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RASSEGNA STAMPA venerdì 14 novembre 2014 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Del 14/11/2014, pag. 1-5 La retorica della guerra tra poveri Razzismo e periferie. Dilaga la caccia, simbolica o reale, ai capri espiatori di sempre: rom e sinti, migranti e rifugiati. Il paradigma Roma Anna Maria Rivera Dilaga ormai in Italia la caccia, simbolica o reale, ai capri espiatori di sempre: rom e sinti, migranti e rifugiati. Pur variando luoghi e personaggi, comune è lo schema narrativo, avallato anche da quotidiani mainstream. A giustificare o sminuire la violenza dei «residenti» e dei «cittadini comuni» si propalano spesso leggende e false notizie, spacciate come vere anche da organi di stampa prestigiosi. Ciò che è accaduto nella borgata romana di Tor Sapienza costituisce un precedente assai grave. Mi riferisco allo svuotamento forzoso, a furor di assalti razzisti, del Centro di accoglienza che ospitava abitualmente i più vulnerabili tra i rifugiati, soprattutto minori. I facinorosi che, incappucciati e al grido di «bruciamoli tutti!», a più riprese hanno attaccato il Centro, con lanci di pietre e petardi, per alcuni giorni sono stati rappresentati, anche dalla grande stampa, come poveri «cittadini esasperati». E le dicerie a proposito di scippi e aggressioni subite, tentati stupri — dei quali non v’è traccia di prova né denunce formali — sono state puntualmente riprese senza alcuna verifica. Tra i pochi che hanno osato violare da subito questo schema narrativo vi sono la Comunità di Sant’Egidio e l’Arci, e tra gli organi di stampa Il Redattore Sociale che già l’11 novembre svelava il segreto di Pulcinella: cioè l’istigazione di estrema destra delle spedizioni punitive. A strumentalizzare il disagio economico e sociale, dirottandolo verso gli alieni, v’è la presenza di «gruppi neofascisti e figure, vecchie e nuove, dell’estrema destra», dichiarava al Redattore Gianluca Peciola, capogruppo di Sel in Campidoglio. Pochi, fra i commentatori che hanno insistito – con qualche ragione, certo - sul sentimento collettivo di abbandono e insicurezza che vivono i residenti, si sono soffermati a considerare le biografie, la condizione, i sentimenti dei capri espiatori: in gran parte giovani, fuggiti da povertà, persecuzioni e violenze, approdati rischiosamente in Europa dopo viaggi da incubo, costretti a una vita alienante e oggi, di nuovo, rifiutati, minacciati, terrorizzati. Lo schema di cui ho detto s’intreccia con un’altra retorica abusata: quella, in apparenza non-razzista, della «guerra tra poveri», secondo la quale aggressori e aggrediti sarebbero vittime simmetriche. Esemplare in tal senso è ciò che è accaduto alla Marranella, quartiere romano del Pigneto-Tor Pignattara, dopo l’assassinio di Muhammad Shahzad Khan, il pakistano di ventotto anni massacrato a calci e pugni da un diciassettenne romano, la notte del 18 settembre scorso. Subito dopo, un centinaio di persone improvvisarono un corteo di solidarietà verso il giovane arrestato, non senza qualche accento di rammarico per «questa guerra tra poveri», insieme con cartelli e slogan quali «Viva il duce» e «I negri se ne devono andare». Più tardi, perfino qualche soggetto politico decisamente di sinistra si è spinto ad affermare che i due sarebbero vittime dello stesso dramma della povertà e del degrado. Come se il livello di potere, la posizione sociale, la responsabilità morale fossero i medesimi, tra il bullo di quartiere che uccide, istigato e spalleggiato dal genitore fascista (poi arrestato anch’egli), e la sua vittima inerme: già annientata dalla solitudine, dalla perdita del lavoro e dell’alloggio, dal terrore di perdere pure il permesso di soggiorno, 2 dalla lontananza dalla moglie e da un figlio di tre mesi che mai aveva potuto vedere. Una perfetta illustrazione, quel delitto, di guerra contro i più inermi tra i poveri. Certo, Roma è paradigmatica per le cattive politiche che nel corso degli anni hanno prodotto ghettizzazione e degrado urbano di tanta parte dell’hinterland. E, si sa, più che mai in tempi di crisi, il disagio economico e sociale e il senso di abbandono alimentano risentimento e ricerca del capro espiatorio. Ma a socializzare, manipolare, deviare il rancore collettivo c’è sempre qualche attore politico: di destra e di estrema destra, solitamente e in particolare Casa Pound e la Lega di Salvini e Borghezio. Che la giunta Marino, come altre giunte «democratiche», ne prenda atto e provveda, prima che sia troppo tardi. Che la sinistra politica e sociale nelle periferie ritorni, come un tempo, a fare lavoro politico. Da Repubblica.it del 13/11/14 (Genova) La Cena delle Fiabe, la famiglia si racconta a tavola Sabato sera all'Altrove un'iniziativa per bambini e grandi: tante storie, dall'antipasto al dolce di MICHELA BOMPANI La "Cena delle fiabe" andrà in scena nel bel mezzo del ristorante. Succede al teatro Altrove, sabato sera, 15 novembre, alle 20.30. In piazza Cambiaso, quartiere della Maddalena, nel cuore del centro storico di Genova. Non è uno spettacolo, è una cena in famiglia. E, insieme al cibo, vengono servite le fiabe. "Tante famiglie con bimbi piccoli non riescono ad andare a teatro o al ristorante - spiega Vanessa Niri, coordinatrice dell'Ufficio infanzia e adolescenza dell'Arci - e allora ci siamo inventati una cena che è anche un po' teatro, ma solo un po' e lascia spazio alle famiglie, genitori e figli seduti insieme al proprio tavolo, per chiacchierare, oltre che ascoltare. Una cena insieme, insomma, con contorno di fiabe". "Non è uno spettacolo per bambini, ma è una cena per famiglie", precisa Niri. Prima di ogni portata, infatti, verrà servita da una voce narrante una bella fiaba a tema, sul cibo, su un ingrediente particolare che sarà servito a tavola. "C'è una fiaba-antipasto, quindi, una fiaba-primo, una fiaba-secondo e una fiaba-dolce", sorride Niri, e alla fine, a tutto il pubblico-ospite sarà offerta un'ottima tisana, accompagnata, ovviamente, dalla fiaba della buonanotte. E il menù è studiato per piacere a grandi e piccini, con la consueta attenzione che il ristorante dell'Altrove mette nella scelta delle materie prime: lasagne al ragù, hamburger "scomposto" a km 0 con patate al forno, e una scelta di dolci alla carta. Con tisana finale. Per partecipare è obbligatorio prenotare all'Altrove, perchè la "Cena delle fiabe" si svolgerà nella sala del teatro e i posti sono limitati. Basta inviare una mail a [email protected] indicando il proprio nome e cognome, il numero di adulti e di bimbi e i propri contatti telefonici. http://genova.repubblica.it/cronaca/2014/11/13/news/fiabe-100478285/ 3 Da Vita.it del 14/11/14 Rapporto Asc: Ecco i motivi del successo del bando post terremoto di Daniele Biella La rilevazione certifica l'ampia soddisfazione di giovani, enti non profit e istituzioni. Il presidente di Arci servizio civile, Licio Palazzini: "Si tratta di un prototipo che va implementato anche in situazioni non emergenziali" Il Bando speciale post Terremoto di fine maggio 2012? “E’ stato un prototipo. Che ha funzionato, e che quindi è replicabile su vari livelli, anche per situazioni non emergenziali”. Licio Palazzini, presidente di Asc, Arci servizio civile, usa queste parole nel presentare la decima edizione del Rapporto (vedi allegato) del proprio ente, che nei 13 anni di vita del Scn, Servizio civile nazionale è quello che ha fatto partire il maggior numero di giovani. È la prima volta che il Rapporto di Asc si basa su una singola esperienza di 50 giovani in servizio (il Bando pro terremotati, appunto) e non getta una sguardo complessivo sul sistema generale: “Abbiamo rilevato come, in una situazione puntuale, tutti gli enti coinvolti, ovvero l’allora ministero di Integrazione e cooperazione internazionale, il Dipartimento Gioventù e servizio civile, l’assessorato delle Politiche sociali della Regione Emilia Romagna e la presidenza della stessa giunta, siano riusciti a portare avanti un lavoro congiunto straordinario”, sottolinea Palazzini. Nel corso della presentazione del Rapporto sono stati descritti in maniera approfondita il contesto generale, il terremoto, gli obiettivi del bando speciale e le sfide all’organizzazione del Scn ( da Licio Palazzini e Piera Frittelli), Le sfide per le risorse umane, i ruoli e i risultati raggiunti (da Michele Girotti), I risultati dal punto dei vista dei giovani partecipanti ( da Elisa Simsig e Marcello Marano) e Le risorse economiche e il tempo lavoro investite dal sistema Asc (ancora da Piera Frittelli). “Il 76% dei giovani selezionato era laureato, e il 91% consiglia l’esperienza di Scn agli altri coetanei”, specifica Palazzini. “Alla luce di questo successo, ora si può pensare a un passo ulteriore, ovvero portare a compimento l’accordo interministeriale di investimento sul Servizio civile: lo stesso sottosegretario con delega al Scn Luigi Bobba auspica che i ministeri dei Beni culturali, dell’Ambiente e dell’Interno firmino l’intesa che è ora in fase di definizione e coinvolgano la Consulta nazionale nella sua realizzazione pratica”. Infine, Palazzini ricorda