RIO DE JANEIRO La centralità dei margini Roberto Malighetti e
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RIO DE JANEIRO La centralità dei margini Roberto Malighetti e
RIO DE JANEIRO La centralità dei margini Roberto Malighetti e Runa Lazzarino Malighetti. Il presente lavoro collaborativo si fonda sul dialogo fra il sottoscritto, autore di una ricerca sull’impatto di alcuni progetti di cooperazione internazionale in una favela di Rio de Janeiro, e una dottoranda in scienze antropologiche, fruitrice di alcune restituzioni testuali di questa esperienza: il diario tenuto sul campo, la traccia dell’intervento al ciclo di lezioni organizzato da Stefano Allovio presso l’Università degli Studi di Milano, la relazione orale tradotta negli appunti della coautrice, e un’introduzione a un reader di prospettive antropologiche sullo sviluppo in cui si fa un breve cenno agli esiti dell’indagine nella favela di Manguinhos.1 Analizzando questi materiali e la letteratura si è discusso il lavoro antropologico in una realtà urbana caratterizzata da forme diffuse di violenza, restituendo la forma dialogica del processo di riflessione e di scrittura. Lazzarino. La testualizzazione delle conversazioni e degli scambi di materiale scritto intende allargare il gesto di svelamento della negoziazione aperta e plurima del senso, come avviene sul terreno e durante la scrittura, anche all’atto della lettura, includendo chi condivide la costruzione del significato. Desidera, altresì, stemperare l’egemonia autoriale, moltiplicando l’autorità etnografica e testualizzando una circolarità interpretativa ex post, dopo l’esperienza di ricerca e le sue traduzioni scritte. Malighetti. Le etnografie sono documenti che pongono domande e si collocano ai margini fra diversi sistemi di significato, 1 R. Malighetti, Fine dello sviluppo: emergenza o decrescita, in R. Malighetti, (a cura di), Oltre lo sviluppo, Roma, Meltemi, 2005, pp.7-49. 234 R. MALIGHETTI, R. LAZZARINO fra il mondo dell’autore e quello dei suoi interlocutori, sul campo e a casa. La dialogicità può essere pensata in termini complessi, includendo le interrelazioni dell’antropologo con i lettori, principalmente con coloro che ne condividono il linguaggio disciplinare. Benché il lavoro di ricerca sia un’interlocuzione fra prime e seconde persone, gli antropologi devono scrivere per terze persone:2 il progetto è determinato dalla comunità scientifica, punto di partenza e di arrivo della produzione etnografica. 3 Senza astrarre il testo etnografico dal processo di costruzione e dall’intertestualità teorica, istituzionale e ideologica nella quale si inscrive e senza radicalizzare “l’autonomia ontologica dei testi”,4 si può pensare l'etnografia come una metanarrazione o una “narrazione di secondo ordine”5 che possiede un certo grado di indipendenza dal lavoro sul campo su cui si basa.6 L’articolazione delle differenti temporalità che attraversano il lavoro etno-grafico, stacca il ricercatore oltre che dalle situazioni di interlocuzione con i suoi informatori sul campo e questi ultimi dal loro presente storico, anche dal processo di scrittura, consegnato alla fruizione dinamica della comunità scientifica. Il sapere antropologico si realizza in questo divenire complicato, attraversando il tempo e i cambiamenti negli attori sociali, nell'antropologo e nei fruitori della sua produzione testuale.7 Lazzarino. Non si aspira a un’impossibile morte dell’autore. Piuttosto si intende esibire la sua ingombrante incidenza come soggetto “vivo”, inserito in un tempo e in una varietà di ambiti, ruoli e posizioni. La molteplicità delle forme di testualizzazione è consustanziale alla poliformità dei gesti di inscrizione della identità autoriale di ricercatore. L’identità dello studioso è un processo che si snoda e riposiziona costantemente attraverso le 2 J. W. Fernández, Explored Worlds. Texts as Metaphors for Ethnography, «Dialectical Anthropology», 10 (1985), pp.15-26. 3 R. Malighetti, Clifford Geertz. Il lavoro dell’antropologo, Torino, Utet, 2008, pp. 101-123. 4 C. Geertz, Works and lives, Stanford, Stanford University Press, 1988, trad. it. Opere e vita. Bologna, Il Mulino, 1990, p. 7. 5 P. Atkinson, Understanding Ethnographic Texts, Sage, Newbury Park. 1992, p. 13. 6 G. Marcus, Rhetoric and the Ethnographic genre in anthropological research, «Current Anthropology», 21 (1980), pp. 503-520. 7 R. Malighetti, Il Quilombo di Frechal. Identità e lavoro sul campo in una comunità di discendenti di schiavi, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2004, pp. 1-13. Rio de Janeiro. La centralità dei margini 235 diverse modalità di messa per iscritto di pratiche e teorie, di interpretazioni e intendimenti, di vissuti e argomentazioni. La scelta di una scrittura di tipo dialogico riguarda, in questo caso, direttamente il contesto specifico che ha permesso e incorniciato la permanenza del ricercatore sul terreno. Riguarda il suo vissuto particolare, l’eco soggettiva dell’esperienza stessa e le sue posizioni teoriche sulla ricerca antropologica. Si vuole gettare uno sguardo sulla frammentarietà dei luoghi di soggettivazione assunti dall’autore, su come questi si riflettano nei momenti di oggettivazione scritturale e nei contesti della professione. Malighetti. Nel gioco fra codici disciplinari, intenzionalità, strategie metodologiche e attribuzioni identitarie, l’autorità fondata sull’appartenenza alla comunità scientifica autorizza l’etnografo sul campo e legittima la sua funzione di autore: seleziona la pertinenza dei discorsi nei rapporti con i differenti interlocutori, ne determina la traducibilità nel linguaggio disciplinare e nelle specifiche pratiche di scrittura.8 In tal senso l’accesso all’Altro è sempre mediato dalla propria ontologia, dalla propria appartenenza a una comunità linguistica e storica, 9 come anche dai propri posizionamenti sia teorico-metodologici, sia eticopolitici, economici e spaziali. L’osservazione della partecipazione10 richiede di prendere in esame tutto quell’insieme complesso di sentimenti, qualità e occasioni che fondano la specificità del metodo di lavoro antropologico. La negoziazione sul campo è influenzata dalla storia personale del ricercatore, dalla sua personalità, dal suo orientamento teorico, dal suo ruolo istituzionale, come anche dal suo coinvolgimento emotivo, politico e ideologico e dalle differenti circostanze che incontra. Queste, a loro volta, sono determinate dalle caratteristiche degli interlocutori, della comunità e del contesto generale. 8 R. Malighetti, Temporalità etnografiche: autorità, autorizzazione autore, in S. Borutti (a cura di) Modelli per le scienze umane. Antropologia, scienze cognitive, sistemi complessi, Torino, Trauben, 2007, pp. 91-106. 9 P. Ricoeur, De l'interprétation. Essai sur Freud, Paris, Seuil, 1965, trad. it. Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Milano, Il Saggiatore, 1966; H.G. Gadamer, Wahreit un Methode, Tubingen, J.C.B. Mohr, 1965, trad. it. Verità e metodo, Milano, Bompiani, 1987. 10 B. Tedlock, From Participant Observation to the Observation of Participation, «Journal of Anthropological Research», 47 (1991), pp. 69-94. 236 R. MALIGHETTI, R. LAZZARINO Lazzarino. Da questo punto di vista è necessario ricordare che il soggiorno nella città di Rio de Janeiro non è stato finalizzato allo svolgimento di una ricerca scientifica, alla produzione di testi per la stampa o da argomentare in sede pubblica, in cui fosse analizzato criticamente il lavoro svolto in favela. Nella conferenza hai dichiarato che quella era la prima occasione in cui ne parlavi in pubblico e cercavi di superare le reticenze a parlare dell’esperienza della violenza, e le difficoltà di utilizzare, dopo quasi 10 anni, solo parte del materiale prodotto per altri fini, non avendo a disposizione le trascrizioni delle conversazioni con gli interlocutori. Malighetti. Mi sono recato nella ex capitale brasiliana fra gennaio e marzo 2003 con l’incarico di valutare, per conto di una ONG italiana, l’impatto di alcuni progetti di cooperazione internazionale realizzati dalla controparte locale, il CCAP (Centro de Cooperação e Atividades Populares), un’organizzazione composta da favelados che svolge la maggior parte della sua attività nell’insieme delle 13 comunità che compongono la favela di Manguinhos.11 Il prodotto scritto di questo lavoro ha avuto una forma e un contenuto determinati dalla circostanza e dalle richieste della committenza. A parte un breve cenno nella citata antologia Oltre lo sviluppo non ho dato seguito scientifico al soggiorno in favela né ho cercato di cimentarmi nell’elaborazione di un testo. La resistenza a proseguire il lavoro dipende soprattutto dalla grande problematicità nel pensare una realtà di estrema violen11 Secondo i dati IDH (Indice Sviluppo Umano) del 2001, Manguinhos, con 55.000 abitanti, registrava il 155° posto fra i 161 quartieri della città. Fra i dati elaborati dalla Secreteria Municipal da Saude i seguenti erano piuttosto significativi: il tasso di disoccupazione superava il 30% fra i giovani dai 18 ai 24 anni; il mercato informale occupava circa il 45% della popolazione; il reddito pro capite mensile era intorno a R$148,00 (all’epoca pari a poco più di 40 Euro). Circa il 30% delle abitazioni erano considerate irregolari, provvisorie e a rischio: approssimativamente il 20% non era rifornito di energia elettrica; circa il 20% non possedeva una rete fognaria e