20 settembre 2016, n. 38858 Pres. Rosi, Rel. Renoldi

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20 settembre 2016, n. 38858 Pres. Rosi, Rel. Renoldi
CORTE DI CASSAZIONE
III Sez. Penale
Sentenza 20 settembre 2016, n. 38858
Ritenuto in fatto
1. Con decreto in data 8/10/2015 il Giudice per le indagini preliminari presso il
Tribunale di Brindisi dispose, nei confronti dei fratelli Angelo e Cosimo Fiusco, il
sequestro preventivo "anche per equivalente" dei "beni mobili, dei crediti, degli
immobili, dei mobili registrati, delle azioni, delle quote sociali e degli strumenti
finanziari dennaterializzati, ivi compresi i titoli del debito pubblico" rinvenuti nella
disponibilità dei due germani entro il limite complessivo di 6.090.694,29 euro. Il
provvedimento ablativo fu disposto in relazione ai delitti di cui agli artt. 81, commi 1 e
2, 110 cod. pen., 3, comma 1, lett. d) e 12, comma 1 del d.lgs. n. 74 del 2000, unificati dal
vincolo della continuazione, realizzati in concorso dai due FIUSCO attraverso una
pluralità di dichiarazioni fraudolente compiute mediante artifici (capo A); nonché, entro
il limite complessivo di 304.500 euro, in relazione al delitto di dichiarazione fraudolenta
mediante uso di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, previsto dagli artt.
110 cod. pen., 2, commi 1 e 2, 12, comma 1, del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, anch'esso
ascritto ai due fratelli in concorso tra loro.
Secondo l'ipotesi accolta nel provvedimento genetico, Angelo e Cosimo Fiusco,
rappresentanti legali ed amministratori (muniti di poteri disgiunti) della società Fiusco
Arredi Megastore S.r.l., avrebbero elaborato, con la partecipazione attiva del loro
consulente fiscale, Alfredo Maria Convertini, un articolato sistema di manipolazione dei
dati reali, attraverso la creazione di una situazione di apparenza contabile finalizzata a
dissimulare i maggiori introiti conseguiti dalle vendite aziendali, in modo da sottrarli
alla tassazione. Peraltro, la società, secondo quanto ritenuto dal decreto applicativo,
sarebbe stata priva di autonomia ed avrebbe rappresentato uno schermo fittizio
attraverso il quale i due fratelli, che fin da principio l'avevano amministrata in forma
disgiunta e senza l'adozione di determinazioni formali, avrebbero agito, di fatto, come
effettivi titolari dei beni e "quasi fossero imprenditori individuali".
In tale contesto, peraltro, secondo l'originaria imputazione cautelare, i due
amministratori avrebbero indicato, nella dichiarazione annuale relativa all'IVA per il
periodo di imposta 2013, elementi passivi fittizi avvalendosi di una fattura emessa dalla
società Soavegel S.r.l., attestante una operazione per un importo imponibile pari a
1.450.000,00 euro ed IVA al 21%, operazione ritenuta soggettivamente inesistente (capo
C).
2. Con ordinanza del 5/11/2015 il Tribunale del riesame di Brindisi rigettò la richiesta
di riesame presentata, nell'interesse di Angelo e Cosimo Fiusco, avverso il suddetto
decreto di sequestro preventivo con riferimento al capo A). Con lo stesso
provvedimento, il gravame fu, invece, accolto con riferimento all'ipotesi di cui al capo
C).
2.1. Secondo quanto riportato nell'ordinanza impugnata, in esecuzione del predetto
decreto applicativo della misura cautelare reale furono sottoposti a sequestro, per un
valore complessivo di 6.090.694,29 euro, i seguenti beni:
- nei confronti di Angelo Fiusco, per un valore complessivo di 2.231.118,80 euro: due
unità mobiliari per un valore stimato, rispettivamente di 350.000,00 e di 95.000,00 euro;
una quota nominale di valore pari a 26.000,00 euro relativa alla partecipazione alla
Fiusco Arredamenti S.r.l.; una quota nominale di valore pari a 7.500,00 euro relativa alla
partecipazione alla Fiusco Arredi S.r.l.; una somma di danaro pari a 107.872,80 euro,
corrispondente a 1/2 dell'importo di 215.745,67 euro, depositata su un conto corrente
della Banca Popolare di Bari, cointestato con il fratello Cosimo; una somma di danaro
pari a 1.644.746,00 euro, corrispondente a 1/2 dell'importo di 3.289.491,09 euro,
depositata su un conto corrente della Banca Intesa San Paolo, cointestato con il fratello
Cosimo;
- nei confronti di Cosimo Fiusco, per un valore complessivo di 2.274.575,49 euro: due
unità mobiliari per un valore stimato, rispettivamente di 350.000,00 e di 120.000,00 euro;
una quota nominale di valore pari a 26.000,00 euro relativa alla partecipazione alla
Fiusco Arredamenti S.r.l.; una quota nominale di valore pari a 7.500,00 euro relativa alla
partecipazione alla Fiusco Arredi S.r.l.; la somma di danaro pari a 107.872,80 euro,
corrispondente a 1/2 dell'importo di 215.745,67 euro, depositata su un conto corrente
della Banca Popolare di Bari, cointestato con il fratello Angelo; la somma di danaro pari
a 1.644.746,00 euro, corrispondente a 1/2 dell'importo di 3.289.491,09 euro, depositata
su un conto corrente della Banca Intesa San Paolo, cointestato con il fratello Angelo;
un'autovettura BMW del valore stimato di 18.456,69 euro;
- nei confronti della Fiusco Arredi Megastore S.R.L.: la somma di 1.585.000,00 euro
presente su un conto corrente acceso presso la Banca Popolare di Bari.
3. A mezzo del proprio difensore fiduciario, Angelo e Cosimo Fiusco propongono
ricorso per cassazione sulla base di quattro articolati motivi di impugnazione.
