Lavoro fuori legge. L`economia morale di un check

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Lavoro fuori legge. L`economia morale di un check
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Da
LO STRANIERO,
64, ottobre 2005
Traduzione di Ilaria Proietti Valentini
Lavoro fuori legge.
L’economia morale di un check-point
Rema Hammami
Rema Hammami, antropologa, insegna all’Università di Birzeit, ed è
membro del Consiglio direttivo dell’Institute for Jerusalem Studies.
L’articolo è apparso su ”Jerusalem Quarterly ”, 22/23, 2005.
Per quasi tre anni, l'ultima tappa del viaggio quotidiano tra l'università di Birzeit e
Ramallah consisteva in una camminata di un paio di chilometri attraverso il percorso a
ostacoli, fatto di mucchi d’immondizia e blocchi di cemento, nella zona chiusa al transito
nota come check-point Surda. Su entrambi i lati, colonne di furgoni si accalcavano sulla
strada angusta in attesa di portare i passeggeri a destinazione (per molti di loro era
soltanto l’ennesimo check-point). I giorni peggiori erano quelli in cui soldati israeliani dal
grilletto facile proibivano improvvisamente al flusso di viaggiatori la loro quotidiana
camminata, e migliaia di studenti da un lato e altrettanti abitanti dei villaggi dall'altro
rimanevano bloccati. Più spesso, i soldati lavoravano per qualche ora al giorno e si
trastullavano con le mandrie di viaggiatori a piedi – fermandoli tutti o solo piccoli gruppi
scelti, per interminabili controlli dei bagagli o dei documenti, o cercando di “organizzare” il
transito dei furgoni e dei venditori ambulanti dei check-point, sfrecciando con le jeep tra le
loro bancarelle e i loro furgoni. A questo check-point tre persone sono state uccise dai
proiettili dei soldati israeliani, altre due sono morte in incidenti stradali tra i furgoni,
almeno un uomo è morto di attacco cardiaco mentre veniva trasportato su una barella
metallica, due bambini sono nati dietro a un mucchio di immondizia, un numero indefinito
di giovani sono stati picchiati dai soldati – spesso davanti agli occhi di tutti – e non si conta
il numero di feriti durante le manifestazioni, organizzate nel futile tentativo di cambiare le
cose.
Una mattina presto nel dicembre del 2003, pronta per incamminarmi, mi accorsi
subito che qualcosa non andava; c'erano pochissimi furgoni, nessun taxi, nessun venditore
ambulante, e ai piedi della collina, in mezzo alla strada, un folto gruppo di persone era
fermo di fronte a un bulldozer dell'esercito. Andai dall’altra parte verso Abu Abed, che
gestiva il traffico dei furgoni della Ford dal versante del check-point di Ramallah, e gli
chiesi se c'era una manifestazione.
“No, vogliono smantellare il check-point”, rispose, “tutta quella gente è stata fermata
mentre attraversava e adesso vogliono fare gli eroi – per niente. Le ruspe cercano di
rimuovere i blocchi di cemento, ma loro non si tolgono di mezzo”.
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Così ci trovavamo di fronte ad un’altra giornata di sgombero di un check-point. Mi
diressi verso il furgone arcobaleno che aveva fornito caffé ai viaggiatori per quasi due anni,
e chiesi che ne pensavano. Mi risposero con l'inno nazionale: “Al-humdulillah. Siamo felici
che la gente non debba soffrire più”. Una troupe televisiva si fece strada giù ai piedi della
collina – questo era l'unico evento da check-point per cui si scomodavano.
Poi vidi Iyad e Ibrahim, due facchini, che guidavano i loro carretti vuoti su per la
collina. Iyad era cupo. “Ayadat. Ha chiuso i battenti. Vogliono riaprirlo”. E allora, che ne
pensi? Gli chiesi “Non sono preoccupato”, disse, “Riaprirà”.
Non molto tempo prima Abu Abed era venuto da me a sfogarsi. “Guarda, ho qui 150
furgoni che lavorano da questo lato. Contali. Dietro a ognuno di loro probabilmente ce ne
sono altri dieci. Si tratta di 1500 persone che nel giro di pochi giorni non mangeranno più.
Guarda questi due ragazzi di Jenin”, mi indicò. “La famiglia di questo qui ha investito tutti
i suoi risparmi nel suo furgone due settimane fa. Adesso che faranno?”.
Passare dall’altra parte
In questa ribellione, le organizzazioni di base che nella prima Intifada erano state la
spina dorsale della resistenza e avevano garantito la continuazione della vita civile, sono
scomparse e sono state rimpiazzate da strutture mobili con una forte impronta militare.
La grande maggioranza della società è stata lasciata senza alcun tipo di organizzazione, né
istruita su come resistere attivamente all'occupazione. Come alcuni critici hanno già
sottolineato tempo fa, la militarizzazione della resistenza ha condannato la maggior parte
della popolazione al ruolo di spettatore.
Allo stesso tempo, in questa Intifada il grado e la scala delle rappresaglie collettive
sono stati persino più brutali. Le persone e i loro villaggi sono stati risucchiati in una lotta
all’ultimo sangue per assicurarsi il minimo indispensabile di vita sociale ed economica. Il
mondo vede i momenti drammatici, l'occupazione militare dei villaggi, ma non vede
l'inesorabile quotidianità delle rappresaglie collettive, una rete di assedi militari che si
traduce in un sistema oppressivo di sanzioni fisiche. Ma le rappresaglie allo stesso tempo
creano un'esperienza, un'attività e un significato collettivi. I check-point, ironicamente,
sono diventati il “pubblico” dell'Intifada; è il luogo e lo spazio dove la maggioranza della
popolazione ha un confronto diretto e quotidiano con l'occupazione come membri della
collettività. In più, è proprio ai check-point, e in relazione ad essi, che la società ha
sviluppato nuovi significati della resistenza e nuove forme di organizzazione ad hoc,
acquisendo così la voce e la strategia per avere un ruolo nell'Intifada.
