale avrebbe, allora (e in seguito in ulteriori
casi), fatto la differenza: evitato la prescrizione, fatto emergere anche sul piano della
sanzione la gravità degli atti commessi dai pubblici ufficiali giudicati responsabili (ma di
altri reati...).
All'esame della Camera, ora, è un testo precedentemente approvato dal Senato, secondo
Amnesty non perfetto, ma comunque un passo nella direzione giusta.
http://www.vita.it/it/article/2015/04/07/la-corte-europea-sollecita-litalia-a-introdurre-il-reatodi-tortura/132014/
Da Repubblica.it (Torino) del 07/04/15
Una sede storica è il primo sogno della
Coalizione targata Landini
Mosse a sinistra. Il movimento nato a Torino attorno alla Fiom cerca
spazio nel resto del Piemonte, con l'obiettivo di recuperare un vuoto di
rappresentanza sociale. Airaudo: "Vorrei aprire a Mirafiori o in Barriera
di Milano"
di Vera Schiavazzi
Ieri sera alle 5, nella sede della Fiom torinese, una strana riunione assai poco sindacale si
teneva al pian terreno. C'erano i leader del sindacato, come Federico Bellono, il
parlamentare Giorgio Airaudo, i residui delle forze a sinistra del Pd . Ma anche Luca
Spadon delle Officine Corsare. All'ordine del giorno, l'assemblea di domani sera ad Asti,
quella del 17 aprile a Vercelli, quella del 20 ad Alessandria, e le molte altre da
programmare nei Comuni della cintura di Torino. Assemblee quasi del tutto identiche a
4
quella che si è già tenuta il 2 marzo alla Fabbrica delle E, assemblee che, a Torino, hanno
di fatto preceduto la Coalizione sociale lanciata a Roma dal leader Fiom Maurizio Landini,
al punto che ora l'eterogenea compagnia torinese deve trovare il modo di rimettersi al
passo col calendario nazionale.
Ma nessuno sembra spaventato. Giorgio Airaudo, ex leader della Fiom torinese e ora
deputato di Sel, ha un primo sogno: aprire un'unica sede a Torino, a Mirafiori o a Barriera
di Milano, dove la nuova sinistra possa non solo parlare, ma servire a qualcosa, come
informare sull'assistenza già prevista per legge, fornire alcune prestazioni mediche o legali
gratuite a chi non può più permettersi di farlo, insomma, pescare dal mare della
rappresentanza sociale che si sta cercando di ricreare per dare a chi come lui fa politica al
di là del Pd "il mare in cui pescare". Il suo è anche un appello: "Abbiamo già molti contatti
con organizzazioni come Emergency. Ma ci piacerebbe incontrarci presto con i medici di
base, con le associazioni dei legali". Federico Bellono, segretario della Fiom torinese, si
aggiudica la primazia dell'iniziativa: "Noi a Torino, con l'assemblea alla Fabbrica delle E,
abbiamo in qualche modo anticipato il problema che la Fiom ha posto con la coalizione
sociale: recuperare un vuoto di rappresentanza politica". E per colmare questo vuoto, la
neo-coalizione sociale torinese – che ha partecipato con mille persone alla manifestazione
romana – si propone di raccogliere almeno 5.000 firme in calce alla proposta di legge che
prevede di cancellare dalla Costituzione un pareggio di bilancio che impedirebbe di
pensare a un reddito di cittadinanza. Su questo terreno, il mare delle alleanze diventa
vasto e imprevedibile. Anche Libera sta raccogliendo firme per il reddito.
Ma né Libera in quanto tale, né il torinese Gruppo Abele possono pensare di partecipare a
pieno titolo alla Coalizione. Airaudo minimizza: "C'è stato un equivoco, noi non stiamo
progettando un partito politico ma solo cercando di ridare rappresentanza a chi non ce l'ha
più e di organizzare, caso mai, una domanda verso una buona politica". Altri organizzatori
di realtà sociali, come il presidente di Arci Torino Ugo Zamburru (70.000 iscritti in città e
provincia, 120.000 in Piemonte) sanno che la situazione è più complicata: "Credo che sia
ora di svoltare, di tornare alla ricerca di una rappresentanza sociale. Noi dell'Arci ci
sentiamo in basso a sinistra, come gli zapatisti. Ma io come presidente, pur essendo
personalmente interessantissimo alla coalizione, so benissimo che il nostro è un mondo
estremamente variegato e distinto. Non potrei in nessun caso apporre il cappello dell'Arci
a questa iniziativa».
Davide Mattiello, parlamentare "ospite" del Pd (come lui si definisce, non avendo mai
preso la tessera) aggiunge: "Io non mi muovo lungo il percorso della coalizione perché
sono leale verso la lista che mi ha eletto. Ma sono estremamente interessato a ciò che
fanno, e spero che il loro pezzo di percorso non vada in direzioni opposte a quella in cui
vado io, che mi occupo soprattutto di antimafia e di legalità".
Come chiede Marco Revelli, altro ospite illustre dell'assemblea torinese, "si può
immaginare una coalizione sociale committente nei confronti di un soggetto politico? E con
quale forma organizzativa, che non sia più quella del partito di massa? Oppure che si
riapra la strada a ipotesi di sindcalismo di azione diretta?". La domanda è questa. E anche
la Cgil ci sta, a suo modo, pensando.
http://torino.repubblica.it/hermes/inbox/2015/04/08/news/mosse_a_sinistra_il_movimento_
nato_a_torino_attorno_alla_fiom_cerca_spazio_nel_resto_del_piemonte_con_tappe_a_as
ti_e_ale-111399822/
5
Da Redattore Sociale del 07/04/15
I lavoratori del sociale, condannati ad amare
una “professione malpagata”
In un libro delle Edizioni dell’Asino a cura di Giulio Marcon, 20
protagonisti del non profit raccontano l’evoluzione e le sfide di un
lavoro che conta oltre 680 mila addetti in Italia. “Basta con la storia di
un settore parastatale e prono al business, commisto alla politica e
senza valori”
ROMA - Un manuale, una roadmap per il futuro, e anche un’inchiesta sui rischi e sulle
opportunità che si incontrano nel mondo del terzo settore. “Lavorare nel sociale - Una
professione da ripensare”, pubblicato dalle Edizioni dell’Asino e a cura di Giulio Marcon,
attualmente deputato per Sinistra ecologia e libertà, ma da anni impegnato su tematiche
sociali (Associazione per la pace, Lunaria, campagna Sbilanciamoci!), fotografa il lavoro
sociale agli albori della riforma del terzo settore e ai tempi di un welfare “smantellato”.
Una mappa dettagliata, con consigli pratici, suggerimenti e testimonianze, che attraversa
un settore ampio che va dal carcere alla disabilità, dal microcredito alla cooperazione
internazionale, dal lavoro di comunità all'altra economia, dai diritti umani alle
tossicodipendenze, dalla scuola agli ospedali psichiatrici giudiziari. Un mondo in
evoluzione costante che ha visto l’impegno volontario diventare strutturale fino a costituire
una “parte integrante di un welfare mix”. Un fenomeno che ha determinato la nascita di
“una economia di grande importanza poggiata su tantissime imprese sociali con enormi
bilanci e fatturati”. Un passaggio storico, spiega Marcon, “che porta il terzo settore a
essere un soggetto economico importante che dà lavoro a centinaia di migliaia di
persone”.
Oggi, i lavoratori di questo ampio settore sono oltre 680 mila, così come numerosi sono gli
albi professionali, le nuove qualifiche, i corsi, i master, le lauree e le scuole di formazione.
Una giungla dove non mancano “ambiguità e storture” emerse anche con le ultime vicende
giudiziarie romane, ovvero Mafia Capitale, o quelle raccontate dal romanzo “I buoni” di
Luca Rastello, spiega Marcon. Un mondo che spesso si trova ad operare in una “opacità
gestionale, quasi fisiologica, per gran parte indotta dai meccanismi istituzionali e dei
finanziamenti pubblici da cui è dipendente”. Più di 20 i contributi raccolti dal libro dai
protagonisti del lavoro sociale in Italia, dalla scuola al tema dei diritti, dal welfare alle
nuove frontiere della finanza etica.
Apre la lunga serie di interventi Cecilia Bartoli, fondatrice di Asinitas (associazione romana
per l’integrazione dei rifugiati), che pone subito l’accento sui rischi “dell’affannosa ricerca
sul come auto-sostenersi in un panorama fortemente instabile e privo di punti di
riferimento”. Un contesto in cui l’educatore è diventato un “professionista, molto mal
pagato e precario cui vengono richieste prestazioni sempre più disparate”. Sullo stesso
tema, le riflessioni di Giovanni Zoppoli, coordinatore del Centro territoriale Mammut di
Scampia a Napoli e Nicola Ruganti, insegnante, che mette in guardia da “approssimazione
e professionalizzazione” del lavoro sociale con gli adolescenti, in una scheda che
approfondisce il rapporto tra operatore e ragazzo all’interno di un insieme di fattori, fatto di
regole, contesti e rischi da tenere in considerazione. Una riflessione ampia anche quella di
Franco Lorenzoni, che da anni gestisce la Casa Laboratorio di Cenci ad Amelia, che pone
l’attenzione sulla necessità degli operatori di una continua ricerca. “Lavorare
nell’educazione senza ricercare - spiega - è come tentare di respirare senza polmoni”
Formazione sì, ma conta anche l’esperienza sul campo. Lo ricorda Antonio Marchesi,
presidente della sezione italiana di Amnesty International che elenca le tante nuove figure
6
professionali, dai campaigner a coloro che si dedicano al fact-finding o al fundraising,
senza dimenticare le attività di advocacy. Per costruirsi una buona professionalità, però,
non basta studiare, spiega Marchesi la "cosa migliore è probabilmente quella di buttarsi
nella mischia”. Esperienza pratica suggerita anche da Gianfranco Schiavone, dell’Asgi,
associazione studi giuridici sull’immigrazione, secondo cui occorre scegliere percorsi che
offrano la “possibilità di un tirocinio in una realtà che concretamente eroga servizi ai
cittadini stranieri”.
Per Sergio Giovagnoli, presidente di Arci Lazio Immigrazione, lavorare nel sociale richiede
una “sempre più attrezzata coscienza critica capace di leggere i processi e le mutazioni
della politica” da “coniugare con le competenze più avanzate”. Francesco Carchedi,
responsabile dell'area ricerca del consorzio Parsec, invita gli operatori sociali a "sapere
fare connessioni multiple e saper co-programmare", saper fare rete e lavorare insieme.
Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, afronta invece il delicato e difficile ruolo
dell’operatore in carcere che “va ben oltre il suo mandato specifico” poiché “il carcere è un
luogo dove la presenza della società esterna è un antidoto alla violenza e agli arbitrii”.
Tuttavia, il contesto e il confronto con l’istituzione carcere non semplifica le cose dal
momento che “per il sistema penitenziario sono tutti volontari”. “Il carcere è un luogo
difficile dove lavorare”, ricorda Gonnella. “Solo un operatore informato, conoscitore delle
norme, rispettato per la sua autorevolezza, supportato dalla sua organizzazione avrà
modo di non restare solo, silente e triste”.
Un lavoro, quello nel sociale, che inoltre deve essere “amato”, racconta don Vinicio
Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco che sul tema del lavoro di comunità
mette subito in chiaro le cose: “Sono definitivamente terminati i tempi nei quali era facile
confondere le funzioni di volontario e di operatore addetto a un servizio”. Un lavoro che ha
bisogno di “professionalità adeguata”, ma non solo. “Da parte di chi presta la propria opera
è fondamentale che il lavoro sia cercato e amato”.
Per Marina Galati e Isabella Saraceni, della Comunità Progetto Sud, serve un "sapere
professionale che sia empiricamente situato, sperimentato e accompagnato dallo sviluppo
della riflessività”. Agli operatori del sistema sanitario dedica un capitolo Roberto Landolfi,
esperto di medicina sociale e del lavoro, mentre Pietro Barbieri, oggi portavoce del Forum
del terzo settore, evidenzia le difficoltà nell’ambito della disabilità dove quello
dell’operatore "è un lavoro disarticolato rispetto al quadro normativo nazionale e
internazionale". Vittorio Agnoletto, fondatore della Lila e da anni impegnato nella lotta
all’Aids sottolinea la necessità del saper lavorare in équipe, suggerita anche da Massimo
Costantini, assistente sociale del Cnca. “Formarsi anche sul campo - spiega Costantini permette di collegare teoria e pratica, per non rimanere delusi da false aspettative”.
Esperienza “sul campo” necessaria anche nell’ambito della salute mentale, come ricorda
Dario Stefano Dell’Aquila, giornalista e ricercatore, secondo cui “l’operatore sociale che
voglia acquisire una specifica competenza non ha altra strada”.
L’ultima parte del libro è dedicata ai “mestieri di un mondo diverso”, con i contributi di
Domenico Chirico, direttore di “Un Ponte per...” sul lavoro del cooperante internazionale,
Alessandro Messina, responsabile delle relazioni con le imprese per Federcasse, e
Monica Di Sisto, vicepresidente di Fairwatch, si confrontano su ulteriori tre ambiti, in parte
nuovi, tra cui le nuove frontiere della finanza etica e quelli dell’altra economia.
Un manuale ricco di spunti, quindi, ma anche di nodi da sciogliere, conclude Marcon.
“Bisogna archiviare una volta per tutte la storia di un terzo settore parastatale e prono al
business, commisto alla politica e senza valori, privo di radicalità e di volontà di
cambiamento. Bisogna ricominciare da capo, facendo tesoro degli errori e delle cose
buone fatte, ma consapevoli che serve un nuovo inizio con alla base rinnovate
7
fondamenta sociali, etiche e politiche. È quello che si aspettano le tante persone che
vogliono fare bene il mestiere degli operatori sociali”. (ga)
8
INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 08/04/15, pag. 2
«La tortura in Italia un problema strutturale»
Katia Bonchi
Genova
Diritti umani. La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per le violenze
della Diaz. Censure pesanti contro stato e polizia: manca il reato
specifico e l’identificativo degli agenti, le istituzioni coprirono i violenti
Il blitz alla Diaz durante il G8 di Genova deve essere qualificato come «tortura», alla
polizia è stato consentito di non collaborare alle indagini e la reazione dello Stato italiano
non è stata efficace violando l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Lo
ha stabilito la Corte europea di Strasburgo (Cedu) che ha accolto il ricorso di Arnaldo
Cestaro, uno dei 92 manifestanti, picchiati e ingiustamente arrestati la notte del 21 luglio
2001. Cestaro, all’epoca 62 enne, uscì dalla scuola con fratture a braccia, gambe e
costole che hanno richiesto numerosi interventi negli anni successivi.
Una sentenza che pesa come un macigno per un Paese le cui istituzioni hanno
minimizzato fino all’ultimo quanto accadde in quella che, grazie alle parole di uno dei
poliziotti intervenuti, è nota come la «macelleria messicana».
La sentenza, decisa all’unanimità, per la prima volta condanna l’Italia per violenze
qualificabili come tortura, escludendo che i fatti possano essere considerati solo come
«trattamenti inumani e degradanti» e sottolineando la gravità delle sofferenze inflitte e la
volontarietà deliberata di infliggerle. La Corte respinge anche la difesa del governo italiano
secondo cui gli agenti intervenuti quella notte erano sottoposti a una particolare tensione:
«La tensione – scrivono i giudici – non dipese tanto da ragioni oggettive quanto dalla
decisione di procedere ad arresti con finalità mediatiche utilizzando modalità operative che
non garantivano la tutela dei diritti umani».
La Cedu entra poi nel cuore del problema: la reazione (o non reazione) dello Stato italiano
a ciò che avvenne.
«Gli esecutori materiali dell’aggressione non sono mai stati identificati e sono rimasti,
molto semplicemente, impuniti» e la principale responsabilità di ciò è addebitabile alla
«mancata collaborazione della polizia alle indagini». Ma la Corte va anche oltre e lamenta
che «alla polizia italiana è stato consentito di rifiutare impunemente di collaborare con le
autorità competenti nell’identificazione degli agenti implicati negli atti di tortura». I giudici
ricordano che gli agenti devono portare un «numero di matricola che ne consenta
l’identificazione». Per quanto riguarda le condanne «nessuno è stato sanzionato per le
lesioni personali» a causa della prescrizione mentre sono stati condannati solo alcuni
funzionari per i «tentativi di giustificare i maltrattamenti». Ma anche costoro hanno
beneficiato di tre anni di indulto su una pena totale non superiore ai 4 anni.
La responsabilità di tutto ciò non è stata né della Procura né dei giudici ai quali il Governo
italiano secondo la Corte ha provato ad attribuire la «colpa» della prescrizione. Anzi, al
contrario, i magistrati hanno operato «diligentemente, superando ostacoli non indifferenti
nel corso dell’inchiesta».
Il problema, secondo la Corte, è «strutturale»: «La legislazione penale italiana si è rivelata
inadeguata all’esigenza di sanzionare atti di tortura in modo da prevenire altre violazioni
simili».
Infatti «la prescrizione in questi casi è inammissibile», come inammissibili sono amnistia e
indulto.
9
La Corte ritiene necessario che «i responsabili di atti di tortura siano sospesi durante le
indagini e il processo e, destituiti dopo la condanna». Esattamente il contrario di quanto
accaduto. Forse anche per questo «il Governo italiano non ha mai risposto alla specifica
richiesta di chiarimenti avanzata dai giudici di Strasburgo».
Dall’ex capo dell’Ucigos Giovanni Luperi al direttore dello Sco Francesco Gratteri al suo
vice Gilberto Caldarozzi, al capo del reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini, i massimi
vertici della polizia hanno proseguito le loro brillanti carriere fino alla condanna definitiva.
Per molti di loro è arrivata nel frattempo l’agognata pensione, per gli altri nessuna
destituzione da parte del Viminale ma solo l’interdizione per 5 anni dai pubblici uffici
disposta dai giudici, terminata la quale potranno rientrare in servizio. Per i capisquadra dei
picchiatori del nucleo sperimentale antisommossa di Roma, condannati ma prescritti prima
della Cassazione (ritenuti però responsabili agli affetti civili) non risultano sanzioni
disciplinari, tantomeno per i loro sottoposti mai identificati.
«I vertici delle forze di polizia hanno ricevuto in questi anni soltanto attestazioni di stima e
solidarietà» commenta il procuratore generale di Genova Enrico Zucca, che ha sostenuto
l’accusa contro i poliziotti in primo e secondo grado — e mi rifiuto di credere che lo stato
non abbia funzionari migliori di quelli che sono stati condannati». «Quando nel corso dei
processi insieme al collega Cardona parlavamo di tortura citando proprio casi della Cedu
ci guardavano come fossimo pazzi», ricorda con un pizzico di amarezza mista alla
soddisfazione per una sentenza che considera però «scontata». Per il magistrato, che
spesso si trovò isolato anche all’interno della stessa Procura nell’inchiesta più scomoda
«bisogna prevenire fatti di questo genere e in Italia non abbiamo antidoti all’interno del
corpo di appartenenza. Le dichiarazioni dopo la sentenza definitiva dell’allora capo della
polizia Manganelli non sono solo insufficienti ma dimostrano la mancata presa di
coscienza di quello che è successo. Fece delle scuse, sì, ma parlando di pochi errori di
singoli, senza riflettere sulla vastità del fenomeno».
La sentenza che ha condannato l’Italia a un risarcimento di 45 mila euro ad Arnaldo
Cestaro arriva a quattro anni dal ricorso. I legali di Cestaro, gli avvocati Niccolò e Natalia
Paoletti, che non hanno neppure atteso la sentenza di Cassazione per rivolgersi alla
Cedu, esprimono soddisfazione: «Siamo molto contenti, soprattutto per il fatto che la corte
ha rilevato l’enorme mancanza dell’ordinamento interno italiano, vale a dire la non
previsione del reato di tortura e lo invita quindi a a porre dei rimedi». Per il loro cliente
anche un risarcimento superiore a quanto normalmente disposto dalla Corte per casi simili
«anche se – dice l’avvocato — parlare di cifre rispetto alla violazione di determinati diritti, è
svilente».
«La sentenza della Corte di Strasburgo – commenta il sindaco di Genova Marco Doria —
riconosce la tragica realtà delle violenze perpetrate alla Diaz e mette a nudo la
responsabilità di una legislazione che non prevede il reato di tortura e, per questa ragione,
lascia sostanzialmente impuniti i colpevoli. È una sentenza di grande valore, non solo da
rispettare, ma da condividere pienamente». «Uno stato democratico – aggiunge il sindaco
— non deve mai tollerare che uomini che agiscono in suo nome compiano atti di brutale
violenza contro le persone e i diritti dell’uomo. È, questa, una condizione essenziale anche
per difendere la dignità di quanti operano invece negli apparati dello Stato secondo i
principi della Costituzione».
L’Italia, che potrebbe fare ricorso contro la sentenza, sarà costretta a ottemperare con una
legge ad hoc.
«Il modello – spiega l’avvocato Paoletti – potrebbe essere per esempio quello francese,
che prevede per la tortura una pena base di 15 anni, aumentata a 20 in caso sia un
pubblico ufficiale a commetterla e a 30 in caso di infermità permanente per la vittima, ma
10
si sa che il nostro Paese è molto ’bravo’ a ottemperare con molta lentezza alle sentenze
della Cedu».
Nell’attesa, comunque lo Stato italiano potrebbe essere costretto a sborsare molto per
risarcire le altre circa 60 parti civili della Diaz che hanno fatto ricorso in blocco dopo la
sentenza definitiva. Se quella di Cestaro può essere considerata una sentenza-pilota, si
può ipotizzare un risarcimento di quasi 3 milioni di euro. Senza contare i processi civili per
le vittime non solo della Diaz ma anche di Bolzaneto, che sono appena cominciati.
del 08/04/15, pag. 1/3
Il vero scandalo è in Parlamento
Patrizio Gonnella
C’è un giudice in Europa. I fatti di Genova risalgono al 20 luglio del 2001. In quella
circostanza una buona parte delle istituzioni si è sentita legittimata a ragionare e ad agire
come se fosse in uno stato di eccezione. La presenza di due ministri nella cabina di regia
delle operazioni di polizia contro i manifestanti assunse il significato di legittimare
l’eccezionalità di quanto stava accadendo. Ci furono le brutalità della Diaz e poi le torture
di Bolzaneto. Non furono episodi marginali o «mele marce».
Fu qualcosa di sistemico e strutturale. L’anno prima vi erano state le violenze al Global
forum di Napoli e quelle denunciate nel carcere di San Sebastiano a Sassari. Tre anni
prima, ovvero nel luglio 1998, l’Italia solennemente aveva firmato lo Statuto della Corte
Penale Internazionale che avrebbe dovuto giudicare su scala globale i gravi crimini contro
l’umanità, tra cui per l’appunto la tortura. Tredici anni prima, nel 1988, l’Italia aveva firmato
e ratificato la Convenzione Onu contro la tortura che all’articolo 1 definiva il crimine e agli
articoli successivi impegnava tutti i Paesi a punirlo in modo adeguato ed efficace. In Italia
la tortura invece non è un reato. A Strasburgo se ne sono accorti e così è arrivata la
condanna per quanto accaduto alla Diaz.
La parola chiave di questa storia è «scandalo». La pietra dello scandalo non è la tortura
praticata, in quanto essa non è mai purtroppo una sorpresa, neanche nelle più consolidate
delle democrazie. Chi si sorprende della tortura fa sempre il gioco dei torturatori. È uno
scandalo il fatto che per 25 anni la classe dirigente di questo paese non ha avuto alcuno
slancio nel nome dei diritti umani. La storia parlamentare ci rimanda a inerzie, meline,
opposizioni nel nome ora della ragion di stato, ora dello spirito di corpo, ora delle mani
libere.
Una storia politica dove è difficile capire chi non sia responsabile. Dal 1988 si sono
succeduti governi della prima e della seconda Repubblica, governi di centrodestra e di
centrosinistra, eppure la tortura non è mai stata criminalizzata per quel che è, ovvero un
delitto proprio del pubblico ufficiale.
Nei prossimi giorni riparte il dibattito alla Camera. La Commissione Giustizia ha modificato
il testo – imperfetto e incoerente rispetto al dettato Onu – approvato in Senato. Per cui
riprenderà il ping pong parlamentare che nelle scorse legislature ha decretato la morte
delle varie proposte di legge pendenti.
In tutti questi anni, abbiamo sentito parlamentari chiedere che non fosse punita la
sofferenza psichica prodotta dalla tortura altrimenti alcuni pubblici ministeri avrebbero
rischiato l’incriminazione o altri deuatti evocare la punizione solo per chi tortura almeno
due volte. Nel frattempo la cronaca ci ha ricordato che la tortura non è un crimine da terzo
mondo, ma anche del secondo e del primo. Tre anni fa un giudice ad Asti non ha potuto
punire due agenti di polizia penitenziaria in quanto, come lui stesso ha scritto nella
11
sentenza, «in Italia manca il delitto di tortura» e le condotte dei due agenti coincidevano
con la descrizione del crimine presente nel Trattato delle Nazioni Unite. Sappiamo – grazie
a Voltaire — che il meglio è nemico del bene. Sappiamo anche che abbiamo bisogno di
una legge che non perpetui l’impunità dei torturatori.