Con il primo motivo, i ricorrenti denunciano, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), c)
ed e) cod. proc. pen., la violazione dell'art. 325 cod. proc. pen. in relazione all'art. 322-ter
del codice di rito alla luce dei principi fissati dalle Sezioni Unite della Corte di
cassazione nella sentenza n. 10561 del 5 marzo 2014 nonché il vizio di omessa
motivazione per avere l'ordinanza impugnata omesso di rispondere su una serie di
questioni già poste in sede di riesame avverso il provvedimento genetico, e
segnatamente:
- di specificare la natura, diretta o per equivalente, del sequestro preventivo eseguito sui
beni sottoposti alla cautela reale;
- di verificare se in sede di esecuzione del decreto applicativo vi fosse stata la possibilità
di procedere, in prima battuta, al sequestro diretto, nei confronti del debitore di imposta
o dell'autore del reato, dei beni riconducibili, direttamente o indirettamente, al profitto
del reato;
- di motivare adeguatamente la ragione per la quale - pur dandosi atto, nei verbali
relativi alle operazioni di sequestro redatti dalla Guardia di Finanza, dell'esistenza di
beni societari riconducibili al profitto dei reati tributari, quali denaro o beni mobili e
immobili acquistati con esso - in sede esecutiva del decreto applicativo non si sia
proceduto, in prima battuta, al sequestro degli stessi e si sia, invece, fatto luogo al
sequestro dei beni dei due amministratori (di cui non sarebbe stata indicata la natura
giuridica, ovvero se diretto o per equivalente).
In particolare, l'ordinanza impugnata si sarebbe posta in contrasto con i principi posti
da questa Corte a Sezioni unite con la sentenza del 5/03/2014, n. 10561, Gubert. I due
ricorrenti, infatti, argomentano che la sentenza in questione avrebbe affermato il
principio secondo cui il sequestro per equivalente sarebbe consentito soltanto in caso di
mancata individuazione, anche solo temporanea, presso la persona giuridica o i suoi
organi amministrativi, dei beni costituenti profitto del reato tributario (e in ogni caso
previa indicazione, nel provvedimento applicativo, della descritta situazione di
impossibilità temporanea); sequestro per equivalente che, in ogni caso, dovrebbe
eseguirsi, in prima battuta, nei confronti degli organi amministrativi della società
ovvero, ma soltanto nel caso in cui essa rappresenti un mero schermo societario, nei
confronti della persona giuridica.
Sotto altro profilo, si censura la mancata giustificazione, da parte della ordinanza
impugnata, delle ragioni per le quali siano stati proposti a sequestro beni - del valore di
3.200.000,00 euro - di proprietà dei due amministratori; beni che sarebbero stati loro
donati dai genitori in epoca precedente a quella della ipotizzata evasione fiscale.
Secondo i ricorrenti, infatti, anche a voler aderire alla tesi secondo cui, nei reati tributari,
il profitto del reato è qualificabile come risparmio di spesa, in ogni caso detto risparmio
dovrebbe essere maturato nel periodo di commissione del reato.
Con il secondo motivo viene, invece, dedotta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), c)
ed e) cod. proc. pen., la violazione dell'art. 324 cod. proc. pen. in relazione alla
proposizione dell'istanza di riesame nell'interesse degli stessi Angelo e Cosimo Fiusco e
non anche della Fiusco Arredi Megastore S.r.l. nonché il vizio di omessa motivazione
per avere l'ordinanza impugnata affermato che le istanze presentate dalla difesa dei due
fratelli Fiusco in sede di riesame - relative per un verso all'accertamento della
illegittimità del sequestro delle somme giacenti sul conto corrente intestate alla Fiusco
Arredi Megastore s.r.l. e, per altro verso, alla conversione del sequestro eseguito su due
capannoni industriali di proprietà della stessa società - siano state formulate
nell'interesse dei due indagati e non anche della stessa società, soggetto giuridico
distinto dai due amministratori e destinatario del provvedimento ablativo in relazione
alle somme giacenti sul conto corrente bancario intestato alla stessa società.
In particolare, la Difesa deduce che il sequestro, in realtà, sarebbe stato disposto
unicamente nei confronti di Angelo e Cosimo Fiusco, laddove nessun atto formale
sarebbe stato assunto nei confronti della Fiusco Arredi Megastore S.r.I., sicché anche la
sottoposizione al provvedimento cautelare delle somme giacenti sul conto corrente
bancario di cui era titolare la società sarebbe stata giustificata unicamente dal fatto che
tale denaro sarebbe stato nella disponibilità dei due amministratori.
Con il terzo motivo i ricorrenti censurano, ex art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e) cod.
proc. pen., la inosservanza o erronea applicazione degli artt. 322-ter, 324 e 325 cod. proc.
pen. nonché il vizio di omessa motivazione per avere l'ordinanza impugnata totalmente
omesso di motivare in relazione alla richiesta di dissequestro delle quote nominali della
Fiusco Arredi Megastore S.r.l. e della Fiusco Arredamenti S.r.l..
Tale richiesta era stata formulata alla stregua della asserita notevole sproporzione
esistente tra il quantum delle imposte evase, corrispondente all'ammontare del profitto
del reato, ed il valore del patrimonio netto delle società, certamente più elevato del
mero valore nominale delle quote, cui, invece, aveva fatto riferimento il provvedimento
di sequestro per equivalente.
Secondo i ricorrenti, infatti, considerato che il patrimonio immobiliare delle società comprendente, per la Fiusco Arredi Megastore S.r.l., due capannoni industriali aventi
un più elevato valore di mercato (pari a 3.100.000,00 euro secondo due perizie giurate
prodotte in sede di riesame) e un capannone industriale per la Fiusco Arredamenti S.r.l.
(del valore di almeno 1.799.727,00 euro, secondo quanto riportato nel bilancio della
società del 31/12/2013) - era ben maggiore del valore nominale delle quote sociali (pari,
rispettivamente, 52.000,00 e 15.000,00 euro), il provvedimento ablativo avrebbe dovuto
fare riferimento al primo dato e non al secondo, conformemente ai più recenti arresti
della giurisprudenza di legittimità, che richiederebbero, secondo il tenore dell'art. 322ter cod. pen., l'incidenza del sequestro su beni aventi un "valore corrispondente" al
profitto del reato, avuto riguardo ai principi di proporzionalità, adeguatezza e
gradualità applicabili anche alle misure cautelari reali.