Nel quotidiano, la vecchia ideologia nazionalista del sumud, o resistenza, era
riemersa portando con sé nuovi significati. Mentre negli anni '70 questa enfatizzava
l’attaccamento alla terra madre e il rifiuto di partire nonostante le
sofferenze
dell'occupazione, adesso ha una connotazione ancora più attiva. Nella sua forma nuova,
incita a proseguire la vita e gli spostamenti normali; il ritornello comune è: “al hayaat
lazim yistamir” - “la vita va avanti”. ’Sumud’ è diventato così determinazione a opporsi
all'immobilismo, a barricarsi nel proprio villaggio, e rifiuto dell'impossibilità di
raggiungere la propria scuola o il proprio posto di lavoro. Lo scenario cardine per
mantenere l’impegno a continuare la vita quotidiana, è stato la memoria collettiva degli
anni di scioperi generali della prima Intifada e delle loro conseguenze nefaste, che hanno
distrutto le attività commerciali e ostacolato l'educazione di un'intera generazione di
studenti. Stavolta le scuole, le università e i posti di lavoro, hanno fatto dell’impegno a
restare aperti il loro grido unitario. In questo modo, hanno contribuito a porre le basi che
la maggioranza della popolazione deve seguire nella resistenza quotidiana compresa-datutti, ma conquistata-individualmente nel semplice atto di passare dall’altra parte.
Ma i check-point non ostacolano solo la mobilità, creano un’enorme caos. La
conseguenza visibile è la difficoltà che la gente, le merci e i servizi trovano nel raggiungere
una destinazione. Meno evidente è come i check-point interrompono una miriade di
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circuiti attraverso cui passano la moltitudine di rapporti sociali ed economici che
rendono la vita possibile. Non è per il semplice fatto che le merci non possono raggiungere
il mercato, o uno studente la propria scuola, ma è l'intera rete di relazioni che rendono
conseguibile l’educazione o possibile il commercio, a trovarsi improvvisamente spezzata –
con ogni linea interrotta che emette segnali a vuoto. Sopravvivere significa ricostruire
questi circuiti. Inizialmente, a farlo, sono gli individui che per caso cercano di trovare un
modo per passare dall’altra parte. Ma, col tempo, nasce il bisogno di creare una nuova
rotta di movimento e cominciano a emergere sistemi informali. In assenza di
organizzazioni di base, reti di lavoratori irregolari con le capacità e le motivazioni
necessarie hanno avuto la possibilità di inserirsi. Così, piuttosto che le “istituzioni
nazionali” come le scuole, l’improbabile simbolo della nuova resistenza è il sottoproletariato degli autisti dei furgoni della Ford. Considerati una minaccia sulle strade e
fuorilegge in tempi normali, oggi, con la loro sotto-cultura anarchica, semi-criminale,
banditesca (il cui vessillo è l’onnipresente adesivo Nike “Non ho paura”, piazzato sul
parabrezza posteriore) sono l’emblema dell'etica del superare tutto, con ogni mezzo,
dell’arrivare ovunque nonostante gli ostacoli. Questa stessa sotto-cultura maschile sottoproletaria degli autisti dei furgoni è stata, per molti versi, la spina dorsale dei sistemi
d’organizzazione iformali, sviluppati per rendere possibile di passare ”dall’altra parte”.
Aza'r, o ”banditismo”, è forse la forza più costante della resistenza, e implica
un’organizzazione adeguata all’interno degli stessi check-point – un elemento necessario
quando si ha a che fare con il caos del traffico e degli ingorghi di persone, così come con gli
atti di banditismo dei soldati, ai quali è stato dato immenso potere e libertà d’azione nei
confronti della popolazione civile.
Banditi contro il caos
Un check-point per prima cosa crea scompiglio nei sistemi e nelle vie di transito .
Surda apparve come blocco stradale nel marzo del 2001, e nel giro di una settimana, le due
strade alternative possibili tra Birzeit e Ramallah (ora note come “al-Jawwal” e “alMahkama”) vennero anch'esse chiuse. Ovunque all'interno della rete di blocchi, gli autisti
si aprivano nuove e spesso impraticabili piste attraverso la terra coltivata. A causa del
terreno, non era comunque possibile costruire nessuna strada che portasse a Ramallah. Il
sistema di trasporti da cui la maggioranza della popolazione dipendeva, era costituito quasi
per intero dai furgoni della Ford che, secondo legge, possono portare al massimo sette
passeggeri e hanno il permesso di lavorare su un percorso stabilito, sotto la gestione di un
ufficio locale di servizio taxi. Ma la frammentazione della strada costringeva gli autisti a
caricare e scaricare i passeggeri da quella parte del check-point che avevano raggiunto
invece di completare il percorso fino alla fermata ufficiale. Per mesi, tuttavia , regolarizzare
un nuovo sistema di fermate è stato impossibile, perché la strada era spesso “aperta per
metà”, con i soldati che permettevano solo una stretta corsia di traffico per i veicoli diretti
in entrambe le direzioni. L’ingorgo massiccio che ne derivava costrinse alla fine molti
viaggiatori ad attraversare il check-point a piedi, piuttosto che passare ore inutili ad
aspettare di attraversare a bordo dei furgoni.
Il caos nel sistema di trasporti era totale. Mentre le Ford registrate continuavano a
cercare di raggiungere le loro fermate ufficiali alla fine di ogni percorso, banditi in proprio
si affacciavano ai check-points e si portavano via passeggeri e merci. A un certo punto, di
Birzeit si piazzarono di fronte al check-point con in testa Abu Abed, il vecchio responsabile.
