gli altri racconti - Liceo Classico Dettori

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gli altri racconti - Liceo Classico Dettori
Liceo Ginnasio G.M. Dettori - Cagliari
Lacrime e pioggia…
Anna Maria Caocci
Correvo e pioveva.
Mentre correvo sentivo il rumore dei miei stivaletti sull’asfalto bagnato. Correvo. Cercavo di non
pensare a niente. Le lacrime che sgorgavano come un fiume in piena si mischiavano alla pioggia
che mi bagnava il viso. Correvo, correvo. Senza una meta. Seguivo il cuore, anzi non seguivo
proprio niente. Il mio cuore ormai era frantumato in mille pezzi, come le tessere disperse di un
puzzle. E chissà se mai qualcuno avrebbe provato a ricostruirlo. Mi fermai esausta davanti al
parchetto e crollai sopra una panchina. Respiravo a fatica, sentivo il mio corpo tremare ma non
avevo la forza di controllarlo. Ero niente.
Ero una donna di 31 anni, tre aborti alle spalle. Sola. In mezzo a tanta gente che passava,
felice, triste, entusiasta, preoccupata, angosciata, io ero sola. Completamente sola. Non avevo
nessuno. L’unica persona che poteva soccorrermi era… Scacciai veloce quel pensiero dalla mia
mente, e vomitai. Stavo malissimo, un’anziana signora mi vide da lontano. Pregavo che non si
avvicinasse. Avevo vergogna di me stessa, avevo vergogna di essere arrivata a questo punto, avevo
vergogna di avere trent’anni e sentirmi così vecchia. Chiusi gli occhi e lasciai andare la mente alle
sue fantasie, al sogno di una vita fantastica, semplice, ma fantastica. Solo che non l’avrei mai avuta.
Era inutile che mi rifugiassi nel mio mondo incantato, quando la realtà mi richiamava ad altro.
Inutile.
Non so come mai trovai la forza di alzarmi e dirigermi verso l’hotel più vicino, avevo pochi
soldi. Quel bastardo mi aveva rubato tutto, denaro, cuore, mi aveva rubato il pudore, l’orgoglio,
ogni cosa. Presi una stanza di medie dimensioni, entrai in doccia e lasciai che l’acqua mi togliesse il
fiato, cercavo una sensazione di pace, mi sentivo vuota, ma il suo volto entrava nella mia testa così
imponente, e più cercavo di scacciarlo via più esso premeva. Mi coricai sul letto, e iniziai a pensare,
ma questa volta rimasi con i piedi per terra. Volevo affrontare il dolore faccia a faccia, consapevole
della forza di questi ricordi, consapevole del fatto che non potevo scappare dalla realtà. Qualcuno
che ha voluto mi accadesse tutto questo, mi odiava forse? Piansi, il peso della solitudine mi
schiacciava i polmoni inesorabilmente.
Concorso letterario “Giallo Nero Rosa” – XII edizione 2009-2010
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Era iniziato tutto una mattina soleggiata, frequentavo un ragazzo da circa un anno, aveva idee
diverse dalle mie ma la cosa non mi dispiaceva. Anzi! Mi piaceva confrontarmi con lui. Poi dopo
qualche tempo è cambiato. Il ragazzo che mi aveva colpito così tanto, il ragazzo che aveva sempre
uno sguardo positivo sulla realtà, il ragazzo che affrontava tutte le difficoltà con un sorriso, il
ragazzo così sicuro, il ragazzo che mi pareva diverso da tutti gli altri…era sparito! Al suo posto,
nello stesso corpo, era subentrato un... animale! Mi violentò tre volte. Due rimasi incinta e mi
costrinse ad abortire. Un anno fa non avrebbe mai fatto una cosa del genere. La terza volta pensava
che fosse andata diversamente dalle altre, invece no. I test risultarono ancora positivi. Io vivevo da
sola, in una casa poco lontana dalla città.
Un anno fa la definivo “il mio paradiso”. Adesso l’inferno. Veniva a trovarmi ogni giorno.
Mi picchiava quando urlavo, mi minacciava se io provavo a chiamare qualcuno. Ma ora che ci
penso a chi avrei potuto chiedere aiuto? A nessuno. Poi gli dissi che questa volta non avrei abortito,
ne andava anche della mia salute. Mi mise davanti a una scelta. Lui o il bambino. Disse queste
parole con un ghigno di crudeltà stampato in faccia, non gli importava nulla di me, e io non seppi
cosa rispondere. Mi picchiò sino a farmi svenire, mi dava calci in pancia ed esclamò a gran voce:
“Ora non hai problemi di scelta! Rimango solo io come alternativa! ” e poi… la sua risata mi
rimbombava ancora nelle orecchie.
E poi... ero scappata, sparita. Non sapevo più niente di lui e non mi interessava. Stavo
precipitando in un baratro di buio immenso, non vedevo una luce attorno a me, non sapevo a cosa
aggrapparmi, non capivo che senso avesse continuare a vivere; e con questa domanda mi
addormentai. I giorni passavano tristi in quella cameretta, non ero più uscita, il solo pensiero di
incontrarlo mi faceva rabbrividire. Una notte feci un sogno, un sogno strano, un sogno
apparentemente banale, un sogno diverso dagli incubi che mi tormentavano ogni notte, un sogno
semplice, un sogno che mi cambiò la vita. C’era solamente una luce immensa, sorprendentemente
bella! Era una luce di felicità, di entusiasmo. Sentivo come sottofondo una risata cristallina,
spontanea, una risata di gioia, piena di voglia di vivere, di abbeverarsi di quella luce come un
assetato nel deserto davanti a un oasi. Era una luce di speranza. Era la mia voce.
Mi svegliai stranamente tranquilla e quando mi alzai per guardarmi allo specchio vidi un
lieve sorriso rallegrare il mio viso pallido e smunto. Mi sentivo alquanto strana, quel sogno mi
aveva sconvolto ma allo stesso tempo rinvigorito. Mi vestii velocemente e …uscii dalla stanza.
Iniziai a riprendere le lezioni all’università e decisi di partecipare ad un concorso che, se avessi
vinto, mi avrebbe permesso di prendere servizio come supplente in un liceo classico. A scuola non
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parlavo con nessuno, ma piano piano stavo riprendendo in mano la mia vita. Trascorrevo le giornate
cercando di riempire la solita tristezza, censurando le domande del mio cuore, ormai consapevole
che la mia malinconia era solo un’atroce conseguenza dovuta ad un’assenza di un qualcosa che non
riuscivo a identificare. I libri erano il mio rifugio, i poeti le uniche persone che mi facevano
compagnia durante i pomeriggi. Mi riscoprivo protagonista della selva oscura, la mattina a scuola
mi sentivo un Passero Solitario. A volte pensavo a uno psicologo, altre mi chiedevo davvero come
un poeta vissuto trecento anni fa potesse parlare semplicemente, casualmente?, di tutto quello che
vivevo io.
I giorni passavano, e mentre mi occupavo di riempire la mia solitudine, le notti mi ritrovavo
immancabilmente disarmata. Venivano a trovarmi i ricordi dei giorni bui e senza speranza che
ancora, malgrado tentassi di nascondere, vivevo. A tutto questo si aggiunse il fatto che stavo
ingrassando. Iniziai a prendere sul serio l’idea di una malattia, perché non mangiavo molto, anzi
saltavo spesso il pranzo. Ero sempre stata magra, e vedere il mio corpo trasformarsi così
velocemente mi spaventò. Ma d’altronde ormai, tutto mi faceva paura.
Una mattina il postino mi recapitò una lettera. Pensai a chi avesse potuto scrivermi e iniziai a
tremare. No. Lui no. Ti prego. Ma chi pregavo? Sentivo il mio cuore battere forte. Pensavo già a
come fuggire, a dove sarei potuta andare. I soldi iniziavano a scarseggiare. Ma se lui mi avesse
trovato…oh no! E invece…girai la busta. L’indirizzo era del Provveditorato . Aprii veloce il foglio
e lessi le prime righe. Tirai un sospiro di sollievo e sorrisi. Avevo vinto il concorso e da lunedì
potevo prendere servizio in un liceo non lontano dall’hotel. Quella notte andai a letto più tranquilla,
avevo bisogno di una novità che mi riempisse la vita, almeno in parte!, e questa era arrivata. Ora
c’era solo da aspettare e... sperare che la scuola potesse aiutarmi. Il mattino successivo appesero in
camera mia un calendario. Guardai la data e rimasi spiazzata. Corsi in bagno per controllare ma…
Niente. Panico. “No, stai calma.” Mi imposi. Rifeci il conto dei giorni, usai anche la calcolatrice per
essere più sicura. Ma tornava tutto. Presi la borsetta e in mezz’ora riuscii ad andare in farmacia,
tornare in hotel, ordinare una camomilla e sedermi sul letto. Preparai il test e…quasi non credevo ai
miei occhi. Ero incinta.
Il peso di questa verità mi schiacciò. Mi coricai e nemmeno una lacrima sgorgò dai miei
occhi.
Il giorno dopo iniziai a preparare le cose per il lunedì. Percepivo l’adrenalina scorrere nelle mie
vene, ma allo stesso tempo sentivo il bisogno impellente di chiedere aiuto a qualcuno, o qualcosa?