Infine, con il quarto motivo Angelo e Cosimo Fiusco si dolgono, ex art. 606, comma 1,
lett. b), c) ed e) cod. proc. pen., della violazione o inosservanza dell'art. 220 disp. att.
cod. proc. pen. e deducono altresì il vizio di omessa motivazione in cui l'ordinanza
impugnata sarebbe incorsa nel rigettare l'eccezione di inutilizzabilità del processo
verbale di constatazione della Guardia di finanza del 17/02/2015 (e, conseguentemente,
del decreto di sequestro fondato sulla stessa).
Infatti, il Tribunale del riesame avrebbe erroneamente ritenuto legittimo il predetto
processo verbale nonostante la mancata osservanza delle norme del codice di procedura
penale allorché, in sede di verifica ispettiva fiscale, erano emersi elementi di reità a
carico dei due amministratori. A partire da tale momento, secondo la tesi difensiva, i
militari della Guardia di finanza avrebbero assunto informazioni da persone nei
confronti delle quali venivano svolte le indagini (i fratelli Fiusco e il dott. Convertini,
consulente fiscale della Fiusco Arredi Megastore S.r.l.) senza procedere, in violazione
degli artt. 64 e 350 cod. proc. pen., a redigere il verbale nelle forme dell'art. 357, comma
2, lett. b), cod. proc. pen.. Da ciò, dunque, secondo la prospettazione dei ricorrenti
deriverebbe la assoluta inutilizzabilità sia del processo verbale di constatazione redatto
dalla Guardia di Finanza, sia delle successive comunicazioni di reato, le quali si
sarebbero limitate a riprodurre il contenuto del primo.
Con requisitoria scritta depositata in data 4/04/2016 il Procuratore generale ha chiesto
l'integrale rigetto del ricorso.
Dopo aver premesso che il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di
sequestro preventivo è ammissibile quando la motivazione del provvedimento
impugnato sia del tutto assente o meramente apparente perché sprovvista dei requisiti
minimi per rendere comprensibile la vicenda contestata e l'iter logico seguito dal
giudice del provvedimento impugnato, il Procuratore generale ha rilevato come la
motivazione dell'ordinanza impugnata non possa qualificarsi come del tutto assente o
meramente apparente essendo provvista dei suddetti requisiti minimi. Il
provvedimento in questione, infatti, in specie nella diffusa argomentazione con cui è
stata giustificata la sussistenza del fumus commissi delicti, sarebbe fondato su
acquisizioni documentali in grado di riscontrare, alla stregua dei canoni probatori
propri della fase cautelare reale, che la società Fiusco Arredi Megastore S.r.l. sarebbe
stata costituita come un mero schermo fittizio attraverso il quale i ricorrenti avrebbero
agito quali effettivi titolari dei beni della stessa.
Considerato in diritto
4. Procedendo all'esame dei motivi di ricorso secondo l'ordine logico occorre muovere,
innanzitutto, dal quarto motivo di impugnazione, che deve essere rigettato siccome
manifestamente infondato.
La difesa dei due ricorrenti ha dedotto la violazione dell'art. 220 disp. att. cod. proc.
pen., evidenziando come a seguito dell'emergere della notitia criminis i militari della
Guardia di finanza avrebbero dovuto procedere al compimento delle attività di
acquisizione probatoria secondo le norme previste dal codice di rito che prevedono
"particolari procedure o modalità in relazione a specifiche attività".
Nel caso di specie, secondo l'assunto difensivo, dal momento che l'emersione di indizi
di reato si sarebbe concretizzata già a partire dal 3/09/2014, giorno dell'accesso da
parte della Guardia di finanza, allorché da "svariati appunti personali e documenti
extracontabili inequivocabilmente riferibili all'impresa" era stato possibile "ritenere
l'esistenza di una contabilità parallela o comunque la gestione extracontabile dell'intera
attività di impresa", gli operanti avrebbero dovuto procedere nelle forme previste
dall'art. 220 cod. proc. pen.. Ed, invece, secondo la difesa, i militari avrebbero chiesto
spiegazioni dapprima a Cosimo Fiusco, il quale avrebbe fornito le proprie
giustificazioni già a partire dal 17/11/2014; quindi al dott. Convertini in merito alla
esibizione dei documenti relativi al conto "clienti conto caparre su contratti" (il
21/01/2015), poi ai rapporti commerciali con la Fiusco Arredamenti S.r.l. (il
3/02/2015), e infine al mancato funzionamento del misuratore fiscale in data
4/02/2015. Lo stesso giorno, peraltro, Cosimo Fiusco avrebbe fornito i chiarimenti
chiestigli dai finanzieri in merito alla composizione dei prospetti extra-contabili. E tutto
ciò nonostante che, secondo quanto precisato nella stessa ordinanza del Tribunale del
riesame, le conseguenze della infedele dichiarazione fossero evidenti già alla data del
15/01/2015.
Dunque, secondo la tesi esposta dai ricorrenti, non essendosi provveduto alla redazione
del verbale ai sensi dell'art. 357, comma 2, lett. b) cod. proc. pen. e, pertanto, in
violazione di quanto stabilito dagli artt. 64 e 350 cod. proc. pen., la parte del documento
redatta successivamente all'emergere di indizi di reità sarebbe processualmente
inutilizzabile.
Tanto premesso, giova preliminarmente ricordare che il "verbale di costatazione"
redatto da personale della Guardia di Finanza o dai funzionari degli Uffici Finanziari è
qualificabile come documento extraprocessuale ricognitivo di natura amministrativa e,
in quanto tale, acquisibile ed utilizzabile ai fini probatori, nel processo penale, ai sensi
dell'art. 234 cod. proc. pen.. Si è anche osservato che non si tratta di un atto processuale,
poiché non è previsto dal codice di rito o dalle norme di attuazione (ex art. 207 disp. att.
cod. proc. pen.); né può essere qualificato quale "particolare modalità di inoltro della
notizia di reato" (ex art. 221 disp. att. cod. proc. pen.), in quanto i connotati di
quest'ultima sono diversi (si vedano, sul punto, Sez. 3, n. 6881 del 18/11/2008, Ceragioli
e altri, Rv. 242523; Sez. 3, n. 6218 del 17/4/1997, Cetrangolo, Rv. 208633; Sez. 3, n. 4432
del 10/4/1997, Cosentini, Rv. 208030; Sez. 3, n. 1969 del 21/1/1997, Basile, Rv. 206944;
Sez. 3, n. 6251 del 15/5/1996, Caruso, Rv. 205514).