l’urgenza di recuperare i 10 milioni di euro a oggi “mancanti” rispetto al finanziamento preventivato per l’anno 2015: “Chiediamo al governo di fare proprio l’emendamento depositato in Commissione Bilancio della Camera che prevede uno stanziamento per il prossimo anno di 200 milioni, a fronte degli attuali 65”. http://www.vita.it/societa/servizio-civile/rapporto-asc-ecco-i-motivi-del-successo-del-bandopost-terremoto.html 4 ESTERI del 14/11/14, pag. 1/2 Bombe e milizie Tra i 100 italiani che resistono nel caos libico di Francesco Battistini Le autobomba che hanno fatto tremare Tripoli ieri mattina sono esplose a poca distanza dalla nostra ambasciata. Se nella Libia pre Gheddafi gli italiani erano 40 mila, ora ne sono rimasti un centinaio, costretti a vivere — spiegano — «guardandoci le spalle». Per le violenze, il caos istituzionale, i rapimenti. E se uno dei nostri connazionali, Marco Vallisa, è stato liberato nella notte di mercoledì, un altro — Gianluca Salviato — è ancora prigioniero. Lo spinterogeno dell’autobomba è un carbone accartocciato sull’aiuola dell’ambasciata. Alle 7 del mattino, ha fatto una parabola di quaranta metri ed è finito sotto le finestre del console. Vetri rotti, crepe nel muro sopra una targa che commemora la visita del 2012 del ministro Terzi. «Se qualcuno a quell’ora passava di lì — dice uno della sicurezza — moriva di sicuro». Cinque ore prima ci è passato Marco Vallisa, il piacentino liberato nelle lande berbere mercoledì sera: andava in aeroporto, dopo quattro mesi di negoziato e (dicono i libici) un milione di riscatto. A casa per tornare a sentirsi vivo, dimenticare questa Libia ostaggio d’autobombe e milizie. I banditi l’hanno consegnato ai nuovi padroni della capitale, la fratellanza islamica d’Alba libica, che da tre mesi s’impegna a mostrare ordine e sicurezza. «Grazie di tutto», ha appena fatto in tempo a dire Vallisa: trasferimento in elicot-tero e via veloci, giusto per evitare nuovi incubi, il brutto risveglio d’una Tripoli che si credeva un po’ meno allo sbando. Fortezza Italia. Le autobombe dell’alba non erano per noi: casomai per le ambasciate vicine, emiratini ed egiziani, finanziatori delle milizie antislamiche. Sono comunque affare nostro: con Malta e l’Ungheria, l’unico Paese europeo che ha deciso di restare qui con uno scortatissimo ambasciatore, Giuseppe Buccino, già consigliere diplomatico di Napolitano; col nostro passato in chiaroscuro, l’unica garanzia presente. Ai tempi d’oro, nella Libia pre-Gheddafi c’erano 40 mila italiani, una piccola città. In questi tempi cupi del dopo-rivoluzione, ne sono rimasti un centinaio e una settantina d’aziende: le ultime famigliole sfollate ad agosto, con un ponte aereo mentre l’aeroporto veniva bombardato dalle milizie; gli ultimissimi a resistere, qualche ingegnere edile o i tecnici dell’Eni che fronteggiano gli attacchi ai pozzi e fanno ancora lavorare tremila libici. C’è un altro rapito che non è uscito dalla grotta, il veneto Gianluca Salviato, e ci sono ancora due suoi colleghi della Ravanelli di Venzone che vivono sbarrati a Tobruk, piena Cirenaica, a un centinaio di chilometri dai tagliatori di teste di Derna: hanno abbandonato l’enorme cantiere — «mille ettari di una vecchia base militare, indifendibili» —, si proteggono in una casa con tre metri di muro, qualche guardia in borghese, mai un’uscita, la mancia sotto forma d’affitto pagata a un potente clan locale, la possibilità di tornare in Italia ogni quattro mesi con un complicato volo via Egitto... Aggrappati coi denti al pane che la Libia ci dà. «In questo ultimo anno abbiamo imparato tutti a vivere guardandoci le spalle», racconta un tecnico rimasto a Tripoli, «la prego niente nomi perché sarebbe come esporre la merce col prezzo» e perché, tutti lo ripetono, il bosniaco e il macedone rapiti con Vallisa sono stati rilasciati subito perché si pensa che gl’italiani paghino: «Io sono stato in Nigeria, ma 5 questo per noi è diventato il posto più complicato. Ci siamo dati regole di buonsenso: mai al ristorante, uscire con macchina anonima e a ore imprevedibili, quando s’è in pubblico parlare sempre in inglese, evitare le città il venerdì e il sabato che sono giorni di manifestazioni... Poi non è detto che queste cose servano: le facevano anche i sequestrati». L’ambasciata manda warning via sms quasi ogni settimana, il suo personale ha l’ordine di non uscire mai. Una volta, un secolo fa, a Tripoli esisteva un Circolo degli italiani molto ben frequentato. C’era pure un liceo scientifico, il Dante, ambito dai libici. E dopo il quarantennio delle campagne antitaliane di Gheddafi, a un popolo che parla con termini nostrani come «marciapiede» e «semaforo», i signori della rivoluzione promettevano d’inserire l’insegnamento scolastico dell’italiano come terza lingua. Tutto finito. Ora ci sono i barconi di disperati che salpano dalle spiagge di Zuwara, dov’è stato preso Vallisa. O lo strano boom dei negozi italiani aperti sotto l’occhio tollerante delle milizie: molti non vendono niente, spiega una fonte d’intelligence, appartengono a clan di mafia perché il caos libico è ideale per lavare denaro sporco. «In Libia ci vivo da sempre — dice l’ingegner Zakaria Franka — fino a un anno fa ho sperato che si migliorasse. Ora invece me ne andrei. Nella mia famiglia c’è chi ci sta pensando, a chiedere asilo politico». In Italia? «Ma no, in Inghilterra. Dall’Italia, mi scrive solo gente che vuole venire in quest’inferno. A lavorare qui! Pensano che una guerra civile sia sempre meglio della nostra crisi». del 14/11/14, pag. 16 Una federazione del terrore: ora il califfo vuole l’Egitto FABIO SCUTO DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME IVASCELLI dei corsari jihadisti hanno fatto la loro comparsa al largo della costa egiziana e hanno ingaggiato battaglia con una motovedetta della Marina militare. A terra nel Sinai i combattenti di Ansar al Maqdis — i salafiti passati ora con il califfo Al Baghdadi — hanno attaccato un reparto dell’esercito uccidendo cinque soldati. Al Cairo una bomba carta esplosa in un vagone a una fermata della metro ha provocato il panico e 16 feriti. Il film delle ultime 24 ore in Egitto è un thriller ad alta tensione senza una fine certa. L’Egitto, pressato dalle derive integraliste della Libia e del Sinai, minacciato direttamente dal Califfo dello Stato Islamico, combatte con un cancro interno che la mano dura del presidente Abdel Fattah al Sisi non ha sconfitto. Le spire islamiste avvolgono pericolosamente il Paese dei Faraoni, ne fanno di nuovo terreno per l’espansione della jihad globale. La battaglia in mare della notte scorsa fra i pescherecci armati di mitragliatrici e la motovedetta della Marina al largo del porto mediterraneo di Damietta è andata avanti per ore. In soccorso sono arrivati altri mezzi navali e gli elicotteri. I quattro pescherecci sono stati affondati, trentadue gli assalitori presi, altri sono morti nello scontro. Mentre fra Esercito e Marina egiziana mancano all’appello otto uomini. A terra nelle vicinanze della città portuale in un’altra operazione militare sono state arrestate 40 persone connesse con gli assalitori. Molte zone d’ombra rimangono sia sulla dinamica dell’attacco sia sull’identità dei “corsari”, ma il “salto di qualità” dei gruppi armati è evidente. Questo tratto di Mediterraneo è frequentato da trafficanti di droga e di clandestini — qui si sono imbarcati i 6 450 palestinesi fuggiti da Gaza e morti nel naufragio all’inizio di settembre — ma è anche la rotta del traffico di armi che dagli inesauribili arsenali libici arriva nel Sinai destinato adesso ai gruppi salafiti della Penisola e che prima attraverso i tunnel del contrabbando riforniva la santabarbara di Hamas a Gaza. L’attacco, il primo di questo genere, è quasi certamente servito per “coprire” il passaggio di una nave carica di armi destinate ai miliziani salafiti del Sinai, dove nell’ultimo anno sono concentrati gli attacchi contro l’esercito egiziano, una mini-guerra che ha già superato i mille morti. Fra le dune bianche del deserto al confine con la Libia passano le rotte dei trafficanti di armi e dei beduini contrabbandieri, i grandi beneficiari del crollo di Gheddafi. I convogli dei signori del deserto la cui conoscenza del territorio supera, e di gran lunga, quella delle autorità si muovono su vecchie rotte carovaniere solo a loro conosciute. Sono trasferimenti che fra le dune del Sahara possono durare anche due-tre settimane per sfuggire ai controlli. Per questo ciascun clan lungo il percorso ha depositi di acqua e benzina sepolti sotto la sabbia e ricambi per i camion nell’eventualità di un guasto o una rottura: il carico che ogni volta vale decine di milioni di dollari deve arrivare ad ogni costo. Ma l’arrivo alla guida dell’Egitto di Al Sisi, e la sua dura campagna contro il terrorismo ha costretto i trafficanti a utilizzare meno la rotta costiera sulla terraferma e puntare sulle navi di piccolo tonnellaggio che partono dai porti di Bengasi e Misurata, ben saldi nelle mani delle milizie islamiche libiche. Ansar al Maqdis, il più sanguinario e folto gruppo della galassia