* Presidente di Antigone
Dell’8/04/2015, pag. 1-2
Il vero nome di quella violenza cieca che il
nostro Paese non sa pronunciare
CONCITA DE GREGORIO
BISOGNA essere molto longevi, in questo Paese, molto ostinati, un po’ fortunati certo e
bisogna anche vivere di poco, consumare l’essenziale per avere — se non sei nessuno —
giustizia, perché quattordici anni di ricorsi costano e se non hai soldi chi paga. Bisogna
anche essere dotati di una certa ironia e autoironia, o fatalismo almeno, o fede in una
qualche divinità celeste o laica perché se no c’è il rischio molto serio e comprensibile — se
per esempio la polizia ti ha massacrato di botte mentre dormivi senza che tu avessi alcuna
colpa (ma anche se avessi avuto colpa: la polizia ti ha massacrato di botte) — c’è il rischio
si diceva che l’iniziale incredulità per quel che ti è successo e poi la rabbia diventino
un’ossessione che ti fa impazzire.
In questo caso non ti ospitano più neppure nei talk show perché sei quel vecchio pazzo
che parla solo della Diaz, o la madre annegata nel dolore di un figlio pestato di notte per
strada, o ammazzato nell’infermeria di un carcere o colpito da una pallottola “vagante”,
che vagava. Queste storie qui, che non fanno ascolti nessuno le vuole sentire, la gente
cerca ottimismo e sorrisi, e poi tanto si sa che quando c’è di mezzo il potere, per giunta in
divisa, non è mai colpa di nessuno. Non è stato nessuno. Ogni tanto però c’è l’Europa.
Deve essere insieme consolante e deprimente per Arnaldo Cestaro, 75 anni, vedere
accolto dalla corte di Strasburgo il suo ricorso sul massacro nella scuola Diaz: sì, fu tortura
ed è molto grave che l’Italia non preveda nel suo ordinamento il reato di tortura, dice la
Corte europea dei diritti umani. L’Europa condanna, l’Italia no. L’Italia manda assolti i
mandanti, condanna a pene lievi gli esecutori materiali (non tutti) e assegna risarcimenti
ridicoli alle vittime. Vi hanno resi zoppi e ciechi, vi hanno ridotto in sedia a rotelle, ok:
prendete questi 30 mila euro e tornatevene a casa. L’ordine di massacrarvi non ci risulta
l’abbia mai dato nessuno. Vedete? 150 udienze, anni e anni di processo e non ci sono le
prove. Promossi, i capi, o trasferiti ad altro più prestigioso incarico. Comunque assolti.
Arnaldo Cestaro aveva poco più di 60 anni, quella notte. Era arrivato al G8 di Genova con
i suoi compagni della sezione di Rifondazione Comunista di Vicenza e Montecchio
Maggiore, aveva sfilato pacificamente per strada poi, la sera, aveva chiesto consiglio su
un posto dove andare a dormire. Una donna gli aveva indicato la scuola Diaz, messa a
disposizione dagli enti locali come alloggio per i manifestanti. Era l’ultima sera, l’indomani
come tutti sarebbe tornato a casa. Per una notte poteva anche sistemarsi per terra, nel
sacco a pelo, proprio nell’atrio dietro al portone d’ingresso.
Io me lo ricordo, Arnaldo Cestaro. Mi ricordo nel buio il bianco dei suoi occhi mentre
usciva dal cancello della scuola, i ragazzi affacciati all’edificio di fronte che gridavano “è un
vecchio, hanno picchiato un vecchio”, e lui che urlava senza che gli uscisse la voce, urlava
solo col viso e con lo sguardo. Un braccio, una gamba, dieci costole rotte. Mi ricordo di lui
e di tutti quelli che uscivano in barella, uno per uno che non si finiva più di contare, quello
12
che sembrava morto, quella che piangeva perché non trovava più il suo libro e aveva il
naso sulla destra della faccia, quelle due rannicchiate in un angolo, abbracciate dentro
una pozza di sangue, le Bibbie, le carte d’identità, i Don Chisciotte, le spazzole per capelli,
le scie rosse che arrivavano ai maniglioni antipanico delle porte chiuse coi lucchetti e le
catene, le impronte rosse delle mani sui registri ancora aperti nell’ufficio della preside.
E su una colonna “ don’t clean up this blood ”, non lavate questo sangue. E poi mi ricordo
di Arnaldo Cestaro, un po’ più vecchio, al processo: ero andata a testimoniare contro le
menzogne di chi diceva «li stiamo solo aiutando, non vedete, è una semplice
perquisizione, erano feriti da prima», ma non è servito a nulla dire io c’ero, ho visto, posso
giurare. Mi ricordo il suo sguardo, nell’aula. Non serve dire che abbiamo visto, dicevano i
suoi occhi: vedi, i padroni sono loro, i loro avvocati menano la danza, la politica li copre.
Non serve. È anche per questo che sono particolarmente felice che Arnaldo Cestaro sia
un uomo longevo. Più dell’attesa che serve e non sempre basta, abbastanza da sentirsi
dire oggi da un giudice che non vive in Italia: avevi ragione, hai sempre avuto ragione. Ti
hanno torturato, ed erano per giunta uomini in divisa dello Stato: infierire a calci e colpi di
manganello su chi dorme è tortura. Non c’era nessuna ragione per farlo e comunque non
si può fare: perché le vostre leggi non lo dicono?
Ecco. Non c’era nessuna ragione — vale per lui e per tutte le altre vittime di quella notte —
e non si può fare. Difatti è questo che Cestaro chiede dopo la sentenza: «Mi sentirò
risarcito solo dopo che lo Stato avrà introdotto il reato di tortura perché se il Parlamento
non agisce il male che hanno fatto a me potranno sempre farlo ad altri». Sempre,
potranno. La proposta di legge c’è: giace da due anni in Parlamento. È passata alla
Camera, modificata, dovrà tornare al Senato. Molto ostacolata. Non prioritaria.
Bisogna essere molto longevi, ostinati. Ancora, Cestaro. Bisogna credere nella giustizia:
se non in quella degli uomini almeno in quella del tempo.
Dell’8/04/2015, pag. 3
IL MAGISTRATO / ENRICO ZUCCA
“Il messaggio europeo è chiaro: dovete
spaventare chi sevizia ma il Parlamento fa il
contrario”
MARCO PREVE
ENRICO Zucca, oggi sostituto procuratore generale, è stato il pm della più difficile
inchiesta sui fatti del G8, quella della Diaz.
La sentenza della Corte Europea cosa insegna all’Italia?
«Che contrariamente a quanto sostenuto dai nostri governi proprio a Strasburgo, la tortura
non è una pratica lontana dalla nostra mentalità. Non è vero, e la storia recente ce lo
dimostra. In determinati periodi, vedi la lotta al terrorismo o alla mafia, la polizia italiana
non è capace di evitare il ricorso a pratiche vietate. Il waterboarding ne è un esempio
lampante».
C’è una cura?
«La tortura è un fenomeno endemico a tutte le strutture militari come la corruzione alla
pubblica amministrazione. Non bisogna nascondersi il pericolo e affrontarlo creando
anticorpi. Avere la consapevolezza che in certe condizioni è facile scivolare verso la
tortura. Se si nega come hanno fatto vari governi italiani ci si cade dentro. Gli Stati Uniti, in
13
un contesto assai più stressante rispetto alla Diaz, come la guerra al terrorismo, hanno
praticato la tortura. Ma poi hanno saputo riconoscere l’errore. Ed è importante che i primi a
imporre degli stop siano stati proprio i procuratori militari che rifiutavano confessioni
estorte con la violenza».
Oggi la legge sulla tortura sembra vicina anche in Italia.
«Il disegno di legge è un compromesso che sembra voler proteggere la polizia da
forzature della magistratura. Ho sentito parlare di emendamenti che tutto fanno tranne che
rispettare le indicazioni della Convenzione dei diritti dell’uomo. O si capisce che la tortura
è il reato commesso da uomini dello Stato oppure siamo lontani. La Corte europea lancia
all’Italia un messaggio preciso: “Dovete spaventare i torturatori”. Il contrario di quello che
sta facendo il Parlamento».
La paura dell’Is potrebbe aprire la porta alle maniere forti.
«Proprio perché la tortura è la tentazione di tutte le democrazie, oggi dobbiamo fare i conti
con una duplice minaccia proveniente dal terrorismo. La prima è quella più diretta, di chi
attenta alla vita democratica con violenza brutale e sanguinaria. Ma poi c’è la minaccia più
insidiosa, quella per cui lo Stato scende sullo stesso terreno del terrorismo e rinnega i
propri principi. È quel che dobbiamo evitare perché sarebbe la vittoria dei nemici della
democrazia ».
del 08/04/15, pag. 4
Tortura e codici su divise: le leggi impossibili
Eleonora Martini
Roma
Giustizia. La Camera domani riprende i lavori sull’introduzione del
reato. Ma tipizzato all’italiana. Mentre il governo blocca al Senato il testo
di Sel sugli identificativi per gli agenti
Reato di tortura e codice identificativo per le forze dell’ordine: fino a quando l’Italia non
provvederà a colmare queste lacune nel proprio ordinamento, la «natura strutturale del
problema» rimarrà — per usare le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo —
«evidente». Appurato infatti che il comportamento da “macelleria messicana” tenuto dalle
forze dell’ordine alla Diaz «deve essere qualificato come tortura», nella condanna contro
Roma la Corte di Strasburgo pronuncia un esplicito imperativo a rispettare i principi della
legislazione internazionale.
Insomma, ciò che gli italiani discutono inutilmente da decenni, all’impasse per i veti delle
divise di cui la destra si fa portavoce ma che riescono ad imbalsamare anche il Pd,
incapace di procedere sulla strada segnata dalla stessa Costituzione italiana, dalla
Convenzione di Ginevra del 1949 e da una lunga serie di patti internazionali fino alla
Convenzione Onu ratificata dal nostro Paese nel 1988 ma mai attuata, appare invece
chiaro ai giudici europei. Il collegio presieduto da Päivi Hirvelä infatti scrive che il diritto
penale italiano ha dimostrato di essere «inadeguato» non solo perché non prevede alcuna
sanzione contro i pubblici ufficiali che abusando dei propri poteri compiono atti di «tortura»
o anche solo «azioni disumane e degradanti», ma anche perché è «privo di disincentivi in
grado di prevenire efficacemente il ripetersi di possibili violenze da parte della polizia».
Già un anno fa la Corte europea, condannando l’Italia a risarcire un uomo picchiato dai
carabinieri, aveva bacchettato anche la magistratura troppo spesso inerte davanti simili
fatti.
14
E sebbene qualcosa si sia mosso, negli ultimi anni, da quando alcuni tribunali hanno
sottolineato l’impossibilità di procedere alla condanna delle forze dell’ordine colpevoli di
violenza per mancanza di leggi appropriate (G8 di Genova e caso Cucchi, primi tra tutti), il
reato di tortura e il codice identificativo per gli agenti di polizia non sono ancora strumenti a
disposizione.
Alla Camera però è calendarizzata già per domani la discussione iniziata il 23 marzo
scorso sul ddl tortura, il cui testo è stato licenziato dal Senato nel marzo 2014 e modificato
dalla commissione Giustizia al fine di armonizzarlo maggiormente — ma non del tutto —
alle convenzioni internazionali. «Abbiamo innanzitutto raddoppiato i tempi di prescrizione
che ora arrivano fino a 24 anni — spiega la presidente della commissione Donatella
Ferranti (Pd) — e abbiamo cercato di tipizzare meglio la fattispecie di reato, soprattutto nel
caso di pubblico ufficiale che abusa dei propri poteri, specificando le finalità della condotta
volta ad ottenere informazioni, a vincere una resistenza, per punizione o per
discriminazione».
Ma la prima e più importante “pecca” del testo, che dopo l’approvazione della Camera
dovrà comunque tornare in seconda lettura al Senato, sta nel fatto che la tortura non è
qualificata come reato proprio ma comune, quindi imputabile a qualunque cittadino e non
solo alle forze dell’ordine, come avviene in molti Paesi occidentali. «È stata una scelta
politica — ammette Ferranti — ma non cambia nulla perché nel caso di reato commesso
da pubblico ufficiale è prevista un’aggravante con pena autonoma, come se fosse un reato
specifico. Abbiamo scelto di non stravolgere ulteriormente il testo del Senato, dove
comunque si è svolto un alto dibattito per più di un anno, in modo da velocizzare
l’approvazione finale. Ora mi auguro che la Camera approvi all’unanimità il provvedimento,
in modo da poter avere la legge definitiva entro l’estate».
Il nuovo testo modificato dalla commissione Giustizia punisce con la reclusione da 4 a 10
anni «chiunque, con violenza o minaccia o violando i propri obblighi di protezione cura o
assistenza, intenzionalmente cagiona a una persona a lui affidata o sottoposta alla sua
autorità sofferenze fisiche o psichiche». La pena è aggravata da 5 a 12 anni quando a
torturare è un incaricato di pubblico servizio, il quale può essere accusato anche di un
nuovo reato, l’istigazione specifica, punito con il carcere fino a 3 anni anche se
l’istigazione non è stata accolta e la tortura infine non c’è stata.
Per i codici alfanumerici sulle divise invece c’è da aspettare di più, perché il governo ha di
fatto bloccato i lavori in commissione Affari costituzionali del Senato sul testo presentato
da Sel e che avrebbe dovuto arrivare in Aula la scorsa settimana, annunciando
provvedimenti in questo senso in un prossimo ddl sulla sicurezza urbana. «L’accordo con
il ministro Alfano è che la commissione analizzerà contemporaneamente i due ddl —
spiega la senatrice di Sel Loredana De Petris — Ma aspetteremo ancora quindici giorni,
poi, se il ddl governativo non arriverà, faremo pressioni per riprendere i lavori sul nostro
testo e introdurre i codici con i quali a Genova si sarebbero potuti identificare i torturatori».
Dell’8/04/2015, pag. 4
Il Pd accelera sul reato, i dubbi di Ncd
La proposta alla Camera: fino a dieci anni di carcere per l’aggressore,
dodici se appartiene alle forze dell’ordine e trenta se la vittima muore.
Ma i democratici temono il muro del centrodestra. Cicchitto: non
demonizzare gli agenti
15
LIANA MILELLA
Ancora sull’onda di uno schiaffo. Di Strasburgo questa volta. Dei delitti comuni, vedi
omicidio stradale. Della corruzione che dilaga, vedi ddl anti-corruzione. Dei processi in
fumo, vedi Eternit e le norme sulla prescrizione. La politica insegue l’emergenza, e si
divide. La tortura è un caso di scuola. Dice adesso Laura Boldrini, la presidente della
Camera: «Giovedì si vota. Il Parlamento colma un vuoto intollerabile ». Già, un buco
clamoroso. Ironicamente twitta Saviano che «a 14 anni dai fatti di Genova la tortura è un
reato che neppure esiste». Eppure, come ricorda Mauro Palma, per undici anni presidente
del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, che il Guardasigilli Orlando
vorrebbe come vice al Dap, «in Italia se ne parla dall’89, visto che cinque anni prima era
stata votata la convenzione Onu, poi recepita nella nostra legislazione ». Prima proposta
quella del senatore Nereo Battello del Pci. Era, appunto, l’89.
Ma siamo ancora qui, senza il reato che tutti i Paesi civili hanno, in un Parlamento pronto a
fare la guerra. Perché la destra frena, in questo caso la Lega e un po’ Ncd, perché c’è
sempre chi vuole proteggere le forze di polizia, perché pure la sinistra si divide. Vedi il
conflitto in nuce tra Manconi, Pd Senato, e Ferranti, Pd Camera. Il primo ha proposto la
legge, la seconda l’ha integrata. Palma dice che ha fatto bene. Lui stesso, sentito in
commissione Giustizia, ha proposto quelle integrazioni. Che spiega così: «Il testo che la
Camera si appresta, spero, ad approvare, ricalca la Convenzione Onu. Si può solo dire
che è il passo avanti che aspettiamo dal lontano ‘84».
Guardiamo il testo. Tortura, nuovo articolo 613-bis del codice penale. Reato comune, 4-10
anni. Con un’aggravante per i pubblici ufficiali o gli incaricati di pubblico servizio, 5-12
anni. Un terzo o la metà in più se c’è una lesione. Trent’anni se il torturato muore.
L’ergastolo se la tortura era voluta e mirata. Prescrizione raddoppiata comunque (l’ha
pretesa Ferranti). Rischia chi «con violenza o minaccia, o con violazione dei propri obblighi
di protezione, cura o assistenza, intenzionalmente cagiona a una persona a lui affidata o
sottoposta alla sua autorità, vigilanza o custodia, acute sofferenze fisiche o psichiche, al
fine di ottenere informazioni o dichiarazioni o di infliggere una punizione o di vincere una
resistenza, ovvero in ragione dell’appartenenza etnica, dell’orientamento sessuale o delle
opinioni politiche e religiose». Troppi dettagli, secondo Manconi. Specificazioni
«indispensabili» per Donatella Ferranti, la presidente Pd della commissione Giustizia della
Camera. «Fino a oggi non c’è mai stato lo spazio politico, la destra ha fatto muro sulle
forze di polizia, anche qui in commissione sono venuti a ripeterlo, che il reato di tortura è
inutile, che ci sono nel codice i maltrattamenti e le lesioni gravi. Per questo sono stata
puntigliosa, ho sentito Palma, che considero un’autorità in materia, e valenti giuristi come
Viganò, ma anche Amnesty International, e le organizzazioni della polizia e del Dap,
Sabelli dell’Anm, il capo della polizia Pansa. Alla fine sono soddisfatta». Il Pd è con lei. Il
Guardasigilli Orlando, il relatore Vazio, Verini e Fiano, il vice capogruppo Rosato che la
difende da Falanga che l’accusa di ritardi. I rischi, semmai, vengono dalla stessa
maggioranza, basta sentire l’Ncd Cicchitto quando mette in guardia dal rischio di
«demonizzare le forze dell’ordine». «E già, bisogna stare molto attenti» raccomanda il Pd
Felice Casson. «Me li ricordo bene questi anni. Berlusconi, Prodi, poi di nuovo Berlusconi,
tanti ddl sulla tortura, l’accordo pareva raggiunto, poi la destra faceva saltar tutto. Perché è
ideologicamente contro. È giusto che sia un reato comune. Punito il pubblico ufficiale, ma
anche i camorristi che hanno la camera della morte o gli infermieri delle cliniche private.
Se passa così è un successo».
16
del 08/04/15, pag. 4
TUTTI PROMOSSI
Le brillanti carriere dei poliziotti condannati
Simone Pieranni
Durante i procedimenti ospitati nelle aule del tribunale di Genova, i poliziotti a processo
per l’irruzione nella scuola Diaz, hanno dato prova di grande «solidarietà» tra di loro.
Alcuni hanno provveduto a «coprirsi», provando anche a modificare l’esito del
procedimento, almeno secondo i le accuse dei pubblici ministeri di Genova. Nel frattempo
le carriere dei poliziotti progredivano o, nel peggiore dei casi, nulla accadeva. Si è sempre
detto che la «catena di comando» nell’operazione Diaz sia sempre rimasta nel dubbio. In
realtà nelle carte processuali emergeva fin troppo nitidamente, complici foto scattate nel
cortile della scuola genovese e testimonianze ai processi. E nel gennaio del 2014 il
tribunale di sorveglianza, ha infine stabilito gli arresti domiciliari tre dei «super poliziotti»
condannati per i fatti della Diaz. Stiamo parlando di Francesco Gratteri, Spartaco Mortola e
Giovanni Luperi.
Il primo, il funzionario di grado più alto tra quelli processati per la Diaz, era allora a capo
dello Sco. Nell’aprile del 2006, durante una deposizione al processo, un ragazzo lo
riconobbe nei video mostrati in aula. A tradire l’allora capo dello Sco, il vestito. Il teste, un
ragazzo tedesco del 1975, lo aveva indicato, riconoscendolo in quell’uomo alto, in
completo scuro, camicia chiara, con barba e casco. Francesco Gratteri, da lì a poco
promosso a capo dell’antiterrorimo italiano, poi questore a Bari, oggi è ai domiciliari.
Spartaco Mortola nel 2001 dirigeva la Digos a Genova. Nel febbraio del 2010 ricomparve
sulla scena politica italiana, perché era lui a guidare le cariche contro i cortei no Tav in val
di Susa. Eppure anche lui, nel gennaio scorso, è stato condannato ai domiciliari. Il suo
nome emerge nelle cronache giudiziarie nel 2004, quando venne condannato il primo
poliziotto del g8, responsabile di avere picchiato il minorenne diventato un simbolo di
quelle giornate, per il suo volto sformato e tumefatto. Mortola, indagato, venne però
assolto e ai giornalisti presenti in aula esclamò: «Uno a zero». Perché ci sarebbero stati
altri «goal». Mortola, infatti, era tra i 28 poliziotti rinviati a giudizio per il processo per
l’irruzione alla scuola Diaz. Come capo della Digos di Genova, era stato lui a scortare i
reparti speciali alla scuola per l’azione. Poi, era rimasto fuori a chiacchierare, mentre il
sacchetto con le due molotov - false secondo i pm, prova suprema del covo dei black bloc
per la polizia - passava di mano in mano. Proprio quelle molotov finirono per mettere
Mortola in un nuovo procedimento, da indagato. Nel frattempo era stato promosso:
questore ad Alessandria. Poi questore vicario a Torino (ecco il collegamento con i no Tav).
Ma Genova incombeva, anche perché Mortola si trovò invischiato nel caso delle molotov
scomparse e nel procedimento con indagato l’ex capo della polizia De Gennaro.
Quest’ultimo è oggi Presidente di Finmeccania, prima di essere stato Commissario
Straordinario per l’Emergenza rifiuti in Campania. Nel 2008 è stato nominato direttore del
Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza, e nel 2012 sottosegretario alla
Presidenza del Consiglio dei Ministri del Governo Monti. Gianni Luperi nel 2001 era il capo
dell’Ucigos. Indagato, fu promosso: capo del Dipartimento analisi dell’Aisi (Agenzia
informazioni e sicurezza interna), quello che era il Sisde. Durante l’operazione alla Diaz,
Luperi - oggi in pensione - era da considerarsi riferimento per gli operatori appartenenti
alle Digos.
17
ESTERI
del 08/04/15, pag. 1/15
Iran e Turchia fronte comune contro l’Isis
Alberto Negri
L’Iran sostiene Bashar Assad mentre la Turchia ha aperto in questi anni a guerriglieri e
terroristi “l’autostrada della Jihad” per abbattere il regime di Damasco e ora confina per
400 chilometri con il Califfato. L’Iran è stato invece il primo governo della regione a
scendere in campo apertamente contro lo Stato Islamico.
I due vicini di casa, eredi di antichi Imperi, non sono mai stati in apparenza così rivali negli
ultimi tempi. «L’ascesa della mezzaluna sciita iraniana che con curdi ed Hezbollah ha fatto
indietreggiare il Califfato in Iraq infastidisce non poco Erdogan», aveva confidato qualche
giorno fa ad Ankara l’editorialista di Hurriyet Mura Yetkin e non è un caso che prima di
volare a Teheran Erdogan abbia ricevuto la visita improvvisa del principe Nayef Al Saud,
uno degli eredi al trono in Arabia Saudita, l’acerrimo avversario di Teheran nel Golfo e in
Yemen dove Riad bombarda i ribelli sciiti Houthi.
Eppure Tayyep Erdogan, preceduto dalle aspre polemiche della vigilia in cui aveva
dichiarato che «l’Iran cominciava a dare fastidio», è stato ieri il primo leader mediorientale
e della Nato a volare a Teheran dopo l’accordo di Losanna sul nucleare perché come
ripeteva Henry Kissinger «le nazioni non hanno amici o nemici permanenti ma soltanto
interessi».
E con l’arte della retorica gli avversari riescono persino a superare i massacri sul campo di
battaglia: «Ci impegneremo insieme a fermare il bagno di sangue in Medio Oriente e la
guerra in Yemen», hanno dichiarato in una conferenza stampa congiunta Erdogan e il
presidente iraniano Hassan Rohani, prima che il leader turco incontrasse anche la Guida
Suprema Ali Khamenei.
Le divergenze restano, sono forti, ma attutite dagli interessi reciproci. La diplomazia
iraniana voleva a tutti i costi far sedere al tavolo Erdogan e lo stesso presidente turco, che
aveva per altro incoraggiato l’accordo sul nucleare, non intendeva rinunciare a un asset
strategico della Turchia: il rapporto diretto e senza mediazioni con Teheran che si
concretizza in un giro d’affari di 14 miliardi di dollari, da portare, secondo il comitato
bilaterale riunito ieri, a 30 entro fine dell’anno prossimo. Un traguardo ambizioso ma a
portata di mano più di quanto non si creda. Le sanzioni hanno danneggiato anche la
Turchia che spera in un accordo definitivo tra l’Iran e il Cinque più Uno entro la fine di
giugno per superare ogni embargo e penetrare il mercato iraniano: 80 milioni di
consumatori che possono essere facilmente raggiunti dalla merci turche (ed europee).