Ma il check-point era adesso una frontiera senza legge, e né Abu Abed, né gli autisti erano
in grado di gestire la nuova situazione. Così racconta Ziad. “Gli autisti sono venuti da me e
mi hanno chiesto di trattare con i banditi, perché io sono il più grande bandito di tutti”.
Ziad, trent'anni passati, viene dal villaggio di Birzeit e, come molti degli uomini della sua
età, ha lavorato nell’edilizia in Israele finché il sistema di permessi istituito dopo gli accordi
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di Oslo del ‘93 lo costrinse a lavorare più vicino a casa. Con i soldi ricevuti in liquidazione
dal suo capo in Israele ha comprato una Mercedes a otto posti di seconda mano e ha
lavorato come autista sulla strada che va dal villaggio all'università di Birzeit. Quando è
iniziata l'Intifada, ha colto le nuove opportunità e ha cominciato a lavorare sulle strade
secondarie e sui letti dei fiumi , che erano più pericolosi e duri per le automobili, ma
offrivano un guadagno ben superiore.
“Gli autisti sono venuti da me e mi hanno detto, Ziad, abbiamo bisogno di te per
organizzare una corsia per noi al check-point, ci sono tipi di Jalazoun e di altri villaggi che
arrivano e ci rubano i passeggeri. Abbiamo provato due o tre volte a trattare con loro, ma
gli infiltrati non hanno paura di niente. Gli autisti sono venuti da me un paio di volte, e
all’inizio mi sono rifiutato, ho pensato, voglio arrivare a uno scontro, una guerra? Che
bisogno ho di entrare in questo casino? Ma la vita è fatta di opportunità e quando qualcuno
ha bisogno di te, puoi sfruttarla e guadagnarci sopra qualcosa. Così gli dissi che l'avrei fatto
– non per tre sicli ogni macchina, ma per cinque -, e che avrei portato qualcuno con me per
darmi una mano. Sono tornati e hanno detto, prendi sei sicli, ma stabilisci la rotta per noi”.
La prima mossa di Ziad è stata di andare al campo profughi di Jalazoun, dall'altro lato
della collina rispetto al check-point, e di parlare con gli uomini dell'organizzazione locale di
al-Fatah (i tanzeem), dicendogli che un paio di autisti irregolari stavano creando un sacco
di problemi al check-point. “I ragazzi tanzeem mi hanno detto di trattare con loro (i
piantagrane) e mi hanno dato la loro fiducia”, disse Ziad. “Li avvertirò una, due, tre volte, e
poi sarò costretto a usare il bastone. Non deluderò gli autisti. I ragazzi di Jalazoun mi
hanno appoggiato e la rotta è stata stabilita”.
Il lato di Ramallah del check-point poneva problemi diversi. Con la strada originaria
tagliata a metà, c'era bisogno di quasi il doppio dei furgoni per portare le persone al checkpoint e riportarle a Ramallah. Il trasporto aggiuntivo era fornito ad hoc dagli autisti dei
villaggi limitrofi , le cui strade tradizionali erano state a loro volta interrotte ; scoprirono
così una nuova necessità e una nuova opportunità.
Un'altra differenza sostanziale nel check-point di Ramallah era la presenza
dell'autorità palestinese, con il comando militare e il municipio in grado di rattoppare
qualche buco e nominare un paio di responsabili, uno per i furgoni e uno per i taxi privati.
Il maggiore caos sul lato di Ramallah si sviluppò più tardi, quando un altro check-point
attiguo (“al-Jawwal”, come fu soprannominato dai vicini uffici di telecomunicazione), fonte
di impiego per i furgoni, venne alla fine chiuso dall'esercito israeliano. Tutti gli autisti
disoccupati scesero allora al check-point di Surda dal lato di Ramallah; la maggioranza di
essi proveniva dal campo profughi di Jalazoun.
Abu Abed, 30 anni appena, originario di Jalazoun, era stato responsabile dei veicoli
di Jalazoun ad al-Jawwal. “Hanno chiuso [sic] Jawwal, così siamo andati tutti a SurdaRamallah. Ma quando siamo arrivati là, era controllato dagli autisti di al-Mazra'a che non
ci hanno fatto lavorare; il posto era un gran casino, pieno di ingorghi, così la gente rubava i
passaggi. Siamo finiti a botte, lo sai, noi veniamo da Jalazoun... insomma, abbiamo il
nostro modo di risolvere le cose”. Ne risultò uno scontro che finalmente attirò l'attenzione
del Muqata'a (quartier generale di Yasser Arafat a Ramallah). Abu Firas, il governatore di
Ramallah, raggiunse un accordo con gli autisti sul piede di guerra, stabilendo una quota
per ogni villaggio, ma assegnando a Jalazoun quella più alta, e nominando Abu Abed
responsabile.
I responsabili Ziad e Abu Abed erano in grado di mantenere l’ordine non solo perché
avevano una reputazione da duri, ma perché avevano risorse nascoste. La decisione del
comando militare di nominare Abu Abed responsabile del lato di Ramallah si basava sul
calcolo di chi aveva abbastanza forza per controllare e tenere in ordine il check-point. Il
campo di Jalazoun era di certo più potente di qualsiasi altro villaggio nelle vicinanze. Sul
lato del check-point appartenente a Birzeit, gli autisti di questo villaggio erano il gruppo
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più numeroso della zona, e avevano perciò la priorità. Ma, nonostante ciò, Ziad sapeva
che senza l'appoggio delle persone giuste nel campo di Jalazoun non avrebbe potuto
mantenere il controllo.
