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Karin Slaughter
Tre giorni per morire
romanzo
Traduzione dall’inglese
di Tommaso Tocci
Della stessa autrice abbiamo pubblicato:
L’ombra della verità
Prima edizione: maggio 2012
Titolo originale: Fractured
© 2008 by Karin Slaughter
© 2012 by Sergio Fanucci Communications S.r.l.
Il marchio Timecrime è di proprietà
di Sergio Fanucci
via delle Fornaci, 66 – 00165 Roma
tel. 06.39366384
Indirizzo internet: www.timecrime.it
Proprietà letteraria e artistica riservata
Stampato in Italia – Printed in Italy
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
AIrwyn e Nita.
Per tutto.
Prologo
Abigail Campano era al volante dell’auto, di fronte alla sua
abitazione. Ne osservava la facciata, restaurata quasi dieci anni
prima. La casa era enorme, un ambiente eccessivo per tre sole
persone; specialmente ora che una era in procinto di partire per
il college. Cosa avrebbe fatto quando sua figlia sarebbe stata
lontana, impegnata a costruirsi una vita? Sarebbero rimasti da
soli, Abigail e Paul. Proprio come prima che Emma nascesse.
Il pensiero le procurò una fitta allo stomaco.
La voce di Paul gracchiò dagli altoparlanti dell’auto. Era tornato in linea. «Tesoro, ascolta...» esordì, ma la mente di Abigail
era già altrove. Guardava la casa e pensava alla sua vita. Quando era diventata così asfissiante? Da quanto tempo gli interrogativi più importanti delle sue giornate riguardavano altre persone? Le camicie di Paul saranno pronte da ritirare in sartoria?
A che ora sono gli allenamenti di pallavolo di Emma? L’arredatrice avrà ordinato la nuova scrivania per l’ufficio? Qualcuno si sarà ricordato di portare fuori il cane, o toccherà a lei passare venti minuti a pulire la pipì dal pavimento della cucina?
Abigail deglutì, serrando la gola.
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«Non mi stai ascoltando» disse Paul.
«Sono qui.» Spense il motore. Sentì un clic; le meraviglie
della tecnologia trasferirono la voce di Paul dagli altoparlanti dell’auto al telefono cellulare. Abigail aprì la portiera, riponendo le chiavi nella borsetta. Posizionò il telefono tra spalla
e collo mentre controllava la cassetta della posta. Bolletta della luce, AmEx, la retta della scuola di Emma...
Paul fece una pausa per riprendere fiato. Abigail ne approfittò.
«Se lei non significa nulla per te, perché le hai regalato
un’auto? Perché l’hai portata dove sapevi di poter incontrare
le mie amiche?» Abigail proseguì nelle lamentele mentre percorreva il vialetto, ma ormai non avevano più il significato
profondo delle prime volte. Un tempo si sarebbe chiesta ‘Perché non gli basto?’, mentre ora l’unica domanda era ‘Perché
sei un tale bastardo?’
«Avevo bisogno di staccare un po’» disse Paul. Disco già
sentito.
Affondò la mano nella borsa mentre saliva gli scalini della
veranda. Era colpa sua se lei aveva dovuto lasciare il club, se
aveva saltato la seduta di massaggi settimanale e il pranzo
con le amiche più strette; si vergognava che avessero visto
Paul in compagnia di una ventenne bionda, e che lui avesse
avuto il fegato di portarla nel loro ristorante preferito. Ora
non poteva più farsi vedere da quelle parti.
«Anch’io vorrei staccare, Paul» disse Abigail. «Che ne dici
se stacco un po’? Come ti sentiresti a parlare con i tuoi amici
sapendo che ti nascondono qualcosa, a supplicarli di dirti cosa sta succedendo, per poi scoprire che hanno visto me con un
altro uomo?»
«Scoprirei di chi cazzo si tratta, andrei a casa sua e lo ammazzerei.»
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Perché c’era una parte di lei che si sentiva ancora lusingata
nel sentirgli dire cose del genere? Come tutte le madri di una
ragazza adolescente, aveva imparato a cercare il lato positivo
anche negli affronti più crudeli; ma quello sfiorava il ridicolo.
E poi Paul aveva le ginocchia talmente malandate che a malapena riusciva a portare la spazzatura fino al marciapiede. La
vera sorpresa in tutta questa storia era che fosse riuscito a trovare una ventenne disposta a scoparselo.
Abigail infilò le chiavi nella vecchia toppa di metallo. I cardini emisero un cigolio degno di un film horror.
La porta era già aperta.
«Aspetta un momento» disse come per interromperlo, nonostante Paul non stesse parlando. «La porta è aperta.»
«Come?»
Neanche lui la stava ascoltando. «Ho detto che la porta era
già aperta» ripeté, spalancandola.
«Oh, Cristo. Ha già ricominciato? Dopo solo tre settimane
dall’inizio della scuola?»
«Forse quelli delle pulizie...» Si interruppe quando poggiò
il piede su alcune schegge di vetro. Abigail guardò in basso,
avvertendo un senso di panico freddo e affilato farsi strada alla base della spina dorsale. «C’è del vetro sul pavimento. Ci ho
appena messo i piedi sopra.»
Paul disse qualcosa di incomprensibile.
«Okay» rispose in automatico. Si voltò. Una delle finestre
di fianco alla porta era infranta. Immaginò una mano rompere il vetro e aprire la serratura dall’interno.
Scosse la testa. In pieno giorno? In questo quartiere? Non
potevano invitare più di tre persone senza che la vecchia signora un po’svitata della casa di fronte si lamentasse per il rumore.
«Abby?»
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Si sentiva come in una bolla; i rumori intorno a lei erano attutiti. «Credo che sia entrato qualcuno» disse a suo marito.
Paul reagì di scatto. «Vai via di lì! Potrebbero essere ancora
in casa!»
Lasciò cadere la posta sul tavolo dell’ingresso, guardandosi riflessa nello specchio. Aveva giocato a tennis per due ore. I
capelli erano ancora umidi e la coda iniziava a disfarsi, liberando delle ciocche che andavano a incollarsi alla pelle del collo.
La casa era gelida, ma lei sudava.
«Abby?» urlò Paul. «Vattene subito. Sto chiamando la polizia dall’altra linea.»
Si voltò, aprì la bocca per dire qualcosa – cosa? –, poi notò
le impronte insanguinate sul pavimento.
«Emma» mormorò. Si precipitò per le scale verso la camera da letto di sua figlia.
Arrivata in cima si fermò, paralizzata alla vista dei mobili
rovesciati e dei frammenti di vetro sul pavimento. Il suo campo visivo si restrinse a focalizzare Emma, a terra in una pozza di sangue in fondo al corridoio. In piedi accanto a lei c’era
un uomo, nelle sue mani un coltello.
Abigail rimase impietrita per qualche istante, incapace di
qualunque movimento, senza fiato, con la gola chiusa. L’uomo si mosse verso di lei. I suoi occhi non riuscivano a distinguere nulla; correvano furiosamente dal coltello al corpo di
sua figlia sul pavimento, e viceversa.
«No...»
L’uomo si lanciò verso di lei. D’istinto, Abigail fece un passo indietro. Inciampò e cadde lungo le scale, sentendo le spalle e i fianchi urtare la superficie dura del legno. Dal suo corpo
si levò un coro di dolore. I gomiti colpirono la ringhiera, le caviglie sbatterono contro il muro e una fitta lancinante si impossessò del suo collo mentre cercava di proteggere la testa dagli
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spigoli degli scalini. Rovinò all’ingresso, senza più aria nei
polmoni.
Il cane. Dov’era finito quello stupido cane?
Abigail rotolò sulla schiena, poi si pulì gli occhi dal sangue
e sentì le schegge di vetro conficcate nella nuca.
L’uomo stava scendendo le scale, il coltello sempre saldo
nel pugno. Abigail agì senza riflettere. Iniziò a scalciare quando lo vide scendere l’ultimo scalino. La punta delle scarpe da
tennis colpì tra lo scroto e l’ano. Non il bersaglio che aveva mirato, ma non aveva importanza.
L’uomo vacillò, imprecando mentre cadeva a terra in ginocchio.
Abigail si voltò a faccia in giù e si trascinò verso la porta.
l’uomo le afferrò una gamba, strattonandola con tale violenza da provocarle una scossa acuta di dolore che attraversò la
spina dorsale e si fermò all’altezza delle spalle. Tastò tra i pezzi di vetro sul pavimento per cercare qualcosa con cui colpirlo, ma ottenne soltanto di ferirsi la mano con le schegge appuntite. Scalciò di nuovo, mentre si trascinava verso la porta.
«Ferma» urlò lui, bloccandole le caviglie con entrambe le
mani. «Maledizione, sta’ferma!»
Abigail si fermò, cercando di riprendere il respiro e recuperare lucidità. Le girava la testa, non riusciva a concentrarsi.
Amezzo metro da lei, la porta d’ingresso spalancata affacciava sulla leggera curva del vialetto d’ingresso. Poteva vedere
l’auto parcheggiata sul ciglio della strada. Si voltò verso l’aggressore. Era in ginocchio, con le mani premute sulle sue caviglie per impedirle di scalciare. Il coltello era sul pavimento
di fianco a lui. Aveva occhi neri e sinistri, due blocchi di granito avvolti da palpebre cadenti. L’ampio torace si muoveva su
e giù, spossato. La maglia era zuppa di sangue.
Il sangue di Emma.
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Abigail contrasse gli addominali e scattò verso di lui con le
dita tese, conficcandogli le unghie negli occhi.