Ma perché Erdogan è andato a Teheran vincendo le sue personali resistenze e quelle dei
sauditi? L’Iran rientra nei piani strategici della Turchia di diventare un hub dell’energia
diretta verso l’Europa. L’Iran già oggi esporta il 90% del suo gas in Turchia dove copre il
20% dei consumi interni, oltre al 16% di quelli petroliferi. Teheran, maggiore fornitore della
Turchia dopo Mosca, ha le seconde riserve di gas al mondo ed è facilmente intuibile il
piano di Ankara: mettere in concorrenza i suoi venditori principali, in primo luogo la Russia,
con cui deve realizzare il gasdotto Turkish Stream fortemente osteggiato dagli americani,
e poi anche l’Azerbaijan, al quale sarà collegata dal gasdotto Tanap.
Erdogan ha subito scoperto le carte. «Se l’Iran riduce i prezzi siamo pronti ad aumentare
le nostre importazioni di gas. Due Paesi amici e fratelli hanno il dovere di mostrarsi
solidali», ha detto il presidente turco. Parole un po’ diverse da quelle pronuciate qualche
giorno fa dallo stesso Erdogan quando aveva attaccato Teheran affermando che «l’Iran
18
sta provando a dominare il Medio Oriente infastidendo noi, i sauditi e gli altri Paesi del
Golfo». L’uscita di Erdogan a Teheran, nel palazzo di Saadabad, è miele per le orecchie
degli iraniani che puntano su Ankara per il loro export energetico verso l’Europa.
Ma ci sono altre ragioni, forse meno evidenti, che hanno spinto Erdogan a Teheran. Il
presidente turco, che sul suo territorio schiera i missili Nato contro l’Iran, intende
controbilanciare i suoi stessi alleati occidentali e regionali mostrando di avere mano libera
di fare accordi con gli ayatollah. Il Medio Oriente è nel caos ma Teheran e Ankara sono
sempre state d’accordo su un punto: non consentire la nascita di un’entità curda (o di uno
stato curdo) fuori dal loro controllo. Ecco perché due vicini distanti e con interessi in
apparenza inconciliabili trovano quasi sempre un accordo, come del resto suggeriscono le
sperimentate ricette diplomatiche di Kissinger.
del 08/04/15, pag. 9
Yarmouk, tra le rovine Hamas combatte l’Isis
Chiara Cruciati
Siria. Intervista all'analista palestinese Nassar Ibrahim: nel campo di
Damasco presenti tutti gli attori del conflitto siriano. Secondo l'Olp, i
combattenti palestinesi hanno riconquistato parte del campo profughi
Decapitazioni, assenza di cibo e medicinali, colpi di artiglieria contro le case e cecchini che
mirano a chiunque provi a uscire o entrare nel campo. Yarmouk, la “capitale” dei rifugiati
palestinesi, il simbolo della diaspora e dell’agognato diritto al ritorno, vive l’ennesimo
capitolo della sua personale tragedia.
A combattere dentro Yarmouk sono i gruppi palestinesi, nell’estremo tentativo di difendere
quel poco di normalità che il campo ha sempre rappresentato fino allo scoppio della guerra
civile siriana. Ma i residenti sono allo stremo, senza cibo, acqua né medicinali, fa sapere
l’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi.
Secondo Anwar Abdel-Hadi, responsabile dell’Olp in Siria, «lo Stato Islamico [entrato
definitivamente a Yarmouk una settimana fa, ndr] controlla ora il 60% di Yarmouk, dopo
aver preso il 90% ma essere stato poi respinto dai gruppi armati da alcuni quartieri del
campo». Ancora sono in corso gli scontri tra le vie strette del campo profughi, scontri a cui
prende parte l’artiglieria del governo di Damasco, intenzionato a non permettere agli
islamisti di avvicinarsi ulteriormente al cuore della capitale.
«Yarmouk il più grande campo profughi palestinese al mondo e base per decenni della
leadership palestinese in esilio, è modello della guerra civile siriana ma anche del più
ampio conflitto che oggi scuote la regione – spiega al manifesto l’analista palestinese
Nassar Ibrahim – Dentro Yarmouk sono presenti, direttamente e indirettamente, tutti gli
attori locali, regionali e internazionali che da quattro anni tentano di decidere le sorti di
Damasco, facendo collassare il governo del presidente Bashar al-Assad. Ci sono i gruppi
islamisti creati e finanziati dal Golfo e dalla Turchia; ci sono le opposizioni moderate,
strumento occidentale; ci sono i gruppi pro-Assad, c’è l’esercito governativo; c’è il califfato
di al-Baghdadi».
Dentro Yarmouk sono in tanti a combattere, ma a pagarne le spese è quel che rimane
della popolazione del campo, che prima oscillava tra le 150mila e le 180mila persone, per
lo più rifugiati palestinesi, ma anche siriani poveri impossibilitati a vivere nella capitale.
Difficile dare un bilancio esatto delle vittime: la stampa parla di 40 morti dallo scorso
mercoledì, quando l’Isis ha fatto irruzione nel campo; fonti mediche di quasi 200.
19
I gruppi presenti coprono l’intero spettro del conflitto: due gruppi palestinesi pro-Assad, il
Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina – General Command e Fatah al
Intifada, vicino ad Hezbollah; i qaedisti di al-Nusra, i siriani islamisti di Ahrar al-Sham, i
siriani moderati dell’Esercito Libero, opposizione a Damasco; e i gruppi palestinesi Aknaf
Beit al-Maqdis (organizzati da Hamas) e i fuoriusciti del Pflp, al-Uhda al-Umariya.
«Nel 2011 il governo di Damasco ha tentato di lasciare fuori i profughi palestinesi dal
conflitto. Vi sono stati trascinati dalla decisione di Hamas di abbandonare l’ex alleato
siriano, per schierarsi con l’asse di opposizione – continua Ibrahim – Fino al 2012 il capo
di Hamas, Khaled Meshaal, aveva la sua base a Yarmouk. Questa rottura ha portato i
gruppi palestinesi vicini ad Hamas a schierarsi con i ribelli siriani: Yarmouk è finita nel
cuore del conflitto».
«Oggi Yarmouk è il terzo fronte aperto in queste settimane dalle opposizioni interne e dai
nemici esterni contro il governo Assad, a seguito delle vittorie segnate dall’asse sciita in
Yemen (dove l’Arabia Saudita non riesce a frenare l’avanzata Houthi) e in Iraq (dove i
pasdaran iraniani hanno liberato Tikrit). Il primo fronte è al confine con la Giordania: una
settimana fa al-Nusra ha preso il principale valico con il regno hashemita, Nasib. Il
secondo fronte è a nord, a Idlib, occupata dai qaedisti. E il terzo è Yarmouk, che dopo le
battaglie per il controllo delle regioni settentrionali, da Aleppo a Raqqa, e quelle
meridionali al confine con il Golan, ha fatto tornare centrale Damasco.Yarmouk è oggi
fondamentale perché a pochi km dal cuore del governo Assad, perché modello del più
ampio conflitto a livello nazionale e regionale e, infine, perché rappresenta la questione
palestinese e i tentativi di strumentalizzazione da parte di tutti gli attori coinvolti».
Chi paga le spese delle tante guerre per procura mediorientali è la popolazione civile.
Lunedì il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha chiesto la creazione di un accesso umanitario
al campo per garantire la protezione dei civili e la loro evacuazione. Ma la situazione, dice
Pierre Krahenbuhl, capo dell’agenzia Onu Unrwa, «è più disperata che mai». Alle bombe
governative che piovono sul campo, nel tentativo di colpire le postazioni dell’Isis, si
aggiungono le atrocità dello Stato Islamico: almeno nove combattenti palestinesi
sarebbero stati uccisi, due di loro decapitati.
Così il numero di residenti di Yarmouk continua ad assottigliarsi: 18mila dopo lo scoppio
della guerra civile, il 10% della popolazione totale; 15-16mila oggi, dopo la fuga disperata
dalle barbarie dell’Isis di altri 2mila rifugiati che in qualche modo sono riusciti a rompere
l’assedio e a darsi alla fuga.
del 08/04/15, pag. 15
Orrore Isis. Appello delle Nazioni Unite: «Indicibili violenze nel campo
profughi palestinese alla periferia di Damasco»
Onu: corridoio umanitario per Yarmouk
Cresce l’allarme internazionale per il campo profughi palestinese di Yarmouk, alle porte di
Damasco, occupato quasi interamente dall’Isis. Il gruppo jihadista ha diffuso il primo video
dei suoi miliziani mentre si aggirano all’interno della struttura, immagini probabilmente
girate al momento della conquista del campo. Il campo dista cinque chilometri dal centro
della capitale siriana e ieri l’aviazione del regime ha continuato per tutta la mattinata il
bombardamento di varie zone.
Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha chiesto che sia consentito l’accesso alle agenzie
umanitarie. Il plenum composto da 15 Paesi ha chiesto «la protezione dei civili,
20
l’assistenza umanitaria e di salvare vite» umane, come ha spiegato l’ambasciatrice
giordana, Dina Kawar, il cui Paese ha la presidenza di turno. Chris Gunness, portavoce
dell’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, ha avvertito che nel campo la
situazione è «al di là del disumano».
L’Isis ha attaccato il campo mercoledì scorso e ha il controllo del 90% della struttura. Il
video che ha diffuso documenta per la prima volta la presenza dei suoi uomini nella zona
di Damasco: nelle immagini i jihadisti, alcuni con i passamontagna e le armi, posano con
le bandiere nere del Califfato in via al-Yarmouk, alla moschea Al-Wasim e in un complesso
di sicurezza che secondo l’Isis è sotto il controllo dei miliziani. Un adolescente fuggito,
Amjaad Yaaqub, 16 anni, ha raccontato di aver visto «due miliziani che tiravano al pallone
con una testa decapitata come se giocassero a calcio». Lui si è salvato per miracolo,
perché - picchiato selvaggiamente dai miliziani, è svenuto e i jihadisti, che cercavano il
fratello maggiore, hanno pensato che fosse morto.
L’Olp ha reso noto che una delegazione palestinese sta negoziando con Damasco gli aiuti
agli abitanti del campo profughi. Ma finora sono riusciti ad abbandonare il campo solo
poche centinaio di famiglie. Secondo Save the Children, all’interno sono rimasti
intrappolati almeno 3.500 bambini, con il rischio di essere uccisi o feriti, senza cibo, acqua
e assistenza medica. La delegazione palestinese avrà anche colloqui con le varie fazioni
palestinesi per decidere come contrastare la minaccia dell’Isis.
Intanto, nelle zone irachene appena liberate dall’Isis, si è cominciato a scavare a Tikrit,
dove in almeno dodici siti si trovano fosse comuni in cui sarebbero sotterrati i corpi di
1.700 soldati uccisi l’anno scorso dallo Stato islamico. L’area è quella di Camp Speicher,
una ex base americana, appena fuori dalla città sunnita. L’esumazione dei corpi avviene
anche nel palazzo che fu di Saddam Hussein, giorni dopo che i miliziani dell’Isis sono stati
spinti alla fuga dall’arrivo delle truppe irachene appoggiate dalle milizie sciite: «Finora
abbiamo trovato 20 corpi», ha raccontato Khalid al-Atbi, un ufficiale sanitario, «ed è stata
una scena da spezzare il cuore. Non possiamo impedire a noi stessi di cedere alle
lacrime. Quale razza di selvaggio barbaro è in grado di uccidere 1.700 persone a sangue
freddo?».
L’orrore dell’Isis continua dunque senza fine, tra Siria e Iraq, mentre i Paesi del Golfo,
guidati dall’Arabia Saudita, sono decisamente più motivati ad arginare la ribellione degli
Houthi in Yemen, a loro volta appoggiati dalla grande potenza sciita della regione, l’Iran.
Gli scontri tra opposte fazioni si intensificano e gli Stati Uniti hanno dichiarato ieri di aver
accelerato la fornitura di armi alla coalizione guidata dai sauditi. A dichiararlo è stato il vice
segretario del Dipartimento di Stato, Anton Blinken, in visita a Riad: «L’Arabia Saudita sta
lanciando un messaggio forte agli Houthi: non si possono sovvertire gli equilibri in Yemen
attraverso la forza. In questo ambito abbiamo accelerato alcune forniture belliche,
intensificato la condivisione di informazioni e istituito una cellula congiunta di pianificazione
nel centro operativo saudita».
Dell’8/04/2015, pag. 16
Yarmuk, la strage dell’Is l’Onu lancia l’allarme
“È un’altra Srebrenica”
“Mille morti, giocavano con le teste mozzate” Tra i civili nel campo
profughi anche 3.500 bambini
ALIX VAN BUREN
21
«PIETÀ per Yarmuk», il campo martire dei profughi palestinesi a Damasco invaso dai
carnefici del cosiddetto Stato islamico (Is) in combutta con Al Qaeda (Fronte Nusra) e con
un nugolo di fazioni islamiste fino a poco fa rivali per il controllo del campo, ora confluite
nei ranghi dei “vincitori”. Yarmuk era già alla fame e alla sete dopo due anni di scontri
fratricidi e di assedio a opera dell’esercito siriano. «Le condizioni di vita sono al di là del
disumano», avverte Christopher Guinness, portavoce dell’Unrwa, rilanciando l’appello del
Consiglio di sicurezza dell’Onu. Guinness implora l’apertura di un corridoio umanitario per
soccorrere i 18 mila abitanti, compresi 3.500 bambini, rimasti nel campo e da lunedì
trattenuti in ostaggio dai jihadisti senza riserve di cibo, né acqua e farmaci. «La comunità
internazionale è sotto esame: recapiti gli aiuti», è sferzante Pierre Krähenbühl, il
commissario generale, mentre Andrea Iacomini, portavoce di Unicef-Italia, profila «una
nuova Srebrenica», e pensa al genocidio dei bosniaci musulmani nel luglio ‘95: l’osceno
livido sulla faccia dell’Occidente, che non seppe evitare il massacro.
I racconti delle 500 famiglie fuggite — «strisciando lungo i muri per scampare ai cecchini»,
dice Um Ussama all’ Afp — descrivono la selvaggia barbarie dell’Is già testimoniata
altrove in Siria e in Iraq: «In via Palestina due membri di Daesh (sigla in arabo dell’Is, ndr)
giocavano a palla con una testa mozza», dice Amjad Yaacub, 16 anni. Lo stesso sadismo
ha messo in fuga Ibrahim Abdel Fatah, 55 anni: «Ho visto delle teste mozze. Uccidevano i
bambini prima degli adulti. Avevo sentito parlare della loro crudeltà, ora l’abbiamo
osservata coi nostri occhi».
La resa dei conti tra fazioni rivali è impietosa: sette miliziani affiliati ad Hamas sono stati
decapitati, altri 23 combattenti e otto civili sono stati uccisi nella lotta per il controllo di
questo sito strategico, ad appena dieci minuti dal centro di Damasco. L’Is e i suoi alleati
hanno preso il 90 per cento del campo, con le forze palestinesi arroccate a Nord e Nord
Est, e i civili intrappolati nelle case. Ai missili dei jihadisti si aggiungono i bombardamenti
dell’esercito. «Ci sono mille morti», dice un deputato araboisraeliano citato dal quotidiano
Haaretz.Tutto questo fa disperare il Commissario Krähenbühl, alla vana ricerca di un
interlocutore: non è chiaro — dice — chi eserciti un’influenza sui leader. Perciò
Krähenbühl rigira l’appello ai membri dell’Onu con contatti con l’Is: costringano i jihadisti a
deporre le armi e consentano la distribuzione di cibo e medicinali. Considerato che gli
abitanti già stentavano con un’alimentazione di appena 400 calorie al giorno sulle 2.000
necessarie, «qui si tratta di pura sopravvivenza».
Dell’8/04/2015, pag. 17
Imporre la jihad ai palestinesi lo sfregio del
Califfo al popolo martire
GAD LERNER
LA DECAPITAZIONE dell’imam Yahya Hourani, considerato la principale autorità religiosa
del campo palestinese di Yarmuk, e la sua testa conficcata per spregio su un palo da parte
dei miliziani jihadisti dell’Is e di Al Nusra, infrange l’ennesimo tabù. I seguaci del sedicente
califfo Abu Bakr al Baghdadi, nella loro offensiva terroristica per la leadership sull’islam
sunnita, sono disposti a calpestare anche la causa palestinese. Tabula rasa. I tagliagole
conoscono perfettamente il valore simbolico di Yarmuk, trasformatosi lungo oltre mezzo
secolo in una vera e propria città: di fatto la capitale della diaspora palestinese, suo centro
culturale e terminale di una rete d’assistenza sociale egemonizzata da Hamas.
22
Dunque uno schiaffo in faccia ai Fratelli Musulmani, la galassia integralista che non si è
lasciata annettere dal progetto dello Stato Islamico, evitando che l’onda nera dilagasse
anche nella Striscia di Gaza. Così come l’Autorità Nazionale Palestinese è riuscita finora a
reprimerne la diffusione in Cisgiordania. La brutalità omicida è l’unico linguaggio
riconosciuto come efficace dai jihadisti: se i palestinesi non aderiscono spontaneamente al
loro progetto di conquista del potere, viene demolita anche la loro funzione di popolosimbolo dei soprusi perpetrati in terra musulmana dagli occidentali. Più precisamente,
l’ideologia premoderna del ritorno all’Età dei Califfi, salta a piè pari la vicenda
novecentesca. Il popolo-martire non serve più a unire i musulmani, essendo ormai giunto il
tempo apocalittico di una islamizzazione globale, la cui prima tappa è espugnare le grandi
città della tradizione post-coranica: oggi Damasco, Aleppo, Bagdad; domani la Mecca,
Istanbul e il Cairo. Alle quali si aggiungono come bottino necessario, Beirut e Damasco. Lo
shock per l’occupazione jihadista di Yarmuk sarà grande anche nelle moschee dell’islam
europeo, dove finora si è predicata la solidarietà attiva con il popolo palestinese come
primo dovere di ogni buon fedele. Perfino riconoscendo legittimità religiosa agli attentati
suicidi, purché insanguinassero la terra “occupata dall’entità sionista”. Impossessandosi
del campo profughi di Yarmuk - con totale indifferenza per le sofferenze inflitte ai suoi
abitanti, liquidati anch’essi come infedeli che non meritano di vivere - i jihadisti non esitano
a ribaltare le priorità della guerra mediorientale. Lo stesso Israele diviene per loro un
dettaglio secondario. Il mondo arabo che da oltre un secolo cerca la sua faticosa unità –
dapprima col panarabismo di stampo nasseriano, poi con l’integralismo religioso - nella
riconquista di Gerusalemme empiamente occupata, viene chiamato per prima cosa
all’obbligo di assoggettarsi al Califfato. La distruzione di Israele e la causa dei palestinesi,
vengono dopo. Con un salto all’indietro di nove secoli, il nemico da sopprimere ovunque
tornano ad essere “i crociati e gli ebrei”. Cui si aggiungono gli eretici, primi fra tutti i
musulmani sciiti, senza nessuna pietà per gli stessi sunniti che osano frapporsi al disegno
oscurantista del Califfo. C’è, naturalmente, una buona dose di disinvoltura storica in
questo salto all’indietro della storia. Poco importa ai seguaci di Al Baghdadi (Is) e Al
Zawahiri (Al Qaeda) che gli ebrei, insieme ai cristiani bizantini, fossero anch’essi tra le
vittime dei cavalieri crociati, nell’Undicesimo secolo: oggi viene comodo confonderli nella
nozione indistinta di Occidente pagano, arrogandosi la missione di unico monoteismo
legittimato a dare la morte per abbattere l’idolatria.
Diviene così assai significativo che la conquista del campo profughi palestinese di Yarmuk
sia un’altra azione congiunta sul campo dell’Is e di Al Nusra, finora organizzazioni jihadiste
spesso concorrenti fra loro. Ciò che rende purtroppo credibile la loro prossima unificazione
sotto il comando militare di Al Baghdadi, trapelata nei giorni scorsi.
I due eserciti, forse prossimi a riunirsi sotto la bandiera nera, hanno già dimostrato in Siria
di considerare almeno tatticamente prioritario il braccio di ferro con il regime di Assad,
rispetto a un confronto diretto con l’esercito d’Israele. Lo conferma la prudenza con cui si
sono mossi finora sull’altopiano del Golan, cioè al confine con lo Stato ebraico, nonostante
quella regione sia da tempo sottoposta al loro controllo. I tagliagole avranno di certo
calcolato di non essere attrezzati, per il momento, a uno scontro diretto con Tshaal.
Circostanza che ha alimentato fantasiose teorie del complotto sul sostegno di cui i jihadisti
avrebbero goduto da parte degli israeliani, come se questi ultimi fossero masochisti.
Additare l’ombra del Mossad dietro l’Is resta così l’ultima formula autoassolutoria di un
islam che non riesce a capacitarsi della proliferazione di un tale mostro crudele dal suo
utero. Come è noto, il dilagare della guerra dalla Siria alla Mesopotamia ha già prodotto
più di quattro milioni di profughi, venuti a sommarsi ai palestinesi che dal 1948 vivono
senza diritti di cittadinanza riconosciuti in Libano, Siria, Giordania e a Gaza.
23
I campi di raccolta dei nuovi profughi non riescono a soccorrere adeguatamente una
popolazione vittima di una vera e propria catastrofe umanitaria. La distruzione di Yarmuk,
il campo profughi palestinese trasformatosi nei decenni in una vera e propria nuova città
alle porte di Damasco, ci rammenta che le ferite del passato, mai curate, sono fonte di
nuove infezioni devastanti. Per affrontare l’esodo palestinese, disseminato in ben 59
campi riconosciuti, le Nazioni Unite istituirono fin dal 1949 una apposita agenzia: l’Unrwa.
Ma da almeno un decennio all’interno dei campi palestinesi si sono organizzate, grazie ai
petrodollari del Golfo e alla propaganda salafita, pericolose fazioni qaediste come Fatah al
Islam, che ne contendono con le armi la leadership all’Anp e a Hamas. È la peste jihadista
che si propaga nella miseria della diaspora palestinese, dal campo di Nahr al Bared
limitrofo a Tripoli di Libano, fino alla polveriera di Ain al Helwe nei pressi di Sidone. Campi
che ospitano ciascuno più di centomila disperati, di fatto reclusi in balia delle fazioni in
guerra tra loro. Anche Yarmuk, che si proponeva come capitale della diaspora palestinese,
è stata oggetto di una contesa che vi ha visto dapprima prevalere il leader politico di
Hamas, Khaled Meshaal, fuggito nel 2012 in Qatar essendo venuta meno, a causa della
guerra civile siriana, la sua intesa con Assad. Ma non basta. L’altro leader del campo di
Yarmuk, rimasto fedele a Assad, è Ahmed Jibril, fondatore del Fplp Comando Generale,
organizzazione nemica dell’Is che di fatto ha circondato Yarmuk nel mentre veniva ridotta
in macerie. Così adesso i diciottomila sopravvissuti in quell’inferno si trovano imprigionati
fra due fuochi. E i palestinesi che volevano mantenersi neutrali dentro la guerra civile
siriana, vengono trattati da traditori da entrambe le fazioni. La memoria inevitabilmente
corre ad altri momenti storici in cui i campi palestinesi furono oggetto di violenze atroci, di
cui spesso si resero colpevoli i confratelli arabi. Come nel 1970 in Giordania, dove il
tristemente celebre Settembre Nero provocò fra i tre e i cinquemila morti ad opera delle
truppe beduine di re Hussein di Giordania. E poi Tell Al Zaatar, nell’agosto 1976 in Libano,
dove furono i siriani a uccidere circa duemila palestinesi. Fino a Sabra e Chatila, nel
settembre 1982, dove i falangisti maroniti protetti dall’esercito israeliano sterminarono più
di ottocento innocenti. Le cifre dell’odierna ecatombe siriana fanno impallidire le stragi del
passato. E forse, più ancora delle crudeltà commesse a Yarmuk, il mondo è spaventato
dalle bandiere nere giunte alla periferia di Damasco. Ma ancora una volta sono i
palestinesi le vittime sacrificali di un passaggio storico che annuncia guerra totale.
del 08/04/15, pag. 8
Yemen, i civili fra due fuochi
L’Unicef: è strage di bambini
Centomila i profughi, 540 vittime accertate e tra loro almeno 74 minori
Aden occupata dai ribelli sciiti e bombardata dai sauditi è una “città
fantasma”
Centomila profughi, almeno 540 vittime, carenza di cibo, acqua e medicinali: la nuova
emergenza umanitaria è nello Yemen teatro della guerra civile fra milizie pro-saudite e
pro-iraniane.
È l’Unicef a far sapere che «sono almeno centomila» le persone che hanno abbandonato
case e proprietà a seguito dell’intervento militare panarabo, guidato dall’Arabia Saudita,
per reinstaurare il governo del presidente Abdel Rabbo Mansur Hadi rovesciato dai ribelli
houthi, ziadi assimilati agli sciiti, sostenuti da Teheran. «In gran parte i profughi sono
donne e bambini» fa sapere Rajat Madhok, portavoce di Unicef, secondo il quale «i
24
profughi vengono da Al-Dhale, Abyan, Amran, Saada e Hajia» ovvero le aree dove i
combattimenti sono più intensi.
