IL GELSO DI SAN MARTINO DEL CARSO San Martino Del Carso

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IL GELSO DI SAN MARTINO DEL CARSO San Martino Del Carso
IL GELSO DI SAN MARTINO DEL CARSO
San Martino Del Carso Valloncello dell’albero isolato
Il 23 giugno 1915, il generale Luigi Cadorna, comandante supremo dell’esercito italiano,
sferra l’attacco principale sul Carso e lungo l’Isonzo in direzione di Trieste e Lubiana, in
previsione di uno sfondamento decisivo verso l’interno dello schieramento avversario. Le
armate austro-ungariche comandate dal feldmaresciallo Franz Conrad von Hötzendorf,
schierate su un terreno maggiormente atto alla difesa, reggono pressoché ovunque gli assalti
italiani, che vengono in genere respinti con gravi perdite. Tramonta il sogno della “guerra
breve” e anche sul fronte italo-austriaco il conflitto acquista le caratteristiche della guerra di
trincea.
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San Martino del Carso era a quell’epoca un piccolo villaggio con poche centinaia di abitanti:
tutti legati da parentela o da antica amicizia. Al centro del villaggio, vi era una piazzetta
circondata da un gruppo di case; l’edificio più alto era quello della chiesa. Vi erano poi
alcune botteghe e un bar-osteria con qualche tavolino all’esterno, dove, nelle giornate calde,
sedevano gli anziani del villaggio. Al centro della piazza, un piccolissimo giardino, con
qualche panchina, e lì c’ero io: l’albero più alto del giardino.
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Ora è giusto che mi presenti: sono un gelso, a quell’epoca avevo quasi cento anni ero stato
piantato quando era stata ristrutturata la vecchia chiesa ; fu il parroco di allora a piantarmi, mi
pare che si chiamasse padre Cosimo. Ero, a quel tempo, un piccolo alberello con i rami
verdi e flessibili; prima di allora ero stato in campagna, dove ero nato. Intorno al mio tronco
era stata costruita una panca di legno circolare,
dove le donne si sedevano a parlare o a
lavorare a maglia , mentre i loro bambini giocavano a nascondino o a ruba bandiera. Di
estate, il mio giardino, si trasformava nel salotto del villaggio, dove le donne spettegolavano
un po’ e gli uomini parlavano di sport, soprattutto di ciclismo, oppure di problemi locali.
Prima della guerra, il mio villaggio era un po’ fuori dal mondo; le notizie arrivavano in
ritardo; i giorni, i mesi e le stagioni si susseguivano sempre uguali senza grandi avvenimenti.
I momenti più importanti erano fondamentalmente tre: le morti, i matrimoni e le nascite. Il
mondo entrava nel villaggio solo quando qualche emigrante ritornava dall’America, per
visitare i parenti. In questa occasione tutti restavano incantati dai racconti che egli faceva: il
mondo che descriveva era un mondo così incredibile, che molti non riuscivano nemmeno ad
immaginarlo .
Dunque, fino a quell’estate del 1915, niente aveva turbato il quieto scorrere della vita di San
Martino del Carso. Quando, una notte,
si incominciarono a sentire i primi rumori che
preannunciavano l’avanzata di uomini e mezzi. I miei concittadini non riuscivano a capire
cosa stesse realmente succedendo, perché molti non sapevano nemmeno che l’Italia era
entrata in guerra. Il postino, Pietro, che era il più informato, aveva parlato del pericolo di
guerra ad un tavolo dell’osteria, ma, a quanto pare nessuno degli ascoltatori vi aveva fatto
molto attenzione. Egli aveva anche raccontato che non tutti gli italiani erano d’accordo
sull’entrata in guerra e che si erano formato due partiti: il primo era per intervenire e il
secondo per restare neutrali.
Io, contrariamente ai miei disattenti concittadini, feci attenzione alle parole del postino, e da
quel giorno non fui più sereno. Che qualcosa stava succedendo me ne ero già accorto, perchè
i miei amici uccelli, che ospitavo volentieri sui miei rami, da qualche giorno non venivano più
a farmi visita. In un primo momento avevo pensato che essi avessero presagito una tempesta
e che si fossero rifugiati chissà dove. Ma il tempo era bellissimo, non c’erano nuvole
all’orizzonte, quindi gli uccelli dovevano essere stati spaventati forse dai quegli stessi rumori,
che si sentivano in lontananza, a volte più piano, a volte più chiaramente, secondo la direzione
del vento.
La vita al villaggio continuava come sempre, anche se si avvertiva una strana aria di attesa: da
qualche giorno i bambini non venivano a giocare nel giardino e nessuno si veniva a sedere
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all’ombra dei miei rami; anche i tavolini dell’osteria erano vuoti. Solo la chiesa era più
affollata del solito; il parroco, Don Giuseppe, aveva organizzato delle preghiere speciali, alle
quali partecipavano quasi tutti gli abitanti del villaggio. Negli stessi giorni, Pietro, il postino,
aveva portato ad alcuni giovani una cartolina, e dopo pochi giorni ho visto quegli stessi
giovani avviarsi per la strada che portava a Sonagro, accompagnati dallo sguardo dei padri e
dal pianto delle madri. Andavano in guerra.
