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09-02-2014
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ECONOMIA E
SOCIETA'
Pag. 38
scenari macroeconomici
Rivoluzione capitale
Il fondamentale testo dell'economista francese Thomas Piketty apre nuove prospettive sul modo di
intendere il valore
Giorgio Barba Navaretti
Nel Papà Goriot di Balzac, pubblicato nel 1835, il losco Vautrin spiega al povero giovane Barone di
Rastignac che cercare riscatto sociale e denaro attraverso il lavoro è inutile e poco saggio. Sposare una
ragazza con una buona dote può rendere ben più che diventare il più alto dei magistrati. Così era in
Francia e anche in Inghilterra. Qualche anno prima, a nessuno degli eroi di Jane Austen viene in mente di
lavorare per far denaro. Conta solo la dimensione della propria fortuna, l'eredità o un buon matrimonio.
Erano gli albori della rivoluzione industriale, un epoca in cui il capitale complessivo di una nazione (terra,
case, titoli ecc.) valeva circa sette volte il reddito prodotto in un anno (Pil), in cui gran parte di questo
capitale era terra e in cui una minoranza molto stretta deteneva quasi tutta la ricchezza.
Agli albori del XXI secolo l'economista francese Thomas Piketty dà alle stampe un volume, già uscito in
francese e in corso di pubblicazione in America, che rivoluzionerà quel che pensiamo e sappiamo sul
capitale e sulla sua distribuzione.
Il libro dimostra che il rapporto tra il valore del capitale e il reddito è a fine 2010 a valori vicini a quelli dei
tempi di Balzac, dopo essere sceso tra il secondo dopoguerra e gli anni Settanta a valori molto più bassi
(tra due e tre volte il reddito). Cosa significa? Se il capitale è molto elevato rispetto al reddito complessivo
che un'economia genera in un anno, ciò implica che la rendita del capitale contribuisce molto più del
reddito di lavoro a formare il prodotto interno lordo. Questo ordine si è gradualmente sgretolato con la
rivoluzione industriale e poi completamente nel dopoguerra con il rafforzamento della democrazia e
l'introduzione di politiche fortemente redistributive.
La storia economica ha finora visto questo processo come una transizione permanente verso il progresso.
In realtà per Piketty questo invece è un incidente storico che finisce rapidamente. E quel che succede in
seguito è un ritorno verso quello che l'autore definisce come il «capitalismo patrimoniale»', fondato su
capitali ereditati piuttosto che accumulati con impresa e lavoro.
A partire dagli anni Ottanta, infatti, con il graduale abbassamento delle tasse e la rapida accumulazione di
ricchezza che ne segue (anche la disuguaglianza del reddito, soprattutto negli Stati Uniti torna a livelli preguerra), il capitale riprende a crescere più rapidamente del reddito e si arriva in tutti i paesi occidentali ai
livelli molto elevati di oggi. Dunque il ritorno ad una società dove i rendimenti del capitale hanno
un'importanza sempre maggiore rispetto al reddito da lavoro. E soprattutto ad una società meno mobile e
più diseguale. Infatti, una proporzione molto elevata del rendimento del capitale deriva da beni ereditati
piuttosto che accumulati con il risparmio da lavoro. Inoltre, la proprietà del capitale è molto più iniqua della
distribuzione dei redditi da lavoro. Nel 2010, in Europa occidentale, il 10% della popolazione più ricca
contava per circa il 25% del reddito da lavoro complessivo ma deteneva il 60% della ricchezza.
Siamo dunque tornati alla rigidità sociale di Jane Austen? Non proprio perché il capitale è comunque oggi
in larga misura anche posseduto dalle classi medie (ne detengono il 35%, contro il 5% nel 1910) e poi
perché c'è stata una forte crescita dei redditi da lavoro più elevati. Ma, attenzione, dice Piketty, nel
processo di sviluppo economico ci sono comunque forze che in modo automatico invece portano alla
disuguaglianza.
La questione vale soprattutto per le economie in stagnazione e dunque ci riguarda da molto vicino.
Quando pensiamo all'Italia che non cresce, spesso ci consoliamo con la ricchezza delle famiglie. L'Italia,
infatti, nei numeri di Piketty è l'unico paese avanzato con un rapporto tra capitale e reddito vicino a sette
(Balzac!), la Francia è a cinque e mezzo, la Germania e gli anglosassoni a quattro.
Ma il problema è che l'accumulo di capitale deriva in realtà dalla nostra incapacità di generare reddito da
lavoro e dall'invecchiamento della popolazione. È un calcolo banale. Se il capitale rende di più di quanto
cresca il Pil (e da noi così è stato da quando abbiamo smesso di crescere alla fine degli anni Ottanta) e se
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(più di tutti gli altri) ogni anno il capitale si accumula più in fretta del valore
aggiunto. E siccome si arricchisce più in fretta chi il capitale lo detiene già, la società diventa a poco a
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poco fondata sull'eredità e la rendita invece che sul lavoro e sul merito: l'economia dei bamboccioni.
La dimensione del capitale privato non dovrebbe dunque rassicurarci: riflette piuttosto una società dove a
poco a poco il passato divora il futuro. Questa situazione è tra l'altro rafforzata da un sistema fiscale che
tratta rendite e capitale (eredità, donazioni ecc.) molto più favorevolmente del lavoro. Anche se tutti sono
d'accordo ad abbattere drasticamente la fiscalità del lavoro, il favore che ha raccolto l'abolizione dell'Imu
riflette piuttosto la mentalità di una società che vive di rendita e che non è più abituata a correre per
crescere.
La questione è come uscire dalla trappola dell'accumulazione infinita di Marxiana memoria, ossia un
processo di concentrazione crescente della ricchezza che finisce per destabilizzare e distruggere ogni
forma di sviluppo. Il progresso, la diffusione di conoscenza e l'istruzione continuano ad essere formidabili
forze di redistribuzione e convergenza della ricchezza attraverso il lavoro. Ma riusciranno le economie
avanzate a riprendere livelli di crescita superiori al rendimento del capitale? Non è detto, sostiene Piketty.
La sola soluzione in questo caso è una tassazione progressiva del capitale. Soprattutto in Italia questo è
probabilmente un passo utile. Comunque ritrovare la capacità di crescere e aumentare la produttività
servirà senz'altro ad evitare per quanto più tempo possibile che la sordida lezione di Vautrin diventi un
viatico per il futuro dei nostri figli.
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Thomas Piketty, Capital in the Twenty First Century ,
Harvard University Press, p agg
.
69
6 , $39,95
;
Le Capital au XXI siècle, 2013 Paris, editions du Seuil, pagg.970 , € 25,00
Foto:
relativity |Opera di M.C. Escher in mostra fino al 24 marzo a Reggio Emilia
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