Il bilancio delle vittime
L’Unicef, basandosi su informazioni in loco, aggiunge che fra le almeno 540 vittime «i
bambini hanno pagato un prezzo alto» perché 74 sarebbero stati uccisi e 44 feriti dal 26
marzo, quando Riad ha iniziato l’intervento aereo a sostegno dei miliziani di Mansour
Hadi. I comandi sauditi imputano il bilancio di vittime civili alla «scelta degli houthi di
posizionare i centri militari in zone densamente popolate» seguendo l’esempio di quanto
fatto da Hamas a Gaza la scorsa estate e dagli Hezbollah in Libano durante il conflitto del
2006. Il portavoce dei ribelli houthi, Mohammed al-Bukhaiti, respinge tali accuse, imputa
agli «aggressori sauditi ed ai loro alleati» gli «attacchi ai civili» e lamenta una «situazione
umanitaria in deterioramento a causa dell’esaurimento delle scorte di cibo e medicinali».
Ciò è vero anzitutto ad Aden, dove i combattimenti sono più aspri, e nella capitale Sana’a
dove la Croce Rossa Internazionale sta tentando invano da lunedì di fare atterrare due
aerei cargo con aiuti umanitari. Un piccolo velivolo della Cri è riuscito ad arrivare ma da
qual momento l’aeroporto è stato inagibile a causa dei raid aerei arabi e dei colpi
dell’antiaerea degli houthi, che sono sostenuti dalle truppe dell’ex presidente Ali Abdullah
Saleh.
«Ci troviamo di fronte ad un’emergenza umanitaria che accelera - afferma Sitara Jabeen,
portavoce della Cri - perché il conflitto sta diventando più intenso, i civili ne sono le vittime
ed è impossibile raggiungerli». Fra le preoccupazioni maggiori c’è l’interruzione della rete
idrica, colpita negli scontri, che priva di acqua potabile vaste aree di Aden e Sana’a.
«Aden è diventata una città fantasma - afferma Robert Ghosen, capo dell’unità della Cri
per lo in Yemen - perché è stretta fra l’assedio degli houthi e i bombardamenti sauditi».
Le testimonianze
Testimonianze locali parlano di ospedali di Aden travolti da ondate di feriti che non
riescono ad accogliere, con le ambulanze fermate da bande di armati che gettano in terra
feriti e malati pur di impossessarsene. Per l’Organizzazione mondiale della sanità i feriti
sarebbero «almeno duemila», le attività economiche «sono paralizzate» e le «strade sono
inondate da rifiuti» innescando il timore di epidemie. Le Nazioni Unite intanto, con l’inviato
Ashok Nigam, hanno ringraziato Riad per «il contributo all’evacuazione dallo Yemen» del
personale dell’Onu, che contava oltre 100 persone.[M. MOL.]
Dell’8/04/2015, pag. 16
Dalla Giordania all’Iraq: la rotta maledetta
I camionisti che portano medicine e generi alimentari guadagnano
anche 2.000 dollari a viaggio, ma rischiano la vita
di Carlo Antonio Biscotto
È forse la strada più pericolosa del mondo; ma dove c’è il pericolo ci sono anche i soldi”,
dice un giovane camionista che si appresta a lasciare la Giordania per raggiungere, con
un carico di generi alimentari e farmaci, gli iracheni che combattono i miliziani dell’Isis.
Dozzine di camionisti attirati dalla possibilità di guadagnare forti somme di denaro
affrontano periodicamente il “viaggio all’inferno”, come lo chiamano loro. Era già
pericoloso in passato, ma da quando i combattenti dell’Isis hanno conquistato il nord e
l’ovest dell’Iraq, questi uomini rischiano la vita dietro ogni curva.
25
Lungo la strada per Baghdad attraversano terre desolate dove è facile incontrare i miliziani
o semplici criminali. Di tanto in tanto c’è un posto di blocco dei jihadisti costituito da un pick
up o da un Hummer messo di traverso. La strada per Mosul – sostengono i camionisti – è
ancora più pericolosa: solo miliziani jihadisti, oleodotti e niente altro. Sallah Ali Addin fa il
camionista da 25 anni. Ha percorso queste strade all’epoca di Saddam, della ribellione
sunnita, della rivolta dei combattenti di al Qaeda e ora dello Stato islamico. È pronto a
giurare che non ha mai avuto la paura che ha adesso: “Ci sono le granate sparate
dall’esercito iracheno, i bombardamenti aerei, le città assediate, i posti di blocco, le
deviazioni, i banditi. Tutti vogliono una fetta del carico. Mentre viaggi sai che la tua vita è in
mano ai jihadisti e alle milizie sciite”.
Lungo il percorso uno dei pochi rifugi sicuri è la cittadina di Ruwaished, piena di officine e
guarnigioni militari. È il posto ideale per riposarsi, far revisionare il camion e comprare
benzina irachena al mercato nero. La cittadina è circondata dalla sabbia del deserto e
dalle rocce di basalto. “Le incursioni aeree ci spaventano a morte – racconta Addin – gli
aerei che bombardano la regione sono quelli della coalizione guidata dagli americani”.
Apparentemente finora nessun camionista è stato rapito o ucciso, ma tutti conoscono la
reputazione dei jihadisti. “Sono capacissimi di spararti a freddo, sul ciglio della strada”,
dice Mahmoud. La strada che collega la Giordania all’Iraq era un tempo una importante
via commerciale sulla quale transitavano merci per un miliardo di dollari l’anno.
Ai tempi di Saddam Hussein ogni giorno circa 2.000 camion varcavano la frontiera. Dopo
l’invasione americana il numero è sceso a 400 per crollare a circa 30 dopo la conquista da
parte dell’Isis di Mosul e di una grossa fetta della provincia di Anbar. L’inasprirsi del
conflitto ha fatto lievitare la domanda di merci giordane: importatori, grossisti, mercanti e
persino privati cittadini ordinano migliaia di tonnellate di generi alimentari, farmaci, verdura
e materiali da costruzione praticamente introvabili a Fallujah, Ramadi e Mosul. Per ragioni
di sicurezza i camionisti si muovono sempre formando dei convogli. “Al momento sono le
merci giordane a garantire la sopravvivenza dell’Iraq occidentale – dice Dawood del
sindacato camionisti – dal canto nostro li avvertiamo dei pericoli, ma è tutta gente che ha
bisogno di guadagnare”.
Oltre al salario – tre volte superiore al normale – le società di spedizione offrono spesso
premi in denaro e indennità di rischio. Chi ha un autocarro di proprietà può arrivare a
guadagnare 2.000 dollari per ogni viaggio. “Certo, è pericoloso”, commenta Abdul Kareem
Athamat, un giordano che ha da poco comprato un articolato Mercedes 1635. Il governo
iracheno ha piazzato un unico avamposto in prossimità del confine giordano dove i
funzionari ispezionano il carico e timbrano i passaporti. Superato il controllo i camion si
avventurano nel territorio controllato dall’Isis i cui miliziani chiedono dai 200 ai 300 dollari a
ogni camionista. “Dobbiamo pagare; non abbiamo scelta – racconta Mohammed Omar,
uno dei veterani – ci dicono che è una tassa imposta dallo Stato islamico di cui tutti prima
o poi faremo parte”. I miliziani forniscono una ricevuta con il timbro dell’Isis.
Il commento di Mohammad Abu Bakar, proprietario di quattro camion e originario di
Fallujah, è sconsolato: “La strada sembra tranquilla. Ma i miliziani possono sbucare fuori
dal nulla. Però basta pagare. In fin dei conti, lavoriamo per chiunque abbia un’arma”.
Dell’8/04/2015, pag. 9
Dall’Iraq alla Somalia, gli italiani al fronte
26
Il ministro degli Esteri Gentiloni e l’ipotesi di un intervento militare
contro la minaccia estremista Il nostro Paese ha oltre 500 soldati già
impegnati a Bagdad. In Libano la missione più esposta
L’ipotesi di un’opzione militare contro il terrorismo di matrice islamica, svela un’Italia già
impegnata su molti e diversi fronti difficili, basta analizzare il materiale in possesso delle
commissioni Difesa della Camera e del Senato dopo la recente audizione del ministro
della Difesa, Roberta Pinotti, che risale al 19 marzo scorso.
Cominciamo dall’Iraq, dove l’Italia fa parte della coalizione militare multinazionale. Il nostro
Paese schiererà complessivamente nei primi nove mesi di quest’anno 525 militari in media
(ma potranno aumentare, nel caso di un’emergenza) quattro cacciabombardieri Tornado
per la ricognizione con i relativi supporti logistici e tecnologici più un KC-767 da
rifornimento in volo e diversi droni tipo Predator per la sorveglianza. Nessun mezzo aereo
è dotato di armi offensive, il loro compito è raccogliere le informazioni per sorvegliare le
aree più critiche e gli spostamenti dell’Isis, escludendo sorvoli sulla Siria. Tre i fronti:
regione di Anbar, area di Tikrit quella di Kirkuk. Si sta anche pianificando l’invio di un
contingente di carabinieri che supervisioneranno la costituzione di unità di polizia militare
irachene che dovranno riportare la sicurezza nelle aree sottratte all’Isis.
Somalia
Il 24 febbraio è cominciata la Missione di addestramento italiana dei carabinieri, decisa
con un accordo bilaterale italo-somalo. Circa 40 carabinieri, di stanza nella Repubblica di
Gibuti, addestreranno 200 allievi somali e 40 gibutini. Sono carabinieri ultraspecializzati
(Gis, Gruppo intervento speciale; paracadutisti del «Tuscania»; Ros, Raggruppamento
operativo speciale; Racis, Raggruppamento carabinieri investigazioni scientifiche) che
preparano forze speciali locali per il controllo del territorio, soprattutto dopo il tragico
attacco dei terroristi somali di al Shebab al campus universitario keniota di Garissa.
Tunisia
Dopo l’attentato al Museo nazionale del Bardo a Tunisi del 18 marzo, è stata decisa
l’operazione «Mare Sicuro» nelle acque di fronte alla Tunisia. E’ previsto l’impegno di un
migliaio di militari italiani, lo schieramento di quattro navi tra cui unità dotate di attrezzature
sanitarie ed elicotteri, droni del tipo Predator. Probabile la presenza di una nave da sbarco
(classe San Marco o San Giusto), una o più fregate e cacciatorpedinieri. Non si tratta di un
blocco navale ma di una missione operativa per proteggere le navi commerciali e
sorvegliare comunque l’attività delle formazioni jiahdiste.
Libano
Continua la presenza del contingente a guida Onu dell’Unifil: 1.100 militari italiani
impegnati in un’area (la regione meridionale del Paese) dove il pericolo di infiltrazione
dell’Isis e di al Qaeda è elevatissimo. Il comando è affidato al generale Luciano Portolano.
Est Europa
Nel quadro della tensione tra Ucraina e Russia, la Nato è impegnata nella difesa dei Paesi
partner dell’Ue e della Nato in generale. L’Italia contribuisce all’attività di polizia aerea con
7 aerei in Lituania, di cui 4 Eurofighter da difesa aerea. Tra gennaio e febbraio gli italiani
hanno già realizzato 10 «interventi di intercettazione nei confronti di velivoli
potenzialmente ostili» più altre operazioni legate alla difesa aerea, in tutto 150 ore di volo.
Nei Balcani l’Italia è tuttora presente in Kosovo con 540 uomini nel contingente Nato KFor. E anche lì si temono infiltrazioni terroristiche.
Afghanistan
Il ministro Pinotti, nella sua audizione, ha confermato la conclusione della missione Nato a
Herat. Fino ad agosto 2015 rimarranno circa 800 militari con 6-8 elicotteri tra Mangusta da
attacco e NH-90 da trasporto. Poi il contingente residuo verrà collocato a Kabul.
Paolo Conti
27
del 08/04/15, pag. 8
La sinistra turca contro «la gigantesca
censura»
Geraldina Colotti
Ankara. Le autorità impongono a giornali e siti di ritirare le foto del
sequestro del procuratore
Una «censura gigantesca». Così la stampa indipendente turca definisce il blocco di
Twitter, Facebook e Youtube e le minacce a Google provenienti dalla procura di Istanbul.
La magistratura ha imposto a 170 siti di togliere la foto del procuratore Mehmet Selim
Kiraz, rapito dal gruppo armato marxista-leninista Fronte rivoluzionario di liberazione del
popolo (Dhkp-C). Il procuratore e i sequestratori sono stati uccisi dall’intervento delle
squadre speciali. Prima di morire, i militanti del Dhkp-C avevano spiegato il loro gesto in
un comunicato: chiedere giustizia per la morte di Berkin Elvan, il ragazzo ucciso durante le
proteste di Gezi Park e su cui il procuratore indagava. La rivendicazione si concludeva con
una frase sull’«amore verso il popolo», e subito sulle reti sociali, accanto all’immagine del
sequestro si erano moltiplicate le scritte: «anche noi vi amiamo». Nei giorni seguenti,
c’erano state altre azioni armate e dimostrative, finite con l’uccisione di un’altra giovane
militante. Come di consueto, il regime islamista-conservatore di Recep Erdogan ha reagito
con una dura repressione, che ha portato in carcere attivisti, sindacalisti e avvocati.
Le tre reti sociali si sono piegate al diktat, hanno ritirato le immagini e hanno ripreso a
funzionare dopo alcume ore. Durante il sequestro, l’organismo di controllo dell’audiovisivo
ha proibito a tutte le televisioni del paese di trasmettere in diretta le immagini dell’evento.
Uno dei principali gruppi editoriali del paese, Dogan, che pubblica anche Hurriyet e Posta
è stato costretto a pubblicare scuse ufficiali sui siti internet e sulle pagine dei giornali,
chiedendo venia per «il cattivo uso di una foto raffigurante i simboli di una organizzazione
terrorista». Secondo Cumhuriyet, la Turchia di Erdogan ha imposto «il maggiore black-out
delle reti sociali» mai avvenuto nel paese. Per Birgun, in vista delle cruciali elezioni
politiche del 7 giugno, il paese si sta avviando verso «il caos e la censura» in una
«democrazia dimezzata: una «gigantesca censura», titola Yurt, mentre Taraf rileva che
Erdogan ha mantenuto la promessa di «stroncare twitter». Sette quotidiani turchi, critici
con il governo islamico, che avevano pubblicato la foto del pm sono stati incriminati per
supposta «propaganda per un gruppo terroristico». Che il blitz delle forze speciali abbia
provocato anche la morte del pm, è un’ipotesi avanzata da più parti. I risultati dell’autopsia
non sono stati resi pubblici. Il capo dell’opposizione Kemal Kilicdaroglu ha chiesto
vengano comunicati al paese.
La Turchia di Erdogan è chiamata in causa per aver agevolato il corso dell’Isis. Diverse
organizzazioni per i diritti umani lo denunciano dal 2013. Giovedì scorso, il ministro degli
Esteri tunisino, Taieb Baccouche ha indetto una conferenza stampa per chiedere alle
autorità di Ankara di impedire il passaggio sul loro territorio dei giovani tunisini che vanno
ad accrescere le fila del Califfato in Siria «o che ritornano dalla Turchia, verso la Libia e
poi clandestinamente verso la Tunisia». Non è però contro i tagliagole che Ankara ritiene
di dover reagire con pugno di ferro. Ben più pericolose appaiono al governo Erdogan
quelle sinistre, divise o diffuse, che potrebbero catalizzare altrimenti lo scontento sociale:
da quelle che hanno manifestato a Gezi Park, a quelle che occupano le fabbriche come la
Kazova, ai gruppi marxisti messi fuorilegge, e che hanno pagato con centinaia di morti lo
28
sciopero della fame durato sette anni. Il governo offre 3 milioni di dollari a chiunque
fornisca informazioni sui ricercati. Una messa al bando che serve per montare operazioni
poliziesche con l’Europa come quella che, a Mestre, ha portato in carcere un cittadino
turco in vacanza con la famiglia. E intanto l’Isis avanza.
del 08/04/15, pag. 16
«Eravamo con Shaimaa»
Giuseppe Acconcia
IL CAIRO
Egitto. Reportage dal Cairo dove i compagni di partito di Shaimaa alSabbagh, la giovane militante e poetessa comunista uccisa dalla polizia
egiziana in piazza Talaat Harb il 24 gennaio scorso, raccontano le ultime
ore dell’attivista e gli attacchi della polizia alla sede dell’Alleanza
socialista (i comunisti egiziani). E parlano degli ultimi spiragli di libertà
in attesa di nuova repressione. Mentre i Fratelli musulmani diventano i
capri espiatori di ogni malefatta degli agenti
Lungo via Talaat Harb sono sparite le bancarelle dei venditori ambulanti che dopo le
rivolte affollavano il centro del Cairo. Le facciate dei palazzi dei primi del Novecento, in
stile belga come li chiamano da queste parti, sono state ridipinte insieme ai palazzi di
piazza Tahrir. La conferenza economica di Sharm el-Sheikh, sebbene sia un fiasco senza
precedenti perché riproduce lo stesso schema che ha causato la fine del regime di
Mubarak di azzeramento della spesa pubblica per attrarre finanziamenti del Fondo
monetario internazionale e investimenti internazionali, sembra piacere non poco a quegli
egiziani che si riconoscono nel nuovo nazionalismo poliziesco militare, incarnato dal
presidente Abdel Fattah al-Sisi.
In questa fase però ancora qualcosa è permesso, mentre dietro le quinte si consuma la
più segreta e acerrima battaglia di potere del dopo rivolte tra polizia, militari e islamisti,
culminata nella scarcerazione di Mubarak, dei suoi figli e dell’ex ministro dell’Interno,
Habib el-Adli, così come del benservito al sanguinario Mohamed Ibrahim, il suo
successore e responsabile della strage di Rabaa el-Adaweya, licenziato ed espulso dal
paese in fretta e furia, prima che le autorità annunciassero la cancellazione delle
parlamentari.
Sisi, la democrazia può attendere
«Non è tempo per la democrazia», ha assicurato al-Sisi, da molti considerato un (pessimo)
riformatore dell’islamismo politico a forza di repressione brutale di tutti, dai moderati ai
radicali, In nome della stabilità in Egitto ha rimosso i vertici dell’Intelligence militare, dato il
via agli attacchi in Libia e Yemen e appoggiato Israele nell’operazione «Margine
protettivo». E così le prossime liste elettorali, se mai ci saranno, saranno forse piene degli
scagnozzi del partito di Mubarak. «È pronto un esercito di baltageya (criminali, n.d.r.)», ci
spiega Mustafa, attivista dei Fratelli musulmani. Secondo lui, in seguito alla repressione
(inclusa l’esecuzione della pena capitale contro l’attivista della Fratellanza, Mohamed
Ramadan), stanno per essere chiusi i rubinetti del movimento e questo cambierebbe non
poco le cose per la tenuta del regime.
Ogni crimine che viene commesso sembra responsabilità esclusiva della Fratellanza,
come nel caso dei 22 ultras dello Zamalek (i White Knights), uccisi alle porte dello Stadio
29
del Cairo dalla polizia lo scorso febbraio. Secondo gli inquirenti anche quella strage
sarebbe responsabilità della Fratellanza.
In verità si punta il dito contro ambienti salafiti legati agli squadroni armati Harar, nati nel
2013 con il via libera del leader salafita Hazem Abu Ismail con il nome di Hazimun, come
gruppo moralizzatore, e che avrebbero partecipato anche al sit-in islamista di Rabaa alAdaweya.
Gli Hazimun si ritirarono dagli scontri di via Mohamed Mahmud nel novembre 2011 al
primo richiamo della Fratellanza, lasciando al loro destino i giovani dei movimenti.
Nostalgia di Nasser
Ma il revival nasserista si percepisce davvero al Cairo, non solo per le campagne
yemenite che rinverdiscono il vecchio nazionalismo di Gamal Abdel Nasser ma anche per
un clima politico-culturale che si respira per le vie del Cairo. La birreria Lotus ospita i
nostalgici dell’antico idillio tra Egitto ed Unione Sovietica che ogni sera si attardano sui
piccoli terrazzi di questo antico albergo parlando di politica, criticando sia gli islamisti sia i
militari golpisti.
«Mi hanno appena telefonato per comunicarmi che non possiamo andare oltre le undici di
sera», ci spiega concitato lo scrittore e attivista comunista del partito Tahaluf al-Shaabi alIshtiraki (Alleanza socialista), Sonallah Ibrahim. Da giorni, giovani e intellettuali si
incontrano nelle stanze della sua casa editrice a due passi dalla Borsa del Cairo per
leggere poesie e per parlare di politica, intrattenendosi fino a tarda notte.
L’ultima occasione è stato il ricordo di Shaimaa al-Sabbagh, la giovane attivista comunista
uccisa in piazza Talaat Harb il 24 gennaio scorso, perché dopo la sua uccisione è stata
pubblicata ad Alessandria una raccolta di sue poesie; l’iniziativa è stata promossa dal
candidato alle presidenziali del 2014, il sindacalista Hamdin Sabbahi. Proprio l’Alleanza
socialista e il partito liberale Dostur che fu di Mohammed el-Baradei, ora in esilio in
Austria, stanno preparando una lista elettorale unitaria per le parlamentari, rinviate sine
die, che però difficilmente potrà raggiungere il 10%, ottenuto dal Blocco (Kutla) alle
politiche del 2011.
Shaimaa ormai è un simbolo fortissimo per il movimento, una donna di sinistra che per
anni motiverà le lotte e le rivendicazioni dei comunisti egiziani, paragonabile alla forza
evocativa di Khaled Said, il giovane ucciso dalla polizia nel 2010 che ha motivato le
proteste ad Alessandria e in tutto l’Egitto.
Eppure il processo in corso contro i responsbaili della morte di Shaimaa è pieno di lacune.
L’ufficiale delle Forze di sicurezza centrali, Yassin el-Imam, non viene arrestato ed è
incriminato solo per aver «percosso a morte» Shaimaa e non per omicidio.
«Era troppo magra»
Nella perizia medica le cause della morte sono addirittura addossate a Shaimaa: «era
troppo magra» per essere morta a causa di proiettili di gomma, si legge con orrore.
La sede del suo partito, l’Alleanza socialista, ad Alessandria è stata presa d’assalto dalla
polizia. «La polizia è arrivata alle due di notte del 12 marzo alla sede del partito in via
Saad Zaghlul. Hanno sfondato la porta e non sapevamo cosa fare. Ci hanno arrestati e
interrogati per ore», ci spiegano Hussam, Mustafa ed altri amici e compagni di Shaimaa.
«Eravamo con lei al Cairo il 24 gennaio, siamo partiti in treno da Alessandria», ci
raccontano questi giovani attivisti. «Gridavamo i canti rivoluzionari, abbiamo attraversato
Hoda Sharaawi, siamo arrivati a piazza Talaat Harb, nel mezzo della piazza abbiamo
incontrato un altro gruppo di manifestanti – continuano — C’erano sette poliziotti: alcuni in
borghese.
«Hanno sparato senza motivo»
Hanno sparato senza motivo mentre il segretario del partito, Ahmed Fahmy, chiedeva alla
polizia se due o tre di noi potessero andare in piazza Tahrir per protare una rosa». I due
30
giovani erano al fianco di Shaimaa quando è stata uccisa. «La tenevamo per mano a
destra e sinistra, in quel momento ci hanno sparato. Mi hanno ferito», spiega Hussama. A
quel punto Mustafa, come si vede nella nota foto della morte di Shaimaa, l’ha presa tra le
braccia, perché era il più vicino a lei. Questi giovani hanno partecipato a tanti scioperi con
Shaimaa, attivista anche tra i lavoratori e con il sindacato. «Mi ricordo di un lungo sciopero
al quale ho partecipato con lei, un mese prima che venisse uccisa» dice Husama, «una
volta è rimasta finché i lavoratori non ottennero le loro richieste, tornava in fabbrica tutti i
giorni, informava i lavoratori dei loro diritti, mentre i militari mandavano messaggi minatori
ai lavoratori e non ci lasciavano protestare con loro», racconta.
«È la nostra lotta quotidiana. Ora siamo deboli ma le cose cambieranno», commenta
Mahiennur el-Masry, anche lei attivista comunista in prigione per sei mesi lo scorso anno.
Anche il festival D-Caf interpreta questo finto ritorno al nasserismo. «C’è un’altra via oltre il
capitalismo», ci assicurano i registi de «A micro history of world economy» di Pascal
Rambert e Rami Sami. «Nel testo si cerca di capire perché c’è stata la crisi economica del
2008, noi lo abbiamo semplificato e adattato alle esigenze egiziane usando sia attori
professionisti sia persone comuni che hanno preso parte a workshop preparatori», ha
aggiunto Hani. E poi al minuscolo cinema Zawya non mancano proiezioni di documentari
davvero interessanti come «Garbage dream» di Mai Iskander, «Scent of Revolution» di
Viola Shafik, «Electro Shaabi» di Hind Mehddeb e «On boys girls and the veil» di Yusry
Nassrallah.