acqua potabile. Secondo i dati della scuola nazionale di Salute Pubblica della Fondazione Oswaldo Cruz del Ministero della Salute Federale, 80% dei decessi di giovani fra i 15 e i 18 anni erano dovuti a armi da fuoco. La media degli anni di scolarità da parte della popolazione delle favelas di Rio era di circa 4 anni. L’analfabetismo toccava circa un terzo della popolazione adulta. Circa il 15% dei ragazzi fra i 7 e i 14 anni era fuori dal sistema scolastico (Relatório de Desenvolvimento Humano do Rio de Janeiro, Rio de Janeiro, IBGE, 2001). Rio de Janeiro. La centralità dei margini 237 za come quella che ho incontrato in favela, dare forma razionale all’esperienza, superando il piano emotivo e traducendo la violenza in una narrazione coerente. Ho trovato estremamente difficile svolgere questo compito da un punto di vista antropologico, lontano dalle facili generalizzazioni, dall’individuazione di astratte strutture profonde o di rigidi universali empirici e vicino, invece, ai punti di vista degli attori sociali, ai loro corpi, alle loro soggettività, all’analisi del linguaggio delle atrocità e del ricordo. Il tema della violenza mette in scena complesse questioni teorico-epistemologiche comprendenti l’etica della ricerca e della scrittura. Se è vero, come sostiene Scheper-Hughes, che la sfida ironica dell’antropologia consiste nella ricerca di un senso in un mondo assurdo, tale impresa è particolarmente paradossale quando si cerca un metalinguaggio per parlare degli orrori ed emanciparsi da spiegazioni teoriche e discorsi normalizzanti colludenti con quelli del terrore che di essi si alimenta. 12 Si rimane prigionieri di ciò che Taussig ha definito epistemic murk (opacità epistemica), soprattutto se, oltre a raccogliere memorie della violenza, si è stati vittime della sua azione. Lazzarino. Trovarsi immersi in condizioni di violenza estrema e permanente può condurre lo studioso al mutismo. Come dice Beneduce,13 «la violenza assedia e soffoca il ricercatore con l’esuberanza dei suoi significati e delle sue immagini, appannando le fini lenti strutturali o ermeneutiche di volta in volta inforcate e mettendo a nudo – fino a smembrarli – gli oggetti» della ricerca antropologica, come l’identità, l’agency, la relazione globale/locale, e rendendo ostico il rispetto delle regole metodologiche. Una proprietà della violenza sembra essere quella di far diventare porosi i confini, di confondere e contaminare fra loro luoghi e soggetti, di insinuare, smembrare e ricomporre appartenenze, territori, soggettività, istituzioni secondo logiche non univoche, non razionali e non ragionevoli. Si prova un impulso ad arretrare di fronte a qualcosa verso cui non si riesce a mantenere una distanza, un filtro. 12 N. Scheper-Hughes, Questioni di coscienza. Antropologia e genocidio, in F. Dei (a cura di), Antropologia della violenza, Roma, Meltemi, 2005, p. 292. 13 R. Beneduce, Introduzione. Etnografie della violenza, «Antropologia», 9-10, 2008, pp. 13-14. 238 R. MALIGHETTI, R. LAZZARINO Malighetti. Non è un caso che la letteratura antropologica, benché tradizionalmente interessata a realtà di estrema violenza, abbia ignorato il tema fino alla svolta interpretativa e riflessiva degli anni Ottanta e alle considerazioni dell’esperienza personale dell’etnografo e del processo di ricerca come elementi fondamentali della costruzione del significato e della sua restituzione testuale. Anche questi approcci, tuttavia, hanno mostrato come la violenza sia impermeabile all’ottimismo cognitivo e resista agli sforzi di tradurre e rendere familiare l'estraneo e allo stesso tempo preservare e comunicare tale estraneità14 o, come sostiene Taussig citando Conrad, scoprire il velo senza annullare la qualità allucinatoria.15 Risulta estremamente complicato sottrarsi al rischio romantico di estetizzare ed erotizzare la violenza e l’orrore16 o di ridurli ai loro effetti pornografici e voyeuristici.17 Quelle poche volte in cui ho parlato della mia esperienza della violenza, la mia stessa narrazione riusciva a sorprendere me stesso e ad acquisire un’autonomia che assumeva, mio malgrado, connotazioni eroiche o incoscienti. Anche per questo ho sempre preferito evitare gli effetti indesiderati di produrre nel mio interlocutore imbarazzanti fraintendimenti, soprattutto nelle narrazioni delle atrocità a cui avevo assistito o quando riconducevo parte delle motivazioni che portano il ricercatore a rischiare la vita alle straordinarie capacità adattive di cui gli esseri umani sono dotati e che producono una forte confidenza di avere sotto controllo la situazione, di essere in grado di controllare le scomode reazioni somato-psichiche del proprio corpo. 14 C. Geertz, Local Knowledge, New York, Basic Books, 1983, trad. it. Antropologia Interpretativa, Bologna, Il Mulino, 1988, p.73; V. Crapanzano, Il dilemma di Ermes, in J. Clifford, G.E. Marcus (eds.), Writing Culture, The Poetics and Politics of Ethnography, Berkley University of California Press, 1986, trad. it. Scrivere le culture, Meltemi, Roma, 1996, p. 90. 15 M. Taussig, Culture of Terror–Space of Death: Roger Casament’s Putumayo Report and the Explanation of Torture, “Comparative Studies in Society and History”, 26, (1984), pp. 467-497, trad. it. Cultura del terrore, spazio della morte, in F. Dei (a cura di), Antropologia della violenza, Roma, Meltemi, 2005, p. 83. 16 F. Dei, op. cit, p. 82; K. Avruch, Notes Toward Ethographies of Conflict and Violence, «Journal of Contemporary Ethnography», 30,5 (2001), p. 643. 17 F. Dei, op. cit., p. 18. Rio de Janeiro. La centralità dei margini 239 Le reticenze e le difficoltà riflessive sono il precipitato di due pulsioni opposte. La violenza sfugge alla sua comprensione, sia attraverso l’adattamento e l’assuefazione caratterizzanti, sul campo, quella che altrove ho definito come malattia infantile dell’antropologismo che riesce a normalizzare l’esperienza, intralciando così il pensiero;18 sia per il suo imporsi in termini tanto esagerati e assurdi da impedire la riflessione e la razionalizzazione ex post. Lazzarino. Sollecitati dalla conferenza e dall’invito a scrivere l’articolo, abbiamo cercato di superare questi limiti, considerando la violenza come linguaggio, dispositivo per rendere pensabile, ordinabile e agibile il complesso contesto di esistenza e interazione dei soggetti, antropologo incluso, e fra questi e gli spazi della favela. Se l’etnografia della violenza è un’etnografia limite, possiamo intendere questo termine in senso kantiano come separazione di ciò che è conoscibile da ciò che è escluso dal sapere, investendo il ruolo dell’antropologo e le dimensioni etiche e politiche della ricerca. Malighetti. Come esperienza del limite la violenza non solo chiama in causa il pudore a usare il dolore e i rischi derivanti dal sollecitare memorie traumatiche che non si è preparati a contenere. La sua forza critica questiona direttamente la legittimità del lavoro etnografico oltre che le forme di scrittura adeguate a restituire la particolare tensione fra aspetti epistemologici, emozionali ed etici della ricerca. A Manguinhos alcuni attivisti del CCAP, nel corso di una riunione in cui fui invitato a illustrare il senso del mio lavoro, attaccarono direttamente il mio posizionamento, la legittimità e il mio diritto a fare ricerca e a parlare della drammatica situazione della favela, appellandosi all’inconsistenza militante del mio impegno e all’ambiguità dei miei interessi. A queste obiezioni contrapposi la natura e i limiti del mio modesto contributo “pratico”, fondato necessariamente sul linguaggio teorico specifico della disciplina. Questo knowhow fu illustrato – in un modo apprezzato da alcuni per la sue potenziali qualità analitiche e di guida all’azione ma avverso da altri in nome di un attivismo che si imponeva in modo immediato ed emergenziale – come concentrato all’elaborazione di strumenti analitici miranti al raggiungimento di una comprensione 18 R. Malighetti, 2004, op. cit., p. 52. 240 R. MALIGHETTI, R. LAZZARINO diversa rispetto all'immediato intendimento degli attori sociali e fondata su tale eterotopia.19 La praxis si basa sul “punto di vista del nativo” ma non è riducibile ad esso, ad una romantica pretesa di uguaglianza empatica, ad un’improbabile assunzione della delega, più o meno arbitraria, a rappresentare la parola degli interlocutori in una difficile orchestrazione polifonica,20 in un’oggettiva neutralità21 o in un imbarazzante linguaggio pidgin. Questo dovrebbe essere tanto evidente nelle interviste alle vittime quanto a quelle ai carnefici.22 La qualità del contributo antropologico, anche militante o al servizio della testimonianza, consiste precipuamente in una comprensione che traduca il linguaggio privato dei nativi nel linguaggio pubblico e specializzato della scienza, i “concetti vicini all'esperienza” nei concetti “distanti”, le categorie interne in quelle esterne, le nozioni emiche nelle nozioni etiche, i discorsi anormali nei discorsi normali, quelli non-standard in quelli standard. Parafrasando Wittgenstein si potrebbe dire che l’importante è considerare non l’agire o il militare in astratto, ma l’agire o il militare come, in modo da non sopprimere la rilevanza del farlo come antropologo. Lazzarino. La prospettiva dell’urbanità è stato il trait d’union del ciclo seminariale sopra citato e del presente testo collettivo che ne è l’esito. Introducendo la lezione in Università hai detto di non attribuire una specificità epistemologica all’antropologia urbana in quanto branca della disciplina in possesso di una strumentazione teorico-metodologica ad hoc. Tuttavia la tua esperienza viva e pre-riflessiva sembra rivelare bene alcune ca19 K. Hastrup, The Native Voice and the Anthropological Vision, in «Social Anthropology», 1-2 (1993), pp. 173-186; R. Malighetti, 2008, op.cit. pp. 101-124. 