Entrambi i responsabili usavano mezzi simili per mantenere una parvenza di ordine
– lo stesso valeva per la giustizia. “Organizzare” le rotte di trasporto significava fare i conti
con tre problemi principali: stabilire chi poteva lavorare; tenere sotto controllo le
competizioni in corso tra gli autisti autorizzati; fare i conti con i soldati israeliani così come
con la distruzione arbitraria che essi apportavano. Mentre i check-point avevano causato
una pesante mancanza di lavoro, avevano allo stesso tempo stimolato uno dei pochi settori
in crescita dell'economia – il trasporto pubblico. Per 15,000 NIS (circa 3,500 dollari) un
giovane disoccupato poteva comprare un furgone Ford di seconda, o terza, mano e
cominciare così a battere la strada. Fino a quando l'autorità palestinese non fu in grado di
regolamentare i territori al di fuori delle città, una condizione sancita dagli accordi di Oslo
e poi cementata dall'Intifada, centinaia di giovani potevano entrare in affari senza fare i
conti con il complicato apparato di tasse e permessi per ottenere una licenza, che costava
almeno quanto lo stesso furgone. I “Mastub” o furgoni “registrati” senza permessi
cominciarono a entrare in competizione con quelli che erano in regola, facendo fuori gli
ultimi mezzi di sussistenza per pochi soldi. Uno dei ruoli dei responsabili era tenere sotto
controllo questi irregolari e, col tempo, di concedere loro una piccola quota durante l’ora di
punta dei viaggiatori.
Controllare gli autisti in regola era spesso molto difficile. Il check-point riduceva la
strada a uno stretto passaggio delimitato su un lato da una ripida collina, e sull’altro da un
pendio scosceso che portava a valle. Ammassarci dentro abbastanza veicoli da entrambi i
lati per trasportare letteralmente migliaia di viaggiatori, e allo stesso tempo creare un
sistema in cui gli autisti dei pulmini potessero caricare i passeggeri, girarsi, e ripartire
senza ingorghi o incidenti, era una sfida impossibile, specialmente nelle ore di punta. Per
rendere le cose ancora più difficili, gli autisti cercavano sempre di saltare la fila, fino a 150
furgoni, per poter tornare indietro il prima possibile e fare più corse. L’accusa di “rubare
un giro” esprimeva verbalmente la misura in cui ”girare la macchina” e fare soldi erano la
stessa cosa. Spesso gli autisti parlavano delle loro fortune economiche in termini di quanto
tempo impiegavano per girare indietro; a volte ci volevano ore.
“Lo sai che è un disastro”, si lamentava Ziad, “se gli autisti ci mettono da cinque a
dieci minuti per fare un carico e girare la macchina. Dietro ognuno ce ne sono altri sei o
sette in attesa, così due o tre di loro cominciano a caricare i passeggeri, saltando un giro.
Non appena si fermano ti ritrovi un ingorgo, poi un furbo si infila di lato e ruba un giro.
Devo tenerli in continuo movimento, un minuto, un minuto e mezzo per entrare e uscire.
(…) Quello che entra e ruba un giro, lo devo anche tirare fuori, altrimenti si bloccheranno
tutti, ma appena lo rivedo è finita per lui – prima lo mando fuori dalla coda o lo
riacchiappo in cima (alla fila) e faccio scendere tutti i passeggeri. Non c’è “rispetto” qui, per
nessuno. Non puoi. Se un vecchio autista arriva e se la prende comoda, fa un casino.
Anche se è più anziano di me, e lo dovrei rispettare, non si può, devo trattare tutti gli
autisti allo stesso modo. Se voglio che le cose rimangano in movimento, devo essere
inflessibile”.
Se tenere sotto controllo i furgoni era una via di mezzo tra l’essere duri con gli autisti
e tenerli buoni mantenendo le file in movimento, trattare con i soldati israeliani era più
complicato. Pulmini e taxi erano un bersaglio costante delle pattuglie. Da una parte, i
pulmini per varie ragioni prendevano periodicamente il rischio di attraversare il checkpoint senza fermarsi. Quando non c’erano pattuglie, guidavano a tavoletta attraverso il
sentiero disseminato di rocce rimasto solo per uso militare. Se venivano presi, la punizione
dipendeva dal capriccio della pattuglia israeliana: il veicolo poteva venire schiacciato da
una jeep o un autoblinda, l’autista poteva essere picchiato o, se era fortunato, veniva
soltanto privato delle chiavi e della carta d’identità.
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Ma i soldati erano anche ossessionati dal tenere gli autisti a una certa distanza dai
cumuli di immondizia che marcavano la zona chiusa al traffico. Gli autisti, d’altra parte,
inevitabilmente cercavano di passare più vicino possibile alle cataste di rifiuti per caricare i
pedoni esausti, o semplicemente per mancanza di spazio di manovra. Col tempo, i soldati
impararono che Ziad e Abu Abed erano i responsabili, e alla fine della giornata gli
avrebbero dato in mano le chiavi e le carte d’identità degli autisti puniti. “Per i soldati ero
io il responsabile della rotta”, disse Ziad, “così quando sequestravano chiavi e documenti e
lasciavano gli autisti senza lavoro, non dovevano disturbarsi a cercare il proprietario;
arrivavano e li gettavano a me, perché ero io che conoscevo tutti gli autisti ”.
Ancora più problematico era quando i soldati cercavano di coinvolgere i responsabili
nelle loro continue battaglie per allontanare i veicoli dalla zona chiusa al traffico. “I soldati
arrivavano e mi dicevano che tutte le auto dovevano fare marcia indietro sulla collina, fino
in cima”, ricorda Abu Abed. Uno di loro disse “che se quando tornava, le macchine non
erano lassù, mi avrebbero ritenuto personalmente responsabile. Dissi agli autisti che i
soldati volevano che loro facessero marcia indietro e continuai a camminare . Era
impossibile. Quando il soldato tornò, loro erano ancora lì, e allora disse, “Dov’è Abu
Abed?” E loro risposero, “Non è qui; è andato verso manara (il centro di Ramallah molto
distante)”.