Dell’8/04/2015, pag. 24
Bruxelles contro Atene “Sbagliate le vostre
riforme” Nuova lite sui danni di guerra
I ministri greci presentano il conto a Berlino: 278 miliardi di euro
Immediata replica tedesca: “È solo una richiesta stupida”
Tornano a rullare i tamburi di guerra tra Grecia e i creditori. «La proposte di riforme fatte
finora da Atene vanno nella direzione sbagliata», hanno detto all’ Ansa fonti vicine alle
trattative a Bruxelles, gelando gli ottimisti che speravano in un’intesa entro la prossima
settimana. Affondo cui il governo Tsipras ha risposto a stretto giro di posta presentando a
Berlino il conto finale per i danni della seconda guerra mondiale: «Abbiamo messo
assieme tutte le fonti ufficiali disponibili e possiamo dare la cifra esatta — ha detto in tono
ragioneristico il viceministro alle Finanze Dimitris Mardas—. La Germania ci deve 278,2
miliardi di euro». Poco più di 10 miliardi sono i debiti legati al prestito forzoso imposto dal
Terzo Reich alla Banca di Grecia. Il resto sono la parcella per le distruzioni alle
infrastrutture e i rimborsi alle vittime degli eccidi nazisti. «Abbiamo prove schiaccianti per
pretendere il rimborso», ha detto battagliero il ministro alla difesa Panos Kammenos. La
richiesta di pagamento è stata rispedita al mittente dalla Germania, che considera il
capitolo chiuso dagli accordi del ‘90: «È un dibattito stupido — ha liquidato la questione il
vicecancelliere Sigmar Gabriel — che non fa fare un passo avanti di un millimetro ai
negoziati per salvare la Grecia». La partita per tenere Atene nell’euro si avvicina dunque
tra le polemiche alle battute finali. Il tempo è ormai esaurito. Atene punta a un accordo
all’Eurogruppo del 24 aprile a Riga che consenta di sbloccare un po’ di finanziamenti. In
assenza di intese e (soprattutto) di iniezioni di liquidità la situazione rischierebbe di
avvitarsi in tempi brevissimi visto che il governo Tsipras deve raccogliere entro fine mese
1,5 miliardi per pagare stipendi e pensioni e subito dopo è atteso da un altro paio di
31
scadenze di prestiti del Fondo Monetario. La freddezza di Bruxelles di queste ore si spiega
in buona parte con la difficoltà con cui starebbero procedendo i negoziati tecnici nella
capitale ellenica. Bce, Ue e Fmi pretendono che la Grecia presenti un piano di riforme
omnicomprensivo, dettagliato fino all’ultimo centesimo, in cui siano presenti interventi per
ridurre il costo del lavoro e pensioni e dove le leggi umanitarie promesse da Syriza
possono starci solo se a costo zero. Compensate cioè da nuove entrate o altri tagli.
Tsipras — almeno per ora — non sembra destinato a fare concessioni oltre le «linee
rosse» che non può superare. Pena una frattura all’interno del suo partito. Non solo.
Mentre i negoziati non decollano, il governo accelera sui provvedimenti anticrisi come
l’aumento dello stipendio minimo che potrebbe arrivare a brevissimo in Parlamento. Atene
è convinta che alla fine si troverà la quadra perché la Ue non può permettersi un’uscita
della Grecia dall’euro. E pensa a elezioni anticipate o referendum in caso di impasse. I
falchi del rigore sono invece certi che la Grexit oggi sia gestibile senza effetto-domino. Una
prova di forza che rischia tra poche settimane di precipitare il vecchio continente di nuovo
nel caos.
Dell’8/04/2015, pag. 25
Tsipras da Putin, sfida su gas e sanzioni a
Usa e Ue
ETTORE LIVINI
MILANO . Atene bussa. Mosca (forse) risponde. Alexis Tsipras incontra oggi al Cremlino
Vladimir Putin in un appuntamento che Europa e Stati Uniti seguono con il fiato sospeso.
«Non chiederemo alcun prestito alla Russia», ha messo le mani avanti il ministro alle
finanze Yanis Varoufakis. Le sue rassicurazioni non sono bastate però a placare i sospetti
delle cancellerie occidentali dove l’ultima intervista del premier ellenico alla Tass – «le
sanzioni per l’Ucraina sono una strada che non porta da nessuna parte », ha detto –
hanno fatto drizzare le antenne a Washington e Bruxelles. «Sarebbe inaccettabile se la
Grecia mettesse a repentaglio la politica comune della Ue», ha detto senza giri di parole il
presidente dell’Europarlamento Martin Schulz.
Cosa può ottenere allora il governo ellenico dal summit di oggi? Soldi, quello di cui c’è più
bisogno sotto il Partenone, è difficile. «Se la Grecia ci chiederà aiuto finanziario,
valuteremo », ha promesso dopo la vittoria di Syriza alle elezioni il ministro delle finanze
Anton Siluanov. Peccato che di quattrini in cassa ce ne siano pochi anche sulle rive della
Moscova. Il Pil russo calerà quest’anno del 4% e Putin (che pure ha prestato 2 miliardi alla
Bielorussia e 200 milioni all’Armenia) non è in grado di farsi carico dei 240 miliardi di
prestiti con cui la ex Troika ha puntellato i conti di Atene.
Sul tavolo dei negoziati, invece, finiranno con ogni probabilità gas, kiwi e fragole. Il
Cremlino potrebbe garantire ad Atene uno sconto sulle forniture di energia. Il 70% del
fabbisogno ellenico è garantito dalle importazioni dalla Russia. La Depa, il colosso
pubblico degli idrocarburi, ha già ottenuto quest’anno un sconto del 15% da Gazprom.
Mosca può dare un’altra sforbiciata al prezzo in cambio dell’ok di Tsipras al gasdotto
Turkish Stream, ad alcune licenze per la ricerca di giacimenti a sud di Creta e nello Ionio e
a un sostegno (leggi veto) se l’Europa vorrà appesantire le sanzioni alla Russia. La Grecia
punta pure a far saltare le sanzioni contro i prodotti agricoli nazionali imposte come
ritorsione dopo quelle della Ue per la crisi Ucraina. Il 40% delle esportazioni greche di
frutta e verdura viaggiava verso est. Accordi minori, dunque. Non sufficienti però a far
32
abbassare la guardia alle diplomazie occidentali che temono la creazione di un asse
preferenziale tra Atene e Mosca in grado di sconvolgere gli equilibri geopolitici nel
Mediterraneo. Barack Obama, non a caso, si è speso più volte in prima persona
chiedendo a Bruxelles di dare un po’ di respiro alla Grecia. Tsipras, questo è certo, si
muoverà per ora con prudenza. Forzare la mano adesso potrebbe essere un boomerang:
la possibile intesa con Bce, Ue e Fmi dovrà andare al voto dei paesi baltici. Che di fronte a
una luna di miele di Syriza con la Russia ben difficilmente darebbero il via libera.
Dell’8/04/2015, pag. 14
Altro che Grecia, l’Ucraina sta fallendo
Mentre si parla della crisi greca, poca attenzione viene dedicata all’economia ucraina che
per molti aspetti è in una situazione molto più grave. Il 17 marzo, il ministro delle Finanze
ucraino Natalie Yalesko, in una conferenza negli Stati Uniti, ha dichiarato che, nonostante
il nuovo prestito di 17,5 miliardi di dollari da parte del Fondo monetario internazionale, la
situazione del Paese rimane gravissima.
Il governo e la presidenza devono “stabilizzare l’economia, riformare il Paese, combattere
la corruzione, migliorare la trasparenza dell’attività pubblica, l’applicazione delle leggi,
creare le condizioni per ritornare alla crescita economica e alla prosperità”. Le cifre fornite
dall’ufficio centrale di statistica ucraino sottolineano quanto grave sia la situazione: l’anno
scorso il reddito nazionale è caduto del 6,8% e un ulteriore calo del 12% è previsto per il
2015. L’inflazione è al 35% su base annua, il deficit di bilancio al 10,3%, le riserve
ammontano ad appena 5 miliardi di dollari e la moneta ucraina si è svalutata del 70% in un
anno. Il tasso di sconto è stato innalzato al 30%, ma il deflusso dei capitali continua
nonostante le misure prese dalla banca centrale. L’agenzia di rating Moody’s ha
declassato il debito ucraino al penultimo livello del merito di credito, praticamente
affermando che l’Ucraina è in uno stato di default.
L’Ucraina occupa il 142° posto su 175 nella classifica stilata da Transparency International
e quindi risulta come una delle economie più corrotte del mondo. Il primo ministro
Yatseniuk ha affermato che la corruzione costa allo Stato ucraino 10 miliardi di dollari
all’anno. Il sistema bancario ucraino praticamente non funziona; a parte il livello dei saggi
di interesse, esperti del settore stimano che i prestiti rischiosi e non-performing siano fra
un terzo e una metà degli attivi del sistema. Dall’inizio della guerra sono fallite 40 banche,
mentre l’altra settimana è fallita la Delta Bank, la quarta banca del Paese. L’Ucraina viene
ormai percepita come uno Stato in fallimento, che non riesce più a svolgere i suoi compiti
istituzionali. Non riesce a proteggere i suoi confini, le decisioni economiche e politiche che
vengono prese con molte difficoltà dal governo centrale e trasmesse alla periferia che
spesso non le osserva, essendo governata da oligarchi. Il caso più eclatante è quello della
regione di Dniepropetrosk dominata da Kolomoyski che fino a pochi giorni fa ne era il
governatore. Kolomoisky controlla non solo Dniepropetrosk ma anche Odessa attraverso
un suo affiliato. Lo scontro fra Poroshenko e Kolomoiski, estromesso dal presidente dal
governatorato di Dniepropetrosk e privato del controllo di una grande impresa energetica,
ha causato come reazione l’occupazione della sede dell’impresa da parte di truppe del
battaglione Dnipro, finanziato proprio da Kolomoisky. Un altro oligarca, Akmetov, controlla
parte del Donbass. Kiev legifera in un contesto quasi semifeudale in cui esistono milizie
armate private, un debole esercito centrale, una magistratura poco indipendente.
33
In marzo il Fondo Monetario ha approvato un extended fund facility per 17,5 miliardi di
dollari che potrà raggiungere i 40 miliardi di dollari in quattro anni. È il decimo programma
che il Fmi ha lanciato per l’Ucraina dal 1994, nessuno è mai stato portato a termine.
Prevede misure molto dure sul piano fiscale che peggioreranno il tenore di vita dei cittadini
ucraini con un aumento dei prezzi dell’energia e una netta diminuzione delle pensioni.
L’aiuto è condizionato al fatto che l’Ucraina raggiunga un accordo con i debitori e tagli il
debito da 18 a 3 miliardi di dollari, con una più che sostanziale perdita per gli investitori.
Questo implica un accordo con la Russia che ha prestato 3 miliardi di dollari allo Stato
ucraino. La situazione è talmente drammatica che viene da chiedersi se l’Ucraina possa
continuare a esistere come Stato sovrano unitario. A Kiev non esiste una classe dirigente
capace di portare il Paese fuori dalla tragica situazione in cui si trova. Al di là dei presidenti
e dei governi che si sono succeduti dal 1991 a oggi, la classe dirigente ha evidentemente
fallito nel costruire un’economia e uno Stato funzionante. Non è un caso che tre ministri
dell’attuale governo siano stranieri e che a essi sia stata data dal presidente Poroshenko
in una mattina, con procedura eccezionale, la cittadinanza ucraina. Requisito
indispensabile per una possibile, ancorché difficile soluzione è che l’attuale classe
dirigente accetti la tutela di chi contribuirà al risanamento del Paese: Europa e Russia.
Questo può avvenire soltanto senza l’adesione dell’Ucraina al blocco occidentale e alla
Nato, con una sorta di finladizzazione del Paese, e con un esplicito accordo fra Mosca e
Bruxelles che comporti notevoli aiuti finanziari. Se non sarà possibile, è molto difficile che
l’Ucraina conservi la sua integrità territoriale. Con conseguenze imprevedibili per tutta
l’Europa.
* professore di Politica economica all’Università di Modena e Reggio Emilia
del 08/04/15, pag. 10
Tangenti, crisi, favelas in fiamme
Il Brasile di Dilma scivola a destra
Presidente in affanno, il Parlamento le sfugge di mano e vuole il carcere
per i minorenni
Emiliano Guanella
Un video di una manciata di secondi ha fatto rapidamente il giro delle reti sociali
scuotendo il Brasile in un momento di forte conflitto sociale e di rinascita dell’ala più
conservatrice della popolazione.
Nel filmato si vede tutta la disperazione di Terezina Moraes, la madre di Eduardo de Jesus
Ferreira, un bambino di 10 anni ucciso da un colpo di pistola in piena fronte sparato,
secondo almeno due testimoni, da un poliziotto che partecipava ad una grossa operazione
anti-droga nelle favelas del complesso dell’Alemao, nella periferia Nord di Rio de Janeiro.
Il bambino ucciso
Eduardo era appena tornato da scuola e si trovava sulla porta di casa, con il quaderno dei
compiti in mano. Freddato per errore o per negligenza, le autorità hanno aperto
un’inchiesta contro gli agenti, il suo caso è l’ultimo simbolo della violenza che pervade le
periferie delle grandi metropoli brasiliane, proprio quando in Parlamento si sta discutendo
la riduzione dell’imputabilità dai 18 ai 16 anni.
Si tratta di un vecchio cavallo di battaglia della destra, che ora ha trovato un consenso tra
parlamentari di diversi partiti, nonostante l’opposizione della presidente Dilma Rousseff.
Oggi solo i maggiorenni possano finire in carcere, mentre i ragazzi dai 12 ai 18 anni
34
vengono destinati ad istituti correzionali. A guidare la riforma è lo stesso presidente della
Camera Eduardo Cunha, teoricamente alleato della Rousseff, ma che da mesi si comporta
come un primo ministro in pectore, con una grande capacità di dialogare e trovare accordi
con l’opposizione che mettono spesso in minoranza quel governo che, sulla carta,
dovrebbe appoggiare. Conservatore, evangelico convinto, profondamente contrario al
matrimonio fra le persone dello stesso sesso o a una parziale depenalizzazione
dell’aborto, Cunha è diventato una vera spina nel fianco della presidente, la cui popolarità
è scesa molto negli ultimi mesi.
Alleanze troppo fragili
Rieletta ad ottobre al termine di un ballottaggio molto disputato, Rousseff soffre le
ripercussioni del maxi scandalo di corruzione dell’impresa petrolifera pubblica Petrobras e
si trova ad affrontare una crisi economica che ormai nessuno può più negare. La sua
maggioranza si appoggia in parlamento su un’alleanza fin troppo eterogenea di dodici
partiti, dove il Pmdb di Eduardo Cunha la fa da padrone, dettando spesso l’agenda
politica. Il Brasile vive così il paradosso di una strana «coabitazione»; governato da un
centrosinistra sempre più debole, scivola tra il Parlamento e la piazza verso destra.
Domenica prossima si terrà la seconda giornata di mobilitazione nazionale contro la
corruzione e contro il governo. Un mese fa scesero complessivamente in piazza più di un
milione di persone, con una serie di parole d’ordine che andava dall’inasprimento delle
pene per i politici corrotti, alla richiesta di impeachment per la stessa Dilma a causa
dell’affaire Petrobras, alla convocazione di una nuova assemblea costituente. Alcuni
gruppi minori chiedevano addirittura l’intervento delle forze armate, un «golpe bianco» per
cacciare via tutta la classe politica.
La riforma «punitiva»
La mano dura contro la delinquenza, anche nei casi di minorenni è una delle rivendicazioni
più diffuse. Diverse ong hanno ricordato che, secondo l’Unicef, soltanto il 3% dei delitti
commessi sono ad opera di minori d’età, mettendo in guardia sui rischi di un ulteriore
allargamento della popolazione carceraria, considerando che le prigioni sono spesso delle
vere scuole del crimine. «Invece di ridurre l’imputabilità – spiega Ariel de Castro Alves
dell’Università di San Paolo – dovremmo ripensare interamente il nostro sistema punitivo,
che oggi presenta più del 60% di recidività gli ex reclusi adulti e solo il 15% fra i minorenni
provenienti dagli istituti». Mentre Dilma Roussef esprimeva le sue condoglianze ai
famigliari del piccolo Eduardo, il suo scomodo alter ego politico ha ribadito la necessità
della riforma costituzionale. «Il narcotraffico – ha detto Cunha - usa i minori perché sa che
non possono andare in carcere. Cambiare la legge sull’età penale è un passo
fondamentale per salvare dalle barbarie il nostro Paese».
del 08/04/15, pag. 15
IL DISGELO AVANZA. ?DOPO LA SVOLTA DEL 17 DICEMBRE LA CNN
ANTICIPA UN’ALTRA DECISIONE STORICA: «NEI PROSSIMI GIORNI
L’ANNUNCIO DELLA CASA BIANCA»
Usa pronti a togliere Cuba dalla lista nera
Trasformazioni in corso. A L’Avana “El enemigo” (il nemico americano) si è trasformato nel
“Pais vecino”. A Washington il Paese nella black list (Cuba) si è trasformato nel partner
economico con cui fare affari.
35
Ieri, un’altra svolta storica. Cuba verrà cancellata, entro un paio di giorni, dalla “lista nera”
degli Stati sponsor del terrorismo. L’annuncio della cancellazione dal famigerato elenco
arriva dalla Cnn, che cita fonti dell’amministrazione Obama.
La “lista nera” è un elenco stilato dagli Stati Uniti che ha condizionato la politica estera di
gran parte dei Paesi europei e mediorientali, direttamente o indirettamente sconsigliati a
intrattenere rapporti con i politici dell’isola tropicale.
Il disgelo avanza: nel negoziato tra Cuba e Stati Uniti si registra quindi un passo avanti
sostanziale. Il dialogo tra L’Avana e Washington, iniziato lo scorso 17 dicembre, procede
rapidamente: lo storico annuncio, contestuale, di Barack Obama e Raul Castro è stato il
prodromo di una serie di provvedimenti “distensivi”: meno restrizioni alle rimesse
dall’estero, maggior numero di visti per l’espatrio, collaborazione nel settore delle
telecomunicazioni.
La cancellazione di Cuba dalla lista degli Sati sponsor del terrorismo avverrà alla vigilia
dell’atteso primo incontro tra i due leader previsto il 10 aprile a Panama a margine del
Summit dell’Organizzazione degli Stati Americani (Osa).
Se il presidente americano accetterà la richiesta del Dipartimento di Stato, come è
prevedibile, il Congresso avrà 45 giorni di tempo per approvare la decisione.
Obama avrà una “interazione” con il presidente cubano Raul Castro, anche se la Casa
Bianca non ha ancora definito la tipologia dell’incontro.
L’iscrizione di Cuba nella lista nera dei Paesi che sponsorizzano il terrorismo è stata finora
uno dei maggiori ostacoli alla riapertura dell’Ambasciata americana a L’Avana e di quella
cubana a Washington.
I titolari delle microimprese private nate a Cuba con le riforme economiche lanciate da
Raul Castro – i cosiddetti “cuentapropistas”, che hanno raggiunto ormai il mezzo milione potranno avvalersi di un nuovo giornale, a colori, contenente annunci commerciali. Le
aperture economiche, per la prima volta da decenni, seguono un ritmo sostenuto. E,
contrariamente al passato, pare non vi sia una linea sincopata, caratterizzata da annunci e
successive “marce indietro”.
La Agenzia di Informazione Nazionale (Ain), organismo statale che pubblicherà la nuova
rivista, ha annunciato che verranno stampate 60mila copie della testata, «dedicata ai nuovi
attori economici, i lavoratori autonomi e le cooperative».
Oltre agli annunci dei “cuentapropistas”, la rivista includerà «consigli, orientamenti e
suggerimenti utili per chi vuole fare affari nell’isola», si legge in un comunicato dell’Ain, nel
quale si specifica che la testata «avrà un prezzo molto competitivo rispetto alle altre
pubblicazioni nel paese».
Nel giorno dell’annuncio-upgrading, la Corte suprema americana ha respinto il ricorso di
Alan Gross, il contractor statunitense che trascorse cinque anni in un carcere cubano per
reati di spionaggio. Gross aveva accusato il governo americano di negligenza e chiesto un
risarcimento di 60 milioni di dollari.
L’Alta corte ha confermato la sentenza di un tribunale di Washington DC. Gross, che era
stato accusato di aver distribuito pc clandestinamente nell’isola, era stato condannato
dall’Avana a 15 anni di carcere ma é stato rilasciato il 17 dicembre scorso, lo stesso giorno
in cui Cuba e Usa annunciarono la ripresa delle relazioni diplomatiche reciproche.
36
del 08/04/15, pag. 8
130 personalità statunitensi contro le
sanzioni
Geraldina Colotti
Usa-Venezuela. Da Noam Chomsky a Ramsey Park, un appello per
chiedere a Obama di ritirare il decreto contro Caracas
Mentre le firme per chiedere a Obama di togliere le sanzioni al Venezuela hanno
oltrepassato gli otto milioni, un gruppo di 130 personalità pubbliche statunitensi,
riconosciute a livello mondiale, ha unito il proprio «no» al decreto. Intellettuali come Noam
Chomsky, attivisti, avvocati, difensori per i diritti umani e anche l’ex ministro della Giustizia
Usa, Ramsey Clark, hanno invitato il presidente degli Stati uniti ad annullare il decreto con
il quale, il 9 marzo, ha definito il Venezuela «una minaccia straordinaria per la sicurezza
nazionale». Nel loro appello, chiedono a Obama di smetterla «di interferire nei processi
democratici mediante finanziamenti o dichiarazioni pubbliche imprudenti», e soprattutto, lo
invitano a «dimostrare ai nostri vicini latinoamericani che gli Stati uniti possono avere
relazioni di pieno rispetto della sovranità dei loro paesi».
I firmatari ricordano il fallimento del blocco economico contro Cuba, che per anni ha
«isolato gli Stati uniti dal resto dell’emisfero e dal mondo», giacché «per 23 anni di seguito,
l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha votato per condannare il blocco». In questo
contesto — ricorda ancora l’appello — l’Onu «ha invitato gli Stati uniti ad astenersi dal
promulgare ed applicare leggi e dispositivi che violino la sovranità degli altri stati, gli
interessi legittimi di entità o persone sotto sua giurisdizione e la libertà di commercio e
navigazione». Le personalità ricordano anche il pronunciamento contro il decreto di paesi
alleati di Washington come la Colombia e anche di parte dell’opposizione venezuelana.
Rilevano l’assurdità di considerare il Venezuela una minaccia, poiché non ha mai
aggredito nessuno, e denunciano l’intenzione degli Usa di «intensificare l’attività per un
cambiamento di governo a Caracas».
Al contrario, un gruppo di 19 ex presidenti di destra cerca di rigirare la frittata e denuncia
una presunta «alterazione democratica» nel Venezuela di Nicolas Maduro. E lancia un
appello «per la costruzione di un’alternativa».
Intanto, in vista del VII Vertice delle Americhe, che si terrà a Panama il 10 e 11 aprile, la
delegazione cubana ha presentato una Dichiarazione di principi per mettere in chiaro le
condizioni del suo rientro nel vertice, dopo anni di esclusione. Cuba ritiene «inammissibile
che a Panama vi siano mercenari pagati dalla Usaid», l’Agenzia Usa per lo sviluppo
internazionale. Il governo cubano ha espresso a più riprese appoggio al Venezuela e
respinto il decreto Obama. A Panama, nonostante gli Usa abbiamo dichiarato che
cercheranno di non centrare il vertice sulla questione, i contrasti con il Venezuela saranno
al centro del summit. Gli anticastristi e l’opposizione venezuelana stanno preparando il
loro show, ma è previsto anche, in parallelo, il vertice dei movimenti sociali.
37
INTERNI
Dell’8/04/2015, pag. 12
Italicum, l’ultimo appello dei dissidenti pd al
premier “Meno nominati o è rottura”
Documento di Area riformista, la corrente dei pontieri Tra i 70 firmatari il
ministro Martina. Bersani non aderisce
GIOVANNA CASADIO
«All’orizzonte si profila un altro enorme rischio: una frattura dentro il Pd. Se così fosse, su
quale terreno facciamo camminare le riforme? Questa rottura non possiamo
permettercela». È l’sos della corrente dem “Area riformista”, che fa capo a Roberto
Speranza, lanciato nel giorno in cui inizia in commissione Affari costituzionali a
Montecitorio l’esame dell’Italicum. È un appello a Renzi: «Riapra il dialogo sulla legge
elettorale». Segue una proposta precisa, una soltanto: ridurre il numero dei nominati in
lista. Nell’Italicum infatti sono previsti i capilista bloccati, e poi gli eletti con le preferenze.
Se una lista vince e ha il premio di maggioranza, saranno un centinaio i nominati sui 340
deputati ottenuti con il premio. Ma per chi perde, la quota dei nominati è invasiva. Ecco
quindi la richiesta della sinistra dem di Speranza: «È per noi prioritaria l’esigenza di ridurre
il numero dei nominati tra i partiti che non prendono il premio di maggioranza». A
sottoscrivere già il documento, che ha tra i suoi promotori il ministro Maurizio Martina,
sono una settantina di deputati: da Gugliemo Epifani, l’ex segretario del Pd a Paola De
Micheli, sottosegretario all’Economia, Cesare Damiano, presidente della commissione
Lavoro, Andrea Giorgis, Enzo Lattuca, Danilo Leva, anche Micaela Campana e Enzo
Amendola che sono nella segreteria renziana. Lo hanno scritto materialmente Nico
Stumpo e Matteo Mauri. Non lo firmano né Pierluigi Bersani (pronto a farsi sostituire in
commissione se si andasse al muro contro muro con Renzi e a non votare in aula
l’Italicum senza modifiche), né Speranza, che è capogruppo alla Camera, e comunque
dell’appello è l’ispiratore. I 70 per ora “pontieri” insieme con le altre sinistre dem
rappresentano lo zoccolo duro del dissenso che potrebbe rendere pericolosa la
navigazione dell’Italicum, sommandosi all’opposizione di Forza Italia, Lega, Sel e 5Stelle.