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La giornata passò in fretta e finalmente anche quel tanto atteso lunedì arrivò. La sveglia suonò alle
sette del mattino precise. Rimasi cinque minuti a guardare il soffitto, ferma. Mi sorpresi nel vedere
la mia mano poggiata sul ventre, quasi in segno di protezione e inizia ad accarezzare delicatamente
la pancia. Forse quel bambino era un aiuto in più per uscire da questo pozzo di malinconia che mi
sembrava infinito; quando pensavo di aver raggiunto il fondo, mi accorgevo di poter andare ancora
più in basso. O forse era un’altra difficoltà da superare, da SOLA? “Lo scopriremo solo vivendo”.
Questa frase mi accompagnò tutto il cammino verso la scuola. Quando raggiunsi l’edificio, rimasi a
guardare gli studenti che entravano e uscivano dal cortile. Chissà chi avrebbe accompagnato le mie
settimane. Tra quei volti riconobbi il figlio di una mia…conoscente. Usare la parola “amica” mi
faceva male. Non riuscivo ancora a comprendere il valore che l’amicizia aveva nella mia vita. Le
persone che ritenevo tali mi avevano voltato le spalle nei momenti in cui io avevo più bisogno. La
vita mi aveva messo davanti solo sconosciuti verso il quale non sentivo nessun tipo di appartenenza.
Ma forse qualcuno ha deciso per me. Ed è giusto così. Non sono mai stata particolarmente credente.
I miei genitori mi avevano imposto di fare la cresima, dopo di che il mio allontanamento dalla
Chiesa è stato graduale. Tuttavia non potevo non ammettere che qualcosa al di fuori della realtà e di
ciò che la ragione può cogliere c’è. E questo qualcosa da un senso a tutto. Sino a qualche mese
prima mi pareva una cosa astratta, ma in quel momento pensai che se mi trovavo davanti a quella
scuola, a fissare visi di giovani ragazzi, un motivo c’era. Buono o cattivo? “Se non varcherò
l’entrata di questa scuola, non lo scoprirò mai! Forza.” Sorpresa da tutto quest’improvvisa ondata di
entusiasmo mi incamminai veloce e entrai. Mi diressi verso la bidelleria, firmai e salii le scale. La
mia classe si trovava all’ultimo piano, sentivo già le urla di ragazzi e ragazze. Chissà se erano
curiosi di conoscere la loro nuova professoressa di lettere. Forse si, ma mai quanto me.
Appena mi videro ci fu un via vai tra i banchi per sistemarsi e si alzarono in piedi. Osservavo
le loro espressioni come un pittore innamorato dei suoi dipinti, lessi nei loro visi stupore, sollievo
forse? Dopo qualche mese mi raccontarono che era stato annunciato alla classe, giorni prima,
l’arrivo di una racchia vecchia e grassa. Al pensiero, oggi mi viene da ridere. Li salutai con un
cenno e mi sedetti alla cattedra. La mattinata trascorse veloce, così come quelle successive, i giorni
erano illuminati da una nuova luce che mi veniva trasmessa da questi ragazzi, giovani e pieni di
vita. Tornavo a casa contenta ma poi la notte precipitavo ancora nel baratro dei miei dubbi. Avevo
paura che tutto finisse.
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Con il passare del tempo anche il mio bambino cresceva sempre più, a volte mentre interrogavo in
classe, lo sentivo scalciare e mi lasciavo scappare qualche gemito, suscitando le risate dei miei
alunni. Grazie a loro stavo uscendo dalla mia depressione, grazie a loro avevo trovato qualcosa a cui
aggrapparmi.
Una sera tornando da una riunione scolastica incontrai una decina di essi davanti all’hotel
che ormai era diventato la mia casa. Avevano facce spaventate e si guardavano intorno aspettando
forse qualcuno. Andai loro incontro e appena mi videro le ragazze mi abbracciarono. “Oh
professoressa! Siamo così contente di vederla!” mi spiegarono poi perché. “Un uomo all’uscita del
corso di recupero ci ha fermati, dicendoci di aver saputo che lei stava male e di recarci qui per
informarci sulle sue condizioni di salute.” Per un attimo pensai che il cuore avesse cessato di
battermi. Il più piccolo e bassottino di loro esclamò : “ PROF! Mi ha detto di consegnarle questo
biglietto!” i compagni lo zittirono. “Sei proprio scemo” disse una di loro “avevi promesso di non
dirle niente. Ecco noi…ci siamo permessi di leggere ma…avevamo paura che…” Mi venne quasi
da ridere. Presi il biglietto, li ringraziai e entrai in camera mia. “Sono tornato.” Lessi queste parole
più volte e scoppiai a piangere. Proprio ora che avevo ricominciato a vivere. Non potevo stare qui.
Assolutamente! Raccolsi tutte le mie cose velocemente, pagai l’alloggio e uscii dall’hotel. Cercavo
un posto dove andare, cercavo una casa, cercavo qualcosa che mi proteggesse da questo mostro. Ma
soprattutto, cercavo la felicità.
Una mia collega mi vide in mezzo alla strada e si avvicinò. Non mi chiese il perché delle
lacrime, non disse niente. Afferrò una delle mie borse e mi prese a braccetto. Io mi lasciai
trascinare, non mi importava che intenzioni avesse, non mi importava più di nulla oramai. Non
riuscii a dirle niente, ma il mio cuore scoppiava di gratitudine verso quella donna che conoscevo da
poco più di quattro mesi. Mi portò a casa sua, per tutto il tragitto restammo in silenzio. Poi in
ascensore mi sorrise e disse: “ Ti ho osservato in questi mesi e ho capito che avevi bisogno di
aiuto.” Mi abbracciò e iniziai a sentire il sapore di un sentimento che finalmente cominciavo a
scoprire. Lottai contro l’illusione di un sogno, avevo paura di svegliarmi e trovarmi ancora nel letto
duro dell’hotel. Mi fece appoggiare le borse e mi sistemò in una stanza molto grande. Viveva da
sola. Mi mostrò il bagno e mentre mi rinfrescavo il viso, la sentivo in cucina armeggiare con tazze e
posate. Tornai timidamente da lei e trovai due cioccolate fumanti, due torte e tanti biscotti al
cioccolato. I miei preferiti. Respirai profondamente e dissi con voce rauca dopo il gran pianto: “Io
davvero non so come ringraziarti. Stai facendo tanto per me, mai nessuno era...” Non terminai la
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frase, le forze mi mancarono e lasciai che il mio corpo scivolasse sulla sedia. Mi prese la mano e mi
disse “Parla.” Sorpresa più da me stessa che da quelle parole, iniziai a raccontare tutto, come mai
avevo fatto. Le parole mi uscivano dalla bocca come la pioggia dalle nuvole, non mi fermai per due
ore. E lei? Rimase ad ascoltarmi, non riuscivo a interpretare la sua espressione. Sapevo che provava
pena per me, ma non osò mai lasciar intravedere niente. Nei suoi occhi però leggevo tranquillità,
come se da tanto tempo avesse aspettato questo momento. Non avevo mai notato in questi mesi, a
dir la verità, un particolare interessamento da parte sua. Insegnava matematica al piano di sotto, da
ormai vent’anni. Ogni tanto ci incrociavamo ma avveniva solo uno scambio di sorrisi. Non avrei
mai pensato di trovarmi a casa sua e raccontarle di me. Dopo che finii il racconto lei mi guardò e
non mi disse né mi dispiace, non compatì il mio dolore, non mi diede dei farmaci antidepressivi.
“Troveremo insieme la forza per ricominciare. Ce la puoi fare.” È strano come delle semplici parole
possano cambiarti la vita, divennero il mio motto. Grazie a quell’amica che avevo scoperto per
caso, grazie a quell’amica che da allora non mi ha mai abbandonato, grazie a qualcuno che mi ha
mandato quell’amica. Non andai dalla polizia a denunciarlo. Ammetto di aver conservato quel
foglietto in fondo al cassetto e ogni tanto... lo prendo tra le mani e inizio a odorarlo. So che è
sbagliato, so che lui non mi ha mai amato. Ma io si e malgrado tutto quello che ha fatto, una parte di
me è rimasta segnata dall’amore che lui mi dimostrava. E io ci credevo. Uso l’imperfetto, perché
ora ho aperto gli occhi. Grazie all’amicizia che mi ha donato uno sguardo nuovo sulla realtà. Io da
sola, come ogni essere umano presente sulla terra, non ce l’avrei mai fatta. Un giorno mentre
leggevo un libro ai miei alunni, rimasi colpita da una frase che riassume questo mio incontro con un
sentimento forse più bello anche dell’amore: DRITTO DAVANTI A SE’ NON SI PUO’ ANDARE
MOLTO LONTANO.
È quello che ripeto sempre alla mia classe. Anche grazie alla quarta C sono cambiata. È
incredibile come dei quattordicenni possano darti lezioni apparentemente banali ma che
racchiudono in sé un mondo di verità e amore. Mi hanno aiutato a capire che non posso scappare
dal passato, non posso dimenticarlo. Ma posso, anzi devo guardarlo come un’occasione per
imparare e insegnare loro a vivere la vita come un’avventura in cui ognuno dev’essere protagonista.
Con molti di loro sono diventata amica con la A maiuscola. Venivano a chiedermi consigli, e per
me era un piacere immenso aiutarli perché per prima avevo bisogno del loro aiuto. A metà mese
entrai in maternità, ma andavo all’uscita di scuola ogni mattina per stare insieme alla mia classe.
