Untitled - Gruppo editoriale Mauri Spagnol

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Untitled - Gruppo editoriale Mauri Spagnol
UN ESTRATTO
I
N ANTEPRI
MA
La sindone del diavolo (140 x 215 mm) p. 003
Giulio Leoni
LA SINDONE
DEL DIAVOLO
Romanzo
UN ESTRATTO
IN ANTEPRIMA
ISBN 978-88-429-2321-3
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del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita:
www.illibraio.it
In copertina: foto g Shutterstock
Grafica: Pepe nymi
Copyright g 2014 Giulio Leoni
Edizione pubblicata in accordo
con PNLA & Associati
Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency
g 2014 Casa Editrice Nord s.u.r.l.
Gruppo editoriale Mauri Spagnol
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La folla si era radunata dopo il tramonto, aumentando di
numero a mano a mano che altri uomini da soli o a piccoli gruppi raggiungevano il luogo convenuto. Venivano
scivolando silenziosi per sentieri tortuosi e fuori mano,
per evitare gli squadroni di ronda notturna che percorrevano i sestieri.
Ognuno sapeva che c’erano decine di uomini armati in
giro per la città, impegnati in una ricerca senza tregua, alla caccia di quello che nessuno aveva mai visto, ma che
tutti dicevano si aggirasse negli anditi più oscuri, condannato alle tenebre dall’antica maledizione.
Qualcuno rinnegato da tutti, dall’origine dei tempi. Temuta fonte dei mali e del dolore, colui che con il fiato appesta le mandrie, essicca le fonti, spegne il colore dei fiori
e incenerisce le messi sugli steli, avvelena i pozzi, apre le
porte ai lividi cavalieri dell’apocalisse. Colui che nella
macabra danza del disfacimento segue la morte per raccogliere le anime spaurite e peccatrici, sfuggite piangendo dai corpi piagati dai morbi. Il grande maledetto, invocato di nascosto dai miseri e dai disperati.
E invece l’avevano trovato altri uomini, privi di lame
affilate e scintillanti armature. Uomini con le mani segna-
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te dal pesante lavoro dell’ascia, con i volti e i capelli bruciati dai lapilli della pece bollente, con gli occhi e i polmoni infiammati dalla polvere di canapa delle corderie. Vincendo la paura, che secoli di fede avevano instillato nella
coscienza di ciascuno di loro, avevano lasciato le loro case miserabili, le mogli e i figli laceri e denutriti, e si erano
abbandonati al filo della corrente simili ad alberi divelti
dalla piena, scivolando nei canali silenziosi come ombre.
E adesso erano lı̀, tremanti fin nel più profondo del loro essere. Ma restavano, vincendo l’impulso di fuggire.
Restavano, prede affascinate sotto lo sguardo del serpente. Restavano, ascoltando parole che scivolavano nelle loro orecchie come stille di miele.
Sulla parete di fondo del magazzino abbandonato in
cui erano riuniti, c’era un varco, protetto da una tenda.
E da questo era entrato colui che tutti avevano atteso in
preda a speranza e timore. Accompagnato da un uomo
con il volto nascosto da una maschera dalle forme grottesche, che si era arrestato un passo più indietro.
Quest’ultimo sorreggeva una lanterna, dietro la testa
dell’altro entrato per primo. Una luce appena sufficiente
per scorgere solo l’oscuro profilo del suo corpo poderoso
dalle ampie spalle. Eretto in tutta la sua altezza imponente, dominava sull’uditorio simile a una statua romana che
fosse discesa dagli antichi templi, tanto alta che la sua testa svettava oltre il chiarore della lucerna, per nascondersi in alto dietro un velo d’ombra.
« Figli miei, che condividete la mia maledizione, che
sollevate con me il calice ricolmo del fiele dell’esilio! Figli
che siete banditi dalla mensa del re, scacciati a contendervi con i cani i resti del banchetto! Io vi saluto nel mio nome! » scandı̀ una voce stentorea, forte e vibrante di una
strana risonanza dalle inflessioni metalliche, come se
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quelle parole fossero accompagnate nel loro diffondersi
maestoso da un’arpa sfiorata da dita invisibili, davanti
a cento bocche spalancate, raggelate in un’esclamazione
che la paura impediva di esprimere. « Io non servirò!