20 J.A. Sluka, Hearths and Minds, Water and Fish. Popular Support for the IRA and INLA in a Northern Irish Ghetto, Greenwich, JAI Press, 1989; A. Robben, The Politics of Truth and Emotion Among Victims and Perpetrators of Violence in C. Nodstrom, A. Robben (eds.), Fieldwork under Fire. Contemporary Studies of Violence and Surviva, Berkley, University of California Press, 1995; C.K. Mahmood, Fight for Faith and Nation: Dialogues with Sikh Militants, Philadelphia, University of Pennsylvenia Press, 1996; N. Scheper-Hughes, P. Bourgois (eds.), Violence in War and Peace. An Anthropology, Oxford, Blackwell, 2004, p. 27. 21 C.K. Mahmood, Terrorism, Myth and the Power of Ethnographic Praxis, «Journal of Contemporary Ethnography» 30, 5, 2001, pp. 520-545. 22 A. Robben, 1995, op. cit.; F. Dei, op. cit., p. 20; Malighetti, 2008, op. cit. p. 93. Rio de Janeiro. La centralità dei margini 241 ratteristiche tipiche del lavoro antropologico in contesto metropolitano. Tali peculiarità sono rilevanti nella misura in cui rendono più evidenti tratti metodologici della ricerca antropologica tout court. La mia formazione etnografica prettamente urbana suggerisce che fare ricerca in città rende inevitabile un confronto dell’etnografo con l’artificialità della delimitazione del campo di investigazione, ovvero come questo non si dia immediatamente ma sia costruito dalle relazioni e dai percorsi del soggetto investigante. Il contesto metropolitano, inoltre, invita a tracciare, in modo molto evidente, un parallelismo osmotico, quasi un’indistinguibilità, fra il luogo del campo e il luogo del soggetto investigante. La casualità, la flessibilità e incostanza delle reti relazionali, la massimizzazione della diversità, l’esistenza di una pletora di regole informali, il senso di pericolo, la maggior evidenza della relazione stretta fra locale e trans-locale sono caratteristiche che concorrono, come sostiene Hannerz, a dar forma all’eclettismo metodologico in ambito urbano.23 Malighetti. Non attribuisco una specificità generica alla città, categoricamente differente dalle problematiche che investono qualsiasi spazio di ricerca. Il lavoro etnografico è innanzitutto lavoro sui processi di modellizzazione per comprendere le realtà.24 Da questa prospettiva mi interessano maggiormente le questioni che pertengono alla rete non alla realtà, come direbbe Wittgenstein, agli ob-jectum in quanto prodotti di processi di oggettivazione.25 In un’ottica di superamento delle dicotomie del discorso della modernità (modernità e tradizione, comunità e società, società semplici e complesse, stazionarie e dinamiche, solidali e meccaniche, fredde e calde, aperte e chiuse, ecc.) e delle concezioni dell’antropologia come scienza nata e sviluppatasi in ambito urbano riflettendo su forme e saperi non urbani, si può parlare dello studio della città come capitolo fondamentale di un’antropologia critica della modernità, tradizione che ha definito l’apparato scientifico disciplinare in modo univoco e totalizzante, sottraendolo all’analisi, così come l’occhio si sottrae al23 U. Hannerz, Exploring cities, New York, Columbia University Press, 1990, trad. it. Esplorare la città, Bologna, il Mulino, 1992. 24 S. Borutti, Filosofia delle scienze umane, Milano, Bruno Mondadori, 1999; R. Malighetti, 2008, op. cit. 25 Ibidem, pp. 16-19. 242 R. MALIGHETTI, R. LAZZARINO lo sguardo.26 Rifiutando le limitazioni della disciplina allo studio delle società “premoderne” e “pre-urbane”, l’antropologia ha trasformato la stessa modernità in oggetto di scienza. Condivido, dunque, la definizione di Kluckhohn, ripresa da Remotti, dell’antropologia come il “giro più lungo” e contemporaneamente “la via più breve per tornare a casa” e la vocazione comparativa e trasversale della disciplina che investe qualsiasi tipo di società, quindi anche quelle urbane o maggiormente industrializzate.27 Lazzarino. Nell’apertura che contraddistingue il sistema urbano di Rio de Janeiro in cui la favela, la struttura del narcotraffico, l’azione del CCAP e il ricercatore si danno come luoghi/ soggetti28 che si compenetrano, la soggettività dell’antropologo è crocevia mobile attraverso cui leggiamo il senso dell’investigazione, consustanziale e coincidente con il terreno di ricerca, che progressivamente si costruisce. Essa è colta come luogo poroso e processuale, i cui tragitti, tracciati attraverso gli spazi urbani, sono immediatamente interazioni creatrici di luoghi significati. La città di Rio de Janeiro che emerge attraverso i tuoi spostamenti spaziali e il tuo tessuto relazionale entra nell’investigazione non in maniera puramente scenografica. Gli spazi urbani che vivifichi al momento di attraversarli e significarli si fanno luoghi che straripano la delimitazione spaziale architettonica, pur restandone ancorati, per connettersi a reti più ampie 26 P. Feyerabend, Against method, New York, New Left Books, 1975, trad. it. Contro il metodo, Milano Feltrinelli, 1979; B. Latour, Somme-nous postmodernes? Non, amodernes! Etapes vers une anthropologie de la science, in I. U. E. D., La pensée métisse, Paris, Puf, 1990; M. Manganaro, Modernist Anthropology, Princeton, Princeton University Press, 1990; F. Remotti, A ritroso, verso la modernità, «Etnoantropologia» 1 (1993), pp. 13-34. 27 C. Kluckhohn, Mirror for man, New York, McGraw-Hill, 1949, trad. it. Lo specchio dell’uomo, Milano, Garzanti, 1979; F. Remotti, Noi primitivi. Lo specchio dell'antropologia, Torino, Bollati Boringhieri, 1990. 28 Il termine luoghi/soggetti è usato per sottolineare la co-appartenenza dei due termini e la dinamicità processuale che li contraddistingue. Permette di affermare che senza interazione non vi è luogo e che le interazioni si danno sempre in una cornice spaziale, cornice che individua inevitabilmente dei luoghi. Il binomio è stato inoltre formulato per designare gli attori sociali colti in una dimensione spaziale inscindibile da quella personificata di soggetti attivi. Sia l’antropologo, sia la favela, così come la cooperazione, il narcotraffico e la città possiedono una corporeità mobile, metastatica e porosa, un’agentività e un ruolo. Rio de Janeiro. La centralità dei margini 243 di traffici di soggetti, di organizzazioni, di retoriche e di significati. Le pratiche dello studioso disegnano un tragitto, topografico e semantico insieme, che, incrociando altre pratiche, attori sociali, circuiti, e discorsi, li rende visibili e ne disinnesca il silenzio. Malighetti. La nozione di "campo", nella sua valenza polisemica non denota un contenitore generico, asettico e neutrale, una realtà che esista indipendentemente dalle relazioni fra antropologo, contesto e interlocutori. Piuttosto, il campo è essenzialmente il luogo simbolico di costruzione di senso, ciò che determina le caratteristiche specifiche di un'esperienza condivisa.29 Questo terreno comune all'antropologo e agli interlocutori si fonda su un’interazione intersoggettiva e pragmatica, caratterizzata da propri rituali interattivi. In tal senso la mobilità e il multiposizionamento del ricercatore fanno parte integrante di un processo semantico di interpretazione del mondo.30 L’esperienza di ricerca implica una complementarietà fra il linguaggio e il proprio essere-nel-mondo, come anche fra riflessività e riflettività.31 Da questa prospettiva – come afferma Tassan a proposito dello studio della natura – il movimento conoscitivo nello spazio, che Ingold chiama ambulatory knowing o knowledge ambulating, assume valore metodologico, produttivo di luoghi pratici soggettivamente esperiti.32 Questo modo di intendere l’etnografia si può applicare a tutto il lavoro di ricerca, sul campo o in campagna, in città o in improbabili comunità isolate. Lazzarino. L’“enunciazione pedonale” che si afferma come atto locutorio e spaziale insieme, assume una dignità metodologica pari a quella che il racconto personale possiede nella scrit29 S. Borutti, 1999, op. cit.; U. Fabietti, Antropologia culturale: l'esperienza e l'interpretazione, Roma Bari, Laterza, 1999. 30 G. Marcus, Ethnography through the Thick and the Thin, Princeton, Princeton University Press, 1998. 31 T.J. Csordas, Incorporation and cultural phenomenology, in G. Weiss G., F.H. Haber, Perspectives on embodiment. The intersection of nature and culture, London, New York, Routledge, 1999, pp. 143-162, trad. it Incorporazione e fenomenologia culturale, «Annuario di Antropologia», 3 (2003), pp.19-42. 32 M. Tassan, Le identità della natura. Alcune questioni teoricometodologiche nello studio antropologico della natura, «I Quaderni del CREAM», VIII (2008), pp. 93-135; P. Bourdieu, Science de la science et réflexivité, Paris, Éditions Raisons d’agir, 2001; T. Ingold, The perception of the environment, London, New York, Routledge, 2000, p. 230. 