Meno minimalista è la posizione della corrente di Gianni Cuperlo, Stefano Fassina e
Alfredo D’Attorre come scettico è Pippo Civati. «Se una legge elettorale non va bene e si è
detto che non si vota, bisogna essere conseguenti», va all’attacco Civati per il quale i
“trattativisti” farebbero bene a sciogliere le loro contraddizioni.
I “pontieri” però non si arrendono, nonostante la blindatura dell’Italicum. Renzi lo ha
ripetuto: «L’Italicum non si cambia più». Nell’appello scrivono: «Riflettiamo. Senza
fermarci. Possiamo andare avanti al doppio della velocità, se necessario. Però attenzione
perché le riforme devono poggiarsi su un terreno largo. E questo terreno si è già ristretto.
E’ solo la maggioranza a fare le riforme, perché il Patto del Nazareno non c’è più. E se
anche un pezzo del Pd non ci sta, rendiamo quel disegno essenziale più debole e non più
forte. C’è ancora uno spazio possibile per trovare un’intesa? Sì, c’è». Pensano che il testo
dell’Italicum si possa riaprire con un accordo preventivo al Senato di tutta la maggioranza
di governo, così da evitare brutte sorprese. Ma Renzi evidentemente non si fida. D’Attorre
sospetta che il premier sia pronto a elezioni anticipate: «Se Renzi anticipa così la riforma
elettorale, e dice che non vuole un nuovo passaggio al Senato - dove c’è la riforma
costituzionale - perché non ha i numeri, vuol dire che sta pensando di abbandonare la
38
riforma costituzionale al suo destino e tutto fa pensare che voglia andare a elezioni
anticipate ». Damiano invita a non smettere di cercare il confronto: «Non bisogna lasciare
nulla di intentato». Nel Pd è alta tensione. Oggi in commissione ci saranno i primi colpi di
scena.
Dell’8/04/2015, pag. 15
Blitz di Silvio sulle liste, 50% ai giovani
I nuovi criteri per le regionali già approvati da Berlusconi, mentre si
rincorrono le voci di una sua fuga ad Antigua Campagna elettorale
ferma in attesa del tribunale di sorveglianza. Fitto: “Escludere chi ha
consenso è suicida”
CARMELO LOPAPA
Cinquanta per cento di uscenti, cinquanta di volti nuovi. Sarà il criterio guida che seguirà
Forza Italia per la composizione delle liste alle prossime regionali e destinato a essere
ripreso alle future politiche. Eccolo il rinnovamento — guai a chiamarlo “rottamazione” —
secondo Berlusconi. «Mi sembra il metodo più normale, il più razionale, al quale nessuno
potrà opporsi», spiegava ieri sera a cena con colleghe la tesoriera (e plenipotenziaria su
simbolo e liste) Mariarosaria Rossi.
È la declinazione in numeri e percentuali della sua circolare di un paio di settimane fa.
Nuovi criteri, neanche a dirlo, varati d’intesa con Berlusconi, con l’auspicio di porre fine
alla guerra giovani-vecchi già aperta nel partito. Ma è tutt’altro che certo che un mix così
congegnato, soprattutto in vista delle politiche, possa attenuare i tanti timori dei
parlamentari in carica. Paure, contestazioni e faide interne che lasciano l’ex Cavaliere di
pessimo umore. «Pensano che non mi renda conto che ad essere nel mirino sono io,
continuano ad attaccare voi perché non hanno il coraggio di affrontare me», continua a
masticare amaro Silvio Berlusconi nei colloqui privati coi dirigenti più vicini che ha visto e
sentito a Villa Certosa. Dalla Sardegna non ha avuto alcuna voglia di allontanarsi ieri, non
lo farà a quanto pare neanche oggi. Nessuna intenzione di ripiombare nelle guerre interne.
La voglia invece di ripianare tutto e ripartire dopo le regionali è tanta.
Tra i deputati e senatori rientrati a Roma prevale il pessimismo, le previsioni sono cupe.
«Abbiamo la sensazione che voglia mollare, che voglia liquidare il partito come intende
fare col Milan, magari per andare via e ritirarsi ad Antigua», si sente ripetere da più di un
deputato della vecchia guardia. Stamattina il capogruppo Brunetta e la portavoce
Bergamini ribadiranno alla riunione di gruppo convocata a Montecitorio (in assenza del
leader) che sull’Italicum e più in generale sulle riforme non ci sarà alcun cedimento. Linea
dura. Con buona pace dei 18 firmatari del documento pro-riforme che ha avuto in Verdini il
suo ispiratore. L’ormai ex Manuela Repetti propone di già «un’alleanza tra un’area di
centro e la sinistra moderna» di Renzi. Il terreno minato per Fi resta però quello delle
regionali. L’ex Cavaliere non ha ancora pianificato la campagna, attende la prossima
settimana: il Tribunale di Sorveglianza di Milano tra il 9 e il 14 emetterà la sentenza di
estinzione della pena per la condanna Mediaset. Il nodo più complicato è la Puglia,
sebbene ieri sera il candidato governatore Schittulli parlasse di spiraglio di intesa con i
forzisti del commissario Vitali. Fitto è tornato alla carica in difesa dei suoi: «Per le regionali,
escludere chi ha consenso è suicida», come lo è «lasciare tutto in mano ai soliti
autonominati». Ma la sua guerra alla dirigenza forzista non lo spingerà fino al punto di
sostenere coi suoi uomini il candidato pd in Campania Vincenzo De Luca, come invece ha
39
annunciato di voler fare il senatore Vincenzo D’Anna, che minaccia anche un’istanza al
tribunale contro la nomina della tesoriera Mariarosaria Rossi. Lei, che simbolo e liste
invece presenterà in tutta Italia, non sembra darsi pensiero di accuse e minacce. Convinta
che «la vera preoccupazione di alcuni è il fatto che non saranno più loro a decidere sulle
liste, come avvenuto fino a poco tempo fa».
Dell’8/04/2015, pag. 5
Verdini mette avanti i Bondi sul carro del
Nazareno bis
L’ex vate di B. e la compagna strizzano l’occhio a Renzi: “È lui
l’alternativa”
Dopo un quarto di secolo, Sandro Bondi torna a sinistra. Ancora una volta, a parlare, è la
compagna Manuela Repetti, senatrice come lui. Così dopo l’addio al berlusconismo
cadente del cerchio magico (la Rossi, Toti e Dudù), il martedì pasquale è trasfigurato in
una dichiarazione d’amore per il renzismo: “La mia opinione è che oggi il problema non sia
quello di costruire un’alternativa di centrodestra al governo Renzi. Semmai, di fronte al
rinnovamento della sinistra incarnata da Renzi, per le forze liberali e riformiste la sfida è di
proporre un progetto politico nuovo, per oggi e per il futuro, cioè l’alleanza tra un’area oggi
ancora dispersa di centro e la realtà di una sinistra per la prima volta davvero moderna
che Renzi rappresenta”.
La notizia della svolta ideologica dei Bondi, da sommi sacerdoti del Condannato ad
aspiranti novizi del giglio magico del premier, non è tanto nei contenuti. Già nell’aprile di
un anno fa, per esempio, il poeta senatore Bondi scrisse una lettera a La Stampa che
traboccava entusiasmo per la nuova stella renziana: “La forza di Renzi nasce in fondo dal
fatto di proporsi di realizzare quel cambiamento e quella modernizzazione che il
centrodestra non può dichiarare di aver realizzato pienamente. Renzi rappresenta senza
dubbio la prima vera cesura nella sinistra italiana rispetto alla sua tradizione comunista”.
Sintesi e punto d’arrivo: “Forza Italia ha fallito tutto, a questo punto Berlusconi sostenga
Renzi”. Piuttosto, allora, la mossa repettian-bondiana di ieri è la conferma dei movimenti
filonazareni dentro e fuori Forza Italia che fanno capo a Denis Verdini, toscano di
Fivizzano come Bondi e custode della scatola nera del fu (?) patto del Nazareno tra il
premier e l’ex Cavaliere. Racconta un verdiniano informato: “Denis e Bondi si sentono
regolarmente e i loro rapporti sono buonissimi, direi idilliaci. Il gruppo al Senato? È
un’ipotesi seria e Bondi e Repetti rientrano in questo progetto”. Ecco quindi il punto di
caduta dello strappo familiare dei Bondi, di fatto cacciati o emarginati come tanti altri
(compreso Verdini) dal nuovo corso dei guardiani della Salò berlusconiana, dalla Rossi a
Toti. Al momento, la Repetti e Bondi si sono iscritti al gruppo misto, ma l’annunciata
disfatta forzista alle Regionali potrebbe generare un gruppo verdiniano filogovernativo a
Palazzo Madama: c’è chi addirittura prevede dodici o tredici senatori pronti a sostenere
l’attuale maggioranza. Un gruppo che avrebbe poi l’equivalente nei 17 verdiniani che alla
Camera firmarono un documento a favore delle riforme, tra questi anche Daniela
Santanchè, Laura Ravetto, Ignazio Abrignani, Massimo Parisi, Monica Faenzi e Luca
D’Alessandro.Giorno dopo giorno, tra gli azzurri sta emergendo sempre di più la questione
della doppia scissione di maggio, a urne regionali chiuse. Da un lato i fedelissimi di
40
Verdini, filonazareni ma anche diciottisti, nel senso che il loro appoggio è dettato
soprattutto dalla speranza di arrivare alla fine naturale della legislatura, nel 2018. Dall’altro
i ribelli di Raffaele Fitto, che oggi peraltro riunirà a Roma i suoi per un vertice sul
tormentone delle candidature in Puglia.
Sul fronte fittiano la notizia del giorno è però un’altra: in Campania l’azzurro Vincenzo
D’Anna, ufficialmente nel Gal al Senato, ha ufficializzato la sua lista civica a favore di
Vincenzo De Luca, candidato governatore del Pd. La lista avrà pure il logo di Scelta Civica
e D’Anna specifica che resta fittiano e che Nicola Cosentino non c’entra nulla con il
progetto. Ancora una volta, alla base di uno strappo contro la Casa Madre di Arcore, c’è la
ribellione contro il cerchio magico di Berlusconi. Dice D’Anna: “La Campania ha
assaggiato prima degli altri la tracotanza e l’insipienza politica del cerchio magico,
l’ingerenza patronale della Pascale e della Rossi, che hanno determinato, sulla base dei
propri umori e amicizie, la selezione della classe dirigente”. Ma nel bollettino forzista di
guerra del giorno, la battuta più azzeccata è quella di Maurizio Bianconi, altro fittiano. A
proposito dello scontro generazionale tra gli azzurri dopo la promozione tv di Silvia
Sardone: “Siamo proprio alla frutta. La Sardone in campo è l’epilogo. Come Hitler nel
bunker si affidò alla hitlerjugend, Mussolini alle Fiamme Bianche, Stalin ai Pionieri del
popolo, così c’è sempre una Sardone pronta a interpretare la fine della storia”.
Dell’8/04/2015, pag. 9
La rivolta di Regioni e Comuni: basta sacrifici
In 6 anni gli enti locali potrebbero arrivare a tagli ai trasferimenti per 30
miliardi. Sindaci e governatori temono una nuova stangata con
conseguenze negative per i servizi resi ai cittadini: dalle mense
scolastiche ai trasporti, fino all’assistenza domiciliare
ROBERTO MANIA
I tagli agli enti locali sono destinati a sfiorare l’asticella dei 30 miliardi in sei anni. Una
media di cinque miliardi l’anno. Che nel complesso hanno diminuito gli sprechi, prodotto
efficienza, certo; ma anche brutalmente ridotto i servizi di welfare territoriale e aumentato a
dismisura le tasse locali. Ed è questo lo scenario che temono i sindaci e i governatori delle
Regioni in vista del varo del prossimo Def (Documento di economia e finanza) che
dovrebbe cifrare dai 2,5 miliardi ai 4 miliardi l’apporto di Regioni, Comuni e vecchie
Province all’operazione di spending review da 10 miliardi di euro complessivi che verrà poi
definita con la legge di Stabilità.
Governo e sindaci si vedranno giovedì alla vigilia della riunione del Consiglio dei ministri
che darà il via libera al Def. Ma ieri è proseguito lo scontro tra il premier Matto Renzi e il
presidente dell’Anci che è anche sindaco di Torino, Piero Fassino. «Fassino — ha detto
Renzi — si lamenta perché lo scorso anno la Provincia di Torino ha sforato il patto di
Stabilità». Poi ha aggiunto: «Trovo stravaganti alcune osservazioni che ho letto in questi
giorni da parte degli amministratori locali. Io sono pronto a un confronto all’americana con i
sindaci in materia fiscale». Fassino ha ricordato, appunto, che «la città metropolitana di
Torino eredita oggi le negative conseguenze di una scelta della Provincia senza alcuna
responsabilità». In serata però ha gettato acqua sul fuoco dopo che Renzi aveva escluso
tagli con la manovra: «Da Renzi — ha detto il sindaco di Torino — sono arrivate
affermazioni importanti che vanno incontro alle esigenze dei Comuni ».
41
Fatta la tara sulle polemiche già da campagna elettorale (a maggio si vota in diverse
Regioni), rimane la convinzione che per i Comuni (quelli non virtuosi che non potranno
beneficiare dell’ulteriore allentamento del Patto di stabilità interno), molto più che per le
Regioni (dove probabilmente c’è ancora molto da razionalizzare), la riduzione dei
trasferimenti possa tradursi effettivamente in meno servizi, dalle mense scolastiche ai
trasporti fino all’assistenza domiciliare e agli interventi sanitari. E poiché la spesa dello
Stato centrale, una volta deciso che non si toccherà quella pensionistica, è ormai poco
comprimibile questa prospettiva potrebbe non essere irrealistica. Nega il governo
sostenendo un’opzione diversa, metodologicamente e culturalmente diversa: «Noi — ha
detto il neo commissario alla spending review, Yoram Gutgeld — non stiamo dando
indicazioni ai sindaci di tagliare qua e là. Stiamo facendo un processo molto più semplice
di equità: ci sono città più efficienti che spendono poco e dobbiamo riportare tutti
all’efficienza delle città migliori». Il governo punta ad estendere il meccanismo dei costi
standard a tutti gli enti locali e a razionalizzare le società partecipate. La prossima legge di
Stabilità dovrebbe, da una parte, confermare il superamento del Patto di stabilità interno
per i Comuni virtuosi così da consentire loro di investire le risorse disponibili, e dall’altra
introdurre la local tax per sistemare il caos fiscale sulla tassazione degli immobili e dei
servizi municipali. E con la pubblicazione on line di tutte le spese comunali il governo
intende dimostrare che i Comuni non sono gestiti tutti allo stesso modo. Ma giovedì Renzi
dovrà anche decidere se varare il cosiddetto “decreto enti locali”, fortemente voluto dai
sindaci, per risolvere una serie di vecchi problemi tra i quali il ristorno dei 625 milioni del
fondo Imu/Tasi necessario per evitare il dissesto finanziario di circa 1.800 Comuni.
Dell’8/04/2015, pag. 11
Al gran bazar delle Regionali «I politici locali
usano i partiti come fossero un franchising»
Il politologo Campi: restano solo potentati e consensi personali
Milano Se perdi una puntata rischi di non capirci più nulla. Le Regionali 2015 sono un tale
intreccio di alleanze e spaccature — tra i partiti, ma soprattutto dentro ai singoli partiti —
da mettere a dura prova la buona volontà di informarsi degli elettori. Si vota domenica 31
maggio in sette Regioni (e anche in 1.089 Comuni) per un totale di circa 17 milioni di
italiani chiamati alle urne. A meno di due mesi dall’election day «il dato più significativo —
secondo Alessandro Campi, che insegna Storia del pensiero politico all’Università di
Perugia — è l’estrema difficoltà con cui sono stati trovati i candidati, le guerre in corso per
definire le liste: ci dicono molto sul cattivo stato della politica in Italia».
Il quadro, con l’«estrema difficoltà» di cui parla il professor Campi, si è quasi composto: il
Pd, che a Roma governa con Alleanza popolare (Ncd+Udc), non ripropone la stessa
formula sul territorio. Ma nemmeno l’alleanza con Sel, il vecchio centrosinistra, è in buona
salute: in Liguria, Toscana, Marche e Campania i vendoliani avranno un loro candidato. Al
partito «a vocazione maggioritaria» guidato da Matteo Renzi giocarsi da solo la partita non
dispiace e il cuore della sfida a sinistra sarà in Liguria. Dopo primarie contestate e l’addio
polemico di Sergio Cofferati, un parlamentare (Luca Pastorino) ha lasciato il Pd per
correre contro la candidata del Pd (Raffaella Paita). Mai visto. Forza Italia e Lega, dopo
settimane di tentennamenti, hanno quindi deciso di giocare nella regione la carta di
Giovanni Toti, consigliere politico di Berlusconi.
42
Per il centrodestra il caso simbolo è il Veneto. Qui è stata la Lega a spaccarsi, da una
parte il governatore uscente Luca Zaia, dall’altro il sindaco di Verona Flavio Tosi. In mezzo
Alessandra Moretti, Pd, che tenta il colpaccio in una regione da sempre «impossibile» per
la sinistra. Mai visto anche qui, se poi si aggiunge che ieri l’ex ministro di FI Raffaele Fitto
ha ipotizzato di sostenere Tosi mentre il suo partito corre per Zaia. Liguria e Veneto sono
solo i casi più eclatanti dei tanti «inediti» di queste Regionali: in Campania ci sono i
dissidenti di FI che si dicono pronti a sostenere Vincenzo De Luca (Pd), nelle Marche c’è
un governatore uscente ex Pd (Gian Mario Spacca) che si ripresenta con il sostegno del
centrodestra, in Puglia ci sono gli esponenti di Ncd che avevano lasciato Forza Italia
proprio per non stare con Fitto, e che ora si ritrovano insieme a Fitto a sostenere il
candidato del centrodestra Francesco Schittulli.
«La verità — dice Alessandro Campi — è che i partiti non sono più in grado di tenere sotto
controllo gli apparati a livello locale. Ciò che succede in periferia ormai sfugge perfino al
Pd, che è il partito più strutturato». Una volta non era così: «Il legame con la politica
nazionale era molto più stretto, ma negli ultimi tre-quattro anni è cambiato tutto. A livello
locale contano solo i gruppi di potere, spesso sono trasversali e il personale politico passa
da una parte all’altra: è una specie di neo feudalesimo, un livello di disgregazione
inimmaginabile, basta vedere cosa è successo dentro al Pd romano».
Eppure non molti anni fa chi perdeva le Regionali (Massimo D’Alema nel 2000) o
addirittura ne perdeva una sola (Walter Veltroni nel 2009 con la Sardegna) si dimetteva da
premier: «Anche se è passato poco tempo, quella era un’altra Italia: centrosinistra e
centrodestra erano fronti compatti, con differenze politiche riconoscibili. I partiti erano già
deboli, ma ora — sostiene Campi — siamo alla conclusione di un processo: restano solo
potentati locali e consensi personali. E i politici sul territorio spesso usano i referenti
nazionali come se fosse un franchising : se uno si dice “fittiano” in Liguria o in Veneto, per
esempio, lo fa solo per posizionarsi dentro a un partito».
A mano a mano che le urne si avvicinano, la posta in palio diventerà più chiara anche a
livello nazionale: il Pd farà l’en plein o il centrodestra riuscirà a vincere in qualche regione?
E i Cinquestelle avranno ancora risultati in doppia cifra? «Alla fine una lettura nazionale ci
sarà — conclude Campi. Ma sarà meglio che, dopo le Regionali, i partiti affrontino
seriamente questa deriva preoccupante che ha preso la politica locale».
del 08/04/15, pag. 7
L’Expo ha perso anche l’Oscar
Luca Fazio
Milano. Non passa giorno senza una piccola grande grana per il
Commissario unico Giuseppe Sala. Ieri l'organizzazione dell'evento
planetario ha perso un altro pezzo pregiato: lo scenografo Dante
Ferretti, tre volte premio Oscar, si è infuriato perché il suo progetto non
è ancora stato realizzato. "Ci ho lavorato quattro anni e ci ho messo la
faccia, adesso ci penseranno i miei legali"
Si prega per l’Expo. La madonnina come non l’avete mai vista non è un miracolo ma
un’opera fatta e compiuta. Non sarà artisticamente ineccepibile ma ad oggi risulta essere
l’unico atto di fede tangibile a pochi giorni dall’inaugurazione dell’evento, secondo solo
all’ottimismo del Commissario Giuseppe Sala che deve fare i salti mortali per spiegare
come mai non passa giorno senza una piccola grande grana.
43
La riproduzione della madonnina veglierà sui visitatori dell’Expo con una cascata d’acqua
alle spalle, sarà alta più di quattro metri e verrà posizionata in cima a una scala per
salvaguardare “l’effetto di verticalità”. Col sacro è finita qui: Papa Bergoglio non ha
nessuna intenzione di fare un salto a Milano. L’ ha confermato il presidente della
Veneranda Fabbrica del Duomo monsignor Gianantonio Borgonovo: forse manderà un
videomessaggio guasta feste, insistendo col paradosso dell’abbondanza in un mondo
dove si muore di fame. L’illustrissima defezione dispiace ma ce ne faremo una ragione,
penserà Giuseppe Sala. Buona ma anche imbarazzante l’altra idea della Veneranda
Fabbrica: per sei mesi, all’Expo, distribuirà pane ai bisognosi, sempre che riescano ad
entrare senza pagare il biglietto. Dunque ci saranno anche i poveri, anche se non sta bene
dirlo davanti a tanto ben di dio.
Ma le grane sono altre. Gli “extra costi”, per esempio, come ha sottolineato ieri il
presidente dell’Anac Raffaele Cantone dopo la sua visita di rito ai cantieri di Rho-Pero.
Dice che il conto presentato dalle aziende che hanno vinto gli appalti è “molto, molto più
alto” rispetto al preventivo iniziale. L’azienda Mantovani, per esempio, dopo aver vinto
l’appalto per la costruzione della piastra con un’offerta di 165 milioni, avrebbe preteso 120
milioni in più. A questo “errore” di valutazione si devono poi aggiungere ulteriori costi
dichiarati da altre aziende (il Padiglione Italia, per esempio, costerà 92 milioni e non 60
come era previsto). Raffaele Cantone i conti li farà sicuramente alla fine dell’Expo, nel
frattempo ha deciso di fidarsi, “Sala ci ha spiegato che quasi tutti gli extracosti saranno
pagati dagli sponsor”. Sull’affare Padiglione Italia, intanto, a giorni dovrà pronunciarsi
l’avvocatura dello Stato.
La polemica del giorno, invece, non contempla considerazioni troppo meditate. Chi si
lamenta di certo non le manda a dire. E’ Dante Ferretti, lo scenografo tre volte premio
Oscar (sta lavorando ancora con Martin Scorsese) che ha progettato lo scenario che
avrebbe dovuto impreziosire la viabilità del sito espositivo. Ma i lavori non sono ancora
cominciati, ecco perché è “sconcertato e arrabbiato”. Lo ha già comunicato ai suoi legali,
ha intenzione di diffidare i responsabili dell’Expo (leggi Giuseppe Sala) dall’utilizzare il suo
progetto in maniera parziale. “Sono quattro anni che ci lavoro — ha dichiarato — ci ho
messo la faccia e il nome. E’ stato approvato da tempo, ma la gara d’appalto è stata
perfezionata da poco: non sarà mai pronto per l’apertura. Sento dire che forse sarà
realizzato per il 2 giugno, festa della Repubblica. Ma non ci penso proprio a una
realizzazione parziale e li diffido dall’usare il mio nome”. Dante Ferretti a Milano non ci
viene di sicuro: “Certamente all’inaugurazione non parteciperò, ho un nome da difendere”.
Perso un altro prestigioso pezzetto, il Commisario è rimasto quasi senza parole: “Non
riesco a rispondere, prima devo informarmi” ha detto Giuseppe Sala. Dalla sua c’è che “la
motivazione è totale e le polemiche non fanno che rinforzarla”. Per scacciare i momenti di
comprensibile scoramento ogni giorno prende e va a farsi un giro in cantiere, “guardo i
seimila operai che lavorano, le polemiche invece vengono da gente che sta dietro la
scrivania”.
A proposito, proprio da una scrivania è arrivata la notizia più tragicomica del giorno. Il
segretario milanese del Pd, Pietro Bussolati, finalmente ha avuto un’idea geniale per
rimpolpare il tesseramento giovanile del Pd — praticamente il deserto. “Per tutti gli under
30 che si iscriveranno al partito, con la tessera daremo in omaggio un biglietto Expo, del
valore di 25 euro”. E un pacco di pasta per nutrire il pianeta?