Non offrirò i polsi alle catene! E anche voi, figli miei, sarete liberati dalle vostre! Voi non servirete! Io ve lo giuro,
per quella luce con cui un giorno io spazzai le tenebre,
per guidare le creature umane verso la loro gloria! Un
potere maligno mi strappò dalla vostra guida, per secoli
e secoli, e il Male e la miseria si fecero strada sulla terra! »
Colui che aveva parlato tacque per un lungo istante.
Poi tese le braccia verso la folla, mostrando le mani strette a pugno.
« Ma quella luce non mi fu rapita del tutto, una sua
scintilla è ancora qui! E sarà questa luce a guidarvi verso
la vittoria! » disse ancora la voce, mentre l’uomo alle sue
spalle avvicinava la lanterna alla sua testa, per renderla
finalmente visibile.
Qualcosa cominciò a risplendere. Un tenue bagliore,
poi dalle tenebre emersero i lineamenti di un volto come
se una mano invisibile avesse acceso anche davanti a lui
una torcia. Prima incerti, poi sempre più definiti, finché
le intere fattezze di chi aveva parlato furono visibili.
Tutti gli astanti erano in preda allo sbigottimento, le
bocche spalancate in un grido che il terrore mozzava loro
in gola. Sconcertati da quel volto che adesso vedevano
distintamente, tanto diverso dai loro minati dalle fatiche
del mare, dalla rabbia degli elementi e dalle percosse del
morbo. Quasi nessuna delle loro bocche aveva ancora
tutti i denti, le barbe incolte erano per lo più spruzzate
di grigio, le palpebre erano pesanti e bruciate dalla salsedine, qualcuno con già le unghie della morte addosso.
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Tutti segnati dal più terribile dei nostri nemici, il tempo
che tutto consuma.
Ma il volto che era apparso davanti a loro non recava
traccia delle ere, cesellato in una materia sconosciuta sulla terra, splendente di una luce fredda, come forse solo le
prime stelle avevano visto.
Diventava sempre più luminoso, quasi il suo incarnato
risplendesse di una fiamma accesa sotto la pelle, a ogni
istante più vivida. Il chiarore che all’inizio era sembrato
quello di fredde stelle lontane, pallido come il volto della
luna, si andava popolando di scintille e poi di piccole
vampe che guizzavano qua e là sull’incarnato. Solo quelli
tra i presenti che lavoravano nella fornace delle attrezzerie avevano visto qualcosa di simile, quando il metallo
nel crogiolo passa dal rosso al candore abbacinante della
fusione.
Ma nessuno di loro aveva mai visto un metallo che
fondesse con una vampa azzurrina.
« Ecco ciò che vi offro, quella stessa luce che un Dio
maligno prima mi donò e poi riservò per sé e gli altri privilegiati, gettandomi nelle tenebre. Ma di cui io ho strappato una scintilla, prima che la sua vendetta mi colpisse.
E di quella luce vi faccio qui dono! »
Uno dopo l’altro tutti gli uomini presenti erano crollati
sulle ginocchia. Qualcuno più coraggioso continuava a
fissare i lineamenti dell’essere, che adesso sembravano
sparire nel bagliore, ma la maggior parte teneva il capo
chino a terra e si serrava gli occhi con le mani come per
proteggersi da quell’immagine.
Solitario, uno tra loro sembrava aver trovato il coraggio di farsi avanti, l’uomo mascherato che dal primo momento era restato alle spalle dell’essere dalla testa fiammeggiante. Depose la lanterna e poi con un gesto deciso
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si slacciò il mantello e lo sollevò verso di lui con reverenza, quindi glielo distese sul capo soffocando il chiarore
sotto il tessuto.
Solo un singhiozzo risuonò nella sala tornata di colpo
nelle tenebre. Il pianto di chi si è smarrito, che sembrava
provenire da una distanza incolmabile.