244 R. MALIGHETTI, R. LAZZARINO tura etnografica.33 Quest’ultimo, afferma Pratt, «media la contraddizione, interna alla disciplina, tra l’autorità personale e l’autorità scientifica».34 Analogamente, il camminare attualizza alcune possibilità e interdizioni organizzate dall’ordine spaziale, facendole essere oltre che apparire, dislocandole e inventandone di nuove. Crea discontinuità e, indicando “un’appropriazione presente” di tipo conoscitivo-esperienziale «dello spazio attraverso un io, ha altresì come funzione quella di porre l’altro di fronte a questo io e di creare così un’articolazione congiuntiva e disgiuntiva di luoghi».35 Il racconto personale e l’arte euristica del flâneur36 si collocano entrambi su un confine, un limite creativo di de-oggettivazione e de-soggettivazione. È l’attraversamento transliminale ermeneutico dell’atto conoscitivo. La contingente e provvisoria delimitazione di un terreno di ricerca coincide con i tragitti compiuti dai passi dell’antropologo e con il percorso di costruzione di una posizione e di un vissuto attraverso il gesto scritturale del diario. Malighetti. La complicità ontologica, il vincolo di affinità o di coappartenenza37 che lega l'interprete e ciò che interpreta può comprendere l’ordine spaziale. La condizione del lavoro sul campo è fondamentalmente relazionale e solo superficialmente osservativa, condotta from the door of one’s tent. La marginalità o l’estraneità dell’etnografo non è semplicemente una prospettiva passiva e sicura posta sul confine fra culture. Al contrario è lo spazio liminale dove il processo di formazione della conoscenza antropologia accade. Sul campo l’antropologo e l’informatore partecipano ad una working fiction in cui condividono un mondo di significati che potrebbe crollare in ogni momento e invitare gli interlocutori a pensarsi come abitanti di mondi separati e reciprocamente escludentisi.38 In tal senso la situazione del 33 M. De Certeau, L’invention du quotidien, Paris, Gallimard, 1990, trad. it L’invenzione del quotidiano, Roma, Edizioni Lavoro, 2005. 34 M.L. Pratt, Fieldwork in common places, in Clifford e Marcus, 1986, op. cit. pp. 27-50, trad. it Ricerca sul campo in luoghi familiari, in J. Clifford, G.E., Marcus (a cura di) Scrivere le culture, Roma, Meltemi, 1997, pp. 33-80. 35 M. De Certeau, 2005, op. cit., p. 153. 36 W. Benjamin, Das Passagenwerk, Frankfurt an Main, Suhrkamp, 1983, trad. it. Parigi, capitale del XIX secolo, Torino, Einaudi, 1986. 37 H.G. Gadamer, 1965, op. cit. 38 C. Geertz, Islam Observed. Religious Development in Morocco and Indonesia, Chicago, University of Chicago Press, 1968, trad. it. Islam. Ana- Rio de Janeiro. La centralità dei margini 245 campo perde quella sua connotazione scientistica di laboratorio di “produzione della verità”,39 e diventa inevitabilmente “ironica”.40 Riflette e modella la convinzione che tutte le concettualizzazioni sono limitate, che la costruzione del fatto etnografico è qualche cosa di dinamico, parziale e contingente e, quindi, che ciò che è socialmente riconosciuto come verità è intrinsecamente contestuale, instabile e contraddittorio.41 1. Eccezione e territorio Malighetti. La favela è oggetto di stereotipi egemonici che lavorano congiuntamente e in modo apologetico, alla marginalizzazione delle vite dei favelados. Sono alimentati dalle immagini di violenza che la identificano come un mondo a parte, confinato geograficamente e simbolicamente, dominato da poteri paralleli. Queste rappresentazioni che attribuiscono alle favela l’epicentralità di tutte le forme di violenza della città, legittimano, identificandola in termini discreti, la giurisdizione del narcotraffico come anche la repressione violenta e il superamento dei principi del diritto da parte delle forze ufficiali dello Stato. La combinazione fra restrizioni materiali essenziali, l’implementazione di politiche pubbliche speciali, la criminalizzazione del territorio, la demonizzazione della povertà e la violenza esercitata dai poteri armati costituiscono dispositivi di confinamento e di apartheidizzazione delle favelas, come territori di eccezione.42 lisi socio-culturale dello sviluppo religioso in Marocco e in Indonesia, Brescia, Morcelliana, 1973, pp. 151-154. 39 B. Pulman, Pour une histoire de la notion de terrain, «Gradhiva» 5 (1986), pp.21-30. 40 M.J. Fischer, Ethnicity and the Post-Modern Arts of Memory, in J. Clifford, G.E. Marcus (eds.), Writing Culture, The Poetics and Politics of of Ethnography, Berkley, University of California Press, 1986, trad. it. Scrivere le culture, Roma, Meltemi, 1996, pp. 315-348; M. Crick, An Essay in Street-Corner Anthropology, in Anthropology and autobiography, in J. Okely, H. Callaway (eds.), Anthropology and autobiography, London Routledge, 1992, pp. 175-192. 41 R. Malighetti, 2008, op. cit. 42 L. Brasil Bueno L. E. Campos, J.L. Madureira Santos, F.L. Monteiro Soares, C. Moura Lima, M. Oliveira, D. Soares, R., Souza, Território de Exceção enquanto Limite e Possibilidade para a Gestão Democrática em 246 R. MALIGHETTI, R. LAZZARINO Lazzarino. La costruzione della favela come “isolato etnico”, appiattito su un omogeneo stile di vita criminale sostenuto dai media e dallo Stato, è un dispositivo di confinamento strategico della violenza e di riduzione della realtà sociale favelada a una criminalizzazione indiscriminata che si vorrebbe circoscrivere e contenere. Questo iconismo che stigmatizza, territorializza e omogeneizza è funzionale a un’oggettivazione alienante di ciò che si vuole rendere estraneo.43 La violenza di queste raffigurazioni stereotipate funge da dispositivo di confinamento, destoricizzando e depoliticizzando. Analogamente a quanto avviene nei campi profughi, le favelas sembrano condannate a un’ossimorica provvisorietà permanente.44 Rispetto ai contesti di rifugismo, però, qui non è la macchina dell’umanitario a perpetuare un’eccezionalità territorializzata, bensì l’esercizio della violenza da parte del narcotraffico e della polizia, alimentata dalla sua rappresentazione mediatica ufficiale. Tale violenza radica le vite di milioni di persone a un territorio che restituisce unicamente casualità e precarietà, non solo in termini infrastrutturali, ma anche in quelli ancora più concreti e politici di sopravvivenza. Malighetti. La situazione è caratterizzata dai conflitti con armi da guerra fra gruppi di narcotrafficanti che controllano il territorio e fra i narcotrafficanti e le forze di polizia. In generale, i numeri delle vittime della violenza sono comparabili a quelli dei conflitti più conosciuti che mobilitano l’apparato emergenziale degli organismi nazionali e internazionali.45 I diversi gruppi criminali esistenti (Comando Vermelho, Terçero Comando; Amigos dos Amigos) sono fra loro in competizione per accaparrarsi fette di mercato con la forza del proprio arsenale militaFavelas da Cidade do Rio de Janeiro, in Moura Lima C., Brasil Bueno L., Território, Partecipaçao Popular e Saúde: Manguinhois em debate, Rio de Janeiro, Fundação Oswaldo Cruz, 2010, pp. 37-50. 43 D. Defert, La violence entre pouvoirs et interprétations dans le ouvres de Michel Foucault, in F. Héritier, De la violence, paris, Ed. Odile Jacob, 1996, pp. 89-121, trad. it. La violenza tra poteri e interpretazioni nelle opere di Michel Foucault, in F. Héritier, a cura di, Sulla violenza, Roma, Meltemi, 2005, pp. 72-98. 44 F. Rahola, Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell’umanità in eccesso, Verona, Ombre Corte, 2003. 45 D. Dowdney, A criança do trafico, Rio de Janiero, 7 Letras, 2003, pp. 80-119; Malighetti 2005, op. cit. p. 28. Rio de Janeiro. La centralità dei margini 247 re.46 Il controllo del territorio è fondamentale ai fini del profitto: un territorio più ampio significa più punti vendita, più popolazione passibile di estorsione e più consumatori dei servizi monopolizzati dal crimine. Gli spazi vengono difesi e marcati con l’imposizione di ostacoli fisici costruiti dai gruppi criminali, rimozioni da parte della polizia, e altre forme varianti di appropriazione dei territori. L’unico ingresso a Manguinhos era controllato da queste macchine da guerra47 attraverso una pesante colonna di metallo da sollevare e ricollocare in modo da impedire il libero flusso di entrata e uscita. Lazzarino. I diari mostrano come lo stato di guerra quotidiana strutturi l’ordinario intorno alla pratica e alla prospettiva della violenza e della violazione. Il terrore, provocato dalla pervasività e imprevedibilità della violenza e della morte, «oscura in modo sistematico i confini tra gli spazi e i tempi della guerra e quelli della pace».48 Analogamente alla situazione dei ghetti neri americani descritta da Wacquant,49 la “depacificazione della vita quotidiana e il deterioramento dello spazio pubblico” sono gli aspetti più drammatici della favela. Anche nel ghetto, l’omicidio è fra le prime cause di mortalità e la violenza endemica della polizia, oltre alla sua incapacità di garantire protezione, contribuisce a creare una condizione di violenza e paura generalizzata. Malighetti. Il potere generativo della violenza si radica nella vita sociale e nelle istituzioni in termini anche microfisici e invi46 Il narcotraffico presenta una struttura gerarchica ben definita, capillare sul territorio. Alla base vi sono le sentinelle (fulgeteros e olheros) che costituiscono il livello di entrata nel giro. Non armati, avvisano, utilizzando lo scoppio di petardi (fulguetes), dell’arrivo della Polizia o di gruppi nemici. Ad un livello superiore ci sono i venditori (vapores per la loro rapidità a dileguarsi) alle bocas da fumo, piazzatte dove vendono direttamente cocaina e marijuana. Successivamente la sicurezza (segurança), soldati di 12-16 anni, armati; il gerente local (direttore locale) un giovane che gestisce lo smercio della droga e i suoi prezzi; il gerente geral (direttore generale) che amministra la droga, i profitti, e paga i livelli inferiori; il dono (proprietario) della favela che può comandare più favelas, e infine il Chefe (capo) del comando che comanda vari donos e varie favelas. 