salafita egiziana, proprio ieri ha voluto ribadire la sua fedeltà al Califfo Abu Bakr al Baghdadi dopo aver abbandonato Al Qaeda a cui finora si era ispirato. Da tempo il Sinai è una “Tortuga islamica” che ha nel porto di El Arish la sua centrale operativa. Qui vecchie e nuove tensioni con le popolazioni beduine si impastano con il caos egiziano, la “Mafia araba” ha messo salde radici legando le gang criminali ai gruppi integralisti che sognano la nascita di un emirato islamico. Fra le alture attorno allo Jabal Halah, nel cuore di questa penisola di sabbia, tremila miliziani jihadisticontrabbandieri hanno trovato il loro santuario, è la “Tora Bora” del Sinai. Qui i miliziani di Ansar al Maqdis sono i padroni e aspettano rinforzi dal ritorno di centinaia dei 9000 egiziani che già combattono in Siria e in Iraq sotto le bandiere nere del Califfato. L’ordine di Al Baghdadi ieri è stato chiaro: «Portate la Jihad in Egitto». Del 14/11/2014, pag. 6 Israele ferma Commissione Schabas che indaga su guerra a Gaza Striscia di Gaza. Il governo Netanyahu ribadisce la ferma intenzione di non collaborare con l'inchiesta disposta dal Consiglio dell'Onu per i Diritti Umani sui crimini di guerra commessi a Gaza durante l'offensiva "Margine Protettivo". Ieri sera ad Amman vertice a tre su Gerusalemme tra Kerry, Netanyahu e re Abdallah Michele Giorgio, GERUSALEMME Secco no di Israele, anche questa volta, all’inchiesta del Consiglio dell’Onu per i Diritti Umani (CODU). Mercoledì sera le autorità israeliane hanno impedito l’ingresso ai componenti della Commissione guidata dal giudice canadese William Schabas, proveniente da Amman, incaricata di accertare i crimini di guerra commessi da Israele, ma anche dall’ala militare di Hamas, durante i 50 giorni dell’offensiva “Margine Protettivo” la scorsa estate contro Gaza. La commissione ieri era ferma nella capitale giordana, in attesa di decisioni 7 israeliane di segno diverso che però non arriveranno. Il governo Netanyahu ha ribadito che non collaborerà in alcun modo con l’indagine «Dal momento che la Commissione Schabas — ha dichiarato il portavoce del ministero degli esteri Emmanuel Nahshon — non è una commissione d’inchiesta bensì una commissione che fornisce conclusioni in anticipo». I rapporti tra Israele e il CODU si sono fatti difficili negli ultimi anni, specialmente da quando Benyamin Netanyahu è primo ministro. Secondo Tel Aviv il Consiglio, su pressione dei Paesi arabi, prenderebbe di mira Israele trascurando crisi e conflitti in Medio Oriente e in altre parti del mondo che, sempre a detta dei dirigenti dello Stato ebraico, sarebbero più gravi ed importanti. Israele aveva già boicottato la commissione d’inchiesta istituita nel 2009 dopo l’offensiva “Piombo fuso” sempre contro Gaza. Il rapporto, alla fine delle indagini svolte dalla Commissione guidata dal giudice sudafricano Richard Goldstone, arrivava alla conclusione che Israele e in misura molto minore i gruppi armati palestinesi erano colpevoli di crimini di guerra e contro l’umanità. Preso di mira dai media israeliani e dal governo Netanyahu, il giudice Goldstone, peraltro di origine ebraica, qualche tempo dopo fece una parziale retromarcia sulle accuse rivolte a Israele nel suo rapporto. E accuse pesanti sono state rivolte anche a Schabas che, da parte sua, nega con forza di essere schierato pregiudizialmente contro Israele, come qualche mezzo d’informazione locale sostiene riportando la presunta intenzione affermata lo scorso agosto dal giudice canadese di «portare Netanyahu davanti alla Corte Penale Internazionale». In ogni caso, come avvenuto con Goldstone, anche Schabas non avrà modo di ascoltare rappresentanti ufficiali e testimoni israeliani nel corso delle sue indagini. Nei prossimi giorni, passando per il valico di Rafah, il giudice canadese dovrebbe entrare a Gaza dove tra luglio e agosto sono stati uccisi circa 2200 palestinesi e almeno 11 mila sono stati feriti dai bombardamenti israeliani. Molte delle vittime erano donne e bambini (i morti israeliani sono stati 71, quasi tutti soldati). A queste perdite si aggiunge la distruzione totale o parziale di decine di migliaia di case ed edifici. I palestinesi hanno denunciato massacri di civili. Il governo Netanyahu replica che sarebbe Hamas responsabile della morte di persone innocenti perchè i suoi combattenti avrebbero sparato razzi da aree densamente popolate, esponendole alle reazioni delle forze armate israeliane. E ad Amman ieri sera era atteso proprio il primo ministro israeliano, per un vertice a tre con il re di Giordania Abdallah ed il Segretario di stato americano John Kerry. Un incontro volto a discutere come allentare le tensioni a Gerusalemme e che segue i colloqui, sullo stesso punto, avvenuti nel pomeriggio tra Kerry, re Abdallah e il presidente dell’Anp Abu Mazen. Un attacco diretto alle «iniziative unilaterali a Gerusalemme», ossia alla colonizzazione israeliana nella zona araba della città, e ai blitz degli ebrei ultranazionalisti sulla Spianata delle moschee, è partito dal re giordano, irritato della linea del governo Netanyahu. Una forte critica ai piani edilizi israeliani nei Territori palestinesi occupati è giunta ieri anche dal Dipartimento di stato Usa, dopo l’annuncio che saranno costruite altre 200 abitazioni nell’insediamento colonico di Ramot, nella zona araba di Gerusalemme. Commentando la tensione, gli attentati e gli scontri tra palestinesi e militari israeliani che si ripetono da settimane, Hanan Ashrawi, del Comitato esecutivo dell’Olp ha spiegato che non siamo di fronte a una nuova Intifada. «I recenti attacchi – ha detto durante una conferenza stampa a Ramallah — sono la risposta di singoli (palestinesi) frustrati dalle continue provocazioni israeliane sulla Spianata delle Moschee, dalla costruzione di nuove colonie e dalla giudaizzazione di Gerusalemme». 8 Del 14/11/2014, pag. 6 La Nato accusa Mosca di invasione, mentre si esercita in Estonia Ucraina. Ue e Moldavia: trattato di associazione Fabrizio Poggi Uno dei libri preferiti di Jen Psaki, per sua ammissione, è «Anna Karenina»; forse perché Anna aprì la stagione delle fughe in Occidente. Ma, a parte Tolstoj, la portavoce del Dipartimento di Stato Usa, popolarissima a est per i suoi astigmatismi geografici, si associa raramente ai punti di vista russi. Questa volta, però, mentre il comandante in capo della Nato in Europa Philip Breedlove, basandosi su affermazioni di Kiev, grida all’invasione russa dell’Ucraina e l’Osce parla di mezzi militari senza insegne alla periferia orientale di Donetsk, Psaki dichiara che Washington non dispone in merito di informazioni tali da poter essere rese pubbliche. Detto questo però, Psaki non ha dubbi che la Russia violi gli accordi di Minsk sul cessate il fuoco, mentre Washington non è al corrente di alcun bombardamento dei quartieri civili di Donetsk da parte ucraina. Il portavoce del Ministero degli Esteri russo, Aleksandr Lukashevic, ha definito «uno spauracchio» le dichiarazioni circa un presunto intervento russo in Ucraina: «tali accuse da parte occidentale sono verosimilmente guidate dai tentativi dei militari di quei paesi di giustificare le proprie azioni». D’altro canto, il Ministro della Difesa russo Sergej Shoygù dichiara che «l’atmosfera ai confini sud-occidentali della Russia, alla frontiera con l’Ucraina, rimane tesa», mentre il vice rappresentante russo all’Onu, Aleksandr Pankin, ha definito le dichiarazioni Nato sulle truppe russe in Ucraina «consuete falsità propagandistiche». Reali sono per contro le manovre Nato in Estonia «Trident Juncture» che, iniziate il 9 novembre, proseguiranno fino al 17 nel mar Baltico. Il capo del Dipartimento per la cooperazione militare del Ministero della Difesa russo, Sergei Koshelev, ha dichiarato che «per questa esercitazione si parla di interoperabilità in caso di attacco a un paese membro da parte di un grande stato ostile; ma l’Estonia, eccetto che con la Federazione russa, confina solo con “piccoli paesi amici”. Ciò significa che l’esercitazione è esclusivamente anti-russa». In effetti, il generale tedesco Hans-Lothar Domröse, comandante delle forze alleate della Nato in Europa settentrionale e orientale, citato da Ria Novosti, ha dichiarato che le esercitazioni sono concepite come «risposta alle azioni di Mosca». Prima di «Trident Juncture», il Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, aveva dichiarato che, per il «rafforzamento della difesa collettiva», l’Alleanza svolgerà nel 2015 duecento manovre: quasi una ogni due giorni e Die Welt ha scritto che la Nato esamina la possibilità di svolgere nel prossimo anno esercitazioni, mai viste per dimensioni, ai confini russi, cui prenderanno parte dai 25 a 40mila soldati. Nel Donbass intanto, mentre altri miliziani liberati nello scambio con prigionieri ucraini continuano a raccontare di torture, percosse, esecuzioni simulate, cui sarebbero stati sottoposti durante la prigionia, a Lugansk si era parlato di un voto del Parlamento locale sull’unione alla Federazione russa; ma la notizia è stata subito smentita, al contrario dell’annuncio del Ministro della Difesa