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Estate del 1313, Pisa
Dante si sporse sull’argine dell’Arno, fissando i mulinelli
che roteavano sotto i suoi occhi. Più lontano, un grosso
albero, ancora rivestito di fitte fronde verdi, scorreva lento verso la foce. Quell’albero morto era transitato solo un
giorno prima sotto il ponte della sua Firenze, pensò con
amarezza. Un diritto che ancora gli veniva negato. Forse
solo in quel modo le anime dannate dei suoi concittadini
gli avrebbero consentito il ritorno, un cadavere fluttuante
sulle acque del fiume!
Era stanco, e i dolorosi sintomi del suo malessere erano
tornati a farsi sentire. Con l’umido vento del meridione
che spirava dalla lontana Siria, era certo che quella notte
sarebbero tornate a infuocarsi le vene delle sue tempie.
Si sedette su una pietra accanto a una fontana, poi allungò la mano verso il catino e la ritrasse colma d’acqua,
con cui provò a rinfrescarsi la fronte in cerca di refrigerio.
« Non è d’acqua che sembrate aver bisogno, messere »,
disse una voce allegra.
Dante si interruppe per fissare l’uomo che gli si parava
davanti, ben piantato nella sua strana posa a gambe larghe.
L’uomo continuava a squadrarlo con aria di sufficienza. Era vestito con abiti popolari a colori sgargianti, di
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fattura modesta ma puliti e abbastanza nuovi. Portava un
berretto di tela di quelli che Dante aveva visto spesso coprire la testa dei marinai della flotta pisana in giro per la
città. E certo lo sconosciuto aveva qualcosa dell’uomo di
mare, nella pelle del volto scolpita dal sole e dal vento salato e nelle mani segnate dalle gomene. Anche la sacca
che stringeva tra le mani aveva l’aria di aver navigato a
lungo. « Forse un goccio di quello buono vi gioverebbe
di più. E mi piacerebbe essere io ad offrirvelo, per spendere in vostra compagnia la paga che mastro Puccio ha
guadagnato con il suo remo. » L’uomo fece tintinnare la
piccola borsa che gli pendeva dalla cintura.
« Sei un galeotto della flotta? » chiese severo Dante, infastidito da quel tono confidenziale.
« Sı̀, maestro Alighieri. O meglio, lo sono stato. Puccio
Cane, per servirvi, è il mio nome. Ma ora son divenuto un
libero buonavoglia, e mi offro a ogni nave che mi assoldi.
Ora la mia coscienza è netta, ho scelto io questo mestiere,
e ne sono orgoglioso. »
« Come sai il mio nome? » chiese ancora il poeta. Il suo
senso di fastidio si andava accrescendo, per trovarsi sulla
bocca di un essere tanto vile.
« Chi non conosce il grande poeta Dante fiorentino?
Chi non conosce il suo viaggio nelle plaghe dell’Inferno? » rispose il galeotto. Il suo tono si era fatto di colpo
serio, e ogni traccia dell’iniziale sfrontatezza sembrava
scomparsa.
Al fastidio era subentrato in Dante lo sconcerto. Come
poteva sapere quell’uomo della sua opera, che ancora giaceva incompiuta nel segreto delle sue carte, lungi dall’esser resa pubblica? E anche l’argomento trattato erano in
pochissimi a conoscerlo, amici fidati, filosofi e cultori di
poesia.
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Doveva scoprirlo, pensò respingendo il primo istinto a
liberarsi dell’importuno. « Va bene, e ti rendo grazie della tua liberalità. Ma non ho costumanza con le taverne di
Pisa. »
« Per questo affidatevi alla mia scienza, come io mi affiderei alla vostra se avessi a questionare degli angeli caduti », replicò l’altro tornando al tono scherzoso. Poi si
avviò rapido verso il porto, facendo segno al poeta di seguirlo.
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Si sedette su un angolo della lunga panca, dopo aver gettato un’occhiata diffidente alle varie tracce di sporco che
la segnavano. Di fronte a lui, il galeotto si era seduto a
sua volta, con un’aria soddisfatta.