47 G. Deleuze, F. Guattari, Mille Plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Paris, Edition de Minuit, 1980, trad. it. Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Roma, istituto della Enciclopedia Italiana, 1987. 48 A. Appadurai, Sicuri da morire. La violenza nell’epoca della globalizzazione, Roma, Meltemi, 2005, p. 87; A. Mbembe, 2003, op. cit.. 49 L. Wacquant, 2008, op. cit. 248 R. MALIGHETTI, R. LAZZARINO sibili. Produce relazioni sociali, pratiche, economie, politiche, habitus, organizza la vita della comunità, diventa il nomos dello spazio politico, soprattutto laddove il potere pubblico è presente solo nelle sue forme perverse.50 L’esercizio indiscriminato della violenza omologa polizia e narcotraffico, rendendoli sovrapponibili, ugualmente temibili e collusi. Unica forma della presenza statale, le forze dell’ordine radicano e accreditano presso la popolazione la concezione delle istituzioni come poteri arbitrari, corrotti e violenti. Adottano pratiche di esecuzioni sommarie e aggressioni agli abitanti, promuovendo un clima di terrore congruente con le proprie strategie di concussione. Le forme di corruzione includono la compravendita di armi, lo scambio di prigionieri e cadaveri, la suddivisione del profitto del narcotraffico e di altri beni del patrimonio pubblico e privato. Lazzarino. L’interventismo militare del potere pubblico soddisfa una società civile ansiosa di punizioni esemplari che non superano la soglia dell’emergenza e dell’eccezionalità. Di fronte alla spettacolarizzazione della violenza prevalgono la condanna e lo scandalo con un effetto di depoliticizzazione immediata. La violenza rumorosa va ridotta, non interrogata. Questo contribuisce all’aumento della violenza, consegnando la favela alle attività delle bande criminali. La favela oscilla fra eccezionalità rappresentazionali interne ed esterne che vivono nel paradosso di essere quotidiane, basate sull’esercizio della violenza come strumento pervasivo ed efficace di territorializzazione. In questo senso, la violenza, in quanto pratica e discorso, può essere configurata come dispositivo egemonico e ideologico capace di radicare, circoscrivere e ordinare. Malighetti. L’apparato extra ordinem delle leggi speciali nei confronti delle favelas produce una sovranità definibile, come sostiene Carl Schmitt, come il potere di sospendere legalmente 50 A. Mbembe, Necropolitics, «Public Culture», 15,1 (2003), pp. 11-40, trad. it. Necropolitiche “Antropologia” 9-10 (2008), p. 51; L. Wacquant, Décivilisation et démonisation; lamutation du ghetto noir américain, in C. Fauré, T. Bishop, a cura di, L’Amerique des français, Paris, Edition François Bourin, 1992, pp. 103-125, trad. it Decivilizzazione e demonizzazione. Il rifacimento del ghetto nero in America, in «Antropologia», 9-10 (2008), pp. 83-112; P. Bourgois, Sofferenza e vulnerabilità socialmente strutturate. Tossicodipendenti senzatetto negli Stati Uniti, «Antropologia», 9-10 (2008), pp. 113-135. Rio de Janeiro. La centralità dei margini 249 la validità della legge e i fondamenti giuridici, esercitando un dominio arbitrario senza alcuna mediazione.51 L’inversione del rapporto tra regola e emergenza finisce con lo standardizzarsi e diventare una modalità consuetudinaria e mobile del contratto sociale.52 Introduce un effetto perverso di continuità e ubiquità dell’emergenza, congruente con le strategie dei poteri che possono trarre profitto dall’universalizzazione di tale stato. I dispositivi emergenziali permettono, inoltre, di trasfigurare i problemi sociali in questioni tecniche legittimate dalla performatività e dall’efficacia e giustificano l’imposizione di norme arbitrarie in maniera totalizzante a discapito di modalità alternative di intervento. Alimentano i meccanismi garanti l’ordine, la stabilità e la sicurezza, estendendo quella che Giorgio Agamben definisce la zona grigia di operazioni militari giustificate come operazioni umanitarie che sottraggono autonomia e libertà agli attori civili.53 Mentre la legge pensa in termini di individui e di società, cittadini e stato, il dispositivo dell’emergenza permette di ragionare in termini di entità astratte, da identificare, censire e quantificare. La dimensione biopolitica evidenzia le drammatiche condizioni giuridico-politiche dei rapporti fra Stato e individui: in nome della sicurezza o dei diritti umani, i cittadini sono trasformati in semplici corpi o nuda vita.54 Lazzarino. Il fatto che sia le rappresentazioni esterne sia le auto-rappresentazioni delle pratiche all’interno di questa arena di attori si articoli secondo la logica del dentro/fuori è frutto di una necessità ordinatrice di contenimento e occultamento delle trans-gressioni e contaminazioni costanti. Malighetti. Come ha mostrato Agamben la relazione di eccezione è una tecnica di governo che esclude mantenendo la relazione con la norma nella forma della sua sospensione.55 È un dispositivo che comprende ciò che lo eccede e, nel contempo, crea 51 C. Schmitt, Die Diktatur; Munchen, Duncker e Humbkot, 1921, trad. it. La dittaura, Roma-bari, Laterza, 1975; G. Agamben, Stato di eccezione, Homo Sacer II. Torino, Bollati Boringhieri, 2003. 52 W. Benjamin, Schriften, Frankfurt am main, Suhrkamp, Verlag, trad. it. Angelus Novus. Saggi e fremmenti, Torino, Einaudi, 1955, p. 79 53 Ibidem 54 G. Agamben, Homo Sacer I. Il potere sovrano e la vita nuda, Torino, Einaudi, 1995. 55 G. Agamben, 1995, op. cit. 250 R. MALIGHETTI, R. LAZZARINO e definisce lo spazio entro cui l’ordinamento assume valore.56 La sua struttura topologica (essere fuori e tuttavia appartenere57) fonda lo statuto della favela nell’essere preso fuori e quindi incluso attraverso la sua stessa esclusione.58 Modella ideologie e pratiche di marginalizzazione e di integrazione sociale parziale e asimmetrica e sostiene profili di cittadinanza limitata. Lazzarino. Secondo lo stesso principio che informa il discorso identitario essenzialista e territorializzante, il paradigma dentro/fuori ha un’utilità strategica molteplice, non ultimo di ordine politico, sia per quei soggetti che decidono di pensarsi dentro, sia per chi decide di appartenere al fuori.59 Lo Stato si sforza di marginalizzare e rinchiudere. Il narcotraffico, nella sua lotta costante per il controllo di territori che fisicamente controlla e circoscrive attraverso l’esercizio concreto del potere, radica la propria identità allo spazio del non-asfalto. La manifestazione violenta del potere concretizza con forza le categorie identitarie. In questo gesto brutale di territorializzazione, incessantemente ribadito, l’identità del narcotraffico si esibisce come immediatamente coincidente e inscindibile da quella della favela. Malighetti. Da un lato, lo Stato accoglie le preoccupazioni di una parte della società brasiliana riguardo al posto che dovrebbe ricoprire l’altra. Come nel caso dei bambini di strada analizzati da Scheper-Hughes, la percezione delle favela risulta da una polarizzazione del timore sociale che usa la svalutazione della vita umana. Invertendo il nesso di vittimizzazione, le classi dominanti richiedono la tutela degli interventi violenti da parte del potere pubblico.60 D’altro canto i narcos ricorrono a forme di violenza esplicita per acquisire un forte grado di agency nella gestione del potere che si realizza per mezzo del terrore e che esprime, in termini foucaultiani, una sovranità fondata sul biopotere di decidere la vita e la morte. Una regolare esibizione di violenza è necessaria per funzionare economicamente e politicamente. C. Schmidt, 1921, op. cit. G. Agamben, 2003, op. cit., p. 48 58 G. Agamben, 1995, op. cit., p. 190. 59 G.A. Spivak, Critique opf Post-Colonuial Reason. Towards a History of the Vanishing Present, Harvard, Harvard University Press, 1999, trad. it. Critica della ragione postcoloniale, Roma, Meltemi, 2004. 60 Scheper-Hughes, 2005, op. cit. 56 57 Rio de Janeiro. La centralità dei margini 251 La violenza estrema e spettacolare è usata per produrre quello che Appadaurai61 ha definito “adesione totale” e che Gourevitch ha descritto, a proposito del genocidio in Ruanda, come “pratica di costituzione della comunità”.62 È una tecnica per “immaginare una comunità”63 che permette di identificare concretamente le astratte categorie identitarie, attribuite a un improbabile idem da governare e, nel contempo, ad un alter come nemico da pseudo-speciare64 e da mutilare: dell’umanità, dei diritti, della cittadinanza, della vita o anche di parti del corpo, esibite come segno tangibile della negazione della sua devianza.65 Il potere totalizzante del narcotraffico usa l’identità come tecnologia di dominio centralizzato e per esercitare una sovranità eugenetica contro le minacce provenienti da fattori esogeni ed endogeni.66 Si impone e supera quello dello Stato ridotto a 61 A. Appadurai, Dead Certainty. Ethnic Violence in the Era of Globalization, «Pubblic Culture» 10, 2 (1998), pp. 225-247. 62 P. Gourevitch, We wish to inform you that tmorrow we will be killed with our families: Stories from Rwanda, New York, Farrar, Status and Giroux, 1998, trad. It. Desideriamo informarla che domani, Torino, Einaudi, 2000, p. 95. 