Arrivò anche il momento del parto. Non avevo un marito, mio figlio non aveva un padre, ma avevo
degli amici che mi sarebbero stati accanto qualsiasi cosa fosse successa, degli amici veri, che non
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mi illudono, che il solo volermi bene mi riempie il cuore di una presenza d’amore di cui non mi ero
accorta sino a un anno prima, degli amici di tutte le età di cui mi vantavo più di qualsiasi altra cosa,
degli amici grazie ai quali avevo capito che la tristezza non è un ostacolo per l’umanità, bisogna
solo avere il coraggio di dialogarci sul serio. Mio figlio nacque in una mattina soleggiata, faceva
caldo e io ero tutta sudata nel letto della sala parto. Quando l’infermiera me lo portò scoppiai a
ridere ricordandomi di una battuta che la mia migliore amica mi aveva detto il giorno prima. Anche
in questo momento avvertivo la sua presenza. Guardai mio figlio negli occhi, vedevo riflessa me
stessa, quella di prima, impaurita, senza speranze, che aveva paura anche della sua stessa ombra. E
quella di adesso, che aveva imparato ad amare perché aveva ricevuto su di sé (finalmente, oserei
dire) uno sguardo che le aveva insegnato ad amare. Presi tra le braccia quella parte di me e rimasi
una notte intera a guardarla. Ero diventata mamma. Non potevo negare di aver paura che crescendo,
quella piccola creatura appena nata sentisse la mancanza di un padre, ma ero certa che insieme a
loro, ce l’avrei fatta. Insieme alle persone che mi avevano salvato la vita, insegnandomi che la
felicità esiste e io per prima posso essere felice.
Guardai fuori dalla finestra, iniziava a piovere forte. Una piccola lacrima di gioia mi solcò
il viso.
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Madama Butterfly
Francesco Lampis
Parigi 17 Aprile 1933,
Erano le sei del mattino eppure da più di un’ora, c’era una ragazza seduta alla finestra .
Parigi sembrava vuota,era ancora buio ma durante quel periodo era rimasta lì seduta a fissare non si
sa cosa in non si sa quale punto fra i tanti che erano possibili da scorgere .La ragazza, di nome
Antoinette, si trovava in un vecchio caseggiato , tre piani ,più una soffitta che sembrava uscita dal
primo atto della Boheme, come diceva Madame Bouvier l’anziana padrona di casa la quale ,
reduce di un passato glorioso di donna di “compagnia”, divenne una semplice padrona di casa di
mattina e padrona di una casa d’appuntamenti la sera. In questo grande caseggiato, perché casa non
è possibile definirlo, quella ragazza di appena sedici anni che guardava oltre la finestra, era la
nipote della padrona ed era una ragazza molto particolare: aveva una bellezza del viso limpida, i
capelli morbidissimi e per gli occhi più attenti, anche un seno prorompente.
Era anche un' abile giocatrice d’azzardo e avida fumatrice (ma solo nelle serate mondane ) tanto
che le sue
“ compagne” la soprannominavano “turca” per l' olezzo di ciminiera che
emanava,tuttavia detestava il fumo,ma perché fumava allora?Questo è un mistero, uno dei tanti
nella vita di questa giovane figlia di Parigi. I suoi genitori erano morti nel 1918 per la grande
epidemia di spagnola , lasciandola orfana a un anno, venne affidata alla nonna paterna,Madame
Bouvier, che benché avesse tanti difetti aveva anche tanti soldi anche se avidamente nascosti. La
nonna era stata una prostituta poi moglie di un banchiere che morì in circostanze misteriose e le
lasciò in eredità pochi soldi e la grande villa che lei vendette per comprarsi un grande caseggiato,
assunse delle “cameriere” e aprì una pensione un po’ particolare per gentiluomini. Il figlio era stato
un ragazzo,come dire, con capacità limitate, tozzo di aspetto e fallito negli affari; sua moglie, era
un’attrice di poco talento ma con il suo attraente visino riusciva a guadagnare qualche soldo in più.
La loro figlioletta Antoinette, che in seguito sarà nota a tutti con il nome d’arte di “ Belle
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Bouvier",aveva molto più talento di sua madre nel recitare e dalla nonna aveva ereditato l'arte del
suo mestiere.
Belle aveva accumulato in quei sedici anni un bagaglio di esperienze umane così vario da
superare quello di una donna adulta; era aggraziata, elegante, con un ottimo carattere anche se
talvolta cinica con i clienti e le rivali in affari, era una ragazza strana, perversa,alta quanto bastava,
con dei capelli splendidi
di colore castano scuro, gli occhi erano degli splendidi
smeraldi
incorniciati da un grazioso viso che pareva fatto di marmo, di una candidezza e purezza grazie alla
quale nessuno mai, se non fosse stato per il pesante trucco, avrebbe sospettato il suo mestiere, aveva
poi sulla guancia un neo che in qualche modo rendeva un po' orientale il suo volto da vestale
greca,sapeva parlare splendidamente e perfettamente in ogni occasione, gentile talvolta anche
troppo,sapeva recitare ma fingeva maliziosamente di non saperlo fare.
Erano le due di notte : il locale era pieno ( come sempre ) molti uomini mascherati
entravano dalla porta di servizio , aristocratici , parvenue , politici ( e sicuramente anche qualche
vescovo in borghese ),Belle era ancora sopra l’angusta scala che conduceva al salottino rosso dove
si giocava alla roulette e si fumava oppio. Dalla porta tra il salotto rosso e quello verde entrò un
uomo, o meglio un ragazzo .. era splendido, non uno di quei vecchi che le capitavano sempre ! Era
alto circa un metro e ottanta, aveva i capelli biondi corti ..
< sicuramente è tedesco> pensava,
gli occhi erano blu, di un blu scuro, vestiva con un abito da sera di prim’ordine ,era accompagnato
da altri due ragazzi: uno bruttino e scialbo che sembrava avere la tisi, uno grosso che , invece ,
aveva l’aria da maiale .
Entrarono con passo leggero e delicatamente avanzavano come se si trovassero in cattedrale,
quasi non curandosi di quello che succedeva intorno a loro. Prima che potesse fare anche un solo
movimento si presentò nonna Bouvier in abito rosso e pieno di pizzi ( un po’ fuori moda bisogna
dire ) < I signori hanno già visto qualcuna ? > disse la Bouvier parlando delle ragazze come se si
trattasse di carciofi da svendere alla chiusura del mercato. < Prego ? > disse il tisico mentre il
grassone rideva fragorosamente, nonna Bouvier lo squadrò pensando “ Guarda bello che questo è
una Garçonnière non un convento ! “ < Lasci stare signora, piuttosto volevamo sapere ..> disse il
tedesco mentre con la mano destra prendeva il ricco portafoglio facendo quasi arrossire la donna
che guardava attonita tutti quei quattrini
< volevamo sapere se era possibile avere una stanza
completa di servizi > disse marcando fortemente la parola servizi, < Capisco > disse la donna ormai
ipnotizzata dal portafoglio, ci mancava poco che sbavasse.
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Si avvicinarono due ragazze, Emilienne, esilissima con i capelli biondi indossava un vestito
viola a frange nere estremamente lungo, era grottesco il suo volto, era ammalata ma mai nessuno se
ne era accorto , contro un muro o al buio in una fredda strada , queste cose si notano poco ,e così
nascondeva il suo dolore con la cipria , ma con fare da seduttrice, come avrebbe potuto essere Mata
Hari, si portò via il tisico, l’altra ragazza, Anne , non vale la pena di descrive, anche lei era rimasta
incantata dal portafoglio del tedesco,e voleva
portarselo via, ma Madame facendole un'
occhiataccia le “consegnò “ il grassone. Il ragazzo "tedesco" che guardava con piacere le ragazze
degli amici stava per pronunciare qualche parola ma fu interrotto < Mi segua prego ! > La vecchia
Bouvier desiderava avidamente che il giovanotto stesse con sua nipote. Belle, capendo benissimo
le sue intenzioni si precipitò nella stanza numero 19 la solita stanza , la migliore e la più isolata
.Prese violentemente una spazzola, si controllò allo specchio, si spruzzo del profumo e si accese una
delle sue sigarette :come se aspettasse l’apertura di un sipario,si mise seduta davanti alla toletta
senza fiatare .La porta si spalancò, entrò la vecchia seguita dal tedesco dicendogli avidamente <
Per questa stanza e servizio > ammiccando < c’è bisogno di un pagamento anticipato > . < Ecco >
disse il tedesco sfilando tre banconote dal portafoglio < Grazie > annuì la vecchia che ora lo
guardava dolcemente , poi prendendogli dalle mani il denaro, che era quasi il doppio di quello
pattuito, uscì . Non era la prima volta che Belle assisteva a questa scena, ma si rallegrò che almeno
stavolta il cliente era di bell’aspetto.
<Buona sera signorina> disse lui andando vicino alla
toletta per poterla vedere, lei si girò di colpo e rispose <Buonasera> aveva certo un viso splendido e
che occhi poi, certo era stata ben preparata, forse troppo, infatti il rossetto rosso non si adattava al
suo viso d’angelo così come tutta quella cipria . Lui ne rimase colpito, si aspettava una donnina di
tutt’altra specie o almeno non così delicata, era una cosa insolita trovare uno sguardo dolce in una di
quelle ragazze che solitamente erano volgari; lui la guardava attonito e senza dire una parola si
sedette sul letto ,senza mostrare alcuna malizia.
Era rimasto colpito da lei, che invece lo guardava divertita
trovando sciocco il suo
comportamento romantico, non c’era niente di romantico per lei .< Volete una sigaretta ? > chiese
lei per rompere il silenzio e soprattutto l’imbarazzo < Si grazie > rispose lui in modo impacciato,
lei pensò che avesse solo vent’anni ; era giovane e bello ma anche impaurito come uno scolaretto
il primo giorno di scuola .