ucraino Poltorak sulla preparazione di nuove operazioni di combattimento, con il ridispiegamento delle forze e l’approntamento delle linee di difesa. E mentre il Parlamento europeo ratifica a maggioranza l’accordo di associazione della Moldavia all’Ue, i media britannici danno ampio risalto alla morte nel Donbass della più ricercata terrorista inglese, la «vedova bianca» Samantha Lewthwaite, combattente del battaglione neonazista «Ajdar», freddata da un cecchino volontario russo. Infine, nel Nagorno-Karabakh, dove dal 1994 si vive in condi9 zioni di «né pace, né guerra» le cose rischiano di precipitare, dopo l’abbattimento ieri l’altro di un elicottero armeno da parte azera. del 14/11/14, pag. 3 La Nato avverte Putin: «Pronti a sostenere una Ucraina sovrana» di Luigi Offeddu Stoltenberg mostra le prove dell’invasione militare russa Operazioni occidentali dal Baltico al Mar Nero quintuplicate DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BRUXELLES «Sono tanti. Anche adesso, li stiamo osservando dal cielo: carri armati, mezzi blindati, cannoni, batterie contraeree, autocarri. Senza insegne. Colonne che vanno e vengono, avanti e indietro, dalla Russia all’Ucraina Orientale e lungo il confine. Ce lo confermano da terra anche gli osservatori dell’Ocse e i reporter locali: questo è un notevole concentramento militare». Jens Stoltenberg, già primo ministro norvegese, è da poche settimane il nuovo segretario generale della Nato. Ma l’Ucraina, in queste ore quasi assediata dall’armata di Putin, non è membro della Nato. Che cosa potrebbe fare quest’ultima se scoppiasse una guerra-invasione su vasta scala? «Vero, l’Ucraina non è membro della nostra Alleanza. E noi siamo convinti che questo conflitto non possa avere una soluzione militare. Chiediamo alla Russia di rispettare il confine ucraino, di ritirarsi dall’Ucraina Orientale e di non appoggiare i separatisti, perché questo minaccia il cessate il fuoco e mina ogni soluzione politica: sembra un bis dell’operazione Crimea. Detto questo...». Detto questo? «Detto questo, la Nato sostiene e sosterrà la piena integrità e sovranità dell’Ucraina, confermate anche dall’accordo di Minsk». Come? «Per esempio, abbiamo già messo a disposizione di Kiev cinque fondi-trust (canali di finanziamento, ndr )». State anche rafforzando i vostri dispositivi militari? «Certo. La nostra attività è stata incrementata. La Russia ha triplicato le sue azioni militari rispetto a un anno fa. E noi abbiamo quintuplicato le nostre operazioni e attività di controllo, sempre rispetto al 2013». Come, dove? «Nella regione baltica è stato accresciuto il dispositivo di aerei e truppe imperniato sulla base di Lask, in Polonia. E abbiamo dispiegato più navi nel Mar Nero, più truppe nell’Est Europa. Abbiamo poi rafforzato il nostro gruppo di azione rapida, che oggi è al livello più alto dai tempi della Guerra fredda, in grado di intervenire ovunque con breve preavviso». Questione di ore? «Questione di giorni. Che comunque, in termini militari, non è poco». Oggi Mosca ha annunciato di voler presidiare con i suoi bombardieri strategici i Caraibi, il Pacifico Orientale, insomma tutte le acque intorno agli Usa... «Proprio come fa già ora intorno ai confini della Nato». Continuano le vostre intercettazioni dei loro caccia e bombardieri? 10 «Non sono ancora entrati nel Mediterraneo, ma avvistiamo aerei russi verso Gibilterra o verso il Portogallo o la Svezia, e almeno cento volte li abbiamo intercettati con i nostri aerei inglesi, norvegesi, spagnoli, portoghesi. Questa è la solidarietà della Nato, le nostre forze si proteggono l’una con l’altra». Ma qual è il vero scopo di queste «intrusioni» russe fra le nuvole? «Difficile rispondere, possono esservi vari fattori in gioco. In sé non è illegale il volo di un aviogetto militare in uno spazio aereo internazionale. Ma è il modo in cui questo volo viene compiuto, a rappresentare un rischio. Perché questi piloti spesso non rispondono alle chiamate di altri aerei o delle torri di controllo, e soprattutto spengono il loro transponder (lo strumento che consente ai radar a terra di identificare il pilota e il suo piano di volo, ndr )». I vostri aerei li intercettano, li tengono sotto controllo. Ma ancora una volta, proprio come con l’Ucraina che non è membro della Nato, potreste ritrovarvi con le mani legate se Mosca tramutasse queste dimostrazioni di forza in un vero attacco... «Noi dobbiamo fare quello che dobbiamo fare: cioè essere vigilanti e pronti. Sempre». Qual è il suo giudizio sulle elezioni appena svolte in Ucraina? «Erano previste dall’accordo di Minsk. Ma quelle organizzate dai separatisti di Donetsk e dintorni dovremmo chiamarle “cosiddette elezioni”. L’accordo di Minsk prevedeva anche il rispetto del confine ucraino: non è stato rispettato. Quanto al cessate il fuoco, viene minato con i movimenti di truppe in queste ore. C’è qualcosa che dovremmo comprendere tutti, a cominciare dai russi». Che cosa? «È profondamente sbagliato pensare: se tu perdi, io vinco. O il contrario. Se invece troviamo una soluzione politica, nel rispetto di ogni nazione e dei confini aperti, allora vinciamo tutti». del 14/11/14, pag. 13 Le mamme dei soldati trattate da spie MOSCA LE INSERISCE NELLA LISTA DEGLI “AGENTI STRANIERI”: HANNO DENUNCIATO CHE I FIGLI SONO MORTI IN UCRAINA di Giuseppe Agliastro Mosca Niente da fare per l'Ong russa “Madri dei soldati”: il ministero della Giustizia di Mosca ha risposto con un secco niet alla richiesta del ramo pietroburghese dell'organizzazione di essere cancellato dalla famigerata lista degli “agenti stranieri”. Questo speciale elenco dal chiaro sapore sovietico è stato introdotto da Vladimir Putin due anni fa per stringere al massimo la sorveglianza sugli enti che esercitano attività politica e ricevono finanziamenti dall'estero: le “Madri dei soldati” ci sono finite dentro a fine agosto per essersi permesse di mettere il bastone tra le ruote al leader del Cremlino denunciando la presenza - sempre negata da Mosca - di soldati russi al fianco dei separatisti nel conflitto ucraino, e facendo sapere di avere i nomi di 100 militari russi uccisi in Ucraina e di altri 300 rimasti feriti. La responsabile pietroburghese, Ella Poliakova, aveva rivelato inoltre in un'intervista alla tv Dozhd che più di 100 soldati feriti erano stati ricoverati in un ospedale dell'antica capitale dell'impero zarista e aveva quindi chiesto chiarimenti al governo. Una “colpa” gravissima per il Cremlino, che non vuole proprio saperne di staccare l'etichetta di “agente straniero” 11 all'ong delle mamme dei soldati nonostante il parere del loro avvocato, Aleksandr Peredruk: questa organizzazione non riceva un soldo dall'estero. SECONDO IL MINISTERO della Giustizia “non è tecnicamente possibile” cancellare da questa lista nera del regime putiniano un ente ormai rimasto impigliato nella ragnatela dell'ex ufficiale del Kgb. Punto. Ma l'avvocato ha già annunciato una battaglia legale presentando ricorso in appello in un tribunale di San Pietroburgo. “Agente straniero” ai tempi dell'Urss era sinonimo di spia: significava fucilazione o deportazione nei gulag. Le “Madri dei soldati” devono sopportare questa definizione che grava sulle loro spalle; finire nel mirino dello ‘zar Putin’ può voler dire avere seri problemi con la giustizia anche in prima persona: è successo alla leader delle “Madri dei soldati” di Budyonnovsk, la 73enne Lyudmila Bogatenkova, arrestata per frode a ottobre e costretta dietro le sbarre per due notti a dispetto dell'età avanzata e nonostante soffra di diabete. Questa donna qualche settimana prima aveva denunciato che undici militari russi dichiarati ufficialmente morti in esercitazioni al confine con il martoriato sud-est ucraino, erano in realtà stati uccisi proprio in Ucraina. E si tratta solo di una piccola parte delle morti passate sotto silenzio per volere del Cremlino. del 14/11/14, pag. 13 Benvenuti in Transnistria lo Stato che non esiste SEPARATO DALLA MOLDAVIA, IL TERRITORIO RESTA FILO-RUSSO: HA UNA GUARNIGIONE DELL’ARMATA ROSSA E LA BANDIERA CON FALCE E MARTELLO di Andrea Valdambrini Quando è lo Stato a essere illegale, figuriamoci tutto il resto. Ed è proprio il caso di dirlo parlando della Transnistria, una striscia di terra abitata da poco più di mezzo milione di persone che corre per 400 chilometri a est del fiume Dniester tra il confine orientale della Moldavia e le province russofone del sud dell’Ucraina. Ufficialmente la Transnistria dovrebbe essere una provincia autonoma della Moldavia, appunto. Ma in realtà è un territorio filo-russo separatista, una scheggia impazzita dell’ex impero sovietico sopravvissuto alla sua dissoluzione. Ha la sua capitale, Tiraspol, la sua moneta legata al rublo, la sua fetta di armata rossa, un inno e una bandiera a strisce rosse e verde con falce e martello che fanno pensare quasi a uno scherzo della storia in stile Goodbye Lenin ed emette documenti e passaporti proprio come uno Stato sovrano. LA MOLDAVIA, che politicamente guarda all’Europa, considera il governo di Tiraspol illegittimo, un covo di terroristi sostenuti dai russi che in