63 R.M. Hayden, Imagined communities and real victims, Selfdetermination and ethnich cleansing in Yugoslávia, «American Anthropologist», 23, 4 (1996), pp. 783-801, trad. it. Comunità immaginate e vittime reali: autodeterminazione e pulizia etnica in Iugoslavia, in F. Dei, a cura di, Antropologia della violenza, Roma, Meltemi, 2005, pp. 145-182; B. Anderson, Imagined Communities. Reflections on the Origins and Spread of Nationalism, London, Verso, 1983, trad. it. Comunità immaginate, Roma, Il Manifesto libri, 1996: A. Appadurai, 1996, op. cit.; R. Malighetti Politiche multiculturali e regimi di cittadinanza in «Foedus», 24 (2009), pp. 37-58. 64 E.H. Erikson, Ontogeny of ritualization in man, London, Philos. Trans Roy. Soc. n. 251, 1966. 65 A. Feldman, Formations of Violence: The Narrative of the Body and Political Terror in Northern Ireland, Chicago, University of Chicago Press, 1991; L.H. Malkki, Purity and Exile: Violence, Memory and National Cosmology among Hutu Refugees in Tanzania, Chicago, University of ChicagoPress, 1995; R.M. Hayden 1996, op. cit.; M. Herzfeld, Cultural Intimacy: social poetics in the Nation-State, New York, Routledge, 1997, trad. it. Antropologia e nazionalismo, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2003; A. Appadurai, 2005, op. cit.; A. Mbembe, 2003, op. cit., p. 71. 66 V.E. Daniel, Charred Lullabies: Chapters in an Anthropology of Violence, University of Chicago Press, Princeton, 1996; R. Desjarlais, A. Kleinman, Violence and Demoralization in the New World Disorder, «Anthropology Today», 10, 5 (1994), pp. 9-12; C. Nordstrom, A different Kind of World Story, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1997; S.J. Tambiah, Leveling Crowds: Ethnonationalist Conflicts and Collective Violence in South Asia, Berkley, University of California Press, 1996. 252 R. MALIGHETTI, R. LAZZARINO potere parallelo a cui è sottratto non solo il monopolio della forza. Tale potere configura strategie che assumono le figure contrastive della chiusura e della minaccia e implicano differenti modalità di katharsis che purifichino dallo sporco interno e dalla contaminazione esterna impedendo il cambiamento.67 La costruzione dell’alter come minaccia comporta il sospetto verso ciò che potrebbe sfuggire al controllo: la polizia e lo Stato, le spie e i collaborazionisti, gli estranei e i devianti, sono considerati sovversivi rispetto al rapporto fra totalità e confine e divengono i primi obiettivi della violenza. Lazzarino. Il dominio è esercitato attraverso un terrore che disegna confini invisibili e profondi nelle interazioni e nei comportamenti, segnando uno degli aspetti dell’ambiguità liminale di una violenza generalizzata dalla guerra fra le gangs che creano – machiavellicamente – compattezza e unione. Tuttavia sembra che il narcotraffico riesca a utilizzare il malessere della popolazione, effetto di una lunga storia di discriminazione, per le sue tecniche di assoggettamento. Dal diario emerge che le motivazioni che portano a entrare nel narcotraffico sono evidentemente anche di ordine sociale. Oltre al fatto che il narcotraffico operi attraverso i legami di parentela, esso promette e impone protezione, appartenenza a una comunità nonché aiuti e benefici concreti. Si sostituisce a un potere pubblico assente nelle sue manifestazioni non violente. Malighetti. La risposta quasi esclusivamente militare da parte dei pubblici poteri e la politica del confronto armato genera un forte odio collettivo verso le forze dell’ordine e contribuisce a spingere i giovani verso le organizzazioni criminali, identificate come mezzo per combattere l’ingiustizia. Giungono a provocare forme di solidarietà e simpatia della popolazione nei confronti dei criminali, considerati meno arbitrari delle Polizie nell’esercizio della violenza. In quelli che i narcos chiamano territori liberi, il traffico esercita potere legislativo, esecutivo e giudiziario, amministra possibilità di lavoro e aiuti economici e gestisce anche il tempo libero con attività ricreative. Recluta i propri membri garantendo un accesso rapido a capitali materiali e simbolici: vestiti, droghe, armi, prestigio, potere e popolarità. Tuttavia, l’accesso a 67 F. Remotti, 1995, op. cit.; A. Appadurai, 2005, op. cit. Rio de Janeiro. La centralità dei margini 253 questi beni è scarso ed effimero, dal momento che non permette di mettere in atto un cambio di vita radicale, accumulare risorse per intraprendere attività lecite. E la prospettiva della morte è molto reale. Lazzarino. I vissuti di rumorosa vita quotidiana di cui parli, possono essere letti come riposizionamenti dei soggetti nei confronti di un regime di violenza territorializzante. Il frastuono della vita quotidiana in favela a cui fai riferimento può essere considerato esteticamente proporzionale alla brutalità assordante dei delitti che vi si consumano. Come se la violenza fosse a tal punto incorporata da insinuarsi nelle onde sonore che penetrano i corpi e li attraversano, ma venisse riconvertita dai soggetti in vitalità. Malighetti. Banditi dai diritti, ostracizzati e discriminati dagli abitanti dell’asfalto, i favelados hanno storicamente trovato in favela spazi di socialità, solidarietà e convivialità. Questo “ordine precario” si fonda su forme di rimozione che permettono di vivere la quotidianità e di “normalizzare” la situazione attribuendo un senso che tuttavia può crollare in ogni istante.68 Produce uno stato di “sdoppiamento del soggetto sociale” che si manifesta anche nella simultanea presenza, negli attori sociali, sia del desiderio, generalmente irrealizzabile, di abbandono delle favelas, sia di un forte adattamento alla vita comunitaria. L’analisi fornita dal piano di sviluppo urbanistico del complesso di Manguinhos, deciso dal potere pubblico federale, indica che gli abitanti della favela, sebbene considerino la paura della violenza il principale motivo per desiderare il cambio di residenza, ritengono, nel contempo, che la calma e la tranquillità del luogo sia il principale motivo per continuare a vivere a Manguinhos. Riporta altresì che il 70% degli abitanti è soddisfatto di risiedere nel luogo.69 68 M. Taussig, Terror as Usual: Walter Benjamin’s Theory of History as a State of Siege, «Social Text», 23 (1989), p. 11; C. Vargas, La quotidianità e la guerra. Violenza statale e parastatale nel conflitto colombiano, «Antropologia», 9-10 (2008), pp. 218. 69 D. Soares, L. Brasil Bueno, E. Campos, J.L. Madureira Santos, F.L. Monteiro Soares, C. Moura Lima, M. Oliveira, R. Souza, Análise Crítica do Diagnóstico do Plano de Desenvolvimento Urbanístico do Complexo de Manguinhos in C. Moura Lima, L. Brasil Bueno, Território, Partecipaçao Popular e Saúde: Manguinhois em debate, Rio de Janeiro, Fundação Oswaldo Cruz, 2010, pp. 17-36. 254 R. MALIGHETTI, R. LAZZARINO 2. Violenza = x Lazzarino. Oltre che un mito naturalizzante il cui significante offusca il significato,70 la violenza appare come un regime di verità produttivo, un biopotere tecnico.71 È il fattore collante che consente, forza ed esalta gli sfondamenti dei confini fra i luoghi/soggetti in questione. Agisce in questo scenario composito e mobile come l’“operatore totemico” di Lévi-Strauss72 o “la casella vuota dell’oggetto = x” di Deleuze.73 Il primo dilata il senso di appartenenza al gruppo tribale ristretto e permette di trascendere le opposizioni. Il secondo consente alle serie di muoversi e di comunicare fra loro, attraversandole e circolandovi continuamente. La violenza non informa e banalmente accomuna i campi, o serie, che si intersecano e respingono, della favela, del narcotraffico, dello studioso e del CCAP. Se questi ambiti, che la violenza, come l’oggetto = x, percorre, «presentano degli spostamenti relativi» l’uno rispetto all’altro, «ciò accade perché i posti relativi dei loro termini nella struttura dipendono innanzitutto dal posto assoluto di ciascuno», in ogni momento, rispetto all’elemento della violenza «sempre circolante, sempre spostato in rapporto a se stesso». La violenza «nella sua ubiquità, nel suo perpetuo spostamento, produce il senso in ogni serie, e da una serie all’altra, e non cessa di spostare le due serie».74 Malighetti. Da questa prospettiva l’analisi della violenza può essere utilizzata per contraddire gli inefficaci tentativi di imporre un ordinamento discreto e segregazionista e la promozione di ideologie e pratiche di marginalizzazione fondate su dualismi semplici (dentro-fuori, centro-periferia, globale-locale). Le stesse forme di criminalità esistenti possono essere considerate l’esito di antiche forme di esclusione da diritti e da servizi che lo Stato non ha mai garantito né realizzato per la maggior parte 70 R. Barthes, Mythologies, Paris, Seuil, 1957, trad. it. Miti d’oggi, Milano, Lerici, 1966. 71 M. Foucault, 1976, La volonté de savoir, Paris, Gallimard, tr. it. La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli 1978. 72 C. Lévi-Strauss, Le totémisme aujourd'hui, Paris, Presses Universitaires de France, 1962, trad.it. Il totemismo oggi, Milano, Feltrinelli, 1964. 73 G. Deleuze A quoi reconnait-on le structuralisme?, in F. Chatelet, Histoire de la philosophie VIII, Paris, Hachette, 1973, trad. it. Lo strutturalismo, Milano, SE 2004. 