Non le era mai capitata una cosa del genere , allora decise di prendere in mano la situazione
cosa che non le succedeva quasi mai. Così si sedette accanto a lui, si tolse la vestaglia di seta rossa
rimanendo con la camicia da notte in mussola bianca. Lui guardava ma non fiatava < Non vi piaccio
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forse ?> chiese lei divertita < No, tutt’altro, lei è splendida! > disse il tedesco, < Non è vero .. >
esclamò con la sua solita aria come per dire “ smentiscimi subito !”< Lei mi piace molto , vorrei
conoscere il suo nome > e lei < Belle Bouvier >, < è un bel nome >sussurrò lui, < è un nome d’arte
> affermò lei sorridendo, non aveva quasi mai parlato con i clienti . < Ha pagato per parlare con me
? > domandò lei in modo arrogante < Chi vi dice di no ? > fu la risposta del “tedesco”. Lei rimase
ammutolita < Vuole uscire ? > le propose il “tedesco”,< Uscire?E dove?>, < Non è tanto tardi un
ristorante aperto a Parigi si trova >; < Non mi è mai capitata una cosa del genere > < C’è sempre
una prima volta > < Ma la padrona? > < Con lei ci parlo io > .Un’ ora dopo erano fuori , Parigi era
ancora in festa , non era mai stata in posti così eleganti, li aveva solo sognati , ricche signore
ingioiellate , piume , abiti eleganti e scintillanti , manicotti di pelliccia , acconciature piene di onde ,
lei era a mala pena decente con quell’ suo abito “ H. Bendel ” fuori moda di qualche anno , rubato
ad un amica .
Belle avrebbe voluto fare parte di quella società ed essere come quelle donne, invece di
vivere rinchiusa in un bordello per il resto dei suoi giorni, fino a diventarne la padrona in vecchiaia.
Monte Carlo 10 Gennaio 1934
“Mia cara Emilienne ,
spero che le tue condizioni stiano migliorando , io sto vivendo un sogno , ogni giorno, mi sveglio
alle due del pomeriggio e vado a letto alle cinque del mattino , non trovo modo per liberami dalle
feste e che feste! Quanta bella gente che si vede; ora indosso abiti eleganti e bellissimi, ogni giorno
di pomeriggio vado a fare una passeggiata, da sola con un ombrellino splendido, in un parco ,
sono sicura che io e Rudolph finito l’idillio di Monte Carlo ci lasceremo. Sicuramente sarà
richiamato in patria perché ci sono troppi tumulti in Germania , io comunque sto facendo molte
ottime conoscenze , anche se le signore della buona società non mi hanno pienamente accettata,
invece
al casinò ho trovato migliore accoglienza.
Mentre passeggio nel parco trovo nuovi
ammiratori e quando Rudolph vede le rose mandate da qualcuno di essi si ingelosisce molto, quindi
sono costretta a nasconderle oppure a rimandarle indietro .Sono stanca delle sue scenate di gelosia
ma almeno mi sto facendo conoscere , ora non posso più scrivere ,sono troppo stanca !
Con affetto , Belle.”
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Rudolph pensava che dopotutto non avesse senso amare una ragazza del genere, in lei era tutto
un eccesso , anche il suo profumo era esagerato: un miscuglio di fumo e buon profumo.
Conservava nei suoi cassetti una grande quantità di portasigarette,in oro , in argento, e platino.
Tutti con delle iniziali diverse, non c’era una “B” in nessuno dei suoi oggetto da toletta .Era
normale per una ragazza che svolgeva quel mestiere ricevere dei regali , dalle spazzole agli specchi
in argento, dai portasigarette rubati dalle tolette e dagli armadi delle mogli dei suoi “ amici intimi “
, ciò a lei pareva una cosa esilarante . Lei tuttavia preferiva che le pagassero una seduta dalla
parrucchiera , oppure una visita dalla modista, ma anche un mazzo di rose. Era anche molto golosa
di dolci, pareva una bambina capricciosa a volte , e si offendeva se il giorno del suo compleanno , o
il giorno di capodanno il suo amante di turno non le portava una scatola di dolci e delle rose. Che
strana però la vita di questa particolare creatura , a quindici anni cominciò per guadagnarsi il pane ,
a 17 per avere successo e a 20 ormai per abitudine, le piaceva essere famosa a Parigi . La vita
proseguì più meravigliosa di prima dopo aver lasciato quel ragazzone tedesco Belle era tornata a
Parigi , frequentava i salotti più illustri e più chiacchierati, le sue visite dalla modista erano molto
più frequenti , Elsa Schiapparelli e Coco Chanel erano diventate le sue amiche migliori e facevano
a gara per vestirla; si era accorciata i capelli che aveva tinto quasi biondo platino e gli aveva
raccolti in un elegante chignon . Andava al cinema per vedere La Garbo e Bette Davis e le
prendeva ad esempio, Belle voleva essere una primadonna come loro così si cimentò con il teatro e
non le fu difficile trovare una compagnia, o per meglio dire, un direttore di una compagnia che la
volesse . Cominciò a fare i capricci e a causa dei suoi isterismi diversi spettacoli venivano
annullati il giorno della prima. La carriera teatrale la rendeva famosa ma era stressantissima ,
provava continuamente a tutte le ore, non aveva il tempo di dormire , mangiare quando voleva , né
soprattutto passare da Chanel nè dal gioielliere. I suoi amanti si susseguivano uno dopo l’altro ,
dopo ogni rappresentazione praticamente cambiava compagno , di fronte ai loro occhi , con grande
sfacciataggine dimostrava di non voler essere una pedina nelle mani delle altre persone , era giunta
fino a Parigi e sarebbe arrivata dappertutto se avesse voluto continuare a fare la “ cortigiana “ che,
come diceva lei nei suoi momenti “ intellettuali “, era una cosa complicata , richiedeva una maestria
tutta particolare che non tutti avevano .
Ormai tutti chiacchieravano di lei e nel suo camerino fra rose e cioccolatini non sarebbe più
potuto entrare nient’altro, in ogni dono c’era un bigliettino “ DIVINA ! ti aspetto stasera non
mancare“ più o meno erano tutti così , un complimento e un invito per trascorrere la serata in
allegria . La giovane ragazza aveva troppe maschere, con le amiche e gli amici era dolce e gentile,
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con gli amanti era crudele e acida , con gli ammiratori indifferente e presuntuosa , con i direttori
dei teatri e i colleghi era addirittura violenta e con se stessa come fosse non lo sapeva nemmeno lei.
Parigi 6 Febbraio 1938
“ Oggi è il mio compleanno , caro diario mi sento troppo stanca , sono stanca di fare questa vita !
non ho voglia di morire per colpa del palcoscenico , ho ventuno anni e me ne sento addosso cento ,
mia nonna sembra un aguzzina che tiene i conti di tutto quello che faccio , i miei ammiratori , mi
stressano , sono perfino stanca di imitare le dive , è faticoso urlare in teatro contro i registi e gli
altri colleghi poi non mi rimane mai un filo di voce. Oggi come regalo farò il mio grande addio alle
scena ma dovrò pagare una penale , ma non importa , voglio godermi la vita come mi pare , ma
non sono tanto in vena stanotte di fare follie , mi hanno consigliato certe pastiglie che dicono
facciano venire il buonumore, dovrei comprarne scatole intere , più del mio adorato cioccolato .
Stasera con chi farò l’amore è una domanda che mi perseguita, non ho più voglia di trovami
davanti i soliti parrucconi con un piede nella fossa ! “
Clinica Saint Michel ,28 Settembre 1938
“ Ogni giorno è peggio , ieri mi hanno portato in ospedale , è stato orrendo preferirei morire pur
di non tornarci , non chiedo tanto, voglio solo la mia morfina , perché non mi lasciano vivere come
voglio ? Tutti parlano della Germania ma a me che me ne importa ? In casa ricevo sempre meno
rose e cioccolatini, forse si sono già stancati di me ? Ieri ho lasciato Les Greux che mi ha fatto una
scenata sulla mia cocaina , la morfina e il mio fumo ! ma non lo sa che noi artiste ne abbiamo
bisogno ?Inoltre ieri il mio amministratore mi ha detto che ho dei debiti che arrivano a cifre
inimmaginabili ! e che se non voglio gli ufficiali giudiziari in casa devo pagare almeno un quarto di
tutto , domani passerò da qualcuno a riscuotere . “
Parigi , 10 Maggio 1940
“ Cos’ è caro
diario la cosa più brutta che possa capitare ad una come me ? LA GUERRA ! sono partiti tutti ! gli
ufficiali sono tutti dietro scrivanie ,gli intellettuali sono tutti fuggiti in America i signori con mogli
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e tutti partono verso la Provenza , e io con tutti questi debiti come faccio?I Tedeschi ci hanno
invaso , e per di più è quasi estate,e l’estate a Parigi è sempre orrenda .Dal caldo oggi si possono
praticamente cuocere le uova sui gradini del Louvre .Ora non mi spaventa più la guerra perchè in
ogni esercito ci sono degli ufficiali”.