realtà, invece di esser venuti a occupare, come nella vicina Crimea, non se ne sono mai andati. La comunità internazionale non lo riconosce. Eppure questo Stato, per quanto illegale, esiste davvero. E soprattutto ha delle regole tutte sue. Per esempio quelle che, come ha rivelato la puntata di Repor t dedicata al caso Moncler, ne fanno il paradiso della delocalizzazione dei marchi di lusso grazie a bassi salari e finto made in Moldavia su cui le autorità europee sembrano chiudere un occhio. Il contrabbando di alcol, per esempio, è una delle attività più lucrative per Tiraspol, che esporta vini, cognac e altri superalcolici sia in Russia che nell’Unione europea grazie alla combinazione di grande quantità e prezzi molto 12 competitivi, quelli che fanno anche la fortuna di una distilleria (in questo caso legale), la storica Kvint di Tiraspol, che da sola produce 10 milioni di litri all’anno di vodka. SUL CONTRABBANDO lo Stato che non c’è, a dispetto delle sue dimensioni ridotte, non sembra essere secondo a nessuno. Insieme a Russia e Ucraina, la Transnistria è un paradiso per l’export di sigarette contraffatte, che spesso viaggiano verso occidente attraverso la rotta rumena. Non meno rilevante il capitolo che riguarda il traffico di armi. Il sito di giornalismo investigativo rumeno Journalistic Investigation Center riporta una serie di episodi, rivelati da Wikileaks, in cui le autorità di Bucarest avrebbero chiesto spiegazioni alla Russia riguardo al ruolo giocato da quest’ultima nel permettere il passaggio di armi in Romania (e quindi Unione europea) attraverso la confinante Moldavia, senza mai ottenere risposta. Insomma, anche se il volume complessivo del contrabbando (alcol, sigarette e armi) non è mai stato esattamente quantificato dalle autorità di polizia internazionali, la Transnistria è comunemente considerata uno dei principali centri del malaffare del continente. Ma la fortuna di questo non-Stato è più nella geografia che nella storia. Tiraspol si trova in fondo a soli 170 chilometri dal confine orientale dell’Unione europea, il che rende facile l’export dei prodotti di contrabbando. La sua economia dipende quasi interamente dal gas russo, ed è Mosca a garantire protezione al territorio separatista da ben 23 anni con circa 1500 militari. Se davanti al parlamento di Tiraspol, che si chiama ancora Soviet Supremo, sovrastato da bandiere con falce e martello, campeggia una gigantesca statua di Lenin, non c’è nulla di romantico. I russi non se ne andranno. E hanno i loro motivi. del 14/11/14, pag. 17 Juncker andrà al G20 sull’evasione fiscale Imbarazzo dell’Europa Anche la Fondazione del Ppe è registrata in Lussemburgo DAL NOSTRO INVIATO BRUXELLES La riunione dei leader del G20 di domani e domenica, a Brisbane in Australia, ha in agenda anche la lotta alla grande evasione ed elusione delle tasse. Si annuncia così imbarazzante la confermata partecipazione del presidente della Commissione europea, il lussemburghese Jean-Claude Juncker, a causa del suo coinvolgimento nello scandalo LuxLeaks sui favoritismi fiscali a centinaia di multinazionali e società straniere quando era premier del Granducato. Ma, nel silenzio dei capi di governo europei, è arrivato un primo prudente appoggio del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, che ha sminuito le responsabilità di Juncker, in passato sostenuto dalla cancelliera Angela Merkel nella nomina alla Commissione per conto del loro europartito Ppe. «La pratica è irritante — ha dichiarato Schäuble in relazione alle rivelazioni di LuxLeaks —. Ma da lì a rivolgere accuse personali... Non c’è stata alcuna infrazione delle regole. Le stesse cose sono fatte in altri Paesi». Il governo di Berlino, preso atto della sensibilità dell’elettorato tedesco sull’evasione fiscale, punta a far procedere al G20 e a Bruxelles le riforme necessarie a eliminare l’elusione delle tasse delle multinazionali. Continua però il bombardamento dei media contro Juncker. Il quotidiano Wall Street Journal ha accusato l’ex premier del Lussemburgo di essere stato «l’uomo di punta nella vendita del sistema fiscale del suo Paese nel mondo», citando alcune delle tante dichiarazioni in circolazione a Bruxelles in cui in passato aveva rivendicato di aver attirato 13 multinazionali con i favoritismi fiscali. Il quotidiano Washington Post ha segnalato che «una lunga serie di critici ritiene Juncker l’uomo sbagliato» per guidare la Commissione. Nel tam tam di indiscrezioni in Europa si è accesa l’attenzione anche sulla poco nota Fondazione Schuman del Ppe, che opera tra Bruxelles e Strasburgo, ma è stata sorprendentemente domiciliata in Lussemburgo. Attiva anche nei finanziamenti e nelle donazioni per l’attività politica, questa entità degli europopolari è stata a lungo guidata dal lussemburghese Jacques Santer, che nel 1999 dovette dimettersi da presidente della Commissione europea con tutti i commissari per uno scandalo di frodi, cattiva amministrazione e nepotismo. Vari leader e portavoce del Ppe, contattati dal Corriere , si sono detti non al corrente del perché questa entità sia stata registrata in un paradiso fiscale con rigido segreto bancario. L’eurodeputato Giovanni La Via di Ncd è entrato nel consiglio della Fondazione Schuman «solo da un anno» e conferma che le attività politiche e culturali vengono sviluppate grazie anche ai «finanziamenti previsti dall’Europarlamento». Juncker continua a negare qualsiasi responsabilità e, in linea con la Germania, promette «prima possibile» una proposta di direttiva sullo scambio automatico di informazioni tra i Paesi sui favoritismi fiscali concessi alle imprese straniere dai vari Lussemburgo, Irlanda, Olanda o Regno Unito. La Commissione europea ha annunciato di voler anticipare addirittura l’azione del G20 contro la grande evasione delle tasse su scala internazionale e di voler mettere davanti alle loro responsabilità i governi da sempre impegnati a frenare l’armonizzazione fiscale nell’Ue. Il commissario per gli Affari economici e la Fiscalità, il francese Pierre Moscovici, ha considerato possibile procedere su questa materia, che da sempre a Bruxelles viene annacquata e rinviata in continuazione, perché ora «c’è la pressione dell’opinione pubblica che non sopporta più l’evasione e la frode fiscale». Ivo Caizzi del 14/11/14, pag. 12 SUN TZU ADDIO, L’ARTE DELLA GUERRA È UN MISSILE CHE FA TUTTO DA SOLO SUPERATI I DRONI, ORA TOCCA ALLE ARMI CHE NON HANNO BISOGNO DELL’UOMO di Carlo Antonio Biscotto Le armi del futuro sono state battezzate Fire and forget (Spara e dimentica). Immaginifico e terribile. L’anno scorso al largo della costa meridionale della California un bombardiere B-1 ha lanciato un missile sperimentale che – come scrive John Markoff sul New York Times – potrebbe rivoluzionare l’arte della guerra. Il missile da solo, senza sollecitazioni dei piloti, decise quale imbarcazione colpire tra le tre che, prive di equipaggio, galleggiavano in mare. La guerra non è più quella descritta nei manuali che erano anche trattati di filosofia, come quello di Sun Tzu, ma fa ricorso in modo massiccio alle intelligenze artificiali, ai computer e alla tecnologia informatica. I droni vengono azionati a distanza con un joystick manovrato da esperti piloti. Ma ormai pare sia stata varcata 14 l’ultima frontiera: le nuove armi non rispondono all’uomo, ma sono guidate e gestite dall’intelligenza artificiale. È un software che decide quale bersaglio colpire e chi uccidere. IL TIMORE è che queste armi possano divenire sempre più incontrollabili. Forse la loro precisione potrebbe salvare la vita di numerosi civili, ma non possiamo escludere che l’as senza dell’uomo possa avere l’effetto perverso di moltiplicare il numero dei conflitti. Alcune nazioni utilizzano già una tecnologia che permette a missili e droni di attaccare obiettivi militari senza il diretto controllo dell’uomo. Dopo il lancio, le armi ricevono da speciali software e sensori l’ordine di selezionare il bersaglio e attaccare. Il software è sofisticato e perfettamente in grado di distinguere un autobus civile da un carro armato. Inoltre i missili non “comunicano” con l’uomo. “È già partita la corsa agli armamenti guidati dall’intelligenza artificiale”, spiega Steve Omohundro, fisico ed esperto di intelligenza artificiale della Self-Aware Systems, centro di ricerca di Palo Alto. “Questi armamenti rispondono più rapidamente, in maniera più efficiente e meno prevedibile”. Ma le preoccupazioni sollevate da questa rivoluzione della tecnologia militare non sono poche e ieri a Ginevra si sono riuniti esponenti di moltissimi Paesi che puntano a impedire l’utilizzo di queste armi ai sensi della Convenzione sulle armi convenzionali. Il Pentagono, dal canto suo, ha approvato anni fa una direttiva secondo la quale lo sviluppo di queste armi richiede autorizzazioni al massimo livello della catena di comando militare e politica. Il problema è che la tecnologia va avanti con una velocità tale da aver reso già obsoleta la disposizione. “Vogliamo sapere chi decide quali sono i bersagli”, dice Peter Asaro, cofondatore e vicepresidente della Commissione internazionale per il controllo degli armamenti computerizzati. “Sono i sistemi a decidere autonomamente e automaticamente i bersagli da colpire?”