Nondimeno, quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o
decreti emergono indizi di reato e non meri sospetti, l'art. 220 disp. att. cod. proc. pen.
stabilisce che "gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro
possa servire per l'applicazione della legge penale sono compiuti con l'osservanza delle
disposizioni del codice". Ne consegue che la parte di documento, compilata prima
dell'insorgere degli indizi, ha sempre efficacia probatoria ed è utilizzabile, mentre non è
tale quella redatta successivamente, qualora non siano state rispettate le disposizioni
del codice di procedura penale (Sez. 3, n. 7930 del 30/01/2015, Marchetti e altro, Rv.
262518).
A tale proposito questa Corte ha pure osservato come, dalla semplice lettura della
norma, emerga che essa presuppone, per la sua applicazione, un'attività di vigilanza o
ispettiva in corso di esecuzione specificamente prevista da disposizioni normative e la
sussistenza di indizi di reato emersi nel corso dell'attività medesima, non essendo
necessario che ricorra una prova indiretta quale indicata dall'art. 192, cod. proc. pen.,
quanto, piuttosto, la sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza
penale al fatto che emerge dall'inchiesta amministrativa e, nel momento in cui emerge, a
prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata
(Sez. 2, n. 2601 del 13/12/2005, Cacace, Rv. 233330; Sez. U, n. 45477 del 28/11/2001,
Raineri, Rv. 220291).
Ove le richiamate condizioni si verifichino, sarà dunque necessario che, a pena di
inutilizzabilità, vengano osservate le disposizioni del codice di rito, ma soltanto per il
compimento degli atti necessari all'assicurazione delle fonti di prova ed alla raccolta di
quant'altro necessario per l'applicazione della legge penale (Sez. 3, n. 7930 del
30/01/2015, Marchetti e altro, Rv. 262518; Sez. 3, n. 27682 del 17/06/2014, Palmieri, Rv.
259948).
Se, dunque, le forme del codice di procedura penale devono essere osservate soltanto
ove si faccia luogo al compimento degli atti necessari alla raccolta ed all'assicurazione
delle fonti di prova, ciò significa che ogni qual volta non si debba fare luogo
all'espletamento di atti garantiti, non è necessario osservare le norme del codice di rito.
Al fine di stabilire quando tale condizione sussista, l'art. 114 disp. att. cod. proc. pen.
stabilisce che "nel procedere al compimento degli atti indicati nell'art. 356 [cod. proc.
pen.], la polizia giudiziaria avverte la persona sottoposta alle indagini, se presente, che
ha facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia".
Ciò posto, dal contenuto testuale della norma in esame emerge con chiarezza che le
attività ispettive fiscali non rientrano tra quelle indicate dall'art. 356 cod. proc. pen., che
l'art. 114 disp. att. cod. proc. pen., espressamente richiama. In altre parole, la
disposizione in esame impone l'avviso del diritto all'assistenza del difensore solo ed
esclusivamente nel caso in cui si proceda al compimento di uno degli atti indicati
dall'art. 356 cod. proc. pen., il quale, a sua volta, stabilisce che il difensore della persona
nei cui confronti vengono svolte le indagini ha facoltà di assistere, senza diritto di essere
preventivamente avvisato, agli atti previsti dagli artt. 352 (perquisizioni) e 354
(accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone e sequestro) oltre che
all'immediata apertura del plico autorizzata dal pubblico ministero a norma dell'art.
353, comma 2, cod. proc. pen.. E' questa una elencazione tassativa, come si desume dal
puntuale richiamo ai singoli atti elencati.
Tuttavia, non è controvertibile che quando, come nel caso di specie, si proceda ad
acquisire dichiarazioni da una persona nei cui confronti erano stati ormai acquisiti degli
indizi di reità, non potrà che trovare applicazione la disciplina dettata dagli artt. 64 e
350 cod. proc. pen., sicché in caso di violazione di tali disposizioni il contenuto delle
dichiarazioni non sarà utilizzabile.
Nella vicenda che ci occupa, dunque, lungi dal configurarsi, come invece opinato dalla
difesa dei ricorrenti, l'inutilizzabilità sia del processo verbale di contestazione sia delle
comunicazioni di notizia di reato in cui lo stesso sarebbe stato trasfuso, potrà al più farsi
questione della utilizzabilità del risultato di singole attività di acquisizione di elementi
indiziari.
Sul punto, peraltro, anche a prescindere dal rilievo che il ricorso non ha specificato
quali risultati dell'attività investigativa debbano ritenersi, per le ragioni esposte,
inutilizzabili e, dunque, anche prescindendo dal dato relativo alla genericità delle
censure in argomento dedotte, deve osservarsi che la gran parte degli elementi indiziari
posti a fondamento del provvedimento ablativo è costituito da atti e documenti, a
partire dai quali, con procedimento logicodeduttivo, i militari della Guardia di finanza
hanno ricostruito l'attività delittuosa contestata ai ricorrenti.
Ciò è a dire, innanzitutto, per gli "svariati appunti personali e documenti extracontabili
riferiti all'impresa", riferiti al periodo compreso tra dicembre 2009 ed agosto 2014,
rinvenuti in occasione dell'inizio, in data 3/09/2014, della verifica fiscale presso gli
uffici della Fiusco Arredamenti Megastore S.r.l.; circostanza alla stregua della quale i
militari avevano ritenuto probabile "l'esistenza di una contabilità parallela o comunque
la presenza di una gestione extracontabile dell'intera attività di impresa". Infatti, per un
verso dai suddetti documenti sembravano emergere componenti positive sottratte a
tassazione (relative alle vendite mensili e giornaliere ad opera del personale a ciò
preposto) oltre all'impiego di lavoratori "in nero" (in numero di cinque) e, per altro
verso, la tenuta delle scritture contabili ufficiali era stata, comunque, caratterizzata da
gravissime irregolarità (non avendo la società provveduto alla redazione dei bilanci di
esercizio relativi alle annualità oggetto di ispezione).