L’uomo la colpì violentemente sull’orecchio con la mano
aperta, ma Abigail non vacillò. Continuò a scavare con i pollici nelle sue cavità oculari, sentendole cedere sotto la pressione. Le mani dell’uomo le cingevano i polsi. Era venti volte più
forte di lei, ma Abigail aveva in testa solo l’immagine fugace
di Emma, la posizione innaturale del suo corpo, la maglia sollevata a scoprire i piccoli seni. Era irriconoscibile, la testa ridotta a una massa rossa e informe. Le aveva portato via il viso di
sua figlia. Le aveva portato via tutto.
«Bastardo!» urlò Abigail. Disperato, l’uomo cercava di liberare gli occhi dalle sue dita, facendo forza sugli avambracci fin quasi a spezzarglieli. Abigail gli morse le mani, affondando i denti fin nelle ossa. Lui urlò, ma non mollò la presa.
Stavolta il ginocchio sollevato di Abigail colpì dritto in mezzo
alle gambe. Gli occhi insanguinati dell’aggressore si dilatarono all’improvviso; la bocca si aprì in uno sbuffo di dolore. La
stretta si allentò ma non cedette. Infine l’uomo cadde rovinosamente all’indietro, trascinando Abigail con sé.
In un riflesso automatico, Abigail gli strinse le mani intorno al collo. Sentiva la cartilagine della gola muoversi, gli anelli esofagei piegarsi come plastica scadente. L’uomo serrò la
presa attorno ai suoi polsi, ma i gomiti di Abigail erano ormai
ben saldi. Con le spalle allineate alle mani, premette sul collo
sfruttando l’intero peso del corpo. Lampi di dolore le pervasero le braccia. Le spalle tremavano. Era come avere migliaia
di minuscoli aghi conficcati nelle terminazioni nervose delle
dita. Quando l’uomo provò a parlare, ne avvertì la vibrazione sotto il palmo delle mani. Si concentrò con lo sguardo sul
rosso che gli inondava gli occhi, sulle labbra umide che cercavano di aprirsi, sulla lingua protesa. Seduta a cavalcioni su di
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lui, non si rese subito conto dell’energia con cui l’uomo stava
facendo forza contro le sue cosce per disarcionarla.
Si sorprese a pensare a Paul, alla notte in cui avevano concepito Emma; Abigail ne era certa, sapeva che stavano generando un figlio. Aveva cavalcato Paul nello stesso modo, assicurandosi di trattenere fino all’ultima goccia perché voleva
che suo figlio fosse perfetto.
Ed Emma non era altro che perfetta... Il candore del viso, la
dolcezza dei lineamenti. Si fidava di chiunque, nonostante
Paul le ricordasse sempre di non farlo.
Emma, a terra sul pavimento. Morta. In una pozza di sangue. La maglietta strappata. La sua povera bambina. Cos’aveva dovuto sopportare? Quali umiliazioni aveva dovuto subire per mano di quest’uomo?
Abigail avvertì una sensazione di calore improvviso farsi
largo tra le gambe. L’uomo si era pisciato addosso. La fissò, la
vide, poi i suoi occhi si spensero. Le braccia caddero lungo i
fianchi; le mani schioccarono sulle mattonelle del pavimento.
Il corpo si afflosciò, la bocca aperta.
Abigail riportò il peso sui talloni, fissando l’uomo senza vita davanti a lei.
L’aveva ucciso.
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Primo giorno
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Will Trent diresse lo sguardo fuori dal finestrino per distrarsi mentre il suo capo urlava al telefono di fianco a lui. Amanda
Wagner non era solita alzare la voce, ma la sua lingua era tanto affilata da aver umiliato più di un agente. Altri avevano addirittura mollato un’indagine in corso. Non una cosa da poco,
considerando che la maggior parte dei suoi sottoposti al Georgia Bureau of Investigation erano uomini.
«Siamo all’incrocio tra...» allungò il collo, cercando di scorgere il nome della strada «tra Prado e la Diciassettesima.» Un
breve silenzio. «Potresti anche usare il computer, non credi?»
Scosse la testa, con evidente disappunto nei riguardi del suo
interlocutore.
Will azzardò un suggerimento. «Potremmo continuare a
girare. Magari troviamo...»
Amanda si coprì gli occhi con la mano, poi sussurrò al telefono: «Quanto ci vorrà per sistemare il server?» Sentendo la
risposta, si abbandonò a un sospiro profondo.
Will indicò lo schermo digitale montato nel cruscotto in radica. Quella Lexus aveva più fronzoli e lustrini del cappello
di un clown. «Non hai un navigatore satellitare?»
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Karin Slaughter
Amanda abbassò la mano, ponderando la domanda prima di iniziare ad armeggiare con i comandi sul cruscotto. Lo
schermo non cambiò di una virgola. In compenso, il getto
d’aria condizionata aumentò all’improvviso. Will si lasciò
scappare un sorrisino, immediatamente censurato da Amanda con un’occhiataccia. «Nell’attesa che Caroline trovi uno
stradario potresti cercare il manuale d’uso dell’auto e darmi
una mano?»
Will provò ad aprire il vano portaoggetti, trovandolo però
chiuso a chiave. La cosa riassumeva alla perfezione il suo rapporto con Amanda Wagner. Continuava a metterlo di fronte a
porte chiuse, aspettandosi che lui trovasse il modo di aprirle.
Will non era tipo da rifiutare una sfida; ma gli sarebbe piaciuto,
almeno per una volta, che Amanda gli desse anche la chiave.
O forse no. Chiedere aiuto non rientrava certo tra le sue
abitudini, e Amanda sembrava il tipo di persona che tiene
sempre ben aggiornato l’elenco mentale delle persone che le
devono un favore.
Tornò a guardare fuori dal finestrino mentre Amanda insultava la segretaria, colpevole di non tenere uno stradario
sempre a portata di mano. Will era nato e cresciuto ad Atlanta, ma non gli capitava spesso di andare a Ansley Park. Era
una delle zone più antiche e agiate della città, il luogo in cui,
un secolo prima, avvocati, dottori e banchieri si erano radicati gettando le basi per l’invidiabile tenore di vita degli avvocati, dottori e banchieri di oggi: protetti da una campana di vetro al centro di una delle metropoli più violente del Sud degli
Stati Uniti. In cent’anni, la sola cosa che era cambiata era che
le donne di colore impegnate a spingere i passeggini dei bambini bianchi avevano uno stipendio più alto.
Con le sue rotonde e i suoi viali sinuosi, Ansley sembrava
progettato per confondere, se non addirittura per scoraggiare
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i visitatori. Il quartiere era percorso da vialoni alberati, le case
erano abbarbicate sul colle a guardare il mondo dall’alto in
basso. Parchi con percorsi pedonali e spazi per bambini erano
ovunque. Molti dei vialetti conservavano la pavimentazione
originale a ciottoli. A dispetto della varietà architettonica, le
abitazioni preservavano una matrice comune grazie alle facciate eleganti e ai giardini disegnati. Il motivo, pensò Will, era
che perfino le abitazioni meno lussuose avevano quotazioni
superiori al milione di dollari. Una situazione molto diversa
da quella del suo quartiere, Poncey-Highland, che distava non
più di dieci chilometri. Di sicuro a Ansley non c’erano facciate
sgargianti o comunità per tossicodipendenti.
Davanti a lui, un uomo aveva interrotto la sua sessione di
jogging e stava fissando la Lexus di Amanda. Il notiziario della mattina aveva parlato di livelli di smog da allarme rosso,
esortando la gente a rimanere in casa o in ambienti più salubri. Nessuno sembrava aver recepito il messaggio, nonostante le temperature vicine ai quaranta gradi. Will aveva notato
almeno cinque persone fare jogging da quando erano entrati
a Ansley Park. Erano tutte donne, e rispondevano perfettamente allo stereotipo della giovane casalinga scattante con il
corpo tonificato dal Pilates e la coda sbarazzina.
La Lexus era parcheggiata ai piedi di una collinetta a quanto sembrava molto frequentata. Il viale alle loro spalle era circondato da alte querce che adombravano l’asfalto. Tutti i corridori di passaggio si fermavano a osservare l’auto. In un
quartiere del genere, un uomo e una donna non potevano
starsene seduti in auto molto a lungo prima che qualcuno
chiamasse la polizia. D’altro canto, in un quartiere del genere di solito le ragazzine non venivano nemmeno stuprate e
uccise brutalmente all’interno della propria abitazione.
Riportò gli occhi su Amanda. Teneva il telefono talmente
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premuto contro l’orecchio che Will temette che la plastica potesse spezzarsi in due. Se non l’avesse mai sentita parlare, o se
non fosse stato costretto a sedere in auto con lei tanto a lungo,
l’avrebbe definita una donna attraente. Doveva essere sulla
sessantina. Quando Will aveva messo piede al GBI, dieci anni
prima, c’era molto più pepe e molto meno sale nei capelli di
Amanda; le cose erano cambiate rapidamente in quegli ultimi
mesi. Will non sapeva se dipendesse da problemi personali o
da un’improvvisa latitanza del parrucchiere, ma di certo negli
ultimi tempi aveva cominciato a manifestare i segni dell’età.
Amanda aveva ripreso a premere pulsanti sul cruscotto,
nel tentativo di attivare il GPS. Riuscì soltanto ad accendere la
radio. Will riuscì a distinguere qualche nota di swing prima
che Amanda ripristinasse il silenzio. Poi bofonchiò qualcosa
e premette un altro pulsante, con l’unico risultato di far abbassare il finestrino di Will. Fu investito da un getto d’aria calda
simile a quello che esce da un forno. Lo specchietto retrovisore gli restituì l’immagine di uomo che correva alla fine della salita, tra le foglie agitate dalla brezza mattutina.