. È L’ULTIMO CAPITOLO di una lunga storia. Già nel 1988 la Marina militare americana testò un missile Harpoon che disponeva di un rudimentale sistema di auto-guida. L’esperi mento si concluse tragicamente: il missile invece del bersaglio colpì una nave da carico indiana uccidendo un membro dell’equipaggio. Naturalmente l’incidente fu messo a tacere, ma non la ricerca nel campo dell’intelligenza artificiale al servizio della guerra. Nel 2012 il Pentagono ha approvato un’altra direttiva che distingue tra armi semi-autonome e armi completamente autonome affermando che “le armi del futuro debbono essere progettate in modo da consentire all’uomo di esercitare adeguati livelli di intervento e decisione in ordine all’uso della forza”. E siamo al 2014: il missile testato al largo delle coste della California può coprire centinaia di miglia manovrando autonomamente per evitare i radar e senza alcun contatto radio con la base operativa. Il missile viola la direttiva del Pentagono? “Questi missili sono in grado di operare autonomamente nella ricerca del bersaglio”, risponde Mark Gubrud, fisico della Commissione internazionale per il controllo degli armamenti computerizzati. “Siamo in presenza di intelligenza artificiale e quindi al di fuori del controllo dell’uomo”. Il dibattito tra sostenitori e nemici giurati dei nuovi armamenti è aperto. Scharre, analista militare, non sembra sfiorato dal dubbio: “Armi più intelligenti e precise riducono il numero delle vittime civili e quindi ne vanno incoraggiati lo sviluppo e l’impiego”. del 14/11/14, pag. 19 Obama in Birmania: “Voto libero nel 2015” Il capo della Casa Bianca incontra il presidente Thein Sein e Aung San Suu Kyi. Sul tavolo i diritti delle minoranze “Il processo democratico è 15 in atto, ma ancora non è compiuto. Le elezioni dovranno essere trasparenti ed inclusive” FEDERICO RAMPINI DAL NOSTRO INVIATO PECHINO . «Le elezioni del 2015 in Birmania devono essere libere, trasparenti, inclusive». Barack Obama ritorna a Myanmar, sul luogo dove la sua politica estera ha ottenuto un successo storico, a dire il vero uno dei pochi risultati tangibili. Fra il summit di Pechino e il G20 che lo attende domani in Australia, il presidente americano viene a spendere tutta la sua influenza. Lo fa per orientare il processo di democratizzazione di quello che era stato uno dei regimi più autoritari e isolati del mondo. «La democratizzazione in atto è reale — dice il presidente — ma ora bisogna andare avanti fino a una democrazia autentica: proteggere i diritti delle minoranze, garantire la piena partecipazione civile. Il vero test, alla fine, è se la vita della popolazione sarà migliorata». Obama era stato a Rangoon nel 2012, ospite nella villa di Aung San Suu Kyi, la Lady birmana che ha ricevuto il premio Nobel della pace e per anni era stata in carcere o agli arresti domiciliari. Fu quella visita di due anni fa a segnalare che la situazione si era sbloccata, con un’accelerazione improvvisa delle riforme politiche. Ma la sorte di tante primavere arabe ha fornito lezioni dolorose a Obama, che sa di non dover celebrare vittorie premature. La transizione birmana resta incompiuta, e lui deve destreggiarsi nei suoi incontri ufficiali fra il presidente Thein Sein il cui potere discende originariamente da un golpe militare; e la stessa San Suu Kyi oggi libera e legittimata come capo dell’opposizione, ma ancora esclusa dalle elezioni del 2015 per un assurdo cavillo (i suoi figli hanno la cittadinanza britannica). Fra le altre preoccupazioni c’è la sorte della minoranza etnica Rohingya, di religione musulmana: presi di mira da violenti attacchi da parte di buddisti, 140 mila di loro sono confinati in campi profughi. La stessa San Suu Kyi è stata accusata di freddezza verso i musulmani, le sue prese di distanza dalle violenze inter-etniche non hanno convinto. Obama si deve impegnare in un lavoro di cesello diplomatico: spendere tutta l’influenza dell’America per accompagnare la transizione democratica, evitando al tempo stesso che la Birmania ricada nella sfera d’influenza cinese. La sua tappa a Naypyitaw (la nuova capitale) prima di Rangoon, avviene in occasione di un vertice Asean che sdogana definitivamente il nuovo corso birmano. Al summit dell’associazione del Sud-Est asiatico come ospite c’è anche la Cina, il cui premier Li Keqiang è venuto carico di offerte generose: 20 miliardi di dollari di prestiti e la proposta di un patto di amicizia con i paesi vicini. La Cina da queste parti ha suscitato molte diffidenze in passato. È grazie alla sua invadenza, soprattutto nello sfruttamento delle materie prime e dei diamanti, che la ex giunta militare birmana ha finito per preferire la sfera d’influenza americana (almeno per ora). È sempre l’espansionismo cinese ad aver provocato un altro colpo di scena, la riconciliazione non solo politico-affaristica ma perfino militare tra Usa e Vietnam. Il summit dell’Asean diventa il pretesto per grandi manovre d’influenza tra le due superpotenze. Obama ci aggiunge un incontro bilaterale con il Vietnam; i cinesi fanno pesare tutta la loro stazza economica, i legami commerciali, la capacità d’investimento in infrastrutture. È una variante del “Grande Gioco”, stavolta non applicata all’Asia centrale ma a questo sud-est asiatico che si affolla di nuovi dragoni economici, con potenzialità di sviluppo notevoli. Almeno in quest’area, con gli slittamenti progressivi di Birmania e Vietnam verso legami più robusti con l’America, Obama dimostra che il suo “pivot” asiatico non è stato solo uno slogan. Via via che l’economia cinese si rafforza, i vicini più piccoli sono disperatamente alla ricerca di una sponda alternativa, per non diventare i vassalli di Pechino. Ma è sempre 16 il precedente delle primavere arabe, che insegna a Obama l’importanza della classe dirigente su cui scommettere. Oggi lui torna a Rangoon e incontra nuovamente la Lady premio Nobel, che il consigliere strategico della Casa Bianca Ben Rhodes definisce «un personaggio unico, decisivo per il futuro di questo paese, con un ampio sostegno dentro la società civile». Una Nelson Mandela asiatica, potenzialmente in grado di governare una situazione «ancora molto fluida», come la definisce Rhodes. Segno dei tempi: il New York Times accetta di ospitare nelle sue pagine dei commenti l’articolo di un militare riconvertitosi ministro: il quale promette solennemente «una stampa libera» in Birmania. Ma l’atteggiamento morbido della Casa Bianca verso gli ex militari tuttora al potere sta preoccupando Aung San Suu Kyi, che oggi su questo chiederà garanzie nell’incontro a tu per tu con Obama. Del 14/11/2014, pag. 6 Messico, parte la carovana per ritrovare i 43 scomparsi Guerrero. Ancora attacchi alle sedi governative per protesta contro il massacro degli studenti a Iguala Geraldina Colotti Si chiama “Brigada Nacional de los 43 Desaparecidos” la carovana partita ieri da Iguala, in Messico, per iniziativa dei famigliari dei 43 studenti della Normal rural Isidro Burgos di Ayotzinapa, scomparsi il 26 settembre, e con il sostegno della Federacion de Estudiantes Campesinos Socialistas de Mexico (Fecsm). Un convoglio politico-informativo composto da tre brigate, ognuna intestata a un ragazzo scomparso, che farà tappa in tre regioni del Messico e arriverà il 20 novembre nella capitale per una grande concentrazione nella Plaza de la Constitucion (el Zocalo). La prima porta il nome di Julio Cesar Ramirez Montes e si recherà negli stati del Michoacan, Jalisco, Zacatecas e Chihuahua (alla frontiera con gli Stati uniti). La seconda è dedicata a Daniel Solis Gallardo e viaggerà negli stati di Morelos, Tlaxcala e Chiapas (contiguo al Guatemala). La terza è la Brigada Julio Cesar Ramirez Nava e andrà nei municipi di Guerrero de Tlapa, San Luis Acatlan, Ayutla, Tecoanapa, Zihuatanejo, Atoyac e Acapulco. «Il nostro obiettivo — ha detto alla stampa il padre di un ragazzo scomparso — è quello di far sapere alla gente che continuiamo a chiedere al governo di trovarli, perché per noi sono tutti vivi e si deve continuare a cercare». I famigliari respingono la tesi della Procura generale della repubblica, secondo la quale i ragazzi sarebbero stati uccisi e bruciati dai narcotrafficanti dei Guerreros Unidos, uno dei cartelli imperanti nello stato del Guerreros, dove si sono svolti i fatti. Il 26 settembre, i normalistas (così chiamati per l’appartenenza ai combattivi istituti rurali messicani, le Normales rurales) sono stati attaccati dall’azione congiunta di polizia locale e membri dei Guerreros, lunga mano del sindaco di Iguala, ora in carcere. Già dopo i primi arresti (tra polizia e narcos sono fino a oggi detenute 79 persone), le confessioni di alcuni pentiti hanno portato alla scoperta di 12 fosse comuni, contenenti resti carbonizzati: nessuno, però, è risultato appartenere ai ragazzi scomparsi. Una conclusione a cui sono giunte entrambe le squadre di esperti, una nominata dal governo, l’altra dai famigliari. E ora alcune ossa sono