A ciò devono aggiungersi, quali ulteriori elementi indiziari: il fatto che gli importi
indicati nella colonna relativa al totale dei corrispettivi giornalieri del registro di prima
nota relativo all'anno 2010, tenuto presso il punto vendita e sul quale erano stati
registrati i corrispettivi risultanti dagli scontrini di chiusura giornaliera, erano stati "in
parte alterati e comunque tutti ulteriormente ricalcati con una penna biro ad inchiostro
nero fatta eccezione per le pagine relative ai mesi di aprile, giugno e luglio, che non
presentavano alterazioni"; che l'originale del registro di prima nota dei corrispettivi non
era stato esibito, dagli amministratori della società e .01 dal suo consulente fiscale,
nonostante gli innumerevoli solleciti da parte della Guardia di finanza e che quando,
dopo altrettante richieste, erano stati finalmente mostrati gli scontrini di chiusura
giornalieri, erano stati effettivamente accertati rilevanti scostamenti tra il contenuto
degli scontrini e gli incassi riportati nel registro dei corrispettivi, i quali risultavano
notevolmente inferiori rispetto ai primi. Così, a mero titolo esemplificativo, il
corrispettivo riportato nello scontrino del 20/02/2010 era pari a 117.065,00 euro,
laddove l'importo annotato sulla copia del registro di prima nota e sul registro dei
corrispettivi era pari a soli 7.065,00 euro, con l'occultamento di ricavi per ben 110.000
euro solo per quella giornata. Tale modalità artificiosa di occultamento dei corrispettivi,
accertata con riferimento all'anno 2010, era stata poi riscontrata dalla Guardia di
Finanza anche nel corso degli anni successivi.
Ed ancora: la circostanza, documentalmente rilevata, per cui nel caso di contratti su
ordinativi, la prassi commerciale seguita fosse quella di pretendere dal cliente la
consegna di un anticipo, qualificato come caparra confirmatoria, per il quale non veniva
rilasciato scontrino fiscale e che veniva, poi, defalcato al momento del saldo, il quale
veniva invece contabilizzato, ma senza riportare l'ammontare dell'acconto versato.
Viceversa, per i contratti "a pronta consegna", i militari non avevano rinvenuto alcuna
copia. E tuttavia, secondo la ricostruzione compiuta dall'ufficio requirente e condivisa,
con motivazione puntuale sia dal giudice della cautela che da quelli del riesame,
l'ammontare complessivo delle vendite relative a tali operazioni negoziali era
determinabile calcolando la differenza esistente tra i valori riportati nella contabilità
informale nella società e quelli relativi ai contratti su ordinativi.
Peraltro, sempre con riferimento ai contratti su ordinativi, ulteriori controlli
documentali effettuati dalla Guardia di Finanza in relazione ad alcune annualità,
eseguiti sulla base delle fatture rinvenute, avevano evidenziato la presenza di un
volume di ricavi riferito a tale tipologia di vendita assai superiore rispetto a quello
risultante dalle copie dei contratti; sicché anche sotto tale profilo l'ipotesi formulata
nell'imputazione cautelare ha trovato risconto, sia pure alla stregua dei criteri indiziari
propri della fase cautelare, a prescindere dalle ammissioni degli indagati, come tali
irrilevanti sul piano della ricostruzione dei fatti.
Pertanto, il quarto motivo di ricorso, conclusivamente, deve essere rigettato siccome
infondato, atteso che la puntuale ricostruzione operata nell'ordinanza impugnata, si è
basata su un procedimento di carattere logico-deduttivo, svolto a partire dal dato
documentale, restando totalmente irrilevanti le eventuali dichiarazioni rese dai due
amministratori e dal loro consulente fiscale.
4. Venendo, quindi, al primo motivo di ricorso, corretta è la premessa dalla quale
muovono gli odierni ricorrenti: il sequestro preventivo "diretto" e il sequestro "per
equivalente" presentano differenti caratteristiche strutturali e funzionali.
4.1. Mentre il primo consiste nella sottoposizione al vincolo di beni che costituiscono il
profitto del reato per cui si procede, o sono ad esso riconducibili (come nel caso dei beni
acquisiti attraverso il reimpiego dei proventi illeciti), il secondo ricorre quando la
cautela reale è realizzata su beni diversi (e del tutto avulsi da una relazione di
pertinenzialità) da quelli che costituiscono il profitto dell'attività criminosa, il cui valore
economico sia, nondimeno, corrispondente a quello del profitto stesso.
Le due forme di sequestro soggiacciono, conseguentemente, a una differente disciplina
processuale che attiene, per i profili qui in considerazione, al loro peculiare rapporto
funzionale, caratterizzato dalla sussidiarietà della forma per equivalente rispetto a
quella diretta.
Come, infatti, è stato chiarito dalle Sezioni Unite nella già citata sentenza n. 10561/2014,
si può far luogo al sequestro per equivalente soltanto dopo avere verificato la
impossibilità, ancorché temporanea, di sottoporre al provvedimento cautelare i beni
che, direttamente o indirettamente, siano riferibili al profitto del reato (il quale, nei reati
tributari, è costituito da "qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito
alla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa,
come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a
seguito dell'accertamento del debito tributario": così Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013,
Adami, Rv. 255036).
Tale riscontro, tuttavia, non deve necessariamente essere effettuato nell'originario
decreto di sequestro, quanto piuttosto in una fase successiva alla sua emissione,
corrispondente alla concreta esecuzione del provvedimento ablativo. Secondo la
costante giurisprudenza di questa Corte, anche a Sezioni unite (v. Sez. U., n. 10561 del
5/03/2014, Gubert), infatti, in materia cautelare, non è possibile pretendere la
preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato giacché, durante
il tempo necessario per l'espletamento di tale ricerca, potrebbero essere occultati gli altri
beni suscettibili di confisca per equivalente, così vanificando ogni esigenza di cautela.