Anche Ziad smise di fare il mediatore. “All’inizio i soldati arrivavano e mi ordinavano
di dire agli autisti di tenersi distanti cinque metri dai mucchi di immondizia, o che
dovevano allontanarsi fino al palo elettrico. Io lo dicevo agli autisti. ‘I soldati richiedono
che ve ne andiate all’istante fino al palo’. Chiunque faceva marcia indietro, poteva tornare ,
chi non lo faceva aveva chiavi e documenti sequestrati. Ma poi mi stancai di questo, ero
stufo. Un soldato mi chiamò e disse ‘Dì agli autisti di muoversi’. Gli risposi ‘Ascolta, lavoro
per te come dipendente? Ogni giorno, mi chiami. Vieni qui. Vai di là. […] Io sono
responsabile soltanto delle auto di Birzeit”. Lui mi prese la carta d’identità e mi fece sedere.
Era inverno, rimasi seduto tre ore sotto la pioggia. Mi disse ‘Così hai imparato la lezione’.
Gli risposi. ‘Certo, la prossima volta che mi chiami non rispondo. Non è il mio lavoro’”. Sia
Ziad che Abu Abed preferivano quando i soldati badavano direttamente ai propri affari.
“C’era una pattuglia, l’ufficiale era un druso; era tanto buono quanto testardo. Arrivava
dicendo, ‘Buongiorno ragazzi’ e non voleva che nessuno lo disturbasse. ‘Voglio che
spostiate le macchine indietro, fate come vi pare, ma non ve la prendete con me quando
ritorno e trovo le macchine ancora qui. Non dirò una sola parola, vi verrò addosso con la
mia jeep’. Ed era esattamente ciò che avrebbe fatto”.
L’avvento della ruota
Il trasporto da e verso il check-point era compito dei furgoni, ma era necessario anche
viaggiare attraverso la zona chiusa al traffico per trasportare le merci e quelli che non
potevano camminare. Durante il periodo in cui la strada era ‘chiusa per metà’, i camion che
trasportavano merci israeliane ai mercati palestinesi ottenevano il permesso di
attraversarla. Ma ancor prima che la strada fosse completamente chiusa, nell’estate del
2002, miriadi di piccoli imprenditori , agricoltori, personale delle scuole , muratori ,
viaggiatori con bagagli e studenti che tornavano dalle vacanze, chiedevano tutti una
soluzione fattibile per il trasporto di piccole merci. E la soluzione arrivò, sotto forma di
facchini con carretti di legno a tre ruote.
Ricostruire la storia dei facchini di Surda è molto difficile a causa del loro ricambio
continuo, così come anche delle molte leggende sulle loro origini. Secondo i ragazzi di
Jalazoun, iniziò tutto con un venditore ambulante di banane che dal campo profughi venne
col suo carretto al check-point di al-Jawwal. Un giorno, fuggendo dai soldati, si precipitò
con il carretto giù per la strada che costeggia gli insediamenti e giunse al check-point
Surda, dopo aver perso la maggior parte del carico lungo la strada. Un vecchio aveva
bisogno di portare alcune valige dall’altra parte, sul lato di Birzeit, e Ma’mun, il venditore
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di banane, si ritrovò all’improvviso in un business totalmente nuovo.
I facchini del mercato di verdure all’ingrosso di Ramallah raccontano una storia
diversa . Dicono che il governatore abbia fatto girare voce al mercato che c’era bisogno di
facchini al check-point, così un gruppo di quattro persone è andato e ha tentato la fortuna.
Tra i lavoratori, i facchini rappresentano il gradino più basso della scala; la maggioranza
dei facchini del mercato di Ramallah proviene dalle regioni più povere della West Bank, i
villaggi intorno a Hebron, e durante la settimana pernottano nello stesso mercato. Surda,
in confronto, si rivelò un piccolo gradino più in alto.
Così è stato fino alla chiusura di al-Jawwal e all’afflusso di nuovi ragazzi da Jalazoun.
Cominciava un’altra guerra per un pezzetto di terra. “Abbiamo lavorato a Jawwal e poi,
khalas, è stato chiuso”, dice Mustapha, “I soldati continuavano a sparare sulla gente, allora
abbiamo cominciato tutti a passare per Surda. [...] Mio fratello Nidal aveva un carretto,
così pensai di lavorare a Surda, ma quelli di Hebron si comportavano come se fosse loro
proprietà, e ci dissero di andare via. Ma cosa potevamo fare? Così abbiamo iniziato a
lavorare. Ali, un altro fratello, iniziò a fare il venditore ambulante e poi il resto venne da
sé”. Nonostante il gruppetto iniziale di gente di Hebron non fosse in grado di difendere il
territorio dall’arrivo di cinque nuovi ragazzi da Jalazoun, con la chiusura di al-Jawwal e la
maggiore pressione di traffico a Surda, c'era abbastanza lavoro per tutti. I facchini di
Jalazoun e Hebron rimasero a lavorare insieme in un’alleanza reciproca e infine in amicizia
contro quelli che venivano da fuori, fino a che il check-point venne smantellato. “La cosa
migliore di lavorare qui è stato conoscere questi ragazzi”, disse il fratello di Mustapha che
veniva da Jalazoun, “Siamo una cosa sola, come Jamil e Jamal”.