state inviate a un titolato laboratorio austriaco, presso l’università di Innsbruck. I Guerreros hanno d’altronde fatto trovare un messaggio indirizzato al presidente messicano Henrique Peña Nieto nel quale, oltre a fare alcuni nomi di personaggi sul libro paga dei narcotrafficanti, sostengono che i ragazzi sono ancora in vita. «Vivi li hanno presi e vivi 17 li rivogliamo», gridano i manifestanti, in un crescendo di mobilitazioni, anche violente, che si susseguono, dentro e fuori il paese. In diverse regioni vengono attaccati i palazzi del governo e anche le sedi del Partido de la Revolucion Democratica (Prd). Alla formazione socialdemocratica appartengono sia il sindaco di Iguala — accusato di aver ordinato la mattanza per impedire una contestazione al comizio della moglie e che versava forti somme ai Guerreros-, sia il governatore del Guerrero, ora sostituito. Un intreccio di mafia e politica che permea da lungo tempo le istituzioni messicane e che ora depotenzia anche le dichiarazioni del due volte candidato di sinistra Manuel Lopez Obrador, accusato di essere al corrente della corruzione in atto nel Guerrero. Secondo l’Istituto nazionale di statistica (autonomo dal governo), nel 2013 sono state sequestrate in Messico 123.470 persone e oltre 22.000 sono scomparse dal 2006, quando è iniziata la guerra ai cartelli della droga. Una svolta che ha aumentato potere e abusi dei militari e delle polizie e ha alimentato il business della sicurezza, foraggiato dagli Stati uniti: ma non ha certo portato quelle misure strutturali necessarie a risolvere le cause che spingono i giovani dei ceti popolari nelle mani dei cartelli. Nel tentativo di far fronte alla crisi peggiore affrontata finora da Nieto, la Camera ha aumentato i finanziamenti per le scuole rurali, che protestano contro le misure neoliberiste imposte dal governo. 18 INTERNI del 14/11/14, pag. 6 Jobs act, accordo nel Pd Ma l’Ncd: così non ci stiamo Renzi: “Articolo 18 superato” La delega sarà legge entro la fine dell’anno. Saranno recepite le indicazioni della direzione democratica ALBERTO D’ARGENIO ROMA . Accordo sulla riforma del lavoro tra minoranza del Pd e renziani. Ma la maggioranza entra in fibrillazione, con l’Ncd di Alfano che promette fuoco e fiamme contro la nuova versione del testo. Ieri la mediazione all’interno del Pd condotta principalmente dal presidente della commissione Lavoro di Montecitorio, Damiano, e il responsabile economia dem, Taddei. Nel pomeriggio la fumata bianca sull’articolo 18: rispetto al testo passato al Senato torna il reintegro per i licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare. L’emendamento del governo riprenderà il documento approvato ad ottobre dalla direzione del Pd. Da Bucarest - dove fa tappa nel viaggio che lo porterà al G20 in Australia per sostenere il candidato premier socialista Victor Ponta - Renzi esulta: «Il 1° gennaio entrano in vigore le nuove regole sul lavoro. È un grandissimo passo in avanti, l’articolo 18 sarà superato». E la presidente della Camera Boldrini propone il 26 novembre come data per il voto finale dell’aula di Montecitorio sul Jobs Act. Ma nella maggioranza le acque tornano ad agitarsi visto che l’accordo con la minoranza interna dem fa infuriare l’Ncd. Sacconi avverte che il nuovo testo «non è accettabile, è urgente una riunione di maggioranza altrimenti si rompe». E ricorda che il Pd non ha la maggioranza in entrambe le Camere (il testo dovrà tornare al Senato dove l’Ncd è determinante). Risponde a muso duro il ministro Boschi: «Non servono vertici di maggioranza, è sufficiente il lavoro in Parlamento dove discutiamo con tutti». Idem Poletti, per il quale l’accordo con la minoranza «rende certa l’approvazione del provvedimento nei tempi da noi richiesti». Ma Sacconi, insieme alla capogruppo alla Camera De Girolamo, va a Palazzo Chigi per incontrare Taddei e Lotti. Nonostante il sottosegretario alla presidenza Delrio dica che «ci sono argomenti perché la maggioranza resti unita», lasciando la sede del governo i due dell’Ncd annunciano: «La partita resta aperta». Ma Renzi in serata ribadisce che resta in campo l’ipotesi di mettere la fiducia: «Partita chiusa, il Senato voterà nelle prossime ore». del 14/11/14, pag. 6 E la minoranza Dem si spacca. Bersani e D’Alema avvertono: “Riprendiamoci il partito” GIOVANNA CASADIO ROMA . «Siamo con tutti e due i piedi nel partito, però la sinistra c’è e si farà sentire per creare un’alternativa a Renzi nel Pd». Pierluigi Bersani fa sentire la sua voce. L’accordo sul jobs act non frena lo scontro interno. Anzi, lo amplifica. Perché l’intesa siglata in extremis da 19 Speranza e Damiano ha avuto un unico effetto: spaccare in tre la minoranza interna. Con i “trattativisti” decisi a rispettare il patto, i civatiani pronti a non votare nemmeno la fiducia e gli altri che oscillano tra il sì alla fiducia e il no agli articolo più acuminati. Renzi, insomma, sembra incunearsi nelle difficoltà dell’opposizione. Ma la risposta potrebbe già esserci al convengo della prossima settimana a Milano di Area riformista. E qualcuno inizia già a parlare di un “tandem” destinato a riformarsi: quello tra Bersani e D’Alema. Di certo tra gli “antirenziani” serpeggia il dubbio che, alla fine, su Jobs Act e articolo 18 i cambiamenti siano assai meno di quelli sperati. Soprattutto temono di arrivare “disarmati” allo sciopero generale della Cgil del 5 dicembre. Sospetti che solo i “trattativisti” - da Speranza a Orfini e Damiano - non coltivano: «Al premier abbiamo fatto cambiare idea». Certo le tre minoranze in questa fase cercano tutte di cogliere il massimo dall’emendamento promesso dal governo. «È comunque - dicono - un punto messo a segno, perché il premier- segretario ha dovuto prendere atto che non poteva blindare il Jobs Act uscito dal Senato » e ha quindi aperto alle modifiche. Eppure la tripartizione rischia di evidenziarsi presto con una spaccatura ma- nifesta. Pippo Civati ad esempio conia l’hashtag “passodopopassoindietro”. E poi avverte: «Non vorrei che fosse uno specchietto per le allodole...». Non lo convincono le deduzioni di Speranza e Damiano: «Le proteste del Nuovo centrodestra sono un buon indicatore che si va ormai nella direzione giusta». Ma Cuperlo e Fassina nicchiano: «Guardiamo al merito: l’articolo 18 non deve essere toccato affatto, al massimo un “tagliando” e il reintegro deve valere anche per i licenziamenti illegittimi in aziende in crisi». E a corroborare la posizione c’è la pistola fumante degli emendamenti elencati da Fassina, su cui domenica si comincia già a votare in commissione Lavoro. Il governo ha fretta, la sinistra dem non ne ha per nulla. La minoranza si gioca nei prossimi giorni il tutto per tutto. Domani a Milano, dunque, nella riunione della corrente “Area riformista”, Bersani chiamerà alla riscossa la sinistra. Nessuna scissione, ma la scalata al partito sì. Non a caso è stato invitato a Milano anche Nicola Zingaretti, il “governatore” del Lazio indicato sempre dai sondaggi come l’anti Renzi possibile. E forse non è un caso che mercoledì scorso nella riunione della minoranza proprio Massimo D’Alema abbia chiarito che la “ditta” non si molla: «La battaglia si conduce dentro il Pd ma basta con un partito che vuole parlare solo al potere italiano». Nel frattempo Renzi si è assicurato un “sì”, più o meno convinto almeno sulla fiducia. Il Jobs Act tornerà quindi al Senato. «Renzi si è rimangiato la rottura dentro il Pd», osserva Davide Zoggia. Nessuno ha voglia nelle file dem di esasperare i toni per ora. Damiano, il presidente della commissione lavoro, che ha condotto appunto la trattativa con il ministro Poletti, con Filippo Taddei, responsabile Economia del Pd, con il vice segretario Lorenzo Guerini e con Renzi stesso, è convinto che il risultato sia buono. «Non c’è solo l’articolo 18», continua a ripetere, indicando i cambiamenti sulle questioni del demansionamento, dei voucher, dei controlli a distanza ma non più sulle prestazioni lavorative. In cambio la sinistra dem ha dovuto ingoiare l’accelerazione: il Jobs Act passa davanti alla legge di Stabilità, proprio quello che la minoranza non avrebbe mai voluto. La tregua interna è dunque molto fragile. Civati nel fine settimana parteciperà a un’iniziativa politica con il leader di Sel, Nichi Vendola e con il Tsipras. Ma sarà anche all’appuntamento milanese con Bersani che ha l’ambizione di rinsaldare e unire la sinistra dem. Solo una speranza? Cuperlo e Fassina non ci saranno. «Non vado perché non mi hanno invitato », commenta Cuperlo. 