74 Ibidem, pp. 48-50. Rio de Janeiro. La centralità dei margini 255 della popolazione. La precarietà delle condizioni di vita, l’emarginazione e la povertà appartengono a logiche globali, prevalentemente economiche e politiche, comprensibili come violenza strutturale.75 Fondato sulla tratta degli schiavi, lo sviluppo capitalistico, in quanto tale, si è costruito sulla frontiera fra esclusione e inclusione, garantendo diritti e prosperità a quella parte minoritaria della popolazione che ha accumulato ricchezze e privilegi attraverso lo sfruttamento della maggioranza. Ai contingenti di exschiavi e ai migranti che arrivavano a Rio de Janeiro a cavallo fra i secoli XIX e XX, era di fatto negata la cittadinanza, così come ai protagonisti del consistente flusso migratorio del dopoguerra dalle aree del Nord e Nordest, precipitato delle politiche di sviluppo a favore del Sud.76 Questo esercito industriale di riserva,77 confinato inizialmente nelle parti più alte dei morros (colline) e nelle periferie, svolgeva una funzione necessaria al regime lavorativo, principalmente come mano d’opera a basso costo. Le favelas storicamente hanno svolto un ruolo di ghetto, agglomerazioni dove vivono persone indispensabili al funzionamento della città, integrati economicamente ma impediti all’esercizio della piena cittadinanza. L’esclusione dei diritti prodotta da un inclusione limitata alla forza lavoro e alla sua precaria riproduzione biologica si è successivamente alimentata, come nei casi analizzati da Wacquant o da Bourgois a proposito dei ghetti di Chicago e San Francisco, dell’assenza dello stato sociale e del trionfo del neoliberismo.78 Lazzarino. La violenza strutturale comporta il perpetuarsi della violenza spettacolare dei tiroteios (scontri a fuoco) e di quella invisibile e diffusa che impregna le soggettività. È un tipo di violenza inserita nelle istituzioni e nelle strutture sociali che, pur avendo un ruolo decisivo nella produzione della sofferenza, si sottrae alla facile identificazione di una relazione univoca vittima-carnefice. Essa è anonima perché consustanziale a una 75 P. Farmer, Pathologies of Power. Health, Human Rights and the New War on the Poor, Berkeley, University of California Press, 2003. 76 J. Martins, A sociedade vista do abismo: novos estudos sobre exclusão, pobreza e classes sociais. Petrópolis, Ed. Vozes, 2002. 77 C. Marx, Das Kapital: kritik der politishen ekonomie, Berlin, Dietz, 1867, trad. it. Il capitale, Vol. 1 (2), Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 688. 78 L. Wacquant, 2008, op. cit.; P. Bourgois, op. cit. The Power of Violence in War and Peace, «Ethnography», 2,1 (2001), pp. 5-34. 256 R. MALIGHETTI, R. LAZZARINO configurazione ampia e storicamente determinata di fattori socio-economici. Ancor più efficacemente, Bourgois parla di “sofferenza socialmente strutturata” per accentuarne la genealogia strettamente politica.79 Eppure, come fa notare Vargas in relazione al caso colombiano, non si può separare la violenza strutturale da quella esplicita, esercitata dagli attori armati.80 Malighetti. Le due forme di violenza non sono indipendenti, né circoscrivibili in universi conchiusi e ben delimitati. Le stesse traiettorie del mercato della droga e delle armi pesanti, dominate da cartelli mafiosi internazionali81 o i legami del narcotraffico con settori politico-economci per il controllo delle risorse destinate allo “sviluppo” seguono logiche mercantili ed economico-finanziarie che superano la favela e il livello municipale, e si connettono ai traffici internazionali leciti, compresi quelli della cooperazione. Lazzarino. Il soggetto/luogo favela è invaso, attraversato e costituito da forze transnazionali che lo mettono in relazione sia con i legami spazio-temporali che intrattiene con le proprie condizioni di origine, sia con le arene mobili dei traffici illeciti e leciti, nazionali e internazionali. Il locale e il globale si interfacciano, annodandosi l’uno all’altro per generare eventi concreti e vicini di violenza, che limitano gli spostamenti, creano occlusioni, provocano travasi, determinano luoghi. Secondo una logica neoliberista di integrazione del mercato mondiale, la delimitazione di territori interni corrisponde tout court a fette di mercato globale. La politica di radicamento estremo e di controllo violento del territorio è imbricata con le reti internazionali della droga. L’effetto “butterfly” della globalizzazione si manifesta prepotentemente nel momento in cui gli stili di vita dei paesi più industrializzati determinano la micro-geografia del terrore di territori lontani.82 Malighetti. Anche da un punto di vista prettamente spaziale le favelas di Rio mostrano tutta la loro “centralità”, collocandosi a ridosso delle zone più ricche, come Copacabana, Ipanema, LeP. Bourgois, op. cit. C. Vargas, op. cit. 81 A.C. Torres Ribeiro, Outros territórios, outros mapas. “OSAL “, 16, 2000, pp. 13-27; Bueno Brasil et all. op. cit.; A. Zaluar, O Medo e os Movimentos Sociais “ FASE”( 1995), 66, pp. 24-25. 82 A. Appadurai, 2005, op. cit. 79 80 Rio de Janeiro. La centralità dei margini 257 blon, Barra di Tijuca, dove le classi dirigenti occupano abitazioni-bunker sorvegliate costantemente da polizie private e usano automobili blindate.83 La violenza delle bande criminali e dello Stato invadono costantemente la città, producendo uno stato di sofferenza eticopolitica84 e di paura generalizzata.85 I Comandos costituiscono confederazioni e reti di alleanze in conflitto fra loro e con le forze dell’ordine che penetrano l’asfaltato, attraversano la città e la regione metropolitana. Dagli anni Ottanta, sparatorie nelle aree ricche e balas perdidas (proiettili vaganti) iniziano a diventare comuni, per intensificarsi ancora di più durante la decade seguente. Sono attaccati i supermercati, incendiati gli autobus, negozi, fabbriche, scuole e istituzioni sono obbligate a interrompere le proprie attività, le università sono invase, stazioni della polizia e delle forze armate sono aggredite, con furti di armi. In questo senso il geografo Marcelo Lopes de Souza usa l’espressione fobópole, per designare lo spazio urbano che patisce uno stress cronico a causa della violenza, della paura della violenza e del conseguente senso di insicurezza.86 Anche da questo punto di vista i problemi delle favelas non possono semplicemente venir marginalizzati, ordinati e circoscritti in ghetti separati e dai confini ben definiti e conchiusi. Determinano la quotidianità di tutti i cittadini della metropoli. Soprattutto ne mettono a rischio la sicurezza, codice supremo della vita politica contemporanea, capace di persuadere della necessità di sacrificare le garanzie del diritto in modo manifestamente inefficace ma significativamente congruente con gli interessi dei gruppi di potere. Lazzarino. Operando un ribaltamento della prospettiva che assume l’asfalto, ovvero, la città, la modernità, la razionalità, la pacificazione, come punto di vista privilegiato, la favela non si colloca più dentro la città, bensì la città si fa periferia della favela. La vicinanza fisica, insieme alla lontananza sociale, stri83 Su una popolazione di 5.851.914 abitanti Rio de Janeiro ha 620 favelas con una popolazione di circa 1.092.958 abitanti, pari al 19% popolazione (Instituto Brasileiro de Geografia e Estatística, IBGE 2000). 84 L.F. Baierl, Medo social: da violência visível ao invisível da violência. São Paulo, Editora Cortez, 2004. 85 M.L. Souza, Fobópole: o medo generalizado e a militarização da questão urbana, Rio de Janeiro, Bertrand Brasil, 2008. 86 Ibidem, p.40. 258 R. MALIGHETTI, R. LAZZARINO de al punto da conferire sonorità all’interstizio abissale in cui si genera una violenza che insieme elimina e ricalca le distanze. La violenza tiene insieme due movimenti opposti e inseparabili, che si costruiscono reciprocamente: l’eccezionalità e la pervasività. È evidente che la prima, con i suoi effetti di ghettizzazione, è necessaria a sopportare l’impossibilità di rimuovere la seconda. Malighetti. Sia molti politici che controllano gli interventi statali, sia i gruppi criminali che dominano gli spazi e spesso la cooptazione dei leader comunitari, non hanno alcun interesse a modificare la situazione e trasformare significativamente le relazioni sociali che costruiscono il territorio di Manguinhos. Il loro controllo “liberista” delle forme economiche privatistiche e mercantili si oppone a progetti alternativi a prospettive partecipative e solidali. La violenza nelle favela non configura forme economiche e politiche contrarie allo status quo. Né vi aspira. Da un lato, considerando l’economia-politica del traffico di droga e armi, i profitti e le relazioni fra i grandi finanziatori dell’asfalto, il narcotraffico realizza una forma di capitalismo fondato su brutali modalità di sfruttamento della mano d’opera.87 Dall’altro lato, le strategie del terrore riescono a impedire che le contraddizioni politiche ed economiche strutturali esplodano e a garantire un ordine efficace nel contenere le possibilità di reazione alla condizione di povertà e privazione. Permettono il controllo del territorio, gestiscono le dispute e mantengono uno mondo fondato sull’esclusione includente. A fronte delle drammaticità delle condizioni di sopravvivenza di gran parte della popolazione, c’è da interrogarsi non tanto sulla quantità di violenza, quanto sulle modalità del suo straordinario contenimento. Lazzarino. Il manifestarsi della violenza nelle azioni, nelle pratiche, nei discorsi, negli spostamenti e nelle