Infatti, quando il sequestro interviene in una fase iniziale del procedimento, non è, di
solito, ancora possibile stabilire se sia possibile o meno la confisca dei beni che
costituiscono il prezzo o il profitto di reato, previa la loro certa individuazione (in
termini v. anche Sez. 3, n. 41073 del 30/09/2015, P.M. in proc. Scognamiglio, Rv.
265028).
Per tale motivo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, ex art. 322- ter cod. pen.,
del profitto del reato può essere disposto anche solo parzialmente nella forma per
equivalente, qualora non tutti i beni costituenti l'utilità economica tratta dall'attività
illecita risultino individuabili (Sez. 2, n. 11590 del 9/02/2011, Sciammetta, Rv. 249883).
Coerentemente con questa impostazione, la Suprema Corte ha altresì affermato che in
tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, il giudice che
emette il provvedimento ablativo è tenuto soltanto ad indicare l'importo complessivo
da sequestrare, mentre l'individuazione specifica dei beni da apprendere e la verifica
della corrispondenza del loro valore al quantum indicato nel sequestro è riservata alla
fase esecutiva demandata al pubblico ministero (si vedano Sez. 2, n. 36464 del
21/07/2015, Armeli e altro, Rv. 265058; Sez. 2, n. 24785 del 12/05/2015, Monti e altri,
Rv. 264282; Sez. 3, n. 37848 del 7/05/2014, Chidichimo, Rv. 260148; Sez. 3, n. 10567/13
del 12/07/2012, Falchero, Rv. 254918) ben potendo, del resto, il destinatario ricorrere al
giudice dell'esecuzione qualora dovesse ritenersi pregiudicato dai criteri adottati dal
pubblico ministero nella selezione dei cespiti da confiscare (Sez. 3, n. 20776 del
6/03/2014, P.G. in proc. Hong, Rv. 259661).
Lungo la stessa direttrice ermeneutica è stato ritenuto legittimo il sequestro preventivo
finalizzato alla confisca per equivalente di beni costituenti profitto illecito anche quando
l'impossibilità del loro reperimento sia anche soltanto transitoria e reversibile, purché
sussistente al momento della richiesta e dell'adozione della misura (Sez. 2, n. 2823/2009
del 10/12/2008, Schiattarella, Rv. 242653).
Consegue alle considerazioni fin qui svolte che il provvedimento di sequestro non deve
necessariamente contenere una specifica individuazione dei beni da sottoporre alla
misura cautelare, potendo certamente rinviare tale specificazione alla successiva fase
esecutiva. In una ipotesi siffatta, dunque, dovrà rimettersi a tale fase anche la
determinazione delle concrete modalità di articolazione della cautela reale, in specie per
quanto attiene alla sottoposizione a vincolo del singolo bene nelle forme della ablazione
diretta o di quella per equivalente.
Sulla base delle argomentazioni che precedono, dunque, deve ritenersi del tutto
legittimo, diversamente da quanto opinato dai ricorrenti, il decreto di sequestro
preventivo che presenti, quanto alle forme della realizzazione del vincolo reale, una
struttura "mista", prevedendo la sottoposizione dei beni in parte a sequestro diretto e in
parte a sequestro per equivalente, salva in quest'ultimo caso la necessaria predeterminazione dell'ammontare del valore del compendio assoggettabile alla cautela.
Peraltro, come già anticipato, nella materia dei reati tributari, il profitto consiste in
genere in "qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla
consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come
quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito
dell'accertamento del debito tributario" (Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami e altro,
Rv. 255036; conformemente v. anche Sez. 5, n. 36870 del 14/05/2013, P.M. in proc.
Ragosta, Rv. 256945), sicché il sequestro preventivo ha ad oggetto, di regola, somme di
denaro rispetto alle quali la forma della cautela è quella "diretta" (così Sez. 6, n. 30966
del 14/06/2007, Puliga, Rv. 236984, secondo cui è legittimamente operato in base alla
prima parte dell'art. 322-ter, comma 1, cod. pen., il sequestro preventivo delle
disponibilità del conto corrente dell'imputato).
Ne consegue che il decreto di sequestro ben potrà disporre che si faccia luogo
all'applicazione della cautela sul denaro (sequestro "diretto") nonché sugli altri beni,
mobili o immobili (comprese, ad es., le quote societarie di spettanza), rinvenibili nella
sfera giuridico-patrimoniale di ciascuno dei compartecipi al reato fino al valore del
profitto determinato, nello stesso decreto, dal giudice. Tali beni verranno poi
concretamente determinati nel momento esecutivo, con obbligo, gravante in prima
battuta sul pubblico ministero investito dell'esecuzione e, quindi, sul giudice della
cautela (e, infine, sul tribunale del riesame in sede di ulteriore e successivo controllo), di
verificare il preventivo esperimento del sequestro nella forma diretta e, al contempo, la
corrispondenza, quanto al sequestro per equivalente, del valore delle cose sequestrate a
quello del profitto determinato nel provvedimento ablativo.
4.2. Così ricostruita la disciplina applicabile nel caso in cui la misura reale sia stata
disposta in parte in forma diretta ed in parte in forma per equivalente, occorre ora
riepilogare, al fine di decidere sulle censure dedotte dai ricorrenti con il primo motivo,
quale possa (rectius debba) essere il contenuto del provvedimento di sequestro nel caso
in cui il reato tributario sia stato ascritto, come nella specie, agli amministratori di una
società di capitali (e, in genere, di un soggetto giuridico distinto dalle persone fisiche
dei presunti autori del reato per cui si procede).
Sul punto, applicando i criteri prima enunciati e, ancora una volta, i principi affermati
dalle Sezioni Unite di questa Corte nella citata sentenza n. 10561 del 2014, deve ritenersi
che, salva la possibile struttura mista del contenuto del provvedimento ablativo (in
parte diretto e in parte per equivalente), ove al momento dell'esecuzione del sequestro
sia stato rinvenuto del denaro, che nei reati tributari ne costituisce il profitto (v. supra),
dovrà procedersi al sequestro (diretto) dello stesso, sia che esso sia riferibile alla
persona giuridica, sia che esso sia riferibile agli organi della stessa.