Qualche esempio di cosa i tre facchini trasportavano attraverso il check-point in una
mattinata qualsiasi, può far capire il loro valore: carne dal mattatoio di Birzeit, legna,
barattoli di vernice bianca, bicchieri e piatti per un negozio di casalinghi, alimenti
impacchettati per un supermercato, una bacheca di vetro, l'edizione del giorno del al-Qud,
una macchina per tagliare le pietre, valigie, zaini per studenti, il motore di un’ automobile,
more fresche, e tessuti per una piccola fabbrica di vestiti. La lista di una settimana
significava una miriade di prodotti che permettevano alle comunità dei villaggi e a
Ramallah di proseguire la vita quotidiana. Il flusso di carne, di legno e di ortaggi diretto
alla città si intersecava con la corrente di prodotti industriali e beni di consumo diretti ai
villaggi; questo è solo un piccolo esempio dell'interdipendenza tra le due popolazioni, che il
check-point cercava di distruggere.
I facchini trasportavano regolarmente anche le persone. I bambini troppo piccoli per
camminare, e quelli troppo grandi per essere portati in braccio per due chilometri, erano
una fonte costante di reddito. Per lunghi periodi, a intervalli, quando le sedie a rotelle non
riuscivano ad attraversare l'immondizia, erano i portantini a trasportare i malati e i più
anziani dall'altra parte, compresi sei pazienti in dialisi provenienti dai villaggi e – in
diverse occasioni – quelli che venivano feriti al check-point. Il fatto che i facchini avessero
il permesso di lavorare in diversi check-point, fa capire qualcosa della sordida logica
dell'esercito israeliano, che tollerava solo alcune forme di mobilità: le ruote erano ok,
finché restavano prive di motore.
Il fatto che i facchini fossero un gruppo piccolo e coeso consentiva accordi informali
secondo proprie regole, anche su chi poteva lavorare con loro (tutti quelli di Jalazoun e
chiunque fosse amico o parente degli ebroniti). Nel giro di pochi mesi, il loro numero era
cresciuto e si rese necessario un responsabile. Ma, a differenza dei furgoni, non c'era alcun
bisogno del pugno di ferro, solo di qualcuno che prendesse nota dei turni. Uniti, potevano
cacciare gli ‘outsider’, come la schiera di facchini disoccupati che si presentò un giorno al
check-point di Hawara vicino a Nablus. Così Mustapha portò Bilal, suo cugino disoccupato,
che pativa i postumi di un infarto e veniva trattato più come una mascotte che come un
supervisore. Alla fine, comunque, la pratica etica di accettare i nuovi arrivati cominciò a
pesare. A un certo punto, il numero dei facchini era arrivato a 35. Per compensare i
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guadagni in calo, per prima cosa aumentarono la tariffa da cinque a dieci sicli, e poi,
quando la zona chiusa al transito duplicò in lunghezza, la raddoppiarono di nuovo. I clienti
iniziarono a lamentarsi e il governatore arrivò sul lato di Ramallah per incontrarli e
negoziare il ribasso della tariffa .
La riduzione dei guadagni colpì più pesantemente i facchini sposati con famiglia a
carico; un carretto era un piccolo investimento di 600 NIS (circa 300 dollari) e troppe
persone che non potevano essere respinte stavano entrando nel business. Allora, i tre
facch ini di Jalazoun sposati da più tempo decisero di sfruttare la logica della mobilità
permessa da Israele, e comprarono un cavallo e un carro. ”Io, Ma’mun e Jihad”, racconta
Mustapha ”ci siamo accordati e siamo andati ad Um al-Sharayit per comprare un cavallo e
un carretto. Ci è costato 8000 sicli [più o meno 1,700 dollari], ma abbiamo diviso la spesa
in tre”.
I carretti con i cavalli erano stati provati prima al check-point di Mahkame, ma erano
stati respinti dai soldati. All'inizio successe la stessa cosa a Surda. “Quando siamo scesi per
la prima volta al check-point, i soldati ci hanno cacciato a calci. Abbiamo provato di nuovo
e hanno minacciato di prendersi il cavallo. Così abbiamo aspettato, e pochi giorni dopo è
cambiato il plotone, e abbiamo provato ancora. Questi ce l’hanno permesso. Non sapevano
niente. Andavo giù dalle 5 di mattina alle 11, poi arrivava Jihad e faceva il suo turno. Il
giorno dopo facevamo a cambio e così via”. Mustapha e i suoi soci sapevano che il carretto
gli permetteva di costeggiare il mercato dove arrivavano ogni mattina le carcasse di pecora,
che dal mattatoio di Birzeit dovevano essere trasportate alle macellerie di Ramallah. “La
carne ha bisogno di sei carretti a spinta; sono 70 sicli. Con i cavalli possiamo portarla in un
solo carico per 20 sicli”.
Col carro trainato da cavalli, capace di racimolare almeno il doppio dei guadagni di
un carretto, nel giro di un mese apparvero altri due carri, e, alla fine del secondo mese, la
maggioranza dei facchini più vecchi e sposati lavorava con i carri. Anche un gruppo di
agricoltori si era trasferito lì dai villaggi. Il primo gruppo si era inizialmente incaricato di
trasportare i carichi difficili o pesanti, come ad esempio i materiali per l'edilizia o i grossi
macchinari, non sottraendo così molta clientela ai facchini. Ma ancora una volta,
l'incremento nel numero significava guadagni in calo. A questo punto, i carri trainati da
cavalli avevano preso anche il posto dei carretti nel trasportare i malati e gli anziani che
potevano permetterselo, ma non erano usati regolarmente per trasportare le persone. “Fu
la 'balena' a iniziare”, disse Mustapha, riferendosi a uno dei carrettieri che aveva problemi
col mercato in espansione. “Iniziò a portare le persone con i loro bagagli per dieci sicli, così
cominciammo a farlo tutti. Che potevamo fare? Uno lo fa e distrugge tutti gli altri, non
avevamo scelta”. La ‘balena’ era un energico facchino di Jalazoun notoriamente avaro, o
peggio ancora, spilorcio. La competizione tra i carrettieri portò i prezzi ancora più in basso;
presto si arrivò al punto in cui potevi trasportare i tuoi bagagli e usare un carro con altre
persone per cinque sicli, poi solo due.