Amanda alzò bandiera bianca. «È ridicolo. Siamo la principale agenzia investigativa dello Stato e non riusciamo neppure a trovare questa dannata scena del crimine.»
Will si voltò verso la sommità del colle, la cintura di sicurezza che gli premeva contro la spalla.
«Che fai?» chiese Amanda.
«Da quella parte» rispose lui, indicando un punto alle loro
spalle. I rami degli alberi sui due lati della strada si toccavano,
intrappolando l’asfalto sottostante in un’atmosfera crepuscolare. In quel periodo dell’anno non c’era brezza; il caldo era
implacabile. Quelle che aveva visto non potevano essere foglie in movimento. Erano i riflessi dei lampeggianti di un’auto della polizia che giocavano con le ombre.
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Amanda si lasciò andare a un profondo sospiro, preparandosi a fare inversione. Poi inchiodò all’improvviso, allargando il braccio verso Will come per impedirgli di volare attraverso il parabrezza. Un enorme furgone bianco aveva tagliato
loro la strada ed era sfrecciato via. Il conducente stava ancora
agitando i pugni e gridando oscenità.
«Channel Five» disse Will, riconoscendo il logo dell’emittente locale sulla fiancata.
«Anche loro non scherzano, in quanto a ritardo» disse
Amanda, seguendoli lungo la salita. Svoltò a destra, trovandosi di fronte un’auto di pattuglia che bloccava la successiva svolta a sinistra. La zona pullulava di giornalisti, inviati
da ogni emittente locale e dalla CNN, il cui quartier generale
distava soltanto pochi chilometri. Una donna che strangola
l’assassino di sua figlia sarebbe uno scoop in ogni parte del
mondo, ma il fatto che la ragazza fosse bianca, che i genitori
fossero benestanti e che la famiglia fosse tra le più note e influenti della città donava al tutto una particolare sfumatura
scandalistica. Da qualche parte, a New York, una produttrice cinematografica di terz’ordine doveva essersi già messa
al lavoro sul suo BlackBerry.
Amanda estrasse il distintivo e lo agitò in direzione dell’agente che ostruiva il passaggio. In fondo alla strada c’erano
altre auto di pattuglia e un paio di ambulanze. I portelloni
erano aperti, e le barelle vuote. I paramedici ciondolavano nei
paraggi fumando sigarette. La BMW X5 verde scuro parcheggiata di fronte all’abitazione appariva fuori posto in mezzo a
tutti quei mezzi di soccorso. Alla vista dell’enorme SUV, Will si
chiese dove fosse il furgone del medico legale. Forse si era perso anche lui; non c’era da stupirsene. I dipendenti pubblici
non erano soliti frequentare quartieri come Ansley.
Amanda fece retromarcia per parcheggiare tra due volan-
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ti. I sensori entrarono in funzione non appena toccò l’acceleratore. «Cerchiamo di non perdere tempo, Will. Accetteremo
il caso solo se avremo autorità assoluta sull’indagine.»
Will aveva già sentito almeno due variazioni sullo stesso
tema da quando avevano lasciato il municipio. Il nonno della
vittima, Hoyt Bentley, era un ricco imprenditore edile che si
era fatto molti nemici nel corso degli anni. Aseconda di chi ne
parlasse, veniva descritto come un rampollo dell’alta società,
un amico di lunga data oppure uno di quei loschi signorotti
danarosi che tenevano in pugno la città senza mai esporsi in
prima persona. Qualunque fosse la verità, aveva un portafoglio abbastanza corposo per farsi amici diversi politici. Era
stato lui a chiamare il governatore, il quale aveva telefonato al
direttore del Georgia Bureau of Investigation, che a sua volta
aveva poi assegnato il caso ad Amanda.
Nell’ipotesi in cui l’omicidio avesse fatto anche solo pensare a un lavoro da professionisti, o lasciato intravedere qualcosa di più serio rispetto a un semplice furto finito male, ad Amanda sarebbe stata sufficiente una telefonata per strappare il caso
dalle mani della polizia di Atlanta, come si fa con un giocattolo dalle mani di un bambino. In caso contrario, avrebbe probabilmente lasciato i convenevoli a Will, salutando tutti e puntando la sua auto di lusso verso la centrale.
Amanda inserì la marcia e si accostò all’auto parcheggiata di
fronte a lei. I bip del sensore aumentarono furiosamente. «Se la
ragazza è stata uccisa perché Bentley ha fatto incazzare qualcuno, il caso assume tutt’altra rilevanza.»
Sembrava quasi che ci sperasse. Will comprendeva la sua
eccitazione: risolvere un caso del genere sarebbe stato l’ennesimo traguardo di prestigio per Amanda. Ciononostante, Will
sperava di non arrivare mai al punto di considerare la morte
di una ragazzina come un’opportunità di carriera. Non si era
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fatto neppure un’idea precisa sulla morte dell’uomo; era un
assassino, ma al tempo stesso una vittima. In fondo, in Georgia la gente vedeva di buon grado la pena di morte. Essere
strangolato a Ansley Park era poi così diverso dall’essere legato a un lettino del penitenziario di Coastal mentre ti veniva
iniettata una sostanza letale?
Will aprì la portiera prima che Amanda togliesse la marcia.
L’aria torrida lo colpì come un pugno allo stomaco, e i polmoni gridarono di dolore nel petto. Poi avvertì l’umidità, chiedendosi se fosse quella la sensazione che dava la tubercolosi.
Indossò comunque la giacca, coprendo la fondina agganciata
alla cintura. Per l’ennesima volta, si fermò a considerare l’assurdità di indossare un completo a tre pezzi in pieno agosto.
Amanda lo raggiunse; sembrava immune alla temperatura. Sul vialetto dell’abitazione c’era un nugolo di poliziotti in
uniforme che li osservava mentre attraversavano la strada.
Numerosi occhi si accesero alla vista di Will. «Inutile dirti che
il dipartimento di polizia di Atlanta non stenderà un tappeto
rosso ai tuoi piedi» lo avvertì Amanda.
«Già» convenne Will. Uno dei poliziotti si premurò di sputare a terra al loro passaggio. Un altro, più raffinato, sollevò direttamente il dito medio. Will si incollò sul volto un sorriso posticcio e mostrò i pollici alzati agli agenti per mettere in chiaro
che non c’era rancore.
Fin dal primo giorno del suo mandato, il nuovo sindaco di
Atlanta aveva giurato di estirpare la corruzione dilagante.
Negli ultimi anni aveva lavorato a stretto contatto con il GBI.
Amanda aveva gentilmente scelto Will come volontario per
entrare in quella fossa di leoni, e lui, sei mesi prima, aveva condotto un’indagine che aveva portato al licenziamento di sei
detective e alle dimissioni forzate di uno degli ufficiali più in
vista di Atlanta. L’indagine era legittima – gli agenti facevano
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la cresta sui soldi sequestrati nell’ambito delle operazioni antidroga – ma a nessuno faceva piacere che fosse un estraneo a
lavare i panni sporchi, e Will non si era certo fatto nuovi amici durante l’indagine.
Amanda si era guadagnata una promozione. Will era diventato un reietto.
Si sforzò di ignorare lo ‘stronzo’ sussurrato alle sue spalle,
cercando di concentrarsi sul delitto che li attendeva oltre la curva del vialetto. Il prato era punteggiato di fiori esotici di cui Will
non conosceva il nome. La casa era enorme, con imponenti colonne che sorreggevano la balconata del secondo piano; scalini
di granito conducevano alla porta d’ingresso. Nonostante tutti quegli agenti incazzati, il luogo era davvero notevole.
«Trent» chiamò qualcuno. Will si voltò trovando il detective Leo Donnelly sulla scalinata. Leo era di bassa statura, almeno trenta centimetri in meno rispetto al metro e novanta di
Will. Aveva un’andatura strascicata che ricordava quella del
tenente Colombo, ancora più accentuata rispetto all’ultima
volta che avevano lavorato insieme; l’effetto generale era quello di una scimmia agitata. «Che cazzo ci fai qui?»
Will indicò le telecamere, offrendo a Leo la spiegazione più
plausibile. Tutti sapevano che il GBI avrebbe acconsentito a
gettare un bambino nel fiume Chattahoochee pur di finire in
un servizio nel notiziario della sera. «Ti presento il mio capo,
la dottoressa Wagner.»
«Salve» disse Donnelly con un rapido cenno della testa prima di tornare a concentrarsi su Will. «Come sta Angie?»
«Siamo ufficialmente fidanzati.» Will percepì la gelida intensità dello sguardo di Amanda su di sé. Cercò di smarcarsi
indicando con un cenno la porta aperta. «Cosa ci aspetta?»
«Per te, una fottuta vagonata d’odio, amico mio.» Leo estrasse una sigaretta e la accese. «Meglio che ti guardi le spalle.»
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«La madre è ancora qui?» domandò Amanda.
«Prima porta a sinistra» rispose Leo. «È con la mia partner.»
«Signori, vogliate scusarmi.» Amanda si congedò da Leo
come si farebbe con un membro della servitù. Lo sguardo che
riservò a Will non fu molto più amichevole.
Leo lasciò uscire una linea di fumo dalla bocca mentre la
osservava salire le scale. «Trova sempre il modo di raffreddare l’atmosfera, eh? Cazzo, peggio del ghiaccio secco.»
Will si lanciò in una difesa quasi inconscia, come si fa quando qualcuno esterno alla famiglia se la prende con uno zio disadattato o con una sorella che fa la sgualdrina. «Amanda è
uno dei migliori poliziotti con cui abbia mai lavorato.»