Il poeta aveva l’impressione che gioisse per averlo
convinto a seguirlo in quel tugurio, e restava in guardia,
la mano vicino all’impugnatura della daga nascosta sotto
il mantello.
« Che sapete di me e della mia opera? Che sapete delle
plaghe infernali? » ruppe gli indugi.
Per tutta risposta l’altro si voltò verso l’oste, che sonnecchiava all’estremità opposta della tavola. « A suo tempo. Prima comandiamo del bianco e dell’acqua fresca per
tagliarlo. »
Ripeté l’ordine a voce alta, e dopo pochi istanti l’oste si
avvicinò con due brocche, ripiene dei liquidi richiesti.
Ignorando il vino, il galeotto ingollò una sorsata d’acqua per poi risputarla subito in terra con un’esclamazione di disgusto. « Ti avevo detto acqua fresca, oste malnato, e non questa melma attinta in Arno! Servici quello che
ti ho ordinato, o ti aprirò un altro buco oltre a quelli sudici che già ti ha donato Natura! » gridò balzando in piedi ed estraendo un lungo coltello dalla cintura.
Con la punta della lama tracciò un circoletto sul ventre
dell’uomo, che subito sparı̀ terrorizzato.
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« Ho bevuto tanta di quell’acqua putrida legato al banco della voga, maestro Alighieri, che nemmeno tutto l’aceto di bordo sarebbe bastato a ingentilirla. Densa e fangosa come quella della vostra palude Stige », disse in tono di scusa, fissandolo negli occhi.
« La mia palude... che cosa sapete? » tornò a ripetere
Dante, sempre più stizzito, senza più nemmeno badare
al coltello che l’altro continuava a stringere in pugno.
« So quello che se ne dice in giro. Che siete disceso nelle profondità infernali, che avete parlato con il Diavolo in
persona. Per questo ci tenevo a conoscervi », rispose l’altro, riponendo finalmente la lama.
« A conoscermi? Perché? »
« Perché anch’io ho visto il Demonio », replicò il galeotto, fissandolo negli occhi.
« E dove? » chiese incredulo Dante.
« Pazientate, maestro. La mia storia è lunga », cominciò l’altro. « Or è quasi un lustro. Ero imbarcato su una
galea genovese, e incrociavamo nello Ionio in cerca di
preda. La nave incappò in una squadra veneziana, che
ci catturò, trascinandoci in catene fin nella laguna. Qui
il loro ammiraglio, riconoscendo che io ero un buonavoglia e non un delinquente, mi offrı̀ di servire alle stesse
condizioni nella flotta della Serenissima. Accettai, e fui
accolto tra i rematori della loro flotta. »
« Che c’entrano queste tue vicende con me? »
« Pazientate maestro », ripeté l’uomo, riempiendo di
nuovo i bicchieri. « Fui assegnato alla galea dell’ammiraglio. Questi mi prese a benvolere, e pian piano salii nel
grado fino a quello di sottocomito, un grande onore per
uno straniero come me. Fui anche accolto nelle sue case,
nel tempo d’inverno che le navi erano all’Arsenale per
rinnovare il calafataggio. »
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« E avreste visto il Demonio? E dove? » insistette Dante, senza nascondere il proprio scetticismo.
L’uomo lo fissò con aria di sfida. « Nel cuore più nero
della città. Satana cammina tra le calli e i canali, e attende
sui ponti! Io l’ho visto! Lui e il suo padrone oscuro, il maledetto saraceno! »
« E com’era? » chiese Dante, protendendosi sopra il tavolo verso l’altro.
Era incuriosito, ma ancora incredulo. Il galeotto non rispose subito. Allungò la mano verso la brocca del vino
che l’oste aveva lasciato sul tavolo e se la portò alla bocca,
ingollando una lunga sorsata. Poi si asciugò le labbra con
il dorso della mano. « Quanto di più spaventoso la vostra
mente riesca a immaginare! E insieme l’essere più splendido e luminoso che occhio umano abbia mai intravisto.
Mettetelo nelle vostre carte, mettete il mostro che io ho
visto con questi occhi! »
« Ma cosa hai visto, insomma? » gridò Dante esasperato.