In questa nuova situazione, nell'estate del 2002, i facchini rimasti e i loro carretti
erano vicini alla bancarotta; quelli che rimanevano erano ragazzi giovani che non avevano i
soldi per comprarsi un carro con i cavalli. Poi, in luglio, tutti questi piccoli imprenditori
furono spazzati via dall’accordo sulla grande roadmap americana – lo smantellamento dei
check-point di Surda e di Ein Ark. Cinque settimane dopo, quando il check-point fu
bruscamente ripristinato, i carrettieri e i facchini conclusero un accordo, aiutati da una
nuova configurazione delle barriere di mucchi di rifiuti, poste su entrambi i lati del checkpoint. Per fare in modo che i ragazzi più giovani potessero continuare a lavorare, fu
concordato che un cliente avrebbe potuto scegliere per sei sicli un carro con cavallo diviso
con altri clienti, che faceva solo il breve percorso tra i due cumuli che definivano la zona
chiusa al traffico. Un facchino, invece, per dieci sicli avrebbe trasportato i passeggeri,
aggirando i cumuli, dai furgoni su un versante a quelli sul lato opposto. A differenza di
come si risolvevano di solito i conflitti interni al check-point, i facchini non avevano
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l'autorità per costringere i carrettieri a una tale equanimità. La magnanimità di
quest’ultimi era in realtà dovuta al fatto che la maggioranza dei facchini rimasti erano
parenti, amici, o compaesani.
La zona di confine
Il check-point, ironicamente, sottraeva uomini dai margini e gli permetteva di giocare
un ruolo di fondamentale importanza pubblica per la sopravvivenza della società intera.
Quelli che lavoravano al check-point, vittime dello stesso regime di sanzioni che affliggeva
le persone a cui fornivano servizi, avevano trovato un modo di trasformare la stessa fonte
di privazione in fonte di vita. In più, la loro possibilità di lavorare al check-point
dipendeva, se non dall'autorizzazione dei soldati, almeno dalla loro indifferenza. Cosicché
questi lavoratori si trovavano infine in una posizione limite, lungo la linea sottile che
separa oppressori e oppressi, sfruttatori e sfruttati, così chiaramente rappresentata dal
check-point.
Quando i blocchi di cemento erano stati per la terza, e forse ultima, volta spazzati via
dalle ruspe dell'esercito israeliano nel dicembre del 2003, c'erano grosso modo 25 facchini,
18 carri a cavalli, circa 400 furgoni da trasporto, e altri 30 piccoli taxi che lavoravano a
Surda. Sommati a questi, c'erano i venditori ambulanti, il cui numero si aggirava attorno ai
30 col bel tempo, ed era salito a 70 durante l'ultimo Ramadam. In totale, ciò significava
che almeno 540 persone si guadagnavano da vivere al check-point ogni santo giorno. Nel
conto non è incluso il settore dei servizi, che nasceva per nutrire e placare la sete di quelli
che lavoravano al check-point: i furgoni del caffé, i venditori ambulanti di sigarette e quelli
di bibite, i chioschi di kebab e i fabbri per i cavalli.
Per quasi tre anni l'Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari
Umanitari (OCHA) ha documentato un numero pressoché costante nel tempo di più di
600 check-point e blocchi stradali israeliani, che strangolavano i villaggi attraverso tutta la
West Bank. Ma nei suoi ultimi 18 mesi di vita Surda era diventata un’eccezione, grazie alla
sua posizione strategica all'interno di una più grande rete di accerchiamento. Con la
chiusura del check-point di al-Jawwal, Surda era diventata l'unica via di passaggio per chi
viveva nel nord della West Bank. Come tale, era divenuta un polo di attrazione per i
lavoratori senza mezzi, provenienti da ogni parte della West Bank, che arrivavano per
trarre guadagno dalle migliaia di viaggiatori in transito ogni giorno.
E c'erano un sacco di soldi da fare. Gli autisti dei furgoni e dei taxi guadagnavano il
doppio di quanto non avrebbero fatto guidando in circostanze normali sui loro percorsi
regolari. I facch ini e i carrettieri facevano i migliori guadagni della loro vita, specialmente
durante i giorni di maggior traffico, il giovedì e il sabato, quando studenti e lavoratori
andavano e tornavano dal weekend. In più, l'alta domanda e la mancanza di relazioni
sociali tra i lavoratori del check-point e gli stranieri provenienti da tutta la West Bank, fece
sì che la pura logica di mercato arrivò a caratterizzare i rapporti, se non tra gli stessi
lavoratori, almeno nei confronti dei clienti. Specialmente nei giorni di punta, per quelli che
venivano dai villaggi più distanti dal check-point, i prezzi normali e 'giusti' erano un
miraggio; la loro tariffa era definita sul posto in base a quanto potevano pagare.
“Ho visto questo ragazzo vestito di tutto punto, con sua moglie tutta imbellettata, e
con tutte queste valigie”, racconta Ali, un giovane facchino. “Era chiaro che si erano appena
sposati, così ho fatto un cenno ai ragazzi, sono andato lì e gli ho detto 'Congratulazioni', e
c’è di più. Lui veniva da Deir Dibwan (un villaggio conosciuto per la migrazione dei suoi
abitanti negli Stati Uniti), così mi chiese quanto costava una corsa e io risposi ‘Lascia che ci
pensi io’. Ho portato le valigie sull'altro lato, e mi ha allungato un biglietto da 100 dollari.