Intanto i rumori diventavano sempre più evidenti e più forti; il terreno fremeva e le mie radici
fremevano anche esse, comunicandomi un terrore che non sapevo dominare.
Rombi di
cannone, in lontananza, rompevano improvvisamente il silenzio in cui era caduto da qualche
giorno tutto il villaggio. Di notte, s’intravedevano, all’orizzonte, improvvise vampe di fuoco,
che contribuivano a far crescere la mia ansia: il fuoco è il più grande nemico degli alberi,
esso può distruggerli in pochi minuti lasciando di loro solo un cumulo di cenere.
Ormai tutti avevano capito che
la guerra era lì, a pochi passi dalle loro case ,
e si
preparavano a lasciare il villaggio per trovare rifugio altrove. Ogni mattina vedevo piccole
carovane di persone dirigersi verso Sonagro: donne, bambini ed anziani ( i giovani erano
quasi tutti partiti) carichi delle loro povere cose, cercavano di raggiungere la ferrovia per
andare a Gorizia. L’ultimo a partire fu il parroco, che a malincuore lasciò la sua chiesa. Dopo
aver chiuso le porte, venne a sedersi sotto i miei rami, pensieroso, forse incerto su ciò che
stava facendo, d’altra parte nessuno sarebbe più andato in chiesa e, forse, pensò che sarebbe
stato più giusto seguire i suoi parrocchiani. Lo vidi allontanarsi tristemente, aveva, stretto al
petto, avvolto da un panno bianco, il calice con le ostie consacrate.
Ero rimasto solo, i miei fratelli alberi, molto più giovani di me, non mi erano di nessun aiuto,
forse perché ancora non avevano capito cosa stesse per succedere.
Fu la mia ultima notte tranquilla. Sin dall’alba, intravidi file di soldati che si avvicinavano
provenienti da fronti opposti. Li sentivo bisbigliare; da un lato c’erano gli italiani e dall’altro
gli austro-ungarici, la cui lingua conoscevo un poco, grazie alla presenza nel villaggio di due
o tre donne ungheresi che avevano sposato dei giovani del luogo, e che erano solite
incontrarsi sotto i miei rami, quando portavano, nei pomeriggi di estate, i loro bambini a
giocare in giardino.
Vi era un silenzio innaturale, turbato solo da qualche lieve sussurro, quando, ad un tratto, si
scatenò l’inferno. Cominciò un fuoco incrociato, i colpi si susseguivano velocemente, si
udivano le grida dei feriti colpiti a morte; i cannoni, posti sulle alture bombardavano le case,
che una dopo l’altra venivano giù, come se fossero fatte di cartone. Un odore di bruciato ed
un denso fumo nero appestava l’aria. Il mio povero tronco fu colpito più volte e gli alberelli
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bruciarono uno dopo l’altro:, di loro non restò nulla. Intorno a me solo rovine e morte: San
Martino del Carso non esisteva più. Dopo qualche giorno di feroci combattimenti, i soldati dei
due schieramenti retrocessero. Nessuno aveva vinto, dall’una e dall’altra parte c’erano stati
dei morti, che ora giacevano a terra a testimonianza della follia della guerra. Io, con il tronco
trafitto da mille proiettili e con i rami bruciati, assitevo a questa scena quasi incredulo, non
avrei mai pensato, infatti, che gli uomini potessero giungere a tanto. Passò quasi un anno da
questo scontro; intorno a me solo rovine e nessuna anima viva La guerra continuava: il
rombo dei cannoni, e il susseguirsi dei colpi delle mitragliatrici facevano intuire che gli
accampamenti dei due schiarimenti non dovevano essere molto lontano. Quando ecco che un
, giorno, vidi avvicinarsi una piccola figura di soldato, egli aveva il capo stanco e un po’
reclinato, come di chi
ha molto sofferto e mediti tra sé. Il giovane si sedette su quello che restava della vecchia
panca, cacciò dalla tasca un taccuino e una penna e, fra un sospiro, e l’altro scrisse questi
versi;
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
È il mio cuore
il paese più straziato
e si firmò così:
Giuseppe Ungaretti, SanMartino del Carso, Valloncello dell’albero isolato, 27 agosto 1916.
Quell’albero isolato ero io che, nonostante i colpi ricevuti, continuavo faticosamente a vivere.
In quel momento sentii dentro di me il medesimo strazio,
che Ungaretti cosi
drammaticamente ha espresso nei suoi versi.
Ma la mia storia non è ancora finita. Dopo qualche tempo dal mio incontro con Ungaretti, un
gruppo di soldati ungheresi, che avevano combattuto in quella terribile battaglia, ritornarono a
San Martino e recisero le mie radici. Non mi procurarono dolore, perche il mio tronco era
oramai completamente rinsecchito e pronto a morire. Essi mi portarono nella loro patria e mi
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sistemarono in un bel museo dove la gente veniva a rendermi omaggio, senza rendersi conto
che quel tronco era solo una parte di me, perchè la mia anima vive sempre a San Martino del
Carso, in quel Valloncello dove ebbi la fortuna di incontrare un grande poeta che con i suoi
versi ha reso me, i luoghi e soprattutto se stesso, immortali.
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