Leo aggiustò il tiro. «Ha un culo niente male per essere una
nonnina.»
La mente di Will tornò a poco prima, al modo in cui Amanda aveva allargato il braccio come a proteggerlo quando stavano per scontrarsi con il furgone. Era stato il gesto più materno che le avesse mai visto fare.
Leo non mollò la presa. «Scommetto che a letto è una furia
scatenata.»
Will cercò di trattenere un brivido, scacciando quel pensiero dalla mente. «Tu come te la passi?»
«La prostata mi fa pisciare di continuo, sono un cazzo di
colino. Non scopo da due mesi e ho una tosse che non mi vuole mollare.» Tossì, come a comprovare le sue parole. Poi si rimise in bocca la sigaretta. «E tu?»
Will raddrizzò le spalle. «Non mi posso lamentare.»
«Certo che no, con Angie Polaski ad aspettarti a casa.» Quando rideva, Donnelly gli sembrava un pedofilo asmatico che
fuma tre pacchetti al giorno. Angie aveva passato quindici
anni alla buoncostume prima di dimettersi per motivi di salute. Leo era convinto che fosse una puttana solo perché si ve-
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stiva come tale sul lavoro. O forse era per via di tutti gli uomini che si era portata a letto nel corso degli anni.
Will sorvolò. «Le porterò i tuoi saluti.»
«Bravo.» Leo lo guardò negli occhi, sottolineando il momento con un lungo tiro di sigaretta. «Qual è il vero motivo
per cui sei qui?»
Will cercò di schivare l’affondo, ben sapendo che Donnelly
sarebbe andato su tutte le furie se il caso gli fosse stato strappato dalle mani. «Bentley ha amicizie altolocate.»
Il sopracciglio dubbioso di Leo si drizzò di scatto. Adispetto dell’abbigliamento trasandato e della fronte da cavernicolo, aveva abbastanza esperienza da saper riconoscere chi non
aveva voglia di rispondere. «È stato Bentley a chiamarvi?»
«Il GBI può intervenire solo su esplicita richiesta del governo o della polizia locale.»
Leo si lasciò andare a una risata roca, accompagnata da un
filo di fumo dalle narici. «Dimentichi i casi di rapimento.»
«E le sale da bingo» aggiunse Will. I ranghi del GBI comprendevano una task force per le sale da gioco dello Stato. Il
tipo di incarico che assegnavano a chi aveva pestato i piedi alla persona sbagliata. Due anni prima, Amanda aveva spedito
Will in esilio sulle montagne a Nord, ad arrestare contadini
che spacciavano metanfetamina. Il quadretto ideale per riflettere sui rischi che si corrono quando si disobbedisce agli ordini di un superiore. Non era difficile prevedere qualche capatina al bingo, nel caso in cui l’avesse fatta arrabbiare di nuovo.
Will indicò la casa. «Cos’è successo?»
«Il solito.» Leo scrollò le spalle. Fece un ultimo tiro di sigaretta, poi la spense sulla suola della scarpa. «La mammina
torna a casa dopo la lezione di tennis e trova la porta aperta.»
Infilò il mozzicone nella tasca della giacca e accompagnò Will
all’interno. «Sale al piano di sopra e trova la figlia morta. Qual-
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Tre giorni per morire
cuno se l’è lavorata per bene.» Indicò la curva della scala sopra le loro teste. «L’assassino è ancora sul posto. Si accorge della mammina, davvero una bella figa, e scoppia una colluttazione. La sorpresa è che è lui a rimetterci la pelle.»
Will studiò l’ingresso appariscente. La porta era a doppia
anta, una chiusa, l’altra aperta. L’apertura nel vetro era parecchio distante dal pomello. Serviva un braccio molto lungo per
raggiungerlo e sbloccare la serratura.
«Animali domestici?» chiese.
«Un labrador color miele più vecchio di me, sul retro. Sordo come una campana. Non si sarà neanche svegliato.»
«Quanti anni aveva la ragazza?»
«Diciassette.»
La parola riecheggiò nell’ingresso. Il profumo di lavanda e
l’olezzo di sudore alla nicotina di Leo si sfidavano per il predominio olfattivo, mischiandosi alla sottile presenza della morte
violenta nell’aria. L’odore più acuto, però, proveniva dal corpo
ai piedi delle scale. L’uomo era sdraiato sulla schiena con le mani sollevate sulla testa, come in un gesto di resa. A pochi passi
da lui giaceva un coltello da cucina di media lunghezza, impugnatura in legno e lama seghettata. Era circondato da frammenti di vetro. I suoi jeans neri erano sporchi di terra e la pelle
del collo mostrava una corona arrossata, segno di strangolamento. Il ciuffo dei baffi sotto al naso sembrava sporcargli il
labbro. Dalle ampie basette sulle guance spuntavano i segni
dell’acne. I lacci sciolti di una delle due scarpe da ginnastica
erano ricoperti di sangue secco. In un curioso contrasto visivo,
una ciliegia danzante faceva bella mostra di sé sulla maglietta
dell’assassino, con il picciolo ripiegato in modo sbarazzino. Il
colore rosso scuro dell’indumento non lasciava intuire in che
percentuali fossero sovrapposte le varie macchie di sangue, sudore e urina.
29
Karin Slaughter
Will seguì lo sguardo dell’uomo fino al lampadario sospeso sul soffitto. I cristalli tintinnavano nella leggera brezza del
condizionatore. Riflessi di luce bianca si rincorrevano sulle
pareti dell’ingresso, riverberando i raggi di sole che penetravano dai vetri che sovrastavano le porte.
«Siete riusciti a identificarlo?» chiese Will.
«Il portafoglio dovrebbe essere nella tasca posteriore, ma
non c’è fretta. Prima di muovere il corpo voglio aspettare che
arrivi Pete.» Si riferiva a Pete Hanson, il medico legale. «Sembra piuttosto giovane.»
«Già» rispose Will. Quel ragazzo non arrivava neppure all’età consentita per comprare alcolici. Amanda aveva sperato
si trattasse di un lavoro su commissione. Ma a meno che i nemici di Hoyt Bentley non avessero a libro paga una squadra
di mercenari dell’università, Will riteneva che il legame fosse
improbabile.
«Violenza domestica?» chiese.
Leo scrollò di nuovo le spalle; era praticamente un tic. «Così sembrerebbe, no? Il ragazzo impazzisce, uccide la fidanzatina, si fa prendere dal panico quando vede la madre e si scaglia contro di lei. Il problema è che questa Campano giura di
non averlo mai visto prima.»
«Campano?» gli fece eco Will, sentendo le budella torcersi.
«Abigail Campano. La madre.» Leo lo scrutò. «La conosci?»
«No.» Will spostò lo sguardo in basso, verso il cadavere,
sperando che la voce non lo tradisse. «Credevo che il cognome fosse Bentley.»
«È quello che aveva da nubile. Il marito si chiama Paul Campano. Ha una catena di concessionarie. Hai presente la pubblicità? ‘Da Campano non diciamo mai di no.’»
«Lui dov’è?»
Squillò un cellulare, e Leo lo tirò fuori dalla custodia aggan-
30
Tre giorni per morire
ciata alla cintura. «Dovrebbe arrivare tra poco. Era al telefono
con lei quando è successo. È stato lui a chiamare il 911.»
Will si schiarì la gola per recuperare la voce. «Sarebbe interessante sapere cosa ha sentito.»
«Tu dici, eh?» Scrutò Will con aria attenta mentre armeggiava con il cellulare. «Donnelly.»
Leo si allontanò, e Will rimase a contemplare l’ingresso, il
cadavere, i vetri rotti. Non c’era dubbio che la colluttazione
fosse stata furibonda. Il pavimento era pieno di sangue, con
due tipi diversi di impronte lasciate dalle suole di gomma
sulle mattonelle color panna. Un tavolino antico giaceva rovesciato, di fianco ai resti di un vassoio in vetro. Un telefono
cellulare aveva l’aria di essere stato calpestato. La posta era
sparpagliata per la sala, e il contenuto di una borsetta da donna era rovesciato poco distante, a completare la confusione.
Nei pressi del muro, una lampada era caduta in piedi come se qualcuno l’avesse delicatamente poggiata al suolo. Una
crepa ne solcava la base e il paralume era inclinato. Will si
chiese se qualcuno l’avesse raccolta oppure se fosse davvero
finita sul pavimento in quella posizione. Si chiese anche se
qualcuno avesse notato l’impronta di un piede nudo di fianco alla lampada.
Seguì con gli occhi la curva della raffinata scala in legno,
notando di nuovo i due diversi tipi di impronte di scarpe da
tennis; non c’era traccia di piedi nudi. I segni sul muro indicavano il punto in cui braccia e gambe avevano urtato la parete
durante la caduta. Doveva essere stata violentissima; Abigail
Campano era di certo consapevole che stava lottando per la
propria vita. Il ragazzo in fondo alle scale, dal canto suo, non
era minuto. I muscoli ben definiti spingevano prepotenti sotto la maglietta rossa. Will immaginò la sua incredulità nell’avere la peggio, mentre esalava l’ultimo respiro.
31
Karin Slaughter
Tracciò una mappa mentale della casa, cercando di orientarsi. Il lungo corridoio ai piedi delle scale conduceva sul retro, verso la cucina e il salotto. Ai lati dell’ingresso c’erano due
stanze, probabilmente pensate in origine per separare gli spazi degli uomini da quelli delle donne. La prima era chiusa da
una porta a scomparsa, mentre la seconda, all’apparenza uno
studio, era aperta. Le pareti erano scure e coperte dalle librerie. Un ampio caminetto conteneva della legna già pronta da
ardere. I mobili avevano la pesantezza del noce. Due sedie in
pelle dominavano l’ambiente. Will immaginò che l’altra stanza fosse l’opposto, con delle belle pareti bianche e un arredamento meno maschile.