Ho fatto finta di rifiutare, ma per tutto il tempo facevo cenni a mio padre, che aveva un
furgone. Lui li ha caricati e gli ha scucito non-so-quanti dollari”. Neanche i villaggi
originariamente danneggiati dal check-point si salvavano dalla nuova avidità. La riapertura
di ottobre li aveva colpiti duramente, ma sapevano che era un grande vantaggio per chi
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lavorava al check-point.
Ricorda Mustapha, “Ero stufo di tutto questo. Il lavoro andava bene, ma [...] Ero
pronto a smettere, perché non c'era una sola persona di passaggio che non dicesse,
'Sfruttatori' o 'Voi siete quelli che tengono il check-point, cioè la strada, chiuso'. Le ragazze
dell'università passavano e dicevano 'È colpa vostra se c’è il check-point''. Ero stanco, stufo
della gente che ci chiamava complici. Un giorno stavo portando un uomo giovane, un
impiegato, che ha cominciato a dirmi, 'Voi ragazzi non volete che il check-point sia aperto,
vero? Siete quelli che vogliono tenerlo chiuso . E' colpa vostra se è chiuso'. E stavamo
tornando proprio là! Tirai le briglie dei cavalli e lo afferrai per la camicia e gli dissi di
scendere. Voleva darmi cinque sicli e gli dissi 'Ecco i tuoi cinque sicli, li getterò nella valle,
e ecco cinque sicli di tasca mia, e non cercare di salire un'altra volta sul mio carro. Se lo fai
ti uccido'”.
Abu Abed riassunse la questione con semplicità. “Il check-point porta sofferenza per
tutti, ma hai il dieci per cento da guadagnare e il novanta per cento da perdere”.
Così il check-point alla fine produceva una profonda contraddizione tra gli interessi
economici dei lavoratori e la maggioranza della popolazione che passava di lì. Ma questa
contraddizione non si esprimeva solo in relazione alla presenza o allo sgombero del checkpoint, emergeva anche a proposito della resistenza. Come suggeriscono i precedenti
commenti di Ziad e Abu Abed, i lavoratori cercavano un compromesso con i soldati. Non
volevano essere parte attiva nel loro sporco lavoro o sembrare loro complici. Allo stesso
tempo, non si potevano permettere di affrontarli apertamente e perdere così i propri mezzi
di sostentamento. Nei primi 18 mesi di vita del check-point, prima ancora che si
sviluppasse alcuna infrastruttura, c'erano state tre manifestazioni di massa organizzate
dall'università di Birzeit per cercare di liberarsi del blocco. L'esito di ognuna delle
manifestazioni fu semplicemente l'inasprimento del regime militare al check-point, e la
lezione implicita, rivissuta ancora e ancora, ogni volta che qualcuno cercava di intervenire
in difesa degli studenti interrogati o picchiati dai soldati, era che ogni atto di resistenza
avrebbe semplicemente peggiorato le cose.
Ma manifestazioni spontanee ci sono state, accese periodicamente da studenti e
giovani che non sopportavano i continui abusi. Questi momenti di resistenza collettiva
gettavano i lavoratori del check-point in profondi dilemmi. Lanciare pietre e aggredire i
soldati non solo feriva i corpi, ma distruggeva i furgoni, sfasciava i chioschi dei venditori
ambulanti e danneggiava le merci, con la conseguenza inevitabile della chiusura completa
del check-point per un pomeriggio o anche per più giorni. In questi casi, i lavoratori
parlavano sempre dell’interesse collettivo più ampio, e cioè del danno provocato da
ragazzotti dal sangue caldo.
“In particolare al check-point, anche se cercavi di resistere ai soldati, non ce la facevi
”, disse Ziad, “perché se provavi a resistere e cercavi di fargli male, noi eravamo quelli che
si facevano male, non i soldati. Una pietra gli veniva lanciata – bene. Ma alla fine, la pietra
lanciata rompe il parabrezza delle macchine. Alle jeep non succede niente, sono protette. E
l’altra cosa che sai, è che le loro (dei soldati) pistole sfasceranno ancora altri parabrezza”.
La netta differenza di classe tra gli studenti delle università che manifestavano e il sottoproletariato degli autisti e dei facchini, rafforzava l’accusa di questi ultimi che i ragazzetti
borghesi (che comunque “non sanno combattere”) creavano solo problemi a quelli che
avevano bisogno di passare o ai poveracci che cercavano di guadagnarsi da vivere.
Ma come testimonia la determinazione di Ziad nel restare seduto sotto la pioggia per
tre ore piuttosto che permettere a un soldato di sentirsi superiore a lui, ci sono stati atti di
resistenza quotidiana da parte dei lavoratori nei confronti dei soldati. Questi spesso erano
confronti diretti, faccia a faccia, quando i soldati oltrepassavano la linea invisibile che
segnava il limite di ciò che i lavoratori consideravano tollerabile, secondo la legge del più
forte. Come ad esempio la storia eroica del venditore di caffè, che lasciò che i soldati
colpissero ripetutamente il suo chiosco con una jeep, piuttosto che dargli caffè gratis, o del
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giovane camionista che, in difesa di altri, schiaffeggiò un soldato che aveva maledetto le
loro madri. Ma gli episodi più significativi di resistenza al regime dei check-point, si
trovavano nelle piccole ribellioni quotidiane, meno drammatiche, ma più tenaci. I
lavoratori del check- point ne sovvertivano ostinatamente le barriere fisiche: di notte
spostavano di soppiatto i blocchi di cemento di pochi centimetri in modo da fare spazio ai
carri, o spianavano i bordi delle barriere di rifiuti appena costruite in modo che i carretti
potessero passare. E per necessità, ma anche ingegnosità, rivendicavano per lo spazio del
check-point una dimensione che non fosse quella della pura oppressione e brutalità, ma
anche una in cui si potessero recuperare i mezzi di sostentamento, la vita collettiva e
persino forme di socialità.