Belle durante i festini andava a salutare tutte le sue amiche con un irresistibile smorfia < Oh cara ! >
si sentiva il rumore delle sue labbra scarlatte contro le guance piene di cipria delle “amiche “ < Eh
come sei elegante stasera, vado pazza per il tuo profumo ! > le ripeteva Olympe la padrona di casa
che quella frase l’aveva ripetuta a tutte le invitate presenti al loro ingresso, ma il suo vero pensiero
era < Come fa a portare il bianco , beata lei che se lo può permettere è così magra maledizione !>
subito dopo aver salutato tutti i suoi amici e conoscenti , andava a prendere la prima coppa di
champagne .Lei aveva la capacità di fingersi brilla anche bevendo dell’acqua e fingeva spesso di
bere vodka al posto dell’acqua, si toglieva le sue scarpette e incominciava a divertirsi , non erano
certo feste alto borghesi o incontri intellettuali, erano più che altro soprattutto per la sua presenza,
rievocazioni di feste dionisiache. Lei che ballava a ritmo di una danza grottesca quasi di morte,
aveva un allegria più cruda e amara della disperazione , i suoi giovani ammiratori facevano a gara
per portarsela sulle spalle, lei era una marionetta nelle mani del destino , i suoi vestiti erano sempre
i più scandalosi , i più appariscenti possibili senza parlare dei gioielli che indossava, ballava sui
divani e si scatenava ,diventava una bambina che aveva voglia di giocare, e forse dopotutto lo era
,ma chi avrebbe saputo resisterle ?Era certamente molto brava a dare baci,tutti la consideravano
molto“affettuosa“, ma dopotutto era il suo lavoro, quando però tornava finalmente a casa dopo feste
e si stendeva da sola sul letto aveva sempre una forma di malinconica tristezza , era forse una futile
esistenza la sua ? Sapeva che quelle cose le faceva per lavoro,infatti non si era mai ubriacata ma si
comportava da ubriaca .Quando si infilava fra le fresche lenzuola di mussola e seta per dormire
iniziava a pensare , era costretta a leggere per non pensare a un domani al suo futuro che le
appariva spaventoso, si domandava che cosa ne sarebbe stato di lei , ma alla fine per lei erano più
importanti i suoi affari che erano più flessibili di quelli di uno speculatore di borsa , che risentiva
del minimo fallimento di una banca . Questa era la sua vita nelle ultime settimane : feste , feste e
ancora feste , continuava a drogarsi e durante un festino addirittura svenne. Si era dovuta adattare
alla guerra , c’erano gli invasori e il suo compito era quello di tenerli allegri . Oramai era come
morta , era allegra e sorridente ma nei suoi occhi si leggeva una disperazione e una sofferenza
atroce ,voleva la morfina e i suoi tranquillanti , il cioccolato non la faceva più sentire bene , non era
più una bambina e tentava invano ogni giorno di coprirsi quelle rughette che si erano formate a
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causa della sua vita dissoluta, si vedeva brutta ,ma ora
non lo diceva per civetteria o per
protagonismo ,era solo stanca di una vita che ormai non era più vita,ma solo un vortice in cui lei si
era infilata e dal quale non era possibile uscire.
Parigi , 16 Settembre 1940
Quella notte , era stanca sentiva che non avrebbe retto un'altra notte insonne, ogni dieci minuti
andava alla toilette per controllarsi il trucco e nascondersi quelle occhiaie così grandi che avrebbero
fatto paura a tutti ,il suo volto era bianchissimo,l’alcol,la droga, il suo “lavoro” e i conti che non
tornavano mai, avrebbero affondato un transatlantico .Era stremata, non riuscendo più a reggersi in
piedi andò da Rudolph con il quale aveva riallacciato una relazione, e gli disse < Devo andare caro ,
non mi sento per niente bene . > < Vuoi già andartene ? > disse lui ubriaco, il suo viso era
paonazzo, tutto sudato e puzzava di fumo peggio di lei che disse < Vado a prendere lo scialle >
allora lui la afferrò per un braccio e la riportò accanto a se < La festa non è finita , non vorrai
offendermi andandotene> Rudolph era ubriaco fradicio ,Belle lo scostò violentemente da sé, i suoi
occhi avevano assunto un colore stranissimo,si poteva vedere la rabbia di tutta una vita e con tutta
la sua forza lo schiaffeggiò. Lui attonito assisteva a quella scena che sembrava una patetica “
vendetta della prostituta”; la prese per il collo e la trascinò sul sofà in damascato rosso, tentò di
violentarla ma lei con quelle poche forze che le restavano riuscì a respingerlo,dopotutto era ubriaco
e l’alcol rendeva deboli anche gli uomini più forti .Corse fuori ,non voleva più saperne di lui e di
tutti, sarebbe fuggita da Parigi per sempre ,avrebbe completamente dimenticato tutta la vita
trascorsa finora,ma mentre aveva tali pensieri si sentì uno scoppio, guardò in basso e vide del
sangue,era il suo . Le aveva sparato,si accasciò a terra,ebbe un’ atroce agonia per dieci minuti con
dolori estenuanti,il suo sguardo fissava un carillon che suonava,suonava una musica malinconica
nella quale rivedeva tutta la sua vita,aveva avuto tutto,ma a lei pareva invece di non aver avuto
niente, non riusciva a piangere,perché aveva già pianto abbastanza, aveva ormai poche lacrime da
versare .La vista le si annebbiava e sentiva solo quella musichetta del carillon sempre uguale e
monotona che in quell’ultimo attimo di vita fu il suo unico conforto. Belle non aveva paura della
morte , era una creatura coraggiosa e si ripeteva < Peggio di quello che ho vissuto io che potrebbe
esserci ? > ,poi piano, piano sotto quella triste musica della “ Manon”,tutto si fece buio e fu la fine.
Come un bruco, che per gli uomini comincia a vivere solo quando si è trasformato in farfalla, così
anche lei cominciò a vivere solo da quell’istante e come una farfalla volò via verso l’infinito .
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Ricordo di un'illusione
Sara Mashayekhi
Il fruscio del vento, le onde che sbattono sugli scogli e si fanno spazio tra una roccia e l'altra, il
cielo azzurro, il mare. Il sole, la spiaggia, il calore sulla pelle.
Era da tanto che non venivo qui. Era da tanto che non mi soffermavo a guardare la natura, a
guardare l'orizzonte, a fermarmi e a pensare. Pensare a quanto sia strano che il mondo intorno a me
sia rimasto nella sua assoluta perfezione, che non sia cambiato a differenza mia. Pensare che il mare
rimane sempre del suo colore azzurro a tratti più chiaro a tratti più scuro e che, anche se a volte si
scaglia con violenza contro queste rocce, poi ritrova la sua serenità, sempre.
Anche io vorrei ritrovare la mia serenità. Vorrei svegliarmi pensando che il giorno che sto per
vivere possa essere diverso dagli altri, che qualcosa di bello mi stia aspettando lì fuori. Vorrei
ritrovare la mia spensieratezza e la voglia di divertirmi e di ridere. Ma più di tutto vorrei
semplicemente riuscire a riniziare una nuova vita lasciandomi dietro tutti i momenti, belli e brutti,
che ho passato. Vorrei cancellare ogni minimo pensiero. Ogni minima preoccupazione.
Ma i ricordi a volte riescono a impedirti di vivere serenamente gli attimi della tua vita. Riescono a
catapultarti in un altro mondo, a confonderti, a renderti più fragile e più sensibile. Hanno la forza di
distruggerti interiormente, perché nel momento in cui meno te lo aspetti, un lampo, un flash, ti fa
rivivere ciò che da una parte vorresti dimenticare, ma che in realtà vorresti portarti dentro per
sempre. Ce la metti tutta per sembrare indifferente e forte agli occhi di tutti, ma dentro, dentro ti
senti morire. Basta una parola, uno sguardo, un sorriso anche di uno sconosciuto per riportarti
indietro nel tempo, per risucchiarti di nuovo in quel mondo tutto tuo, fatto di rimpianti, rimorsi e
nostalgia. Perché sai che nonostante cerchi di dimostrare il contrario, nonostante cerchi di
convincere te stessa e gli altri, lui ti manca e anche tanto.
Ti impegni a non pensarci, a distrarti con altre attività, con altri pensieri. Ma involontariamente,
ogni via ti conduce a lui. Ascolti musica, ma le parole della canzone riaprono una cicatrice nel tuo
cuore e il dolore sembra essere ogni volta più doloroso della volta precedente. Esci di casa e ti
ritrovi in posti in cui sei passata con lui, posti che un tempo non notavi e non ti soffermavi a
guardare, ma che ora fissi per lunghi minuti.
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Altre volte basta anche solamente pensare a quanto eri felice in quel periodo e a quanto ora quella
felicità ti manchi.
- Rebecca? Rebecca, dove sei? Dobbiamo tornare a casa.
La voce di mia madre mi riporta con i piedi per terra.
- No mamma, io resto.
- Rebecca,insomma, te ne sei rimasta tutto il tempo sola ,qui, su questi scogli. Non sei stata
nemmeno un secondo con tua sorella che non vedi da mesi. Vieni che andiamo a pranzo, ritorni
questo pomeriggio.
- Ti prego mamma, non ho fame.
- Tesoro, ti stai facendo solo del male. E' passato più di un mese ormai. Pensandoci così tanto ti
torturi e basta.
- Lo so…
- Su alzati e vieni.- e mi sorride come solo lei sa fare.
- Voglio stare sola mamma, per favore.
Sto per scoppiare. Non riesco a reprimere oltre le lacrime che sento che a momenti mi bagneranno
tutto il viso offuscandomi la vista. Prendo il mio Ipod e mi distendo sulla roccia. Mamma deve aver
capito che tanto è inutile insistere perché conosce bene come sono fatta e quanto sono testarda.
E' rimasta altri secondi a guardarmi e poi se n'è andata.
So che comportandomi così provoco in lei un grande dispiacere, ma credo che scoppiarle in lacrime
davanti sia peggio. E inoltre, io stessa voglio starmene da sola perché vedere che tutti gli altri a
differenza mia sono allegri, non potrebbe far altro che farmi sentire più male.