Il piano superiore era probabilmente disposto come in tutte
le vecchie case del genere: cinque o sei stanze collegate da un
lungo corridoio a T, con le scale di servizio che portano alla cucina del piano inferiore. In base a quanto visto nelle altre case
della zona, doveva esserci un’ulteriore costruzione sul retro
adibita a garage, con un appartamento ricavato al piano superiore.
Le analisi e le misurazioni necessarie per stilare il rapporto
avrebbero richiesto un lavoro estenuante. Fortunatamente,
non sarebbe toccato a lui.
Will si sentì ulteriormente sollevato di non dover spiegare
come mai l’impronta insanguinata all’ingresso sembrava dirigersi al piano superiore invece di puntare verso la porta.
Leo rientrò in casa, visibilmente infastidito dalla telefonata. «Come se non ci fossero già abbastanza persone a rompermi le palle per questa storia della prostata.» Indicò la scena
del crimine. «Allora, hai risolto il caso oppure no?»
«A chi appartiene la BMW verde parcheggiata di fronte?»
domandò Will.
«Alla madre.»
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Tre giorni per morire
«E la ragazza? Possedeva un’auto?»
«Incredibile a dirsi, una BMW anche per lei. 325, decappottabile. I genitori gliel’hanno tolta a causa del calo del suo rendimento scolastico.» Indicò l’abitazione di fronte. «Una vicina
ficcanaso ha fatto la spia dopo aver notato l’auto nel vialetto
durante l’orario scolastico.»
«Questa vicina ha visto qualcosa anche oggi, per caso?»
«È più vecchia del cane, quindi non sperarci troppo.» Scrollò le spalle, poi concesse: «Ho mandato qualcuno a parlarle.»
«La madre è sicura di non aver riconosciuto l’assassino?»
«Al cento percento. Le ho fatto dare un’altra occhiata al cadavere quando si è calmata. Mai visto prima.»
Will fissò il corpo. I tasselli combaciavano, ma la storia non
aveva senso. «Come è arrivato qui?»
«Non ne ho idea. Forse ha preso l’autobus ed è arrivato a
piedi da Peachtree Street.»
Peachtree, una delle vie più affollate di Atlanta, distava soltanto una decina di minuti. Autobus e treni facevano avanti e
indietro di continuo, in superficie e sottoterra, trasportando
migliaia di persone verso gli uffici e i negozi del centro. Architettare un omicidio così efferato in base all’orario di un autobus poteva non essere la cosa più stupida che Will avesse mai
sentito, ma l’ipotesi comunque non lo convinceva. Si trattava
pur sempre di Atlanta. Gli unici a usare i mezzi pubblici erano
gli ambientalisti e gli spiantati. Il corpo che giaceva di fronte a
lui apparteneva invece a un ragazzino bianco dalla faccia pulita, con dei jeans da trecento dollari e delle Nike da duecento.
Possedeva sicuramente un’auto. Oppure viveva nei paraggi.
«Le pattuglie sono alla ricerca di auto abbandonate» lo informò Leo.
«Sei stato tu il primo detective ad arrivare sulla scena?»
Leo si prese del tempo per rispondere, mettendo in chiaro
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Karin Slaughter
che si trattava di un atto di cortesia. «Sono stato il primo agente in assoluto» disse alla fine. «La chiamata al 911 risale circa a mezzogiorno e mezzo. Io stavo mangiando un panino in
quel locale sulla Quattordicesima. Sono arrivato due secondi
prima della pattuglia. Abbiamo controllato la casa per assicurarci che non ci fosse nessuno, poi ho fatto uscire tutti.»
La Quattordicesima strada era a cinque minuti di distanza
dall’abitazione. Una bella fortuna che il primo ad arrivare fosse un detective in grado di preservare la scena del crimine.
«Sei stato anche il primo a parlare con la madre?»
«Era spaventata a morte, te l’assicuro. Le tremavano le mani, non riusciva a parlare. Ci sono voluti dieci minuti per calmarla e convincerla a raccontarmi tutto.»
«Quindi la situazione ti sembra chiara? Un caso di violenza
domestica tra ragazzini, interrotto dall’arrivo della madre?»
«È per questo che Hoyt Bentley ti ha mandato?»
Will evitò la domanda. «È un caso delicato, Leo. Bentley
gioca a golf con il governatore. Fa parte del consiglio di amministrazione di metà degli enti benefici della città. Non sarebbe più strano se non fossimo qui?»
Leo rispose con comprensione e disinteresse allo stesso tempo. Doveva esserci qualcosa che non lo convinceva in quel delitto, visto che continuava a parlare. «La madre ha riportato
delle ferite, si è difesa. I segni della colluttazione sono evidenti, oggetti rotti dappertutto e muri segnati. E lo stesso vale per
il ragazzo, compresi i morsi sulle dita con i quali la madre ha
cercato di divincolarsi dalla presa. Quanto alla ragazza di sopra... l’assassino se l’è presa con calma. Mutandine abbassate,
reggiseno alzato. Sangue dappertutto.»
«Ci sono segni di colluttazione al piano di sopra?»
«Niente di paragonabile a quanto successo quaggiù.» Fece
una pausa. «Vuoi dare un’occhiata?»
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Tre giorni per morire
Will apprezzò il gesto, ma Amanda era stata chiara. Non
dovevano farsi coinvolgere a meno di chiari indizi che si trattasse di un lavoro professionale. Se Will avesse notato qualcosa al piano di sopra, perfino l’indizio più innocuo, avrebbe
dovuto testimoniare in tribunale.
D’altro canto, Amanda avrebbe compreso la sua curiosità.
«Com’è stata uccisa?»
«Difficile dirlo.»
Will gettò un’occhiata alla porta aperta alle sue spalle. L’aria condizionata lavorava a pieno ritmo per bilanciare l’ondata di calore proveniente dall’esterno. «Hai già fatto le foto in
tutta la stanza?»
«Sì, su entrambi i piani» disse Leo. «Prenderemo le impronte e tutto il resto quando porteranno via i corpi. Soltanto a quel
punto farò chiudere la porta. So che la cosa ti fa incazzare. Sto
cercando di tenere alla larga i visitatori.» Poi aggiunse: «Con
un caso del genere, i ficcanaso non si faranno attendere.»
AWill sembrò una previsione perfino ottimista. Non c’erano segnalazioni di auto sospette nelle vicinanze. A meno che
la teoria di Leo sul trasporto pubblico non si rivelasse esatta,
quel ragazzo doveva essere per forza un residente di Ansley
Park. Stando a quanto già visto in passato, era probabile che
venisse da una famiglia di avvocati. Leo doveva attenersi alle
regole in modo scrupoloso. Sapeva che avrebbe dovuto testimoniare davanti al giudice.
Will riformulò la domanda precedente. «Qual è la causa
della morte?»
«È un vero macello. La faccia sembra un hamburger frullato, c’è sangue dappertutto. Mi stupisco che la madre abbia
potuto riconoscerla.» Leo esitò, accorgendosi che Will voleva
qualcosa di più concreto. «Se vuoi la mia opinione, l’ha picchiata e poi pugnalata a morte.»
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Karin Slaughter
Will guardò ancora una volta il corpo senza vita disteso sul
pavimento. I palmi erano coperti di sangue secco. Non proprio ciò che ci si aspetterebbe in seguito a una colluttazione, o
a un delitto compiuto stringendo un coltello tra le mani. Inoltre, i jeans neri erano macchiati all’altezza delle ginocchia, come se il ragazzo si fosse chinato su una superficie bagnata. La
maglietta era sollevata appena sotto le costole. Si notava un livido che si estendeva fino alla vita.
«La madre è ferita?» chiese Will.
«Ha dei graffi sulle braccia e sulle mani, come ti dicevo. E
un taglio profondo sul palmo causato dai vetri sul pavimento.» Leo proseguì l’elenco: «Diverse contusioni, un labbro
spaccato, sangue nell’orecchio. Forse una distorsione alla caviglia. Credevo fosse rotta, ma a quanto pare riesce a muoverla.» Piegò l’angolo della bocca, rimpiangendo di non trovarci
una sigaretta. «Ho chiamato un’ambulanza, ma non vuole saperne di lasciare la casa finché la figlia non sarà rimossa.»
«Ha detto così? Rimossa?»
Leo bofonchiò una qualche imprecazione mentre estraeva
un taccuino a spirale dalla tasca. Individuò la pagina esatta e
lo porse a Will.
Will si trovò di fronte dei segni indecifrabili. «Cos’è, hai
preso le impronte digitali a una gallina?»
Leo riprese il bloc-notes e lesse ad alta voce. «Non voglio
lasciare mia figlia. Non mi muovo da questa casa finché Emma non sarà fuori di qui.»
Quel nome cominciò a ronzare nella testa di Will. La ragazza stava acquisendo un’identità, non era più una semplice vittima senza volto. Era stata una bambina. Aveva avuto dei genitori che l’avevano tenuta in braccio, protetta, le avevano dato
un nome. E ora l’avevano persa per sempre.
«Cosa ha detto la madre?» chiese.
36
Tre giorni per morire
Leo ripose il bloc-notes. «Mi ha fatto solo un resoconto dell’accaduto. Mi gioco la palla sinistra che era un avvocato prima di farsi ingravidare e mollare tutto per fare la bella vita.»