44
LEGALITA’DEMOCRATICA
Dell’8/04/2015, pag. 10
“Così truccavamo gli appalti in tutta Italia”
sulle tangenti Coop indagano altre procure
Svolta dopo le confessioni del supermanager pentito. Nelle
intercettazioni i legami con i politici: “Ho dato una mano a Tremonti e
sono più schifato di prima”
CONCHITA SANNINO
Sta raccontando la “prassi”. Quella che in azienda qualcuno chiamava solo “metodo
operativo”. Era la modalità della coop Concordia prima di scendere sui terreni: ovvero,
secondo Francesco Simone, distribuire tangenti, travestite da consulenze, collaborazioni
per aggirare gli ostacoli della burocrazia, per annullare le rigidità degli ingranaggi. In tre
parole: per aprire porte. Quindi, per accedere a commesse e soldi di Stato. Si scrive
“collaborazione”, si legge: la svolta dell’inchiesta di Napoli sulla corruzione negli appalti
della metanizzazione, e non solo. Francesco Simone, l’ex potente capo delle relazioni
istituzionali del colosso modenese dell’energia, l’uomo che ancora ai giorni nostri
rispondeva «Sono al Raphael», ha parlato per 12 ore, dal carcere, ai pm Henry John
Woodcock, Celeste Carrano e Giusi Loreto. Verifiche e accertamenti dell’inchiesta
coordinata dall’aggiunto Alfonso D’Avino non si sono fermati neanche nelle feste pasquali.
E le sue parole saranno vagliate anche da altre Procure. Verosimile che stia rispondendo
sulla sua rete di rapporti con eccellenti. E sui “cammelli” — leggi, soldi in nero — di cui si
parla negli atti. Già dalle centinaia di intercettazioni che riguardano Simone affiorano
riferimenti a divise che sarebbero «a libro paga». A rapporti con ministeri e con la politica,
«che mi ha schifato».
LA RETE DELLA CONCORDIA
Interrogatori no stop. Divisi per capitoli, divisi per territori. Simone, l’uomo che per la
Procura ha costruito «una struttura che utilizzava anche lo strumento del voto politico di
scambio» per truccare “l’assegnazione di appalti”, registrato a lungo a ridosso di Pasqua.
Che si sia trattato di full immersion, o di diversi interrogatori, cambia poco: la certezza è
che Simone va ben oltre l’ambito campano. E le sue parole costituirebbero spunti
investigativi considerati molto importanti e che saranno sottoposti anche alle verifiche di
«altre Procure italiane», stando a fonti qualificate. Non c’è solo la serie di ammissioni sulle
tangenti di Ischia. Non c’è solo la nuova ipotesi di corruzione per l’ex parlamentare ed ex
sindaco di Procida, Luigi Muro. Simone avrebbe risposte anche a domande su altri appalti
e lavori che hanno spinto Concordia ad avvicinare amministratori o imprese, in varie
regioni italiane.
“LA SHALABAJEVA? ALFANO NON SAPEVA“
È il 16 aprile del 2013, e al telefono Simone fa sfoggio delle sue conoscenze. Lo chiama
un certo Giorgio, e tra le altre cose l’ex manager accenna alla nota vicenda dell’espulsione
dall’Italia di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Ablyazov. «Com’è che la
vedi tu», chiede Giorgio. E Simone: «La vedo che politicamente è un disastro... Questi
litigano sul kazako che è una vergogna. Perché che cazzo. Io conosco bene
l’ambasciatore del Kazakistan, è a libro paga più di qualcuno lì, dalle parti della questura
(di Roma, ndr). Quello è andato, gli ha detto che è un pericoloso delinquente, senza dirgli
che è un rifugiato politico, Quelli si sono come dire scappellati... e gli hanno fatto ‘sta
45
marchetta, senza che secondo me veramente il ministro (Alfano, ndr) sapesse un cazzo».
Giorgio annuisce. Simone continua: «Questa è la mia opinione. L’ambasciatore kazako
che è uno molto generoso con qualcuno da quelle parti... Questo lo so quasi per certo».
L’AIUTO ALL’EX MINISTRO
Scrivono i carabinieri del Noe in una delle loro copiose informative: «La vicinanza
all’ambiente politico-istituzionale, e nello specifico la conoscenza con Giulio Tremonti,
rappresenta per Francesco Simone un mezzo per agevolare l’iter delle trattative e dei
progetti». Il 27 aprile 2013, Simone parla al telefono, lamenta d’aver «problemi per la
concessione dal comune di Milano», parla di politica. E dice: «Ho dato una mano a lui
(Tremonti) — specificano in parentesi gli investigatori — e adesso sono più schifato di
prima, ovviamente il suo rapporto e la sua vicinanza con lui mi crea delle opportunità, di
relazioni importanti, però faccio il mio lavoro, faccio le relazioni istituzionali per alcuni
gruppi importanti che sono nel settore energetico, nel settore infrastrutture »
I “CAMMELLI”
Nel giugno 2013, uno scambio di sms ritenuti interessanti corre tra Simone e Giuseppe
Incarnato, il manager della società Crif, che si occupa di banche dati, e finito di recente al
centro di un’altra inchiesta su voto di scambio che coinvolge anche Geppino Demitry, ex
sottosegretario di Prima Repubblica. Incarnato scrive all’altro: «Ma arrivano i 18 cammelli?
». Simone risponde: «I cammelli vanno all’andatura dei cammelli come tu ben sai!!!». E
l’altro: «Sei un grande!! Hai un’intelligenza unica. Ma falli arrivare i cammelli che ho sete e
devo bere dai gibbi». Una settimana dopo, altro sms più rassicurante: «Sono a San Marino
dal direttore generale Bsm. Campania è in lavorazione. e Torre del Greco? I cammelli
sono stati abbeverati a riguardo».
46
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 08/04/15, pag. 7
Via i migranti, i padri sigillano la scuola
Silvio Messinetti
Reggio Calabria
Calabria. Una brutta storia da Focà, sul litorale Jonico, dove a 200
africani recuperatio in mare a pasqua è stata negata la possibilità di
dormire per una notte in un edificio scolastico
La propaganda di Salvini e della stampa di destra attecchisce anche dove si erano
sperimentate forme innovative di accoglienza. La Locride, la terra di Riace e di Caulonia,
dei film di Wenders sui migranti, fa parlare di sé per motivi opposti. Proteste, minacce, la
saldatura del cancello della scuola che avrebbe dovuto ospitarli. Così i cittadini di Focà,
frazione di Caulonia, piccolo borgo del litorale jonico reggino, hanno negato ospitalità ai
200 migranti salvati nella notte di Pasqua dal mare dopo un travagliato sbarco. Cristo è
morto, ma a Focà non è risorto.
La storia ha dell’incredibile per come è stata gestita dal Viminale. Tutto ha inizio intorno
alle 2 della notte di Pasqua. Un barcone si arena sulla spiaggia di Caulonia. Da un non
meglio identificato porto della Libia, approdano 30 donne, di cui una incinta, 9 bambini e
170 uomini. Si tratta di gente che ha lasciato le terre di origine (Sudan, Eritrea, Unione
delle isole di Comore, Madagascar ed Egitto) alla ricerca di una vita migliore. Sarebbero
arrivati con due barconi. Il primo si è incagliato sulla spiaggia a sud dell’abitato di
Caulonia, l’altro avrebbe ripreso il largo. Alle operazioni di soccorso, trasferimento e
assistenza partecipano Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia. I tre scafisti vengono
arrestati. Tratti in salvo, i 209 migranti vengono invece portati al mercato coperto della
marina di Caulonia per poi essere rifocillati. Dopo le identificazioni, 21 vengono trasferiti a
Riace, 10 a Monasterace. Per gli altri si preparano i letti nella scuola di Focà.
Ma la voce ben presto inizia a girare in paese. Una ventina di cittadini di Focà si ribella,
dicono di essere genitori degli alunni della scuola elementare. Urlano il loro disprezzo
contro chi vuole trasportare i migranti nella frazione. «Contageranno tutti i nostri figli»,
strepitano. Ma qualcuno osa ancora di più. Prende una saldatrice con tanto di elettrodi e
sigilla il cancello della scuola. Al solo scopo di impedire l’ingresso a donne, uomini e
soprattutto ad altri bambini, in questo caso nordafricani.
E lo stato? Sparisce. La prefettura balbetta, indietreggia, cede. E per millantate «ragioni di
ordine pubblico» decide qualche ora dopo di trasferire i migranti a Roccella Jonica.
Dandola così vinta ai seminatori d’odio e rancore. Una struttura pubblica da adibire per
una sola notte a centro di prima accoglienza viene così definitivamente negata. E solo
dopo la mezzanotte, e dopo una giornata di calvario, i migranti arrivano a Roccella,
trasportati dal pulmino del comune di Caulonia. I bambini addormentati e avvolti nelle
coperte, i volti degli adulti stravolti dalla stanchezza. I fascioleghisti esultano e tornano
nelle loro case. Hanno vinto loro, ha perso lo Stato.
47
Dell’8/04/2015, pag. 31
COSA SERVE DAVVERO PER INTEGRARE I
ROM
NILS MUIZNIEKS
POCHI argomenti scatenano reazioni più viscerali delle discussioni sui rom, di cui oggi
ricorre la giornata internazionale. Stereotipi, sensazionalismo e luoghi comuni spesso
hanno la meglio sui fatti. Molte persone sembrano credere che i rom scelgano di vivere ai
margini della società in accampamenti di baracche in condizioni abominevoli, e che rientri
nella loro cultura far crescere i bambini nella melma, togliendoli dalla scuola per mandarli a
chiedere l’elemosina. Eppure, nella maggior parte dei casi, coloro che nutrono questi
pregiudizi nei confronti dei rom e alimentano queste voci non hanno mai rivolto loro la
parola.
Ho fatto visita ad alcuni campi rom in Italia e in molti altri paesi europei, e le persone con
le quali ho parlato non volevano vivere lì. Non vogliono vivere in luoghi demoralizzanti nei
quali sono segregati contro la loro stessa volontà. Non ci si dovrebbe dimenticare che
molti rom che vivono in accampamenti ghetto sono stati scacciati a forza dai loro alloggi
precedenti, e nessuno degli abitanti di quei campi che ho conosciuto durante il mio
sopralluogo del 2012 ha dichiarato di essersi trasferito lì di sua volontà. Anzi: mi sono stati
riferiti molti esempi che spiegano in che modo — rispetto alla loro situazione abitativa
precedente — vivere in quei campi limita il contatto, e quello dei loro figli, con la
popolazione in generale, e in che modo vivere lì contribuisce quindi alla loro
emarginazione.
Già nel mio rapporto del 2012 sull’Italia e in una lettera spedita al sindaco di Roma nel
2013 raccomandavo alcune misure atte a facilitare l’integrazione dei rom nella società
tradizionale e facevo presente la necessità di porre fine alle politiche che portano alla
creazione di campi isolati ed emarginati e agli sfratti coatti. Malgrado ciò, sono stati fatti
pochi passi avanti: queste pratiche proseguono e così pure continuano a esserci ostacoli
che precludono ai rom che vivono in accampamenti fatiscenti di accedere all’edilizia
popolare. In alcuni comuni, tra i quali Roma, Torino e Milano, sono stati costruiti o
ristrutturati campi ghetto. Questa strada è chiaramente sbagliata. I campi ghetto portano a
gravi violazioni dei diritti umani. Violano sia i parametri internazionali e nazionali sia la
politica delle stesse autorità italiane in materia: la Strategia nazionale per l’inclusione dei
rom del 2012 non lascia spazio alcuno agli accampamenti che emarginano. Si devono
dunque trovare valide alternative abitative. Per agevolare l’inclusione dei rom nella
società, si rende necessario un cambiamento di politica. Gli sfratti coatti e i campi ghetto
devono finire nel dimenticatoio. Nuovi sforzi devono essere fatti per andare incontro alle
necessità abitative dei rom. Tutto ciò è importante perché l’accesso a un’abitazione
decorosa è un requisito fondamentale per usufruire di molti altri diritti umani, in particolare
l’istruzione. Come possono i bambini che vivono in baraccopoli di località remote,
circondate da fango e prive di accesso all’acqua potabile, a sistemi fognari, alla rete
elettrica e ai trasporti pubblici, frequentare la scuola con regolarità e apprendere, restando
alla pari con gli altri bambini?
Per cercare alternative migliori, l’Italia non ha bisogno di guardare tanto lontano. Alcune
esperienze incoraggianti portate avanti a livello locale potrebbero essere prese a esempio.
A Messina alcuni edifici comunali abbandonati sono stati ristrutturati direttamente dai rom
del campo di San Ranieri che in seguito vi si sono trasferiti. Ad Alghero il 15 gennaio è
48
stato chiuso il campo di Arenosu e 51 rom hanno ricevuto un aiuto quadriennale dalla
Regione, dal Comune e dalle associazioni per pagare l’affitto di normali appartamenti.
Queste iniziative dimostrano che, con un adeguato impegno politico, alcuni progetti ben
strutturati possono effettivamente migliorare l’integrazione dei rom e una reciproca
comprensione con la popolazione maggioritaria. È di fondamentale importanza finanziare
e attuare la strategia nazionale di inclusione di rom e sinti. Alcune risorse, comprese
quelle provenienti da finanziamenti Ue, potrebbero essere convenientemente mobilitate
per promuovere iniziative adeguate di edilizia e integrazione.
È giunto il momento di smettere di trattare i rom come cittadini di serie B. Emarginarli non
può che portare a maggiore alienazione, emarginazione, pregiudizi. L’Italia deve mostrare
molta più determinazione nel risolvere i problemi di abitazione che i rom si trovano ad
affrontare, anche facilitando il loro accesso all’edilizia popolare. Le vigenti leggi antidiscriminatorie dovrebbero renderlo possibile: le si deve quindi applicare. Questo è il
prerequisito di base per garantire che i diritti umani dei rom, siano essi italiani o originari di
altri paesi europei, siano interamente rispettati.
L’autore è il Commissario ai Diritti Umani del Consiglio d’Europa ( Traduzione di Anna
Bissanti)
49
BENI COMUNI/AMBIENTE
del 08/04/15, pag. 15
Hera e Acea
Il modello è più debiti e meno investimenti
Corrado Oddi
Ci siamo. E’ iniziato un nuovo e forte ciclo di privatizzazione e finanziarizzazione dei
servizi pubblici locali, con cui si intende dare il colpo mortale all’esito referendario del
giugno 2011 per la loro ripubblicizzazione.
Punte di diamante di questa operazioni sono due grandi multiutilities, Hera e Acea, in una
mirabile sintonia tra le scelte del governo Renzi e gli orientamenti della grande
maggioranza delle amministrazioni locali incentrate sul Pd.
Per quanto riguarda Hera, nei giorni scorsi e con l’intenzione di procedere entro la fine di
questo mese, con il piè veloce che sembra essere la cifra di questa stagione
controriformatrice, il sindaco di Bologna, assieme agli altri enti locali, in primis emiliani,
dove è presente Hera, ha annunciato l’intenzione di far scendere la quota di proprietà
pubblica dall’attuale 57% al 38%, arrivando così per la prima volta sotto la maggioranza
assoluta, da sempre propagandata come elemento di garanzia per il controllo pubblico
dell’azienda.
Acea, dal suo canto, sta lavorando per un riassetto societario in base al quale la sua
espansione in Toscana e parte della Campania si porterebbe dietro l’entrata in Borsa del
servizio idrico di queste regioni. Anche grazie all’ “infaticabile” opera di Cassa Depositi e
Prestiti e del suo presidente Bassanini, che ha messo a disposizione 500 milioni di euro
allo scopo, il movimento di Hera e di Acea sono semplicemente le mosse di apertura di un
grande processo, al cui termine le grandi multiutilities quotate in Borsa gestiranno
l’insieme dei servizi pubblici locali in tutto il Paese. Iren in Piemonte, Liguria e l’Emilia
orientale, A2a in Lombardia, Hera nella restante parte dell’Emilia e nel Triveneto, Acea in
Lazio, Umbria, Toscana e parte della Campania saranno i grandi players che si
spartiranno un grande mercato totalmente privatizzato, contando sulla rendita di tariffe che
aumentano sempre più e che garantiscono ampi e certi margini di profitto. Il Mezzogiorno,
poi, in questo quadro, conferma di essere lontano dai pensieri del ciclo renziano di
“modernizzazione”, destinato a dividersi tra l’influenza dell’Acquedotto Pugliese, magari da
privatizzare nel 2018, e la riaffermazione del ruolo della criminalità organizzata e il suo
intreccio con la politica, come molti fatti recenti hanno fatto riemergere.
Si svende il patrimonio pubblico per far cassa, in un’ottica tutta incentrata sul profitto a
breve, seguendo uno dei pilastri del capitalismo finanziario, e contraddicendo in radice
l’idea di preservarli per le generazioni future. Ancora, li si consegna al primato della
finanza e della Borsa e all’ “economia del debito”: basta guardare Hera — che peraltro non
è neanche l’esempio più negativo tra le multiutilities quotate in Borsa– per realizzare che
la vera variabile indipendente e la sua vocazione di fondo è quella di distribuire dividenti ai
soci, sempre più privati, fissati da un bel po’ di anni in qua, in 9 centesimi per azione, pari
a più di 100 milioni di euro all’anno.
Poco importa se questo si traduce in un calo fortissimo degli investimenti – dal 16,1% sui
ricavi nel 2002 al 5,6% sui ricavi stessi nel 2013, 2/3 in meno– e, soprattutto, in un
incremento dell’indebitamento ad un livello di guardia, salito dall’ 1,3% sul margine
operativo lordo nel 2002 al 3,1% 2013.
Non c’è bisogno di dire che il movimento dell’acqua si sta mobilitando a partire dalle
regioni dove sono insediate Hera e Acea. Per quanto mi riguarda, poi, non è possibile
50
separare questa necessaria fase di iniziativa del movimento per l’acqua dalla riflessione
che sta alla base dell’idea della costruzione di una nuova coalizione sociale lanciata dalla
Fiom, e cioè dalla consapevolezza che, nell’era del renzismo decisionista, anche se non in
condizione di risolvere i problemi della Grande crisi, “nessuno si salva da solo” e che
occorre, invece, pensare, nell’autonomia di ciascuno, di connettere le lotte e le iniziative
contro lo smantellamento dei diritti del lavoro, la totale privatizzazione del ruolo pubblico,
lo stravolgimento del welfare, a partire dalla scuola. In questo senso, la decisione della
Cgil dell’Emilia-Romagna di proclamare lo sciopero dei lavoratori di Hera contro la sua
definitiva privatizzazione è un segnale importante, anche se non risolutivo delle ambiguità
che la stessa Cgil, a partire dal livello nazionale, continua a mantenere sia sul tema delle
privatizzazione dei servizi pubblici, sia, ancor più, su quello della coalizione sociale. Che è
bene che, invece, si consolidi, inizi a indicare gli obiettivi e i terreni su cui può strutturarsi,
anche nella dimensione territoriale, avendo consapevolezza che essa, per sua natura, non
può che essere, contemporaneamente, plurale e di tutti i soggetti che intendono costruirla.
E che, prima o poi, dovrà incrociare anche il tema di una nuova rappresentanza politica:
ma ci sarà tempo, dentro la situazione di oggi che è complessa e non procede in modo
lineare, per sviluppare la discussione e i ragionamenti del caso.
*Forum Italiano Movimenti per l’Acqua
51
INFORMAZIONE
del 08/04/15, pag. 14
LicenzieRai
Vincenzo Vita
Saranno clementi i Venticinque Lettori di «Ri-mediamo» se si tornerà, come in un sequel,
sulla vicenda della Rai. Del resto, la lettura dell’articolato normativo del governo —
pubblicato lo scorso venerdì sera su uno dei siti attivi di Palazzo Chigi — induce a qualche
considerazione aggiuntiva. «Non c’è niente di nuovo» potrebbero dire «I Camaleonti»,
sull’onda di un loro celebre brano del 1967. E infatti i sei articoli del testo non riservano
particolari sorprese rispetto ai due annunci precedenti. Non è inedito il tetto di spesa che
può toccare l’amministratore delegato, 10 milioni di euro già previsti per l’attuale
presidente, che ha facoltà di firmare contratti sino a tale cifra su proposta del direttore. La
rivoluzione sta solo nel salto di un passaggio? Mah. E che fine ha fatto il mantra del «fuori
i partiti»? Miserrima, visto che quattro dei sette consiglieri di amministrazione sono eletti
dal parlamento e che — udite, udite — la commissione di vigilanza (il cui ruolo è da tempo
logoro ed eccentrico rispetto al tempo dell’integrazione tecnologica) rimane sic et
simpliciter. Qualche spunto è avventuroso: in caso di cessione di olte il 10% delle azioni
(?) cesserebbe l’affidamento all’azienda del servizio pubblico; perde vigore per la Rai il
codice degli appalti pubblici, con curiosa discrasia rispetto all’urgenza — se mai — di
rafforzare vincoli e criteri etici. Insomma, il diavolo ancora una volta si annida nei
particolari.
Ed eccoci al maggiore dei particolari: il conclamato licenziamento dell’amministratore
delegato con riduzione della buonuscita a tre mesi in luogo dei dodici di prassi. Di nuovo si
potrebbe chiedere conto di quale sia la novità. Infatti, è così nelle imprese che si dotano di
un capo-azienda: oneri e onori del management. Ma, attenzione. Proprio qui passa un
messaggio simbolicamente (e semanticamente) forte. In linea con lo spirito ideologico alla
moda, il verbo licenziare prende la scena e minaccia di riguardare — più che
l’amministrazione prossimo venturo — tutti gli altri. Licenziare, licenziare…. uno dei marchi
identificativi del governo e dell’attuale stagione culturale. Insieme a decidere, rottamare
uno storico tabù appare ora un trofeo da esibire, di fronte ad una parte della società che si
vuole solleticare negli istinti plebei e vendicativi.
E’ una china generale, che adesso fa capolino pure in viale Mazzini di Roma. Dove da
sempre si fanno le prove generali per qualche altra cosa. Si comincia da amministratore e
consiglieri — per dire — ma il varco si apre e la soglia delle tutele si abbassa. Tra l’altro, in
tanta evocazione del mercato, viene il dubbio che solo chi ha ambizioni «extra» è sospinto
ad imbarcarsi in un’avventura apparentemente così curiosa.
Non mancano, poi, alcune «chicche» che oscillano tra commedia e tragedia e non per una
scelta estetica. Si tratta dei decreti delegati previsti per la definizione del finanziamento e
per la revisione della vecchia legge Gasparri.
L’inserimento del canone nella bolletta elettrica sembrava deciso. Al contrario, si riparte da
zero, con l’unica notizia incoraggiante della sostanziale tenuta degli introiti. Come se i
cittadini, in fondo, mostrassero una fedeltà che chi ha in mano il pallino sembrerebbe
avere smarrito. Quanto all’urgentissima abrogazione dell’architettura giuridica in vigore,
madre e figlia della stagione berlusconiana, ci si poteva aspettare ben altra
determinazione, almeno simile alla grinta mostrata nella modifica dello Statuto dei
lavoratori (Jobs Act) e della Costituzione.
52
Dell’8/04/2015, pag. 21
Riforma Rai: si sa chi comanda, il resto
chissà
Renzi ha usato il giorno della Via Crucis, per pubblicare integralmente, sul sito del
governo, il disegno di legge sulla Rai, sapendo che i tg, un po’ sguarniti dalle ferie pasquali
e concentrati sull’accordo di Obama sul nucleare con l’Iran e sulla strage dei cristiani in
Kenya, vi avrebbero prestato poca attenzione. I quotidiani, poi, si sono limitati a
commentare solo i nuovi dettagli riguardanti l’uomo forte: l’amministratore delegato che
potrà nominare direttamente direttori di rete e tg. Nei sei articoli del disegno di legge non si
parla del rinnovo della concessione alla Rai del ruolo di “servizio pubblico generale
radiotelevisivo”, la cui scadenza, fissata dalla legge Gasparri, è a maggio 2016. Ciò che
non è contenuto nella nuova legge e che dovrà inevitabilmente essere deciso, è dovuto
alla scelta di Renzi di delegarlo direttamente al governo. Nell’art. 1 si parla solo di rinnovo
del contratto di servizio che passerà da 3 a 5 anni. Il premier è intenzionato a privatizzarne
una parte della Rai e un’altra quotarla in Borsa, per questo ha lasciato inalterato l’articolo
21 della Gasparri (Dismissione della partecipazione dello Stato nella Rai), nell’art. 2
comma 12-ter si afferma che la quota non potrà superare il “10 per cento del capitale della
Rai, in considerazione dei rilevanti e imprescindibili motivi di interesse generale connessi
allo svolgimento del servizio”. Nella conferenza stampa Renzi-Giacomelli si era capito che
vi era la volontà di consentire alla Rai di liberarsi dalla trappola di essere un “Organismo di
Diritto pubblico”, soggetta alle regole della P.a, sovraccaricandola di burocrazia che poco
ha che fare con la tv.