Mi infilo le cuffie dell'Ipod e scelgo una canzone a caso senza guardare il display. Parte la musica.
Sembra fatto apposta…
"…Remember the first day when I saw your face
remember the first day when you smiled at me
you stepped to me and you said to me
I was the woman you dreamed about
remember the first day when you called my house
remember the first day when you took me out…"
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- Non è fantastica questa canzone, Nichi?
E ponendole questa domanda, mi metto a danzare e a volteggiare, più felice e allegra che mai.
Nicoletta si mette a ridere.
- Non è male. Diciamo che è adatta al tuo stato d'animo adesso.
- Lo puoi ben dire! Ma ti rendi conto? E' la prima volta che io e Andrea usciamo insieme da soli!
Ho paura…
Mi fermo di scatto e blocco la musica.
- Paura di cosa, Rebecca? Guarda che non devi fare niente di speciale e niente di particolarmente
impegnativo. State andando semplicemente a vedere una partita di basket come due bravi amici.
La fisso per alcuni secondi in viso. Si, forse ha ragione, forse devo tranquillizzarmi un po'.
Insomma, cosa potrebbe succedere?
- Bene. Credo sia ora di andare.
Sento il cuore pulsarmi con violenza nelle vene. Devo andare.
- Va bene. Mi raccomando stai tranquilla e divertiti. Hai aspettato questo giorno da mesi.
Mi sorride e mi abbraccia.
Esco di casa quasi correndo. Le strade sono deserte. La città è ancora avvolta nel sonno di questa
domenica mattina.
E' una sensazione strana sentire che intorno a me c'è una tale pace, ma che dentro l'emozione e
l'agitazione mi stanno logorando. Il punto è che Nicoletta ha ragione: ho aspettato davvero tanto
questo momento e ora che è arrivato a stento riesco a crederci.
Ho conosciuto Andrea l'anno scorso in uno dei miei allenamenti di basket. Mi ricordo che stava
parlando con il mio allenatore per chiedergli informazioni riguardo una partita che si doveva
giocare in quella palestra la settimana successiva. Lui gioca a pallacanestro ormai da sei anni, ma
non come me che la pratico solo per fare un po' di esercizio fisico. No, lui è molto appassionato e
bravo e devo dire che, vista l'altezza, è anche molto portato.
Come al solito quel giorno ero ferma in un angolo del campo a parlare con una mia compagna,
approfittando del fatto che l'allenatore era distratto. Ero con le spalle verso il campo e verso tutte le
altre mie compagne, tutta assorta nel discorso con la mia amica, quando ad un certo punto sento che
qualcuno mi stava alzando da terra prendendomi in braccio da dietro. Un po' per lo spavento, un po'
perché chiunque fosse mi stava facendo male, ho gettato un piccolo urlo e ho iniziato a divincolarmi
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dando calci a destra e a sinistra. Mi sono voltata di scatto per vedere chi fosse e constatai che era il
mio allenatore che si era seccato di vedermi così menefreghista nei confronti del " suo allenamento"
- Con te, mia cara Rebecca, ci vogliono le maniere forti.
- Si va bene Giorgio, ma io stavo semplicemente scambiando qualche informazione con la mia
compagna di squadra. Non è forse lecito?- e l'ho guardato con aria presuntuosa- Ora mi metti giù
per favore? Mi vergogno così.
- No mia cara. Voglio proprio metterti in imbarazzo davanti a tutti, così la prossima volta farai ciò
che ti dico io.
- Guarda che hai una certa età, potresti farti del male alla schiena e non guarirne più.
Dopo questa frase si sono messi tutti a ridere, compreso Andrea. Giorgio, il mio allenatore, allora,
non sapendo cosa rispondere, chiamò in causa proprio lui.
- Allora Rebecca, ti metto nelle braccia di uno più giovane di me e sicuramente più forte. Andrea
vuoi avere l'onore?
- Ma cosa sono,un giocattolo? Giorgio fammi scendere!
Andrea nel frattempo si era avvicinato ed era pronto per prendermi, ma io, che non potevo più
sopportare di essere trattata così, rincominciai a divincolarmi e, involontariamente, tirai un calcio al
suo ginocchio destro.
-Ahi!- aveva gridato lui.
Io, metà soddisfatta e metà imbarazzata per avergli fatto del male, approfittando del fatto che
Giorgio aveva allentato la presa, mi ero strappata dalle sue braccia ed ero ritornata con i piedi per
terra.
- Scusami, non l'ho fatto apposta.- gli avevo detto. Era piegato e si stava massaggiando il ginocchioTi fa molto male?
Andrea aveva alzato lo sguardo ancora un po' dolorante. Era rimasto qualche attimo a fissarmi e poi
aveva detto – No, non è niente.
- Come non è niente? Non dire bugie Andrea. Ho visto il calcio che ti ha dato e, conoscendo la forza
di questa ragazzina, immagino il dolore…- Giorgio ne aveva subito approfittato per intervenire
contro di me con l'intento di continuare a mettermi in imbarazzo.
Entrambi si erano messi a ridere e stavano ridendo di me. La mia pazienza era arrivata al culmine.
- Non avrei tirato un calcio se tu, caro Giorgio, non mi avessi alzata con violenza da terra
impedendomi di continuare la conversazione con Carlotta.- avevo detto- Oltre a ciò mi hai voluta,
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come dire, affidare nelle mani di un estraneo per continuare la pagliacciata. E' lecito ciò che ho
fatto, si chiama legittima difesa.
- Abbiamo anche la lingua lunga oltre che un calcio potente- aveva replicato Andrea con fare
presuntuoso che non potevo sopportare.
- E non la conosci ancora!- si era messo in mezzo Giorgio – Anzi, dato che ormai ci siamo, Andrea
ti presento Rebecca, la mia peggiore allieva.
Sentendo una presentazione che non faceva onore a quella che ero io, avevo dato un pizzicotto al
braccio di Giorgio.- Piacere- avevo risposto poi con indifferenza e mi ero allontanata per recuperare
la palla e riprendere il mio allenamento.
Quella stessa sera, Andrea aveva chiesto il mio numero di cellulare a Giorgio e la mattina dopo mi
aveva mandato il messaggio del buongiorno. Da quel momento in poi,cioè da due mesi fa fino ad
oggi, io e Andrea parliamo regolarmente ogni giorno sia tramite cellulare, sia tramite computer e
Messenger.
A essere sincera, a me Andrea piaceva già dall'anno prima. Lo vedevo spesso allenarsi e molte volte
mi fermavo a guardarlo dallo spogliatoio, in modo che lui non potesse vedermi. Lo incontravo a
volte all'uscita di scuola e ogni volta mi ingelosivo se una ragazza gli si avvicinava o se gli parlava
soltanto.
Ma non avevo mai fatto un passo avanti per presentarmi e conoscerlo, per due motivi : in primo
luogo, perché sono sempre stata del parere e lo sono tutt'ora che debbano essere i ragazzi a fare il
primo passo. Non perché mi piaccia fare la ragazza preziosa o perché mi vergogni, ma solamente
perché so che a loro piacciono le ragazze difficili da ottenere e quindi, facendomi avanti, mi sarei
presentata come una ragazza facile da " avere". In secondo piano, ammetto di averlo sempre
considerato il tipico ragazzo impossibile e irraggiungibile e non avevo mai voluto farmi troppe
illusioni.
A tutto ciò si aggiunge, poi, il mio orgoglio che non mi permetteva di farmi avanti o di palesare i
miei sentimenti. Ed è per quest'ultima ragione che il giorno in cui il mio allenatore ci aveva
presentati, invece di essere felice di fare la sua conoscenza, mi ero mostrata del tutto indifferente e
per certi versi scocciata.
E ora, dopo due mesi, sento che finalmente posso iniziare a stare tranquilla, sento che posso fidarmi
di lui. Pur non volendo volare via con l'illusione per la paura di una delusione maggiore, sto
iniziando a credere che anche lui provi qualcosa, un minimo di affetto, nei miei confronti. E' vero,
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però, che mi sembra ancora impossibile da credere e a volte sono convinta che sia solamente un
sogno.
Eccolo che arriva. E' puntuale come sempre. Mi passa davanti con la sua Smart, si ferma all'angolo,
mi fa salire in macchina. No, mi sono sbagliata. E' più bello che in un sogno…
"…when he looks at me his brown eyes tells his soul."
Le ultime parole della canzone rimbombano nella mia testa e mi riportano al presente. Senza
volerlo, senza accorgermene, ero volata per l'ennesima volta in quel ricordo, in quel giorno di tre
mesi fa in cui, per la prima volta, ero stata vicina ad Andrea per un'intera giornata. Quel giorno che
ora mi sembra tanto lontano.
E' ormai inevitabile che le lacrime si facciano spazio spingendosi l'un l'altra per scivolare giù sulle
mie guance. Così come ogni onda, andando a sbattere con violenza contro gli scogli, si frantuma in
mille gocce, allo stesso modo, ogni volta che riaffiorano nella mia mente questi momenti passati,
sento che qualcosa, dentro, si stia sbriciolando, portandosi via un'altra parte di me.
Finita la canzone, ne riparte subito un'altra, ma mi tolgo gli auricolari e li getto via. Ho paura. Paura
che anche questa mi rapisca e mi faccia rivivere quei momenti lontani e felici per poi riportarmi al
presente e ribadire che ormai sono tempi passati, che non torneranno mai più.