«Perché?»
«Misura ogni parola con attenzione, è molto cauta. Parecchi ‘sentivo questo’, ‘temevo quello’.»
Will annuì. Le dichiarazioni di autodifesa si basavano unicamente sulla percezione da parte del soggetto di un pericolo
immediato per la sua incolumità. Campano si stava in qualche
modo coprendo le spalle, e Will non poteva sapere se si trattasse di astuzia o sincerità. Osservò il cadavere a terra, i palmi coperti di sangue, la maglietta zuppa. C’era qualcosa che non era
ancora venuto a galla.
Leo mise una mano sulla spalla di Will. «Ascolta, devo avvertirti che...»
Si interruppe quando le porte scorrevoli si aprirono di fronte a loro. Amanda era in piedi vicino a una giovane donna. Alle loro spalle, un’altra donna sedeva infossata su un divano,
con indosso un completo da tennis bianco. La gamba infortunata era poggiata sul tavolino da caffè. Le scarpe da tennis
erano ai piedi del divano.
«Agente speciale Trent» disse Amanda, richiudendo la porta dietro di sé. «Il detective Faith Mitchell.» Amanda squadrò
Leo con aria sospettosa, come fosse un trancio di pesce andato a male. Poi si voltò verso la donna. «L’agente Trent è a sua
disposizione. Il GBI è pronto a collaborare in ogni modo.» Sollevò il sopracciglio in direzione di Will, comunicandogli tacitamente l’esatto contrario. Poi, forse pensando che fosse troppo stupido per afferrare, aggiunse: «Ho bisogno di te in ufficio
entro un’ora.»
Will si aspettava una scena del genere, eppure non seppe
cosa rispondere. La sua auto era parcheggiata davanti all’uf-
37
Karin Slaughter
ficio. Donnelly sarebbe rimasto sulla scena del crimine fino
alla conclusione dei rilievi, mentre gli agenti in uniforme sarebbero stati fin troppo entusiasti di avere a disposizione Will
Trent sul sedile posteriore di un’auto di pattuglia, da solo.
«Agente Trent?» Faith Mitchell sembrava infastidita. Will
temette di essersi perso qualcosa.
«Mi scusi?» chiese.
«Bene...» bofonchiò lei. Will rimase a guardare nel vuoto,
chiedendosi cosa fosse accaduto.
Leo sembrò non aver notato nulla di strano. «La madre ha
detto qualcosa?» chiese alla donna.
«La figlia aveva una cara amica.» Esattamente come Leo,
Faith Mitchell portava in tasca un taccuino a spirale. Scorse le
pagine per cercare il nome. «Kayla Alexander. La madre dice
che possiamo trovarla a scuola. Westfield Academy.»
Will riconobbe il nome di un liceo privato alla periferia di
Atlanta. «Per quale motivo Emma non era a scuola?»
Faith rispose guardando Leo, nonostante fosse stato Will a
fare la domanda. «C’erano già state diverse assenze ingiustificate in passato.»
Will non era certo un’autorità in materia, ma gli sembrava
strano che un’adolescente marinasse la scuola senza la sua
migliore amica. A meno che non lo facesse per incontrare il
suo ragazzo. Osservò di nuovo le scale, rammaricandosi di
non poter salire per esaminare la scena del delitto. «E per quale motivo la madre non era in casa?»
«L’impegno settimanale al club. Di solito rientra dopo le
tre del pomeriggio» disse Faith.
«Quindi, se qualcuno avesse tenuto la casa sotto osservazione, avrebbe saputo che Emma era da sola.»
Faith si rivolse a Leo: «Ho bisogno di una boccata d’aria.»
Varcò la soglia e si fermò sul bordo della veranda con le mani
38
Tre giorni per morire
sui fianchi. Era giovane, appena oltre la trentina, altezza media, bella nel modo in cui ogni donna bionda e magra viene
ritenuta tale; eppure qualcosa le impediva di essere attraente.
Forse era la smorfia perenne sul volto, oppure i lampi di puro odio nei suoi occhi.
Leo bofonchiò delle scuse. «Mi spiace. Ho provato a dirti
che...»
All’estremità opposta dell’ingresso, Abigail Campano era
in piedi sulla soglia, con la gamba piegata per non poggiare il
peso del corpo sulla caviglia malandata. Al contrario di Faith,
c’era qualcosa di radioso nei suoi capelli biondi e nella sua
pelle perfetta, bianca come il latte. Nonostante gli occhi ancora colmi di lacrime e il labbro insanguinato per il colpo ricevuto, era bella.
«Signora Campano» esordì Will.
«Abigail» lo interruppe lei. «Lei è l’agente del GBI?»
«Sì, signora. Le porgo le mie più sincere condoglianze.»
Lo guardò con aria confusa. Probabilmente non aveva ancora elaborato a pieno la morte della figlia.
«Le andrebbe di parlarmi un po’di sua figlia?»
Lo sguardo attonito non accennava a distendersi.
Will provò ancora. «Parlando con il detective Donnelly, ha
detto che sua figlia era stata assente da scuola negli ultimi
tempi.»
Annuì lentamente. «A quanto pare, è riuscita a...» La voce
si spense mentre gli occhi si posavano sul cadavere dell’uomo. «Kayla l’aveva convinta a marinare la scuola l’anno scorso. Non aveva mai fatto nulla del genere. È sempre stata una
brava ragazza, con la testa sulle spalle.»
«Ci sono stati altri problemi?»
«È stato tutto così improvviso, senza motivo.» Le labbra
tremavano mentre la donna cercava di tenere a freno l’emo-
39
Karin Slaughter
zione. «Ha iniziato a essere scontrosa, a stare per conto suo.
Voleva crescere in fretta, mentre noi volevamo la nostra bambina.»
«Oltre a Kayla, Emma aveva altre amiche? Un ragazzo?»
Abigail scosse la testa, le braccia cinte al corpo. «Era così timida. Non era facile per lei fare nuove amicizie. Non so come
sia potuto succedere.»
«Kayla ha fratelli?»
«No, è figlia unica.» La sua voce ebbe un fremito. «Come
Emma.»
«Saprebbe fare il nome di altri ragazzi frequentati da sua figlia?»
«Erano soltanto conoscenti. Emma sceglieva sempre una
persona in particolare per...» La voce sfumò. «Non c’era nessun altro oltre a Kayla.» Il tono era convinto e definitivo. Era
così sicura della solitudine di sua figlia che Will non poté fare
a meno di condividere una punta della sua tristezza. Sperava
che Leo avesse già pensato a come contattare questa Kayla. Se
era davvero così importante per Emma come sosteneva sua
madre, c’erano buone probabilità che ne sapesse più di chiunque altro su quanto avvenuto in quella casa.
«C’è qualcuno che potrebbe avercela con lei o con suo marito?» chiese Will.
Abigail scosse il capo, ancora impietrita dalla vista del corpo senza vita nel suo ingresso. «È successo tutto così in fretta. Continuo a pensare a ciò che ho fatto... a cos’altro avrei potuto...»
«So che questa domanda le è già stata posta, ma è certa di
non conoscere quell’uomo?»
Abigail chiuse gli occhi, ma Will immaginò che non le sarebbe bastato a togliersi dalla mente l’assassino di sua figlia.
«No» rispose alla fine. «Non l’ho mai visto.»
40
Tre giorni per morire
All’improvviso, dal vialetto giunsero le urla di un uomo.
«Levatevi di mezzo, cazzo!»
Dopo un breve tafferuglio e qualche esortazione a fermarsi, Paul Campano piombò sulla veranda come inseguito dalle fiamme. Scostò Faith Mitchell dalla sua traiettoria e fece irruzione in casa. Un agente in uniforme riuscì ad afferrare la
detective, che aveva perso l’equilibrio pericolosamente vicina
al limite della veranda. Entrambi avevano l’aria di essere tutt’altro che contenti, ma Leo suggerì loro di lasciar perdere con
un gesto della mano.
Paul si parava di fronte a loro con i pugni serrati. Will si
chiese se fosse un tratto genetico; se le persone si dividessero
tra chi serra i pugni di continuo e chi non lo fa mai.
«Paul...» sussurrò Abigail, correndogli incontro.
I pugni di Paul rimasero serrati anche mentre abbracciava
la moglie. Faith era su tutte le furie, e la sua voce non faceva nulla per nasconderlo. «Signor Campano, sono il detective Mitchell, del dipartimento di polizia di Atlanta. Questo è il detective Donnelly.»
Paul non mostrò alcun interesse per quelle presentazioni.
Fissò il corpo senza vita alle spalle di sua moglie. «È quello il
bastardo?» La sua voce si tramutò in un ruggito. «Chi è? Cosa ci fa in casa mia?»
Faith e Leo si scambiarono un’occhiata fugace che Will non
avrebbe notato se non li avesse osservati a lungo. Lavoravano
in coppia. Era evidente che condividessero un linguaggio, e
quella volta era stata Faith a fare buon viso a cattivo gioco.
«Signor Campano, perché non andiamo a parlarne fuori?»
suggerì lei.
«E tu chi cazzo sei?» disse Paul quando vide Will. I piccoli
occhi tondi sembravano sul punto di essere inghiottiti dalla
carne in eccesso sul suo volto.
41
Karin Slaughter
La domanda non avrebbe dovuto cogliere Will di sorpresa, così come il modo in cui era stata posta. L’ultima volta che
Paul Campano si era rivolto a lui in quei termini, Will aveva
dieci anni ed entrambi erano ospiti dell’istituto Children’s
Home di Atlanta. Da allora erano cambiate molte cose. Will
era cresciuto in altezza, e i suoi capelli si erano fatti più scuri.