Qualora, invece, "senza che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni
costituenti il profitto di reato" non sia possibile, anche solo transitoriamente, reperire il
profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica, potrà
procedersi al sequestro per equivalente nei confronti degli organi e, nel caso in cui essa
costituisca uno schermo fittizio, anche nei confronti della persona giuridica.
Nel caso di specie, dunque, è del tutto legittimo il sequestro diretto eseguito sulla
somma di 1.585.000,00 euro presente su un conto corrente acceso presso la Banca
Popolare di Bari e intestato alla Fiusco Arredi Megastore S.R.L., dovendo ritenersi, per
le ragioni già esplicitate, che esso sia stato effettuato su beni costituenti "profitto" del
reato tributario commesso nell'ambito delle attività proprie della società.
Peraltro, e la circostanza assume rilievo dirimente rispetto alle prospettazioni difensive,
secondo quanto affermato, con motivazione assai puntuale ed esaustiva, nell'ordinanza
impugnata, la società Fiusco Arredi Megastore S.R.L. costituiva un mero schermo
formale, utilizzato dai due amministratori allo scopo di farvi confluire i profitti illeciti
derivanti dai reati tributari.
Ciò è dimostrato da una serie di solidissimi elementi indiziari.
Innanzitutto l'attività negoziale posta in essere, liberamente, dai due amministratori, i
quali avevano operato disgiuntamente, fin dal principio, senza particolari formalità di
procedura o delibere assembleari, come se fossero imprenditori individuali (tra le
operazioni straordinarie, l'ordinanza impugnata ha puntualmente citato l'acquisto: nel
2010, di un terreno edificabile, nel 2012 di un immobile strumentale mai utilizzato
nell'ambito dell'attività svolta, nel 2013 e nel 2014 di due autovetture Porsche Cayenne,
al prezzo rispettivamente di 71.499,00 e di 78.000,00 euro, nell'esclusiva disponibilità di
Cosimo e Angelo Fiusco, pagate con somme tratte dal conto corrente intestato alla
società e mai contabilizzate; nonché l'adesione ad una permuta immobiliare stipulata
nel 2013 dal padre, Francesco Fiusco, a favore della società).
In secondo luogo la circostanza che, per l'attività svolta in seno alla società, i due
ristoratori non abbiano percepito alcun compenso, pur mantenendo entrambi le
rispettive famiglie e nonostante gli investimenti immobiliari dagli stessi compiuti nel
2012 e 2013 e le cospicue somme presenti nel conto corrente bancario intestato ad
entrambi, sul quale risultano essere stati versati numerosi assegni e contanti, certamente
riconducibili all'attività commerciale. Tanto più che dagli accertamenti compiuti è
emerso che le assemblee dei soci non erano state regolarmente tenute e che i bilanci di
esercizio non erano stati né approvati, né redatti.
Ne consegue, pertanto, da un lato, che è pienamente legittimo il sequestro eseguito sulle
somme rinvenute sui conti correnti intestati ai due amministratori, siccome anch'esso
costituente profitto diretto dei reati tributari; e, dall'altro lato, che anche il sequestro per
equivalente effettuato sui beni della società come su quelli degli amministratori deve
ritenersi, in via di principio, consentito.
Si è, infatti, posto in luce, quanto ai beni della società, che secondo i principi affermati
dalle Sezioni Unite di questa Corte nella citata sentenza n. 10561 del 2014 è sempre
consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti
dei beni di una persona giuridica, quando essa costituisca uno schermo fittizio dietro al
quale si celi l'attività illecita degli amministratori. E, ancora, quanto ai beni degli
amministratori non costituenti profitto diretto, che il sequestro preventivo per
equivalente può essere disposto quando non sia possibile il sequestro di denaro o di
altri beni fungibili o di altri beni comunque direttamente riconducibili al profitto di
reato tributario.
Nondimeno, sempre secondo il percorso delineato dalle Sezioni unite di questa Corte,
«la impossibilità del sequestro del profitto di reato può essere anche solo transitoria,
senza che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il
profitto di reato».
Nel caso di specie, l'ordinanza impugnata ha ben descritto la situazione esistente al
momento dell'adozione del provvedimento genetico ed al momento, ad esso
temporalmente assai prossimo (7 giorni), dell'esecuzione da parte degli organi delegati
dal pubblico ministero. Una situazione caratterizzata da una sostanziale osmosi tra la
sfera giuridico-patrimoniale della società e quelle dei due amministratori, con l'ingresso
e l'uscita di risorse economiche anche significative dai rispettivi patrimoni, secondo
quanto in precedenza riassunto a proposito dei vari acquisti compiuti con l'utilizzo di
somme della società e dei versamenti effettuati sui conti correnti dei due
amministratori, anch'essi relativi a somme appartenenti alla società.
E, tuttavia, appare del tutto evidente come la situazione appena descritta configurasse
proprio lo scenario descritto dalle Sezioni unite, versandosi in presenza di una
situazione obiettivamente ancora poco chiara in relazione alle operazioni di reimpiego
dei profitti: ciò che, conseguentemente, determinava una condizione di temporanea
impossibilità di eseguire il sequestro nella forma diretta, rendendo necessario, onde
evitare la dispersione dei beni da sottoporre a cautela, il ricorso al sequestro preventivo
per equivalente.
E' indicativo, a questo riguardo, il fatto che lo stesso verbale relativo alle operazioni
esecutive del decreto di sequestro, citato dalla difesa dei ricorrenti a sostegno delle
censure dedotte con il primo motivo, abbia fatto genericamente riferimento, secondo
quanto riportato nel ricorso, a non meglio precisati "investimenti", senza che, in quella
fase, fosse ancora possibile una loro compiuta ricostruzione.
Pertanto, anche sotto tale profilo il primo motivo di ricorso deve ritenersi infondato,
sicché esso deve essere integralmente rigettato.
5. Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso.
Il ricorrente si duole del fatto che il Tribunale del riesame abbia ravvisato una sorta di
difetto di legittimazione a censurare l'adozione del provvedimento ablativo su alcuni
beni facenti formalmente parte del patrimonio societario.
Tale passaggio della motivazione dell'ordinanza impugnata, oggettivamente ambiguo,
costituisce, in realtà, un obiter dictum totalmente irrilevante rispetto alla traiettoria
argomentativa sviluppata dal Tribunale del riesame.