Mi sdraio sulla roccia e lascio che le lacrime sgorghino indisturbate; non tento nemmeno di
reprimerle poiché so che tanto non servirebbe a niente.
Il vento è calato, il mare si è calmato.
Le lacrime si stanno esaurendo piano piano e il respiro si fa meno pesante. Mi rimetto seduta sulla
roccia e riprendo a guardare l'orizzonte. Una leggera brezza di vento mi spinge i capelli all'indietro
e una sensazione di serenità mi invade da dentro. E' come se le lacrime avessero portato via con se
la mia angoscia e la mia tristezza, lasciandomi sola davanti a questo immenso mare. Vorrei che
questa meravigliosa sensazione rimanga a farmi compagnia per molto tempo, che non se ne vada
lasciandomi di nuovo cadere in quella voragine di spine.
Respiro a pieni polmoni l'aria fresca e pulita e chiudo gli occhi. Inclino la testa verso il sole e
questo, con il suo calore, con i suoi raggi, mi asciuga, come in una dolce carezza, le guance bagnate.
Resto minuti interi in questa posizione e per un attimo mi convinco che il peggio è passato,
che,forse, la sofferenza è finita. Ma come al solito, le cose belle non durano a lungo.
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Apro gli occhi e guardo dritta davanti . Non fisso però né l'orizzonte né il mare, ma mi focalizzo
sulla spiaggia sotto di me. C'è una coppia che si tiene per mano e cammina sul bagnasciuga. Lei
ride e fa le boccacce; lui la guarda, la bacia sulla fronte e poi la stringe forte tra le sue braccia.
Lei si stacca da quell'abbraccio, ruba il cappello al ragazzo e corre via. Lui ride, resta immobile un
attimo a guardarla e poi corre. Corrono tutte e due, felici e innamorati l'uno dell'altra. Lui la
raggiunge, la prende in braccio da dietro e tutte e due cadono sulla sabbia. Lei ride. Lui ride. Lei lo
ama. Lui la ama.
In quei due ragazzi , però, io vedo me e Andrea o, per meglio dire, vedo ciò che avrei tanto sperato
fosse accaduto a me e a lui. Ho sempre immaginato le sue braccia stringermi forte . Ho sempre
desiderato un suo bacio nella fronte. Ho sempre sognato di giocarci insieme sulla spiaggia. Ho
sempre voluto essere amata da lui, dal mio Andrea. E per un periodo, sciocca e ingenua come sono,
ho anche creduto che tutto ciò potesse essere vero. Per un breve arco di tempo ero convinta che non
servisse più sognare, perché la realtà che mi si stava presentando davanti era dieci, cento, mille
volte migliore.
Ma non erano,queste, illusioni che provenivano dalla mia fantasia. Era stato lui, era stato Andrea
che mi aveva portato a credere in queste cose, a credere di essere amata come nessuno mi aveva
amata mai, a credere di appartenere in tutto e per tutto a lui e solo a lui. A credere di essere giunta
alla felicità più assoluta.
Mi chiamava principessa, mi guardava e mi ripeteva che ero bella, che ero diversa dalle altre
ragazze, che ero speciale. Mi diceva che a lui piacevano le cose speciali. Diceva di avere bisogno di
una persona che lo guidasse nelle scelte, che lo aiutasse nelle difficoltà, che lo amasse anche quando
avrebbe sbagliato.
Diceva queste cose e mi guardava negli occhi ed io ero convinta che fossero parole sincere e forse,
tutt'ora lo credo.
Ma che importanza hanno queste parole, questi gesti ora che lui non c'è più per me, ora che lui se
n'è andato via, ora che lui appartiene ad un'altra ragazza?
Che importanza ha pensare e domandarsi se fosse stato veramente innamorato di me o se avesse
finto dall'inizio?
Per quale motivo devo continuare a torturarmi chiedendomi in continuazione "perché se n'è andato
così? Perché mi ha abbandonata da un giorno all'altro senza darmi nessuna spiegazione? Perché ha
voluto illudermi se poi, dopo poco tempo, ha trovato una migliore di me?" ?
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La realtà, che a fatica riesco ad accettare, è che io lo amo. Se ci soffro così tanto, ancora oggi,
dopo un mese e mezzo, è solo perché ci tenevo davvero a lui. Se anche adesso spero che lui ritorni
da me è solo perché non riesco ad accettare di averlo perso, forse per sempre. Ma la cosa più triste
da accettare, la cosa che più mi tortura e mi fa soffrire è che non so il motivo che l'ha allontanato da
me. Ed è per questo che mi immergo nei miei ricordi, che ritorno indietro nel tempo in
continuazione : perché nel profondo del mio cuore, dove la ragione non riesce a dominare, io mi
sento colpevole. Sento di aver commesso un errore. Un errore di cui magari non mi sono accorta,
ma che a lui è bastato per stancarsi di me e andarsene.
Ho ripreso a piangere, più forte di prima, più forte di ogni altra volta. Mi copro il volto con le mani,
cerco di asciugarmi le lacrime che straripano dagli occhi. Non riesco a dominarmi, a reprimere
quest'ondata che mi travolge. Tra un singhiozzo e l'altro ripeto " perché?" e ogni volta alzo di più la
voce fino a urlare. Urlare a pieni polmoni, sperando di ricevere una risposta, una parola di conforto,
un abbraccio, una carezza. Ma non c'è nessuno. Sono sola, sola davanti a questo immenso mare.
Questo stesso mare che ora assiste alla mia disperazione, al mio sfogo, ma che tace. Tace per
lasciare che io esprima la mia angoscia, la mia sofferenza. Tace per ascoltarmi. Tace perché sa che
nessuno, oltre a lui, sa comprendermi fino in fondo.
Voglio smettere di piangere. Voglio smettere di urlare. Voglio smettere di soffrire.
Mi tolgo la maglietta e mi tuffo in acqua da quello scoglio alto, da quello scoglio pericoloso da cui
non mi sarei mai lanciata se fossi stata in me. Cado in acqua. E' fredda, molto fredda. Inizio a
nuotare per riscaldarmi. Una, due, tre bracciate sott'acqua e poi la testa fuori per respirare. E poi di
nuovo, e di nuovo ancora. Tiro la testa fuori dall'acqua per prendere ossigeno e rivedo lui che finge
di non vedermi, lui che non mi saluta e mi passa affianco con indifferenza. Tre bracciate veloci, la
faccia fuori dall'acqua: lui che abbraccia un'altra ragazza, che la bacia, che l'accarezza. Tre bracciate
e poi la ricerca di ossigeno per i polmoni: lui che le sussurra all'orecchio " ti amo".
Non sento più l'acqua fredda a contatto con la pelle, ma mi sento stanca. Stanca non per la nuotata,
ma di dover stare così male per una persona che tanto non ritornerà, per una persona che mi ha
voltato le spalle.
E allora smetto di nuotare. Tocco il fondo del mare e mi rimetto in piedi. Guardo ancora una volta
l'orizzonte.
Concorso letterario “Giallo Nero Rosa” – XII edizione 2009-2010
Liceo Ginnasio G.M. Dettori - Cagliari
Vorrei poter nuotare verso quella linea che unisce il cielo alla terra. Vorrei lasciarmi tutto quanto
dietro. Ma tanto so che non posso farlo, so che sarebbe inutile perché non esiste quella linea. Perché
anche nuotando all'infinito, non riuscirei a sfuggire alla mia sofferenza.
So solo che, come tutte le cose brutte della vita prima o poi passano, anche questo momento
passerà. So che dopo una notte scura può solo esserci un mattino sereno. So che dopo una forte
tempesta c'è sempre l'arcobaleno.
E quindi, se voglio mirare al mattino sereno, se desidero vedere l'arcobaleno nel cielo, devo
sopportare il buio oscuro della notte e la violenta pioggia, anche se questi sembrano durare
un'eternità.
E poi, io stessa ripetevo sempre che non si può imparare se non dalle esperienze e che si fa
esperienza solamente vivendo in prima persona ogni momento; dicevo che bisogna apprendere da
ciascuno di questi qualcosa di nuovo e crescere. Perché la vita è così. Perché la vita è la tua più
grande maestra che ti aiuta a crescere mostrandosi a te in tutti i suoi aspetti.
Ora, dunque, devo solamente riniziare a credere in me stessa e ad avere fiducia.
Sarà doloroso, sarà faticoso, sarà difficile, ma solo così riuscirò a crescere e a scoprire nuove cose.
E, per quanto riguarda l'amore, ho avuto la prova di quanto questo sia un sentimento forte e
passionale e di quanto riesca a farti star male.
Andrea è stato molto per me e forse continuerà ad esserlo ancora per un po' di tempo. I ricordi che
ho con lui sono, forse, i più dolci che ho. Ma Andrea, adesso, fa parte del mio passato. E il passato
va consultato solo per rafforzare il presente, non per renderlo più fragile.
Il passato va messo alle spalle, ma mai dimenticato.
Concorso letterario “Giallo Nero Rosa” – XII edizione 2009-2010
Liceo Ginnasio G.M. Dettori - Cagliari
Caso L.S.
Gabriele Loi
Le onde del mare risuonavano nella notte, spesso sovrastate dai rimbombi dei tuoni. Una
leggera pioggerellina cadeva sulle pozzanghere e produceva un tintinnio fastidioso, la sabbia
diventava nera. Lignano quel giorno era spenta, cupa, triste. Le uniche luci che la animavano erano
quelle dei lampi.