Paul, d’altro canto, sembrava essere diventato solo più pesante e pieno di rancore.
«Signor Campano, le presento l’agente Trent, del GBI» intervenne Leo.
Will tentò un approccio delicato, cercando di presentarsi a
Paul come una persona in grado di aiutarlo. «Sa dirmi se sua
figlia aveva dei nemici, signor Campano?»
«Emma?» chiese, continuando a fissare Will. «Certo che
no. Aveva solo diciassette anni.»
«E lei, invece?»
«No» sbottò. «Nessuno oserebbe...» Scosse il capo, incapace di concludere la frase. Guardò il cadavere dell’assassino.
«Chi è quel bastardo? Cosa può avergli mai fatto Emma?»
«Qualunque indizio potrebbe esserci di aiuto. Magari lei e
sua moglie potreste...»
«È lassù, vero?» lo interruppe Paul, alzando gli occhi. «La
mia bambina è al piano di sopra.»
Nessuno osò rispondere, ma Leo si mosse discretamente
verso le scale per impedirgli l’accesso.
«Voglio vederla» disse Paul.
«No» intervenne Abigail con voce tremante. «Meglio non
vederla in quelle condizioni, Paul. È meglio non sapere.»
«Devo vederla.»
«Dia retta a sua moglie, signore» disse Faith in tono persuasivo. «Potrà vederla a breve. Ma per ora dovrà lasciar fare
a noi.»
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Tre giorni per morire
«Levati di mezzo» intimò Paul in direzione di Leo.
«Signore, non credo che...»
Leo fu investito in pieno dalla sua carica rabbiosa. Paul lo
scaraventò contro il muro e si precipitò su per le scale. Will gli
corse dietro, quasi investendolo quando Paul si arrestò di colpo sul pianerottolo.
Impietrito, fissava il corpo senza vita di sua figlia in fondo
al corridoio. La ragazza era stesa sul pavimento ad almeno
cinque metri di distanza, ma la sua presenza era opprimente,
come fosse al loro fianco. L’ardore di Paul si sgonfiò all’improvviso. Come tutti gli sbruffoni, non era in grado di affrontare i propri sentimenti.
«Sua moglie ha ragione» disse Will. «Meglio non vederla
in quelle condizioni.»
D’un tratto Paul si era fatto silenzioso; quello del respiro
pesante, ritmico, era l’unico suono che produceva. Teneva
una mano aperta sul petto, come se stesse giurando. Le lacrime affioravano dagli occhi.
Deglutì. «C’era un vassoio di vetro sul tavolo.» La voce era
piatta, quasi senza vita. «L’avevamo preso a Parigi.»
«Dev’essere stato bello» disse Will, incapace di immaginare Paul a Parigi.
«È un disastro, qui sopra.»
«Verrà qualcuno a pulire tutto.»
Paul tornò a chiudersi nel proprio silenzio e Will seguì il
suo sguardo, perlustrando l’ambiente. Leo aveva ragione; il
piano inferiore era ridotto peggio. Eppure c’era qualcosa di
sinistro e inquietante nell’atmosfera del piano superiore. Le
impronte insanguinate erano le stesse; attraversavano la moquette bianca in entrambe le direzioni. Schizzi di sangue imbrattavano le pareti dove il coltello, o dei pugni, si erano accaniti sul corpo straziandone la carne. L’elemento che Will
43
Karin Slaughter
trovava più disturbante, però, era l’impronta insanguinata di
una mano sul muro, proprio sopra il cranio della vittima, dove l’assalitore aveva evidentemente appoggiato il peso mentre la violentava.
«Trash, vero?»
Paul Campano non era alla ricerca di un cestino1. Trash era
l’appellativo che usava per riferirsi a Will da bambini. Il ricordo si presentò a Will sotto forma di un groppo in gola. Fu costretto a deglutire prima di rispondere. «Già.»
«Dimmi cos’è successo a mia figlia.»
Will ci pensò su; i dubbi durarono poco. Sgusciò oltre Paul
e proseguì lungo il corridoio. Attento a non toccare nulla, raggiunse la scena del crimine. Il corpo di Emma era disposto parallelamente alle pareti, con il volto in direzione opposta alle
scale. Camminando verso di lei, gli occhi di Will tornarono a
posarsi su quell’impronta, quella ricostruzione così perfetta
di palmo e dita. Sentì le budella contorcersi al pensiero di cosa l’uomo stesse facendo quando l’aveva impressa sul muro.
Si fermò a pochi passi dalla ragazza. «Credo sia stata uccisa qui» disse a Paul, deducendo dalla pozza di sangue sulla
moquette che la vittima non era stata spostata. Si chinò per
esaminare il corpo, poggiando le mani sulle ginocchia per assicurarsi di non toccare nulla. I pantaloncini di Emma erano
attorcigliati a una caviglia. Aveva i piedi scalzi. Sia la maglietta che la biancheria intima erano strappate. I segni lasciati dai
denti mostravano aree rosso scuro sul bianco dei seni. Graffi
e ferite segnavano l’interno delle cosce. Lividi e gonfiori la dicevano lunga sull’entità della violenza. Era una ragazza magra, con i capelli biondi della madre e le spalle larghe del pa-
1 Trash in inglese significa ‘spazzatura’.
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Tre giorni per morire
dre. Impossibile risalire all’aspetto che aveva avuto in vita.
L’aggressore si era accanito al punto da incrinare le ossa del
cranio, che ora deformavano gli occhi e il naso. La bocca era
un’apertura informe insanguinata e priva di denti.
Will tornò da Paul. Giaceva ancora impietrito in cima alle
scale. Le mani ampie e robuste strette al petto come quelle di
una donna in pena. Non era possibile valutare cosa riuscisse
a vedere, né stabilire se la distanza mitigasse la violenza o la
rendesse più atroce.
«È stata picchiata» disse Will. «Si notano due ferite da taglio. Una sotto il seno, l’altra appena sopra l’ombelico.»
«Ha voluto farci un piercing, l’anno scorso.» Paul azzardò
una risata piena di tensione. Will lo guardò, e Paul si sentì autorizzato a proseguire. «È andata in Florida con la sua migliore
amica ed è tornata con...» Scosse la testa. «Da ragazzi sembrano cose divertenti, ma quando un genitore vede la propria figlia tornare a casa con un anello nella pancia...» Fece una smorfia, lottando con le emozioni.
Will tornò a osservare la ragazza. Incastonato nella pelle
del suo ombelico c’era un piccolo anello d’argento.
«È stata violentata?» chiese Paul.
«È probabile.» Will aveva risposto con troppa fretta. Il suono di quelle parole rimase a galla nell’aria stagnante.
«Prima o dopo?» La voce di Paul stava tremando. Sapeva
bene quali oscuri recessi potevano raggiungere le perversioni umane.
Il sangue sull’addome e sul petto sembrava come spalmato; qualcuno si era steso su di lei in seguito al pestaggio. Ciononostante, Will disse: «Sarà il medico legale a stabilirlo. Io
non saprei dirlo.»
«Mi stai mentendo?»
«No» ribatté Will, sforzandosi di non guardare l’impronta
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Karin Slaughter
della mano e di non farsi sopraffare dal senso di colpa. Non
voleva essere lui a comunicare a quell’uomo l’orribile verità
sulla morte violenta e degradante di sua figlia.
D’improvviso, sentì Paul avvicinarsi alle sue spalle.
Will gli si parò di fronte, bloccandogli il passaggio. «È la
scena del crimine. Non puoi...»
Paul rimase a bocca aperta. Si accasciò su Will come se ogni
molecola d’ossigeno nel suo corpo fosse stata risucchiata via.
«Non è...» Mosse le labbra, mentre le lacrime gli inondavano
gli occhi. «Non è lei.»
Will cercò di allontanarlo per risparmiargli quella vista.
«Torniamo di sotto. Hai visto abbastanza.»
«No» lo incalzò Paul, affondando le dita nel braccio di Will.
«Dico sul serio. Non è lei.» Agitò il capo avanti e indietro con
veemenza. «Non è Emma.»
«Immagino quanto sia difficile per te...»
«Vaffanculo tu e quello che immagini!» Paul lo spinse lontano. «Ti hanno forse mai detto che tua figlia è morta? Eh?»
Continuava a scuotere il capo fissando la ragazza. «Non è lei.»
Will cercò di indurlo a ragionare. «Ha lo stesso piercing
che mi hai appena descritto.»
Paul agitò il capo, tirando fuori le parole a fatica. «Non è...»
«Forza, vieni» concluse Will, facendolo arretrare di qualche passo per evitare che contaminasse ulteriormente la scena del crimine.
Paul era ormai fuori di sé. «I capelli, Trash. I capelli di Emma sono più lunghi. Le arrivano quasi alla schiena. E ha una
voglia sul braccio. Sul braccio di Emma. Guarda, qui non c’è
niente. Non ci sono voglie.»
Will esaminò il braccio. Fatta eccezione per il sangue, la
pelle era di un bianco perfetto.
«Sul braccio destro» lo incalzò Paul, impaziente. Indicò l’al-
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Tre giorni per morire
tro braccio. «Ha una voglia.» Non ottenendo risposta da Will,
estrasse il portafoglio. Rovistò all’interno, facendo cadere ricevute e pezzi di carta. «È strana, sembra l’impronta di una
mano. È una zona di pelle più scura.» Trovò la fotografia che
stava cercando e la passò a Will. Nell’immagine, Emma era
una bambina. Indossava una divisa da cheerleader. Aveva un
braccio ripiegato sul fianco e teneva in mano un pon-pon. Paul
aveva ragione sulla voglia; era come se qualcuno le avesse
poggiato la mano sul braccio lasciando un’impronta.