L’altro inaspettatamente scoppiò a ridere. Un riso acre,
che subito si trasformò in una smorfia. « Non ho la vostra
arte, maestro, per farvene un’immagine di parole. E poi a
che scopo? Lo vedrete presto, con i vostri occhi. E con lui
il suo padrone, colui che ferma i morti sulla porta. »
« Il suo padrone? Un saraceno? Che vuoi dire, malnato? Il Demonio ha un padrone? E si piegherebbe agli ordini di un pagano? » chiese ancora Dante.
« Ne ho la prova con me. »
Dante scrollò le spalle, accennando ad alzarsi. Ne aveva abbastanza di quell’uomo e dei suoi deliri.
Il galeotto allungò di scatto una mano e lo afferrò alla
spalla, costringendolo a tornare seduto. Ma subito, come
se si fosse reso conto dello sgarbo di un simile gesto, tornò
a lasciarlo borbottando qualche parola di scusa. « Aspet-
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tate, vi prego. Ho detto che lo avreste visto, e credetemi
sarà cosı̀. Ho con me qualcosa, una cosa che solo un uomo
come voi potrebbe apprezzare a pieno. Ho bisogno di denaro, per poter tornare nel luogo da cui sono fuggito. E
per tornarci non da miserabile. Là si prepara un’impresa
grande, e voglio esserci anch’io. »
« E vuoi denaro da me? » chiese amaro il poeta. « Conosci la mia opera, ma non evidentemente i miei destini.
E di come la sorte si sia accanita su di me. »
« Aspettate a giudicare quello che vi offro. » Raccolse
la sacca che aveva tenuto fino a quel momento ben stretta
tra le gambe e la aprı̀, estraendone un piccolo vaso di ceramica, chiuso da un tappo sigillato con della cera. « Ecco
la prova che quanto vi ho riferito è vero », disse, lanciando delle attente occhiate a destra e a sinistra, per rassicurarsi che nessuno badasse a loro. La taverna, a parte loro
due e il padrone semiassopito su una panchetta con la
schiena abbandonata contro una grossa botte, era deserta. Fissò con intensità il poeta, poi estrasse dalla cintola
un coltello e con la punta cominciò a incidere la cera intorno al collo del contenitore, fino a liberare il tappo.
Quindi con un gesto lento e solenne lo avvicinò al volto
di Dante. « Respirate l’aroma di quello che vi offro. »
Il poeta macchinalmente obbedı̀, avvicinando il volto
al vaso. Dentro sembrava esserci della semplice acqua,
chiara e trasparente come quella della più pura delle fonti. « E vorreste del denaro da me per questo? » scandı̀ il
poeta, accennando a restituire il vaso.
« Vi prego », insistette l’uomo.
Dante aspirò con forza. Una fragranza aspra e violenta
gli invase le narici, come se invece dell’acqua il vaso avesse contenuto un vapore ardente. Una sensazione mai provata prima, come una vibrazione che attraverso i seni
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frontali giungeva direttamente al cervello. Per un attimo
la vista gli si appannò, e d’istinto si ritrasse in cerca d’aria, respirando a pieni polmoni con la bocca come un annegato appena tratto fuori dalle onde.
Rimase cosı̀ alcuni lunghi istanti, cercando di riprendere il dominio di sé, mentre a poco a poco anche la
sua respirazione tornava regolare. « Che cos’è? » riuscı̀ finalmente a chiedere. Seppure ancora sconvolto, quello
che provava al di là del turbamento dei sensi era una sensazione strana, di inebriante leggerezza. Come quando si
è sul punto di abbandonarsi al sonno dopo un giorno felice, e le ultime immagini della veglia si mescolano con le
prime del sogno. Ma senza nulla di quel senso di abbandono: al contrario, la sua mente sembrava essere stata
sferzata, e un turbine di parole e pensieri si affollavano
dentro di lui. Si sentiva possente, pronto anche a dare
forma a nuovi versi scolpiti nel bronzo. Versi perfetti,
dalle sonorità mai immaginate prima, che si affollavano
dentro di lui come un’acqua cristallina traboccante da
una coppa troppo piena. Ma che come acqua subito si disperdevano in mille rivoli, sparendo dalla sua memoria
per lasciarvi soltanto una eco confusa di solenne bellezza. Tornò ad aspirare, mentre le ultime tracce dello strano aroma sparivano, nel tentativo di trattenere almeno
qualche loro parola. Ma quelli sembravano svaniti, sostituiti da una nuova ondata di pensieri e immagini ancor
più affascinanti dei precedenti.