Marco stava in un locale, chiamato “Night”, a bere ed ubriacarsi, depresso per il fatto che la moglie
lo avesse tradito. Quando uscì, pronto per tornare a casa, decise di fare il lungomare. Mentre stava
camminando, sentì uno scricchiolio. Si girò, ma udì solamente le urla lontane di alcuni ragazzi che
uscivano da una discoteca. Continuò, ma sentì dei passi dietro di lui: qualcuno lo stava seguendo.
- Chi va là? – chiese. Nessuno rispose. Allora, preso dal panico, iniziò a correre ma inciampò per le
radici di un pino. Aprì le palpebre e vide due occhi neri, con un’espressione soddisfatta.
Erano gli occhi di un assassino.
*****
Tra i bei viali di Padova, vi era una villetta, stile Liberty, decorata con fiori di tutti i tipi.
Oltre il basso recinto si apriva un vasto giardino, anch’esso fiorito. La porta di casa era in rovere,
massiccia, e presentava diverse macchie dovute al clima piovoso.
In quella villa viveva il dottor Franchi, celebre investigatore privato, famoso per aver risolto
alcuni casi internazionali.
Concorso letterario “Giallo Nero Rosa” – XII edizione 2009-2010
Liceo Ginnasio G.M. Dettori - Cagliari
Quella mattina si era alzato presto e stava sorseggiando il suo primo caffè. Lo interruppero dei
colpi frettolosi alla porta. Con molta calma si alzò ed andò ad aprire. Un omone alto e grosso, dai
capelli biondi, gli stava davanti. Il postino.
-Consegna urgente per Edoardo Franchi -, urlò.
-Sono io -, disse senza fretta l’altro, afferrando la lettera e aprendola.
-Che cosa c’è scritto? -, chiese incuriosito il postino, data l’urgenza.
-Un omicidio…... a Lignano Sabbiadoro…… il paese vicino all’autostrada... –
Rientrò in casa e continuò a bere il caffè, ormai freddo.
*****
In quei giorni la famiglia Coppola era intenta a preparare il funerale dell’amatissimo
parente. Era giunta una lettera da Padova, che riferiva l’adesione del dottor Franchi a questo caso.
Infatti, a pochi giorni dall’accaduto, Edoardo era arrivato in treno a Latisana, distante qualche
chilometro da Lignano. La vedova Coppola piangeva nel suo salone, quando si sentì il suono del
campanello. Vestito in verde, nell’uscio c’era l’investigatore. Era del tutto simile a quello dei
cartoni: cappello, baffi brizzolati e pipa, che produceva un leggero profumo di tabacco.
-Piacere, il dottor Franchi e a sua disposizione -, disse l’uomo.
-Prego, per favore entri… -, disse lei.
La casa era enorme, con cornici e oggetti in oro massiccio. Sulla credenza dell’anticamera
erano esposte diverse immagini di un uomo alto, che nella maggior parte delle foto sorrideva su una
barca enorme. Edoardo si sedette sul soffice divano e Maria (così si chiamava la moglie di Marco)
iniziò a raccontare quando, come e dove avevano trovato il cadavere del marito.
-Aveva molti amici? -, chiese lui con calma.
-Non molti, ma tutti lo rispettavano... beh almeno così sembrava… -Mi può dare l’indirizzo di alcuni? –
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Uscito dalla villa, si diresse verso viale Europa, dove viveva Marcello Magno, grande amico della
vittima. Alla porta si presentò un uomo grosso, con un’espressione inferocita.
-Non capisco che cosa sia venuto a fare qui! Ero un suo amico, e gli ero molto vicino e quindi tolga
ogni sospetto da me! -.
Ma l’investigatore non si lasciò sopraffare. –Dov’era sabato notte? –
-Non sono affari suoi! -, disse l’uomo, chiudendogli la porta in faccia.
Strano tipo, pensò Edoardo, ma continuò le ricerche.
Rosy Crudo viveva in un appartamento vicino al lungomare. Alla porta comparve una
donna alta e bruna, dai lineamenti marcati. Affianco a lei vi era un bimbo di pochi anni che
mangiava dei biscotti. La donna aveva il trucco sbavato e una voce roca e triste: -Non so come sia
potuto succedere ma di sicuro non me l’aspettavo… -, disse lei.
-Ma sapeva dov’era Marco l’altra notte? –
-Lui mi aveva detto che sarebbe andato nel pub di Via Mezza Sacca, ma non so se alla fine lo abbia
fatto... -, scoppiò a piangere e Edoardo salutò e andò nel locale vicino alla casa della signora Crudo.
Al banco c’era un omone dagli occhi neri che gli servì gentilmente lo scotch ordinato.
Immediatamente come per istinto lo assalì con domande come “conosceva la vittima? Lo aveva
visto l’altra notte? Con chi era?” ma l’uomo rispondeva sempre gentilmente “no” o “non lo so”.
Esasperato dai suoi monosillabi, Edoardo rimase in silenzio e si limitò a osservare l’indagato, che
stava accendendo una di quelle sigarette svizzere rare da trovare. Dopo un po’ si stancò e
s’incamminò nuovamente verso il lungomare.
Il vento era fortissimo e la sabbia dorata entrava negli occhi. Le onde del mare producevano
un suono rilassante che, associato al canto degli uccelli, dilettava i passanti. Davanti all’hotel
Calipso vi era una folla che circondava uno spazio delimitato da alcune transenne. All’interno vi
stavano dei poliziotti della scientifica. Edoardo si fece spazio tra la folla e chiese se si fosse trovato
qualche indizio. Un giovane gli diede una busta che probabilmente conteneva alcuni elementi.
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Nell’albergo la aprì vi trovò tre cose: un capello, una bottiglietta di plastica ed una cicca scolorita.
Tre elementi diversi… ma a che cosa si potevano associare? Il capello era corto e
conseguentemente doveva essere di un uomo… la bottiglietta di plastica non gli ricordava niente e
il pezzo di sigaretta aveva i colori rossicci di quelle svizzere del proprietario del pub appena
visitato… ma certo! Ora capiva tutto! La sospetta gentilezza e il mistero che si trovava dietro ai suoi
occhi neri erano delle chiavi per arrivare ad una conclusione! Edoardo osservava ora il capello,
anche questo aveva un colore rossiccio del barista… come si era fatto sfuggire un indizio così
importante… ora gli venne in mente il nome dell’omicida: Rino Tagliamento. Ma ora si chiedeva
per quale motivo avesse ucciso Marco. Per gelosia? Poteva essere una giusta spiegazione dato che
Maria Coppola era una bella donna… Così decise di andare a trovare l’indomani la donna, ma
prima gli mancava la visita dell’ultimo amico della vittima: Gianluca Ripoli. Quest’ultimo viveva
nel lungomare, in una villa adiacente all’hotel Europa. Nel giardino erano presenti diversi giochi per
tanto che, pensò, che quindi doveva essere un padre di bambini… Poly (così lo chiamavano gli
amici) aveva una corporatura esile e una faccia sciupata. I suoi occhi trasmettevano serenità e
benevolenza. Sembrava l’esatto contrario di Marcello Magno… Edoardo fu accolto con gentilezza e
sedette in una sedia del tavolo da pranzo.
-E’ stata una grande perdita per me, era il mio migliore amico e poi lui ultimamente era
depresso…-Perché era depresso?- lo interruppe l’investigatore
-Ah, lei non lo sa? Aveva appena scoperto proprio quella notte che la moglie lo aveva tradito! –
-E con chi l’aveva tradito? –
-Con un certo Rino Tagliamento... ma io non lo conosco. –
-Ora si capisce tutto! – e uscì di corsa lasciando incredulo il povero Poly nel suo soggiorno.
Edoardo Franchi correva come un pazzo per le vie di Lignano. Solo lui sapeva dove stesse
andando. Il cielo si oscurava e in un attimo cominciò a piovere talmente tanto che dovette fare una
sosta in albergo. Lì stette parecchie ore davanti alla finestra, aspettando che smettesse di piovere.
Non vedeva l’ora di smascherare la vedova e l’amante. Già si immaginava la scena…nessuno aveva
capito che il colpevole fosse quella stessa persona che aveva chiesto ad un investigatore famoso di
Concorso letterario “Giallo Nero Rosa” – XII edizione 2009-2010
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risolvere il caso. Un bel piano, ma non per uno come lui. Il movente dell’omicidio ora era chiaro: la
donna voleva a tutti i costi l’eredità del marito, una delle persone più ricche del paese. Verso le
dieci di notte finalmente smise di piovere, aveva dormito per qualche ora e si preparò per uscire.
L’aria era umida e si iniziava a sentire il freddo della notte. Le onde risuonavano, spesso sovrastate
dai tuoni lontani.
Ebbene sì, questi momenti purtroppo li abbiamo già vissuti in un'altra circostanza, che, come
finale, non ha un lieto fine. Ma riprendiamo con la storia…
Il colore dorato della sabbia diventava nero a causa del cielo nuvoloso e cupo. Lignano era
spenta e cupa, per alcuni felice, per altri triste… Edoardo camminava tranquillo, diretto a casa
Coppola. Pur essendo un investigatore di grande ritegno non si era reso conto che anche una
persona che apparentemente sembrava innocua, poteva aver causato la sua fine. Non aveva capito
che niente avviene per caso.
La fine della storia è intuibile, quindi non spreco parole per raccontarvelo, ma da quel giorno il
dottor Franchi scomparve per sempre e nonostante le innumerevoli ricerche, non si riuscì a trovarlo.
Ancora oggi, dopo tanti anni, il “Caso L.S.” rimane tuttora un giallo, che nessuno vuole e vorrà più
risolvere…
Concorso letterario “Giallo Nero Rosa” – XII edizione 2009-2010