Ciononostante, Will disse: «Paul, cerchiamo di...»
«Abby! Non è lei. Non è Emma!» Paul si abbandonò al sollievo improvviso con una risata isterica. «Guarda il braccio,
Trash. Non c’è nulla. Non è la mia Emma. Dev’essere Kayla. Sono molto simili. Si scambiano sempre i vestiti. Dev’essere lei!»
Abigail corse al piano di sopra, inseguita da Faith.
«Stia lontana.» Will le bloccò il passaggio, aprendo le braccia e cercando al contempo di spingere via Paul. Aveva ancora quel ghigno inconsapevole sul volto. Riusciva a pensare
soltanto al fatto che la figlia non fosse morta, senza riflettere
sulle implicazioni della sua scoperta.
«Li tenga a bada» disse Will a Faith, che annuì prendendo
il suo posto di fronte alla coppia di genitori. Will si mosse con
cautela verso la ragazza morta. Si chinò per studiare le impronte delle scarpe e gli schizzi sulla parete. Notò un sottile filo di sangue che attraversava tutto il corpo e terminava sotto
il seno, come una linea disegnata con precisione. Non l’aveva
notato prima, ma ora era pronto a giocarsi la pensione che il
sangue appartenesse al ragazzo del piano inferiore.
«Non è lei» ribadì Paul. «Non è Emma.»
«È difficile perdere una persona cara. Rifiutare l’idea è del
tutto comprensibile» esordì Faith.
Paul esplose. «Vuoi starmi a sentire, stupida stronza? Non
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Karin Slaughter
sto attraversando i dodici stadi per l’elaborazione del lutto. So
riconoscere mia figlia, cazzo!»
Leo si fece sentire. «Tutto a posto, lassù?»
«Tutto sotto controllo» disse Faith in un tono che lasciava
intendere l’esatto opposto.
Will osservò i piedi scalzi della ragazza. Le piante erano pulite; l’unica parte del corpo che non riportasse tracce di sangue.
Si alzò in piedi e chiese ad Abigail: «Mi dica cos’è successo.»
La donna scuoteva il capo, incapace di cedere alla speranza. «È Emma? È lei?»
Will osservò le strisce di sangue sulla gonna del completo
da tennis bianco indossato da Abigail, e gli schizzi sul petto.
Cercò di mantenere la voce ferma, nonostante sentisse il cuore spingere impaziente all’interno della cassa toracica. «Mi
dica con esattezza ogni cosa che è avvenuta dal momento in
cui è arrivata.»
«Ero in auto...»
«Iniziamo dalle scale» la interruppe Will. «Ha salito le scale. Si è diretta subito verso il corpo? Ha messo piede in quest’area della casa?»
«Mi sono fermata qui» disse lei, indicando il pavimento
sotto i suoi piedi.
«Cosa ha visto?»
Aveva le guance rigate di lacrime. Cercò di attivare le corde vocali, ma le parole si rifiutavano di venire fuori e gli occhi
non riuscivano a staccarsi dal cadavere. Alla fine disse: «L’ho
visto in piedi sopra di lei. Aveva in mano un coltello. Mi sono
sentita in pericolo.»
«So che deve essersi sentita in pericolo» la rassicurò Will.
«Mi dica solo cos’è successo.»
Si schiarì la gola. «Ero in preda al panico. Ho fatto un passo indietro e sono caduta per le scale.»
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«E lui cosa ha fatto?»
«Mi ha seguita. Giù per le scale.»
«Aveva il coltello in mano?»
La donna annuì.
«Lo teneva sollevato?»
Abigail annuì di nuovo, poi scosse la testa. «Non lo so. No.
Lo teneva lungo il fianco.» Distese la mano sul fianco per illustrargli la posa. «Correva giù per le scale. Aveva il coltello lungo il fianco.»
«Quando è arrivato in fondo alle scale ha sollevato il coltello?»
«L’ho colpito con un calcio prima che scendesse l’ultimo
scalino. Per fargli perdere l’equilibrio.»
«Cos’è successo al coltello?»
«Ha mollato la presa mentre cadeva. Io... Mi ha colpito alla
testa. Credevo mi avrebbe ucciso.»
Will si voltò verso le impronte lasciate dalle scarpe. Erano
disposte in modo confuso, caotico. Due persone avevano
calpestato il sangue, camminato avanti e indietro e avuto una
colluttazione. «È sicura di non aver percorso tutto il corridoio?»
La donna annuì.
«Mi ascolti bene. Non si è mossa? Non ha cercato di raggiungere sua figlia? Non ha calpestato il sangue?»
«No. Mi sono fermata qui. Proprio qui. Ero in cima alle scale quando si è scagliato contro di me. Credevo di stare per
morire. Credevo...» Si coprì la bocca con una mano. Non riusciva a proseguire. La sua voce ebbe un cedimento mentre
chiedeva a suo marito: «Non è Emma?»
Will si rivolse a Faith: «Si assicuri che non si muovano.» Poi
si diresse verso le scale.
Leo era immobile al centro dell’ingresso, impegnato a di-
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scutere con un agente in divisa. «Che sta succedendo?» chiese a Will.
«Non c’è tempo di aspettare Pete» ordinò, scavalcando il
cadavere. «Mi serve l’identità di questo tizio, subito.» Raccolse una delle scarpe di Abigail Campano dal salotto, sotto il tavolino da caffè. Il motivo della gomma sotto la suola era a zigzag, non a riquadri. Con l’eccezione di qualche residuo sulla
punta, non erano sporche di sangue.
Nell’ingresso, Leo stava tirando fuori un paio di guanti in
lattice dalla tasca. «La vicina ficcanaso sostiene di aver visto
un’auto parcheggiata nel vialetto un paio d’ore fa. Forse gialla, forse bianca. Cinque porte. Forse tre.»
Will esaminò le scarpe da ginnastica dell’assalitore. Il motivo sulla suola era a riquadri, con il sangue rappreso a riempire le cavità. «Da’ qua» disse a Leo, che gli passò i guanti.
«Avete già eseguito i rilievi, vero?» chiese dopo averli indossati.
«Sì. Che sta succedendo?»
Con molta cautela, Will sollevò la maglietta dell’uomo. Il
tessuto era ancora fradicio nel punto in cui si era arrotolato
sul torace. Lasciò un alone rosa sulla pelle da cui veniva sollevato.
Leo insisteva. «Vuoi dirmi cosa stai facendo?»
C’era così tanto sangue da rendere difficile qualunque analisi. Will esercitò una leggera pressione sull’addome, provocando una fuoriuscita di liquido scuro da un sottile taglio nella carne.
«Merda» sibilò Leo. «La madre l’ha pugnalato?»
«No.» Finalmente la situazione era più chiara. Will immaginò il ragazzo in ginocchio sul cadavere al piano di sopra, il
coltello conficcato nel petto. Per estrarlo, aveva cosparso di
sangue arterioso il cadavere della ragazza. Poi si era alzato in
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cerca di aiuto, mentre il polmone ferito collassava. In quel
momento Abigail Campano era comparsa in cima alle scale,
trovandosi di fronte l’uomo che credeva responsabile della
morte di sua figlia. Il ragazzo invece vedeva in lei la donna
che poteva salvarli entrambi.
Leo gettò lo sguardo sulle scale, poi lo riportò sul ragazzo
morto. Anche lui aveva capito. «Merda.»
Will si tolse i guanti, cercando di non pensare a quanto tempo era già andato perduto. Si diresse verso la singola impronta del piede nudo, notando che il peso doveva essere concentrato sul metatarso. Sul primo gradino c’erano delle gocce di
sangue; sei, per la precisione.
Will ricapitolò la situazione ad alta voce, tanto per Leo quanto per sé stesso. «Emma era priva di sensi. Il killer l’ha portata in spalla.» Aguzzò lo sguardo, componendo mentalmente
i pezzi del puzzle. «Si è fermato ai piedi delle scale per riprendere fiato. Le braccia e la testa della ragazza pendevano alle
sue spalle. Le gocce di sangue sullo scalino sono quasi perfettamente sferiche, quindi la traiettoria di caduta è stata verticale.» Poi indicò l’impronta. «Ha spostato il peso del corpo in
avanti. Il piede della ragazza ha toccato il pavimento. Per questo è rivolto verso le scale e non verso la porta. Dopo averla
trasportata giù per le scale, deve essersi fermato per riequilibrare il peso e trasportarla oltre la soglia.»
Leo si giustificò. «La storia della madre reggeva. Non potevo sapere che...»
«Non importa.» Will alzò gli occhi. Abigail e Paul Campano erano in piedi di fronte al parapetto, increduli. «Kayla aveva un’auto?»
Abigail rispose esitante. «Guida una Prius bianca.»
Will estrasse il cellulare e premette il tasto per la chiamata
veloce. Poi disse a Leo: «Metti sotto torchio la vicina e trova il
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modello dell’auto. Mostrale dei cataloghi, se necessario. Controlla tutte le chiamate al 911 effettuate in quest’area nelle ultime cinque ore. Manda gli agenti a fare altre domande in giro
per il quartiere. Molti di quelli che facevano jogging saranno
ormai tornati a casa. Io mi metto in contatto con le pattuglie
autostradali; c’è uno svincolo per la statale a meno di due chilometri da qui.» Will avvicinò il cellulare all’orecchio appena
in tempo per sentire Amanda rispondere alla chiamata. Non
aveva tempo da perdere in convenevoli. «Manda una squadra. È stato un rapimento.»
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