Infatti, come è perfettamente evincibile dalla trama motivazionale del provvedimento,
le ragioni che hanno indotto il tribunale a rigettare le deduzioni dei due ricorrenti non
risiedono affatto nella circostanza che costoro abbiano inteso sostituirsi a un soggetto
giuridico acquiescente, i cui beni erano stati direttamente incisi dal sequestro.
Con riferimento alla somma sequestrata sul conto corrente bancario intestato alla
società, le doglianze dei ricorrenti sono state ritenute infondate proprio sul presupposto
che essendo stata acclarata la natura sostanzialmente fittizia dello schermo societario,
quelle somme potevano essere sequestrate siccome direttamente riferibili ai due
amministratori. Mentre le richieste di convertire il sequestro in beni diversi dai due
capannoni sono state ritenute infondate non perché avanzate da un soggetto diverso dal
proprietario dei due immobili, quanto perché si è ritenuto indimostrato l'assunto
secondo cui il valore di mercato degli stessi fosse di gran lunga superiore rispetto a
quello stimato.
Ne consegue la manifesta infondatezza del secondo motivo di ricorso, strutturato sulla
estrapolazione di una frase incidentale e, comunque, del tutto eccentrica rispetto
all'itinerario logico-argomentativo seguito, sicché l'eventuale riconoscimento, sul punto,
della correttezza del rilievo difensivo dedotto non intaccherebbe, in ogni caso, la tenuta
complessiva della parte della motivazione che ha rigettato, in parte qua, il ricorso
proposto.
E' appena il caso di rilevare, in ultimo, come il motivo di ricorso in esame si ponga in
irriducibile contraddizione rispetto alle premesse dell'intera prospettazione difensiva,
ovvero che i beni della società non siano riferibili ai due amministratori. Infatti,
assumendo l'infondatezza della ricordata argomentazione contenuta nell'ordinanza
impugnata (secondo cui le censure relative ai beni sequestrati alla società sarebbero
dovute essere dedotte proprio da parte della Fiusco Arredi Megastore e non dai due
amministratori), si perverrebbe sostanzialmente ad affermare l'appartenenza dei beni
sequestrati ai due fratelli, al di là del titolo formale spettante alla società. In altri termini,
la censura dedotta, ove accolta, porterebbe ad affermare ciò che i due Fiusco contestano
fin dalle premesse del loro ricorso.
6. Quanto, infine, al terzo motivo, occorre rilevare come costituisca principio ormai
accolto dalla giurisprudenza di questa Corte, il fatto che, in conformità dei principi di
proporzionalità e adeguatezza che devono caratterizzare anche la tutela reale (Sez. 3, n.
17465 del 22/03/2012, Crisci, Rv. 252380), il sequestro per equivalente debba essere
calibrato sul valore reale dei beni e non su quello nominale (v. giurisprudenza citata in
fra). Tale questione è ovviamente rilevante quando si faccia luogo al sequestro di quote
di una società che sia titolare di un cospicuo patrimonio aziendale o magari disponga di
un significativo avviamento.
Al fine di accertare il valore reale dei beni, il giudice deve fare riferimento alle
valutazioni di mercato degli stessi, avendo riguardo al momento in cui il sequestro
viene disposto (Sez. 2, n. 36464 del 21/07/2015, Armeli e altro, Rv. 265059).
Ne consegue che, in una ipotesi come quella per cui si procede, la stima delle quote
societarie non debba essere ancorata al criterio formale del valore nominale del capitale
sociale, così come per la valutazione degli immobili non deve farsi riferimento al valore
catastale, quando si abbia la disponibilità di elementi da cui desumere una diversa e più
"effettiva" valutazione (Sez. 6, n. 15807 del 9/01/2(114, Anemone, Rv. 259702; Sez. 3, n.
17465 del 22/03/2012, Crisci, Rv. 252380; Sez. 3, n. 3260 del 4/04/2012, P.M. in proc.
Currò, Rv. 254679; contra però v. Sez. 1, n. 30790 del 30/05/2006, P.M. in proc.
Pedercini ed altro, Rv. 234886).
E tuttavia, la valutazione relativa alla equivalenza tra il valore dei beni in sequestro e
l'entità del profitto del reato deve essere effettuata "sulla base dei dati disponibili" (Sez.
3, n. 3260 del 4/04/2012, P.M. in proc. Currò, Rv. 254679); ciò che, nella specie, non è
però avvenuto, avendo il Tribunale del riesame escluso di poter addivenire ad una
stima attendibile dei capannoni sequestrati (considerata la data di costruzione, la
presenza di probabili irregolarità sul piano edilizio-urbanistico ecc.).
Del resto, questa Corte ha, in più occasioni, ritenuto che gli adempimenti estimatori non
spettino al Tribunale del riesame, ma siano rimessi alla fase esecutiva della confisca
(Sez. 1, n. 30790 del 30/05/2006, P.M. in proc. Pedercini ed altro, Rv. 234886), atteso che
lo stesso tribunale, tranne che i casi di manifesta sproporzione tra il valore dei beni e
l'ammontare del sequestro corrispondente al profitto del reato, non è titolare del potere
di compiere mirati accertamenti per verificare il rispetto del principio di
proporzionalità.
Pertanto, in situazioni come quella in esame, e dunque quando sia controverso il valore
dei beni sottoposti alla cautela reale, il destinatario del provvedimento deve presentare
apposita istanza di riduzione della garanzia al pubblico ministero e, in caso di
provvedimento negativo del giudice, può impugnare l'eventuale decisione sfavorevole
con l'appello cautelare (Sez. 3, n. 37848 del 7/05/2014, Chidichimo, Rv. 260149; Sez. 6, n.
15807 del 9/01/2014, Anemone, Rv. 259702).
Ne consegue che anche il terzo motivo di ricorso deve essere rigettato.
7. Alla luce delle considerazioni che precedono deve, quindi, pervenirsi all'integrale
reiezione dell'impugnazione proposta, con condanna di ciascuno dei ricorrenti al
pagamento delle spese processuali.
PER QUESTI MOTIVI
Rigetta il ricorso e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.