« Cos’è... » tornò a balbettare.
« Ciò che dona la felicità in terra. Il piacere che scaturisce dal dolore supremo, che offre l’incanto di un’ora »,
rispose il galeotto, che intanto era tornato rapido a tappare il vaso. « Le lacrime del Demonio. »
« Le lacrime... del Demonio? » mormorò Dante. « Vuoi
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scherzare, amico mio? » Nella testa ancora gli turbinava
la confusione suscitata dai vapori del liquido misterioso.
Ma l’altro aveva un aspetto serissimo. « Le ho raccolte
io stesso, stillanti dalla sua fronte in fiamme. Mugghiava
come un toro impazzito, cercando di placare il suo dolore. La sua guida in queste plaghe gli avvolse la testa nel
suo manto, e poi lo condusse via nelle tenebre. Io raccolsi
quel manto, ancora madido del suo piangere, e ne stillai
ogni goccia in questo vaso. Che racchiude tutto il dolore
e tutto lo splendore del mondo dei demoni. Ne volete? »
Dante era colpito da quell’espressione. Esitava a rispondere. Quell’uomo di mare, dall’apparenza rozza come tutti i suoi compagni, sembrava in possesso di un linguaggio stranamente raffinato. Ma non riusciva a credere
che quello che aveva appena sperimentato fossero davvero le lacrime del Demonio. Forse una strana spezia,
che magari quell’uomo aveva raccolto in qualche lontana
terra raggiunta nel corso dei suoi viaggi. « Tu non sei un
galeotto », disse poi. « E quello non è il pianto del Diavolo, qualunque cosa sia. »
L’uomo non parve contrariato da quelle affermazioni,
come se si fosse aspettato la sua incredulità. Aprı̀ la bocca per replicare, ma di colpo si immobilizzò. Teneva lo
sguardo fisso oltre le spalle del poeta, verso la porta. Le
sue pupille si contrassero, e sul suo volto comparve di
colpo un’espressione inquieta.
Insospettito, anche Dante si voltò verso l’ingresso della
taverna, ma non vide nulla di allarmante. La sordida
stamberga continuava a essere deserta, a parte loro due,
e il taverniere seguitava a sonnecchiare accanto ai suoi
tini.
Ma il galeotto appariva sempre più turbato. Con uno
scatto ritrasse verso di sé il vaso, come se volesse proteg-
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gerlo da una minaccia improvvisa, e prese a richiuderlo
nervosamente. « Vi sbagliate, maestro Alighieri. Il lume
della vostra ragione è forte, ma qui travalica il limite e
vi abbaglia. Io l’ho visto, colui che qui ha lasciato le sue
lacrime di fiamma », disse subito dopo, alzandosi e avviandosi in fretta verso l’uscita. « Ma su una cosa avete
detto il vero: non sono stato solo un galeotto, nella mia
vita », aggiunse, con fare misterioso. « E voi non siete il
primo cui ho offerto questa meraviglia. Forse arriverete
tardi, se adesso esitate. Ma se decidete, mi troverete al riposo dei marinai, giù al porto. »
Colpito dal suo tono sincero, era quasi tentato di credergli. O almeno di credere alla sua follia. « Avete detto
di un’impresa grande... » cercò di trattenerlo, ripensando
alle sue ultime parole.
Ma l’altro si limitò a lanciargli un’occhiata. « Qualcosa
che nessuno si aspetta. E voglio esserci anch’io. Ma devo
riscattarmi di una colpa », mormorò ancora mentre varcava la porta.
Teneva stretta al petto la sacca dove aveva riposto il
contenitore. Forse era chiusa in quell’ampolla la colpa
di cui aveva parlato, pensò il poeta.