Leggendo l’art. 3 non è così chiaro, vi è scritto che il nuovo ad, a proposito dei “criteri e
modalità del reclutamento del personale”, dovrà fare riferimento all’art. 35 comma 3 del
decreto n. 165/2001, legiferato per le “società in totale partecipazione pubblica”. La Rai
dovrà continuare ad operare come una pubblica amministrazione o no? Il governo
nominerà il capo e lui comanderà su tutto, questo si è capito, sul resto: troppe lacune. Un
paio di esempi. Come verrà finanziato? Il duo è in disaccordo sia sul metodo che sulla
sostanza. Soprattutto non si capisce cosa dovrà essere finanziato. Il disegno di legge non
definisce la nuova Rai. Così com’è la proposta Renzi non è votabile, ma se ciò non
dovesse accadere entro luglio, il prossimo cda verrà nominato ancora con la legge
Gasparri. Grande confusione. Incapacità o strategia?
53
CULTURA E SPETTACOLO
Dell’8/04/2015, pag. 53
Cinema, più spettatori ma i film italiani
incassano meno
Solo otto titoli di nostri autori sui 25 usciti nel 2015 hanno superato il
milione di euro di guadagno
ARIANNA FINOS
LAPasqua e la pioggia hanno raddoppiato gli incassi cinematografici dell’ultimo fine
settimana. E i primi tre mesi del 2015 hanno portato maggiori incassi rispetto agli anni
precedenti: 206 milioni totali, contro i 193 del 2014 e i 172 del 2013. Di questa primavera
in sala non beneficiano però i film italiani. L’avvio d’anno è stato buono, Si accettano
miracoli di Alessandro Siani a quota 15 milioni e mezzo. Ma dei 25 film usciti nei primi tre
mesi del 2015 solo otto hanno superato il milione di euro. Sette commedie e Nessuno si
salva da solo di Sergio Castellitto (3 milioni e 400 mila euro). Oltre i 5 milioni Che bella
sorpresa con la coppia Bisio-Matano, a quota 4 milioni Maccio Capatonda con Italiano
medio. Tra le delusioni La solita commedia di Biggio e Mandelli, Le leggi del desiderio di
Gabriele Muccino, malgrado i budget corposi e il numero massiccio di copie. Accolte male
anche opere passate in concorso a festival internazionali: Hungry Hearts di Costanzo, a
Venezia, Cloro di Sanfelice al Sundance e Vergine giurata di Bispuri a Berlino. «E il
bellissimo Anime nere di Munzi ha avuto successo nel mondo, non da noi. Bisogna che il
nostro pubblico sia meno provinciale rispetto ai film drammatici» dice Michele Placido. Il
suo La scelta ha incassato all’esordio 654mila euro «ma speriamo di superare il traguardo
del milione: c’è un ottimo passaparola». Se il dramma respinge, le commedie quest’anno
non hanno convinto. «Sono ripetitive — spiega Placido — si scambiano gli attori come le
figurine: sempre gli stessi, una tendenza inspiegabile. E sono operazioni che costano,
anche 4,5 milioni di euro. Ci sono commedie che mi sono piaciute: quella, drammatica, di
Castellitto, Nessuno si salva da solo, Latin Lover di Cristina Comencini, Noi e la Giulia . E
sono convinto che ci sarà un ripensamento dei produttori, nel settore commedie, si
punterà più sulla qualità che sulla quantità e l’anno prossimo il mercato sarà meno pieno di
mediocrità». Per Andrea Occhipinti, presidente dei distributori dell’Anica, «la stagione va
valutata nel complesso. Spesso c’è una concentrazione di uscite in inverno, in particolare
di film italiani che si mangiano l’uno con l’altro e dividono il pubblico. E invece i nostri film,
specie le commedie, vanno spalmati su tutto l’anno. È presto fare valutazioni perché la
stagione non è finita, specie quest’anno in cui, dopo Cannes, arriveranno grandi film in
sala capaci di regalare alla stagione il segno positivo ». Rispetto ai molti film italiani dagli
incassi esigui degli ultimi mesi, Occhipinti valuta: «Premesso che il bilancio su un film va
fatto in base ai costi, al numero di copie, alla promozione, il dato fisiologico è che non tutti i
film vanno bene, belli o brutti che siano. Il dato oggettivo, più importante, è che in generale
sono aumentate le uscite. Escono troppi film, che abbassano la media generale. Oggi
chiunque riesce a finanziarsi un film e tutti vogliono uscire in sala, anche se non tutti lo
meritano. Allora è meglio pensare a sbocchi alternativi, alla grande risorsa del video on
demand che esiste in cinematografie più mature, come quella americana». Perché, spiega
Occhipinti, «troppi film buttati in sala confondono il pubblico, che si radicalizza nelle scelte:
individua e aspetta l’opera passata a un festival e lodata da un critico, oppure punta sul
grande evento popolare. Finisce per perdersi tutto quello che c’è in mezzo». Di sale
54
cinematografiche, produzione e creatività si discuterà nel convegno promosso dall’Anec a
Roma il 16 e 17 aprile.
55
ECONOMIA E LAVORO
Dell’8/04/2015, pag. 6
Renzi e Padoan: “Nella manovra 2016 esclusi
tagli ai servizi e nuove tasse”
Def, 10 miliardi dalla spending review Stime “prudenti” su Pil e
occupazione ferma Fassina attacca: misure recessive e inique Forza
Italia: solo illusioni. I vaffa di Salvini
VALENTINA CONTE
«Niente tagli né aumento delle tasse, chi dice il contrario dice il falso». Il Documento di
economia e finanza che sarà approvato venerdì - sottoposto ieri all’esame preliminare del
Consiglio dei ministri (la bozza conta 128 pagine) - non conterrà brutte notizie, per il
prossimo anno almeno. Il premier Renzi l’ha ribadito ieri più volte: «Le previsioni di
sventura sono smentite». Anche se poi ammette che dopo il bonus da 80 euro, non
arriverà una nuova diminuzione delle tasse. «La discussione proseguirà in autunno con la
legge di Stabilità e se saremo in condizioni, le abbasseremo ancora». A scorrere le pagine
del Def, scendono deficit e debito, sale il Pil, ma la disoccupazione resta alta: 12,3%
quest’anno (dal 12,7 del 2014) e 11,7 il prossimo, ancora 10,5 nel 2019.
«È finito il tempo in cui i politici chiedono i sacrifici ai cittadini», esulta Renzi. Annunciando
che il governo cancellerà le clausole di salvaguardia per il 2016-2017 («saranno eliminate,
valgono un punto di Pil», dunque 16 miliardi di tasse, tra maggiore Iva e accise). «Uno
0,4% sarà coperto dalla riduzione degli interessi e dall’aumento della crescita, il resto dalla
spending review ». A proposito di riduzione della spesa, il premier non fornisce una cifra
precisa (parla di «5-10-15 miliardi»), ma spiega che non implicherà «tagli alle prestazioni
per i cittadini» né toccherà «la carne viva degli italiani, ma gli sprechi della Pa». Certo, «se
i sacrifici li fanno i politici male non fa». E come esempio porta il taglio delle centrali di
acquisto e delle società partecipate dagli enti locali: «Se saltano le poltrone dei cda, non lo
considero un sacrificio per i cittadini». Questo Def «non è una manovra, non toglie i soldi
dalle tasche», insiste Renzi. Che poi cifra in 18 miliardi la diminuzione delle tasse messa
in campo per quest’anno, sommando ai 10 miliardi per il bonus da 80 euro gli 8 miliardi
«delle misure legate al costo del lavoro, ma non solo». Anzi, «sarebbero 21, se
aggiungiamo i 3 miliardi della clausola di salvaguardia ereditata e disattivata».
Trionfale anche il comunicato stampa di Palazzo Chigi che parla di «prospettiva non più
emergenziale», «finestra temporale favorevole », «ciclo della fiducia». Ovvero di «circolo
virtuoso» che farà crescere l’Italia a un ritmo più elevato (0,7% quest’anno, 1,4 nel 2016,
1,5 nel 2017). «L’economia internazionale e italiana è migliore di quanto si pensava
qualche mese fa, dire che le tasse aumenteranno è semplicemente falso», si rallegra il
ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Anzi, «le aspettative che abbiamo adesso
potrebbero essere sbagliate per difetto, potremmo avere numeri più positivi, ma per il
momento preferiamo essere prudenti». Il deficit sarà contenuto entro il 3% del Pil (2,6
quest’anno, 1,8 il prossimo e 0,8 nel 2017). Il pareggio di bilancio strutturale sarà centrato
nel 2017, sebbene «il quadro consentirebbe di raggiungerlo già il prossimo anno, ma lo
abbiamo confermato al 2017 per conferire una natura espansiva alla programmazione per
il 2016». La regola europea del debito («questo incubo della montagna di debito che può
attivare le terribili regole della ghigliottina», la definisce Padoan) sarà soddisfatta nel 2018,
«risultato estremamente importante». Il debito pubblico scenderà dal 132,5% del Pil di
56
quest’anno al 123,4 del 2017. Tra il 2015 e il 2018 si procederà con le privatizzazioni, con
ricavi attesi per 1,7-1,8% di Pil, «spalmati sui quattro anni». Padoan cita Enel, Poste, Fs,
Enav. Tra le reazioni, veemente Matteo Salvini (Lega), con il suo vaffa a Renzi via twitter,
definito «bugiardo al servizio di Bruxelles». Stefano Fassina (Pd) critico: «Purtroppo il
governo conferma la linea di finanza pubblica recessiva e iniqua in atto». I Cinquestelle
delusi: «Renzi è un bluff, il buio oltre le slide». Forza Italia perplessa: «Def senza tagli né
tasse? Allora siamo nel Paese dei balocchi».
del 08/04/15, pag. 5
Spending review: signori si taglia. E al Sud si
paga doppio
Mario Pierro
Svimez. L'analisi «Spending review e divari regionali in Italia»: «Il taglio
alla spesa penalizza il Sud soprattutto per quanto riguarda gli
investimenti pubblici, la componente della spesa pubblica più colpita, e
una delle componenti di domanda in grado di stimolare la ripresa
nell'economia meridionale»
Spending Review. Parafrasi italiana che significa tagli generalizzati degli investimenti
pubblici, e degli incentivi alle imprese, che hanno colpito il Sud in maniera doppia rispetto
al Nord. Effetti diretti di questa politica dell’austerità praticata in continuità da tutti i governi
sono: depressione economica, aumento dei divari socio-economici tra aree macroregionali, povertà e deprivazione nella popolazione. Nella loro durezza, a prova di
propaganda governativa, ecco i dati forniti ieri da un’anticipazione di un’analisi di Svimez
sulla «Spending review e divari regionali in Italia», a cura di Adriano Giannola, Riccardo
Padovani e Carmelo Petraglia, in corso di pubblicazione sulla rivista «Economia Pubblica
– The Italian Journal of Public Economics». Nel 2013–2015 i tagli alle spese operati dai
vari Governi hanno inciso molto più al Sud che al Centro-Nord. Prendiamo il 2013: a livello
nazionale il taglio è stato del 2,7% sul Pil. La riduzione ha pesato sul Centro-Nord del
2,2%, mentre al Sud più del doppio: –4,5%. Stessa situazione nel 2014: al Centro-Nord –
2,8%, al Sud –5,5%. Il taglio della spesa continuerà a crescere nel 2015: –3,7% a livello
nazionale, –2,9% del Centro-Nord e addirittura del 6,2% al Sud.
«Il taglio alla spesa penalizza il Sud soprattutto per quanto riguarda gli investimenti
pubblici, la componente della spesa pubblica più colpita, e una delle componenti di
domanda in grado di stimolare la ripresa nell’economia meridionale – si legge nello studio
— La spesa pubblica in conto capitale ha registrato al Sud riduzioni da due a tre volte in
più rispetto al Centro-Nord: –1,6% nel 2013 contro il –0,5% del Centro-Nord; nel 2014 –
1,9% contro –0,7% dell’altra ripartizione, arrivando nel 2015 a –2,1% al Sud contro –0,8%
del Centro-Nord’. Dal 2001 al 2012 la spesa in conto capitale per le aree sottoutilizzate al
Sud è scesa del 58%».Se si prendono i tagli praticati nel lungo periodo, la situazione non
migliora affatto. “In dieci anni, dal 2001 al 2012, la spesa in conto capitale per le aree
sottoutilizzate, fondamentale per le azioni di riequilibrio territoriale, al Sud è scesa del
58%, passando da 16,5 a 6,9 miliardi di euro – continua il rapporto — al Centro-Nord è
scesa nello stesso periodo del 10%, calando da 3,7 a 3,3 miliardi di euro. In altri termini, i
791 euro che ogni cittadino del Mezzogiorno riceveva nel 2001 sono scesi nel 2012 a 334,
57
mentre i 99 euro destinati pro capite alle aree sottoutilizzate del Centro-Nord sono
diventati 85 undici anni dopo».
Secondo le stime Svimez «le manovre effettuate dal 2010 ad oggi dai vari Governi (il cui
valore cumulato arriva a oltre 109 miliardi di euro nel 2014) in rapporto al Pil sono pesate
più nel Mezzogiorno rispetto al Centro Nord. In particolare, il peso cumulato delle manovre
sul Pil per il 2013 sarebbe del 6% a livello nazionale, ma assai differente a livello
territoriale: 5,5% nelle regioni centro settentrionali e 7,8% in quelle meridionali. Stesse
dinamiche negli anni successivi: per il 2014 l’impatto sul Pil è stimato al 6,5% quale
risultato del 5,9% al Centro-Nord e dell’8,7% al Sud. L’impatto delle manovre sul Pil cresce
ancora nel 2015, arrivando al 6,8% a livello nazionale. Ma se al Centro-Nord il peso sul Pil
si ferma al 6%, al Sud sale fino al 9,5%». Per gli analisti una «spending review»
servirebbe per «trasformare gli sprechi in spesa produttiva per i servizi pubblici fortemente
carenti specie nelle aree svantaggiate del Paese».
del 08/04/15, pag. 5
PUBBLICO IMPIEGO · Madia accelera sulla mobilità. Fra gaffe e
problemi
In 20mila nel limbo delle Province
Sabato manifestazione a Roma
Massimo Franchi
Abolizione delle Province e mobilità orizzontale per i lavoratori. Ad un anno dai soliti
annunci, i due caposaldi della politica del governo Renzi in fatto di pubblica
amministrazione mostrano i loro ritardi, problemi e ambiguità. Tutti trasferiti sulla pelle dei
lavoratori. Se sabato Cgil, Cisl e Uil terranno a Roma una manifestazione nazionale dei
lavoratori delle Province (ore 10, piazza Santi Apostoli con la presenza di Susanna
Camusso) per denunciare «il caos della non-riforma», nel frattempo il governo cerca di
accelerare sulla mobilità a 50 chilometri prevista dal decreto Madia della scorsa estate,
tutta ancora sulla carta. A 8 mesi dall’approvazione definitiva, nessun lavoratore è stato
spostato: solo un apposito bando per «mobilità volontaria » nel comparto giustizia ha
incentivato 1.031 operatori del settore a trasferirsi.
Ad oggi oltre 20mila lavoratori delle Province sono ancora nel limbo: la legge di stabilità ha
tagliato i fondi del 50 per cento (25 per cento per le città metropolitane) ma nessuno di loro
sa dove, come e perché si sposterà. Se le occupazioni di molte sedi a fine anno hanno
portato a «sventare l’immediatezza degli esuberi ed ottenere la proroga dei contratti
precari», il caos non è per niente sopito. Secondo il protocollo Delrio le Regioni dovevano
approvare leggi per prevedere quali funzioni e personale delle Province assorbire. Per ora
solo 4 su 20 lo hanno fatto. «A tre mesi esatti dagli annunci trionfalistici del governo denunciano in una nota unitaria Fp-Cgil, Cisl-Fp e Uil-Fpl - la situazione delle Province e
delle Città metropolitane è semplicemente in stallo, ben al di là delle nostre peggiori
previsioni. L’11 aprile spiegheremo al governo e alle Regioni come sia ancora possibile
fare una riforma vera che garantisca occupazione e servizi di qualità ai cittadini. La
smettano di fare il gioco dello struzzo e - concludono Fp-Cgil, Cisl-Fp e Uil-Fpl - tirino la
testa fuori dalla sabbia».
Ora il ministero guidato da Marianna Madia ha deciso di «cambiare marcia» anche sulla
mobilità. Per farlo sta predisponendo il decreto ministeriale sulle «tabelle di equiparazione
propeduetiche ad attivare la mobilità fra amministrazioni pubbliche». Si tratta di stabilire
58
una relazione fra gli inquadramenti nei vari settori. Ma così facendo il criterio per spostare
un lavoratore rischia di essere solamente quello di una «prossimità salariale fra due
posizioni - ad esempio una segretaria negli enti locali con una posizione similare in una
azienda di unità sanitaria locale - con l’ulteriore beffa di prevedere che la eventuale
differenza di salario, dovuta ad esempio alla parte accessoria (premi, straordinari, festivi,
indennità) sia regolata con un assegno ad personam che andrebbe però ad assorbire i
prossimi aumenti salariali - spiega Federico Bozzanca, segretario nazionale della Fp Cgil senza tenere assolutamente in conto la professionalità acquisita dal lavoratore
nell’impiego precedente».
L’accelerazione governativa poi deve fare i conti con inusuali aspetti formali. La tabella di
equiparazione infatti è uno dei pochi casi in cui questo governo deve tenere in conto il
parere dei sindacati, che naturalmente stanno protestando. «Il ministro Madia vuole
portare il testo alla Conferenza Stato regioni entro metà aprile, ma noi chiediamo forti
modifiche, vogliamo discutere i criteri perché la mobilità non si può fare senza un progetto
complessivo di riorganizzazione della pubblica amministrazione », continua Bozzanca.
L’ultima perla del ministero della Pubblica amministrazione riguarda infine il modulo per la
«Ricognizione dei posti da destinare alla ricollocazione del personale coinvolto nei
processi di mobilità », pubblicato sul sito. Ogni amministrazione pubblica che avesse
necessità di personale deve compilarlo. Ma i problemi non mancano: la legge di stabilità
prevede lo stop alle assunzioni fino al 2016 con sole due deroghe: assunzioni di vincitori di
concorso e mobilità di dipendenti delle (abolende) Province. «Parecchi Comuni però
hanno pubblicato bandi senza prevedere la riserva per queste due categorie », chiude
Bozzanca.
Dell’8/04/2015, pag. 13
Derivati, lo scontro sul rosso di 42 miliardi
Il caso Morgan Stanley ha aperto le ostilità tra Parlamento e Tesoro. Che
difende i suoi segreti
di Stefano Feltri
Ci sono le teorie del complotto di Renato Brunetta. Ma ci sono anche le perplessità
dell’Ufficio parlamentare di Bilancio, l’organismo indipendente che vigila sui conti pubblici,
guidato dal professor Giuseppe Pisauro. E ci sono i silenzi del ministro del Tesoro Pier
Carlo Padoan. Sintesi minima: i contratti derivati costruiti sul debito pubblico italiano al
momento stanno causando una perdita potenziale di 42 miliardi (al 31 dicembre 2014), ma
non si può capire esattamente perché e soprattutto che possibilità ci sono che da
potenziale quella perdita diventi concreta. Perché i contratti sono segreti.
Nel 2011 il governo Monti decide di “chiudere” un derivato con Morgan Stanley e paga 2,6
miliardi di euro. I derivati sono scommesse tra due soggetti, se si verificano alcune
circostanze uno vince e l’altro perde, chi vince incassa e chi perde paga. I più diffusi sono
gli swap sul tasso di interesse. Una parte paga all’altra un flusso di interessi calcolato sulla
base di un tasso fisso e riceve in cambio un flusso di interessi sulla base di un tasso
variabile (o viceversa). Secondo la Procura di Trani, una decisione immotivata di Standard
& Poor’s, l’agenzia americana di rating, di declassare il debito pubblico italiano spinge
Morgan Stanley a decidere di terminare la “scommessa” col Tesoro e incassare la vincita.
Secondo il capogruppo di Forza Italia, Brunetta, è la prova del complotto: anche perché
59
Morgan Stanley ha una (piccola) quota di McGraw Hill, la società che controlla Standard &
Poor’s. I mercati hanno voluto abbattere il governo di allora, quello di Silvio Berlusconi.
Il caso arriva nella commissione Finanze della Camera, guidata da Daniele Capezzone
(Forza Italia) che ha lanciato un’indagine conoscitiva sui derivati.
Il Tesoro risponde con una controffensiva di comunicazione: documenti, spiegazioni, FAQ
e anche una sezione “vero o falso” sul sito del ministero. La spiegazione del caso Morgan
Stanley smonta la ricostruzione di Brunetta ma conferma anche il fatto che in quei mesi
difficili i protagonisti della finanza hanno preso decisioni molto politiche: “Morgan Stanley
avrebbe potuto chiudere la propria posizione molto prima del declassamento annunciato
da S&P nel settembre 2011 perché tale focalità era collegata a un limite contrattuale
prestabilito di esposizione di minimo 50 e massimo 150 milioni di dollari. L’esposizione di
Morgan Stanley era invece di circa 3 miliardi di euro”. E quindi la banca americana
avrebbe potuto chiudere il contratto già molto tempo prima. Invece lo fa soltanto nel 2011
perché, spiegazione del Tesoro, “alla fine del 2011 la reputazione della Repubblica
appariva così fragile che Morgan Stanley ritenne di non poter tralasciare di avvalersi della
posizione di forza che la clausola le conferiva”. Cioè temevano che, nonostante il
passaggio da Silvio Berlusconi al governo tecnico di Mario Monti, l’Italia fosse a rischio
default e quindi hanno preteso di avere indietro i loro soldi.
Se il Tesoro non avesse pagato, l’Italia avrebbe certificato di non essere in grado di
onorare i suoi impegni e “il danno reputazionale che ne sarebbe derivato sarebbe stato
enorme”.
Ma quel caso è soltanto l’inizio della contesa sui derivati. La commissione Finanze, con un
arco di parlamentari molto attivi che va da Forza Italia al Movimento Cinque Stelle, ha
ingaggiato da mesi un duello con il Tesoro per sapere quanti altri casi come quello Morgan
Stanley ci sono e qual è la condizione del portafoglio derivati italiano.
Sappiamo che i contratti riguardano circa 160 miliardi di debito (il cosiddetto “nozionale”) e
che al momento sono in perdita di circa 42 miliardi, dato in crescita. Ma non sappiamo
esattamente perché e quale rischio c’è che la perdita si concretizzi. I funzionari del Tesoro
hanno lavorato molto in questi anni per arginare quel buco nero che erano i derivati nelle
amministrazioni locali: firmati da assessori poco competenti e corrotti e da banchieri con
pochi scrupoli, hanno stritolato parecchi Comuni e Regioni. I derivati per gli enti locali da
un paio d’anni sono vietati, quelli sopravvissuti riguardano soltanto 1,4 miliardi di nozionale
(la cifra sottostante) e a giugno 2012 erano in perdita di 1,3 miliardi. Ma è anche in corso
un’operazione di riacquisto da parte del Tesoro che permette a molte Regioni di chiudere il
derivato indebitandosi col ministero e guadagnando anche somme consistenti.
Il punto critico restano i derivati sul debito pubblico nazionale: in gran parte swap stipulati
per proteggere l’Italia da un rialzo dei tassi come quello sperimentato nel 2011-2012. Visto
che da allora i tassi sono scesi, per le scelte della Bce, invece che risparmiare siamo in
negativo (il Tesoro ricorda giustamente che, senza quei contratti, forse il conto sarebbe
stato più pesante, anche se non è dato sapere quanto).
Secondo le precisazioni del Tesoro, il caso Morgan Stanley è unico, ci sono invece altri
contratti in cui entrambe le parti possono chiedere la chiusura anticipata: al momento la
posizione italiana è in rosso di 9,3 miliardi su questi contratti, 2,7 su quelli che si possono
estinguere tra 2016 e 2018. Niente drammi, quindi, dicono Pier Carlo Padoan e la
responsabile del debito pubblico, Maria Cannata. Secondo Eurostat, l’agenzia statistica
europea, l’Italia è però il Paese più esposto al rischio di pesanti perdite sui derivati. A fine
2013 pochi Paesi avevano un mark to market (valore teorico di realizzo) pesantemente
negativo: l’Italia con 28,9 miliardi (nel frattempo cresciuti a 42), la Grecia con 3,9 e la
Germania con 16,8. La piccola Olanda, invece, grazie ai derivati guadagnava 9,6 miliardi
teorici.
60
Padoan ha risposto alle richieste di Brunetta e della commissione Finanze che non si
possono rivelare tutti i dettagli perché “determinerebbe uno svantaggio competitivo dello
Stato” e inoltre “porrebbe in svantaggio competitivo anche le controparti stesse del Tesoro
nei confronti di altri operatori di mercato”. Traduzione: il Tesoro potrebbe strappare
condizioni meno favorevoli e le banche che lavorano con l’Italia sarebbero danneggiate nel
confronto con chi fa affari con altri Paesi, col risultato che pagheremmo interessi più alti.
Brunetta non è convinto, ma neppure l’Ufficio parlamentare di bilancio, l’istituzione che
deve certificare alla Commissione europea la correttezza dei nostri conti pubblici: “Un
problema che è rimasto e continua ad alimentare incertezza è l’assenza di
un’informazione pubblica periodica sulle caratteristiche delle operazioni stipulate”, si legge
in un approfondimento firmato da Emilia Marchionni e Maria Rosaria Marino. Lo scontro
continua. In attesa di capire quanta parte di quei 42 miliardi di “rosso” teorico dovremo
davvero pagare.
61