percezioni degli attori sociali che la agiscono e la subiscono è, come l’oggetto = x, esorbitante il suo posto ed eccedente la struttura. Gli atti di violenza disegnano trincee territoriali, simboliche e psicologiche che determinano la circolazione e il riposizionamento continuo dei luoghi/soggetti. Attraverso gli atti di violenza la favela, il narcotraffico, il CCAP, i corpi e le soggettività vedono sfondati i 87 M.L. Souza, O narcotráfico no Rio de Janeiro, sua territorialidade e a dialética entre ordem e demorde, «Cadernos de Geociências», 13 (1995), p. 166. Rio de Janeiro. La centralità dei margini 259 propri confini ed eccedono il proprio posto: la favela straripa nella città; il narcotraffico comprende ed eccede la favela, entra nell’intimità dell’antropologo, invade la cooperazione, collude con la polizia, si connette a scenari internazionali; il CCAP sta dentro la favela oltrepassandola, oscilla con pragmatici compromessi fra la favela, il narcotraffico e la cooperazione internazionale; il ricercatore si contamina con la favela, con il narcotraffico e la cooperazione, muovendosi attraverso luoghi di interazioni che lo attraversano in modi che non riesce a controllare. Sembra che ognuno si muova nella negoziazione e nell’ambivalenza per accaparrarsi territori reali e simbolici, ampliando incessantemente lo spazio di manovra nelle aree di confine porose ed elastiche, nella necessità di percorrere, evitare e gestire la violenza. La dinamicità, la volontà strategica e il carattere relazionale di ognuno di questi luoghi slabbrano continuamente i confini in giochi e strategie di sottrazioni e appropriazioni geo-simboliche reciproche mai complete. Non sembra esserci in nessun momento corrispondenza totale né separatezza totale, ma legami metaforici e metonimici, che ammettono sostituzioni e condensazioni.88 Nelle pratiche quotidiane, i soggetti e i gruppi sociali si muovono all’interno di quell’interstizio che il principio dentro/fuori riduce a esile barra, lo dilatano rizomaticamente, in protuberanze e amorfismi porosi, con ramificazioni transnazionali e travalicazioni intime. Ciò non significa che vi sia confusione fra queste serie di luoghi/soggetti, ma che semplicemente si creano forme di travaso, passaggi, contaminazioni e transformazioni attivate dalla violenza. Malighetti. Tuttavia è importante riconoscere la centralità delle favelas non solo attraverso la violenza. La loro importanza emerge anche nelle proposte di modelli per pensare le forme di integrazione al di là delle tecniche di governamentalità statale e delle pratiche di “normazione” del narcotraffico. La dinamicità e la centralità di un milione mezzo di abitanti che vive nelle circa 750 favelas di Rio de Janeiro eccede i tentativi di ordinamento eccezionale e le regole di integrazione parziale. Proprio in quan- 88 G. Deleuze, À quoi reconnaît-on le structuralisme?, in Histoire de la philosophie, Idées, Doctrines, vol. 8 – Le XXe siècle, Parigi, Hachette, 1973, pp. 299-335. trad. it. Lo strutturalismo, Milano, Rizzoli, 2001. 260 R. MALIGHETTI, R. LAZZARINO to eccezioni o “precipitato restante” della storia89 “sfuggono senza posa”,90 alle tecniche di governamentalità statale e di “normazione” criminale e offrono la possibilità di superare la gestione marginalizzante delle drammatiche disuguaglianze della società brasiliana. Da un lato, le realtà dei favelados invitano ad analizzare la cittadinanza non astrattamente ma come spazio vissuto91 e processo dialogico92 e quindi attraverso la considerazione delle dinamiche di inclusione ed esclusione inscritte nelle vite dei soggetti e luoghi in cui i diritti vengono negoziati, realizzati o negati. Dall’altro, laboratori di forme di umanità e di produzione culturale, come lo stesso CCAP, interpretano le possibilità aperte ai punti di vista degli esclusi per costruire visioni e pratiche innovative, per pensare e realizzare le economie, per trattare i bisogni fondamentali, per formare gruppi sociali.93 Rifiutano la propria fondazione in termini dicotomici ed essenzializzanti ed esibiscono la complessità e la dinamicità della loro esperienza nelle pratiche della vita quotidiana, sottratte a una singola logica di margine ed articolate in arene in continua effervescenza in cui W. Benjamin, 1955, op. cit. M. Foucault, 1976, op. cit. 91 J. Holson, A. Appadurai, Cities and Citizenship, «Public Cultures», 8 (1996), pp. 187-204. 92 R. Grillo, J. Pratt, The Politics of Recognizing Difference: Multiculturtalism Italian-Style, Farnham, Ashgate Publishing, 2002, trad. it. Le politiche del riconoscimento delle differenze: multiculturalismo all'italiana, Rimini, Guaraldi, 2006. 93 Dall’inizio degli anni Ottanta, il CCAP cerca di stimolare un processo endogeno di cambiamento, sforzandosi di far interagire la popolazione della favela con differenti istituzioni della società civile nazionale e internazionale e a mobilitare le istituzioni. Si adopera per articolare le proposte della società civile locale, ritagliandosi il ruolo di coordinazione delle strutture di base autonome e autogestite, in contrapposizione alle Associazioni degli Abitanti, controllate dal narcotraffico. Articola sinergicamente in un sistema a rete, attività autonome e indipendenti in differenti aree strategiche: economia, educazione, comunicazione, diritto, risparmio e credito. Le attività sono finalizzate a mostrare il potenziale delle attività popolari alternative alle politiche neoliberiste, ad educare i favelados alla cultura del diritto e della cittadinanza, mostrando la possibilità si sottrarne il monopolio al narcotraffico e agli abusi della Polizia, e a realizzare azioni di responsabilità civile contro lo Stato per obbligarlo a mettere in pratica i principi costituzionali. R. Malighetti, 2005, op. cit., pp. 26-34. 89 90 Rio de Janeiro. La centralità dei margini 261 differenti visioni del mondo, interessi e poteri si collegano e si contrappongono.94 Riannodando i fili di una storia interrotta dalla schiavitù, dalla modernizzazione, dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione selvaggia, cercano di superare i fallimentari approcci assistenzialistici, i pericolosi interventi emergenziali e le compassionevoli azioni umanitarie, a favore di iniziative integrate e multisettoriali fondate sul protagonismo e le potenzialità alternative delle risorse umane locali. Si appropriano dello spazio catacretico95 focalizzato su quella dimensione dell’arena sociale in cui i soggetti recuperano i significati, traducendoli e imponendo su di essi i propri segni. La condizione dei favelados può essere considerata paradigmatica non solo per superare le concezioni frammentarie e ghettizzanti delle politiche pubbliche fondate su identità e multiculturalismi96. Invita a considerare come le condizioni dei dannati della terra, dei popoli colonizzati e degli schiavi, dei migranti e dei profughi, dei rifugiati e dei clandestini, degli indigeni e degli indigenti possano rappresentare modelli per interpretare la condizione delle soggettività contemporanee, decentrate e delocalizzate dall’accelerazione dei meccanismi disgregatori e dislocanti della globalizzazione. I loro statuti negativi (senza terra, senza lavoro, senza diritti, senza cittadinanza, sans papiers) fondati sullo scarto fra cittadinanza formale e sostanziale, sono portatori di domande che non si fondano semplicemente sulle politiche del riconoscimento del diritto di essere diversi.97 Impongono la riconsiderazione dei fondamenti della cittadinanza e delle relazioni fra individui, Stato Nazione e forme di potere più o meno occulte che intervengono nella regolamentazione delle vite delle persone. L’analisi delle favelas da un lato evidenzia come i meccanismi dello stato di eccezione e la loro fenomeno94 A. Appadurai, Modernity at Large. Cultural Dimensions of Globalization, Minneapolis-London, University of Minnesota Press, 1996, trad. it. Modernità in polvere, Roma, Meltemi, 2001; J. Clifford, Routes, Harvard, Harvard University Press, 1997, trad. it. Strade, Torino, Bollati Boringhieri, 2001; J.L. Amselle, Branchements. Anthropologie de l'universalité des cultures, Paris, Flammarion, 2001, trad. it. Connessioni Antropologia dell'universalità elle culture, Torino, Bollati Borignhieri, 2001. 95 G. Spivak, 1999, op. cit. 96 R. Malighetti, 2009, op. cit., pp. 37-58. 97 C. Taylor, Multiculturalism, Princeton, Princeton University Press, 1994. 262 R. MALIGHETTI, R. LAZZARINO logia siano divenuti elementi essenziali di tutti gli Stati e serie minacce alla loro tenuta democratica.98 Dall’altro suggerisce forme di cittadinanza che si sviluppano come processo costruttivo e prassi trasformativa: oltrepassando l’acquisizione formale di diritti e principi già definiti, promuovono la partecipazione all’identificazione di nuovi diritti e alla riconfigurazione del sistema economico, politico e sociale. Riferimenti bibliografici Agamben G., Homo Sacer I. Il potere sovrano e la vita nuda, Torino, Einaudi,1995. Agamben G., Stato di eccezione, Homo Sacer II. Torino, Bollati Boringhieri, 2003. Amselle J.L., Branchements. Anthropologie de l'universalité des cultures, Paris, Flammarion, 2001, trad. it. Connessioni Antropologia dell'universalità elle culture, Torino, Bollati Boringhieri, 2001. Anderson B., Imagined Communities. Reflections on the Origins and Spread of Nationalism, London, Verso, 1983 (trad. it. 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