20 del 14/11/14, pag. 6 Margini più stretti a Palazzo Madama Il rischio di alleanze (e rivolte) trasversali ROMA Non solo finanziaria, legge elettorale e Jobs act ma anche responsabilità civile dei magistrati e divorzio breve. L’elenco dei voti a rischio per il governo si allunga. Con o senza fiducia, l’arena del Senato si conferma un campo sempre molto insidioso perché la maggioranza che sostiene Matteo Renzi lì conta su un vantaggio molto risicato. Basta analizzare il «borsino» dei voti di fiducia: il 20 ottobre (Jobs act) i sì al governo erano 165 ma sedici giorni dopo (il 6 novembre con lo Sblocca Italia) i voti favorevoli per l’esecutivo sono scesi a quota 157: sotto il livello di guardia (maggioranza assoluta) fissato a 161 voti. Sulla carta, i voti sicuri per il governo ora sarebbero 166 o 167 (se si conta l’ex M5S Orellana): tre in meno rispetto al 20 ottobre scorso quando la fiducia (165 sì, al netto degli assenti) contava su virtuali 170 voti. Da quella cifra tonda vanno infatti sottratti tre centristi dei Popolari per l’Italia (Mario Mauro, Tito Di Maggio e la sottosegretaria Angela D’Onghia) che dopo un eterno tira e molla si sarebbero decisi a migrare nel gruppo di Gal: un contenitore nel quale convivono convinti sostenitori del governo (Naccarato, Davico e Langella) e fieri oppositori (D’Anna e Compagna). Poi c’è l’ex grillino Luis Orellana (votò la fiducia sul Jobs act) che è accreditato, non si capisce se a torto o a ragione, come componente effettivo della maggioranza. Ma quel che preoccupa di più la ministra per i rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi — che schiera in aula e nelle commissioni ben tre sottosegretari: Ivan Scalfarotto, Luciano Pizzetti e Sesa Amici — sono le maggioranze variabili e gli umori imprevedibili dei partiti. Un esempio è rappresentato dallo spinoso ddl Buemi-governo sulla responsabilità civile dei magistrati, che arriva in aula la prossima settimana: i guai per la maggioranza potrebbero scoppiare in casa del Ncd (31 senatori perché il 32°, D’Alì, è tornato in FI) fortemente spiazzato rispetto al testo licenziato dalla commissione. Se i senatori di Alfano non verranno accontentati c’è, dunque, il rischio concreto che su alcuni articoli del ddl Buemi il governo vada sotto. E così facendo su questa materia il centrodestra storico (Ncd, FI, Lega) ritroverebbe la sua compattezza anti toghe. C’è poi un’altra variabile che preoccupa lo stesso Ncd, forte dei suoi 31 voti determinanti al Senato. Succede infatti, e non è la prima volta, che nelle recondite aule delle commissioni si creino le premesse per un exploit in aula dell’asse Pd-M5S. Stavolta la materia del contendere è quella del divorzio breve (testo già approvato dalla Camera) e qui una mano l’ha data il sottosegretario Cosimo Ferri esprimendo parere favorevole a un emendamento di Peppe Lumia (Pd) capace di inescare il divorzio brevissimo senza separazione. Su questa novità, puntualizza l’altro sottosegretario alla Giustizia, Enrico Costa (Ncd), «spero che la posizione del governo venga meglio dettagliata». Lo stesso schema — con il Ncd che sfrutta tutto il valore dei suoi 31 voti marginali — è ovviamente applicabile al voto di fiducia sul Jobs act che ci sarà al Senato prima di Natale. Resta da capire infine cosa succede nelle retrovie del Pd e di FI. Il principale campo di battaglia in questo caso è la legge elettorale (in aula entro il 10 dicembre) e prevedibilissime sono le scorribande delle minoranze interne: nel Pd sono una trentina i senatori (guidati da Vannino Chiti) che potrebbero alzare la voce chiedendo più spazio per le preferenze e altri nodi irrisolti dell’Italicum. Mentre in Forza Italia (lo ha già fatto Augusto Minzolini sulla riforma del Senato) si potrebbe coagulare un’area di 20 senatori che non è disposta a subire l’abbraccio del Nazareno tra Renzi e Berlusconi. Dino Martirano 21 del 14/11/14, pag. 12 “Col nuovo Italicum più di metà nominati” cresce il fronte del no ai capilista pigliatutto In alcune simulazioni 6 deputati su 10 scelti dai partiti. Il renziano Ceccanti: saranno meno I bersaniani chiedono un taglio dei “garantiti” SILVIO BUZZANCA ROMA . Quanti saranno i “nominati”, i fortunati baciati dall’Italicum che non dovranno cercare un voto di preferenza per approdare a Montecitorio? Nel Palazzo è tutto un fiorire di cifre, calcoli, previsioni. «Vorrei capire perché il numero dei nominati è così alto: 100 per lista, cioè 500 in tutto, su 630», azzarda Francesco Boccia (Pd). Più o meno l’80 per cento. Danilo Toninelli, il grillino che si è ritagliato nel movimento il ruolo di esperto di cose complicate, la pensa più o meno alla stessa maniera. Fa i calcoli e conclude che a parte i 240 eletti con il proporzionale di chi vince, tutti gli altri saranno nominati. Un ragionamento fondato però sul presupposto che si vada al voto con il premio di maggioranza assegnato ad una coalizione e non ad una lista. La calcolatrice l’hanno tirata fuori anche due senatori del Pd di area bersaniana: Federico Fornaro e Carlo Pegorer. E sono giunti alla conclusione perfino con i decimali: saranno nominati il 60,8 per cento dei nuovi deputati, cioè 375, e scelti con le preferenze il 39,2 per cento, cioè 242. «Con l’Italicum-2 e il Nuovo Senato di nominati - è la loro contestazione non c’è un altro esempio di democrazia occidentale in cui il diritto di scelta dei cittadini sia così sottratto ». La richiesta è quindi di ridurre il numero dei nominati. Un fronte al quale si unisce anche Stefano Fassina. «Penso che la percentuale possa essere inferiore al 50 per cento» dice invece Stefano Ceccanti, professore universitario, renziano, che nella scorsa legislatura di legge elettorale si è molto occupato come senatore del Pd. «Le stime — spiega Ceccanti — possono essere fatte solo sul primo partito. Chi vince prende 340 seggi, 100 nominati e 240 con le preferenze. Quelli degli altri dipendono dai risultati che non conosciamo. Possiamo ipotizzare due partiti che prendono 100 seggi a testa. Nominati. E siamo a 300. Gli altri, i piccoli, se superano lo sbarramento, avranno una quota infima di eletti nominati e così arriviamo più o meno al 50 per cento dei seggi». Molti cercano di prevedere. Ma ci sono troppe varianti, dice il professore Roberto D’Alimonte, non sappiamo nulla dei collegi, della loro estensione. «Per questo — dice l’esperto di sistemi elettorali — non posso fare cifre esatte. Bisogna aspettare per capire di più. Ci si può chiedere: quanti seggi prenderebbe il primo partito, diciamo il Pd? Sicuramente 340, di cui 100 bloccati. E il secondo, diciamo i grillini? Un altro centinaio bloccati? Forza Italia? Poco meno di centinaio? La Lega in quanti collegi potrebbe avere due eletti, uno bloccato e uno con le preferenze? Uno può farsi queste domande e darsi delle risposte». In effetti, nel testo approvato alla Camera i collegi erano 120. Poi erano scesi a 75, ma nell’ultima versione dell’Italicum sono risaliti a 100. Quello che è certo che il testo in discussione al Senato prevede una delega al governo che nei 45 giorni successivi all’approvazione della legge deve ridisegnare la mappa elettorale del paese. Ceccanti non vede molto problemi in questa operazione e suggerisce di adottare come base i confini provinciali. Anche perché sono collegi proporzionali plurinominali e non c’è il vincolo di 22 rispettare un numero minimo e massimo di elettori come nei collegi uninominali. E non c’è il rischio di favorire qualcuno spostando da una parte all’altra elettori. del 14/11/14, pag. 8 La realtà e le richieste (inascoltate) nel nuovo patto premier-Berlusconi Le minoranze sospettano un «copione» scritto prima del vertice ROMA E se fosse stata solo una messinscena? Se il copione del vertice tra Renzi e Berlusconi fosse stato scritto prima che i due si incontrassero? Se le tensioni sulla trattativa fossero state propalate ad arte per coprire l’intesa preventiva? Dentro il Pd e Forza Italia, autorevoli esponenti delle opposizioni interne hanno iniziato ieri a istruire una sorta di processo sull’ultimo colloquio tra i protagonisti del patto del Nazareno. Certo, servirebbero prove per imbastire l’atto d’accusa verso quello che Bersani e D’Alema da un lato e Fitto dall’altro, immaginano sia stata solo «una finta», un’edizione aggiornata dell’«inciucio». Invece si devono arrangiare con gli indizi. Il primo lo offre proprio il documento finale in cui si spiega che «il patto è più solido che mai»: un’incongruenza rispetto al fatto che — poche righe dopo — si evidenzia come sulla legge elettorale non c’è accordo né sulle soglie d’ingresso in Parlamento né soprattutto sul premio di maggioranza, che — se approvato nella nuova versione — darebbe corso a un radicale cambio di sistema. Il secondo indizio è una frase sfuggita a Renzi, al termine della direzione del Pd: «È tutto a posto. In Parlamento non ci saranno problemi. Berlusconi darà un po’ di battaglia sul premio di maggioranza alla lista e poi basta». Il terzo indizio, che per Agatha Christie porterebbe a una prova, è stato il clima del vertice, ben diverso da quello del precedente incontro. Allora Renzi si infuriò con il Cavaliere, «perché mica mi faccio tenere appeso da voi», gli disse. Stavolta i toni sono stati distesi. «Mio figlio dice che devo approfittarne, per sapere quali giocatori comprerà il Milan nel mercato di gennaio», ha chiesto il premier. «Digli che la mia famiglia quest’anno ha già speso tanto per il club», ha risposto il Cavaliere. «Ma così andranno delusi i tifosi», ha chiosato Renzi: «E io qui sono circondato da milanisti. Lotti, Guerini, la Boschi...». Insomma, se questo è stato davvero l’andazzo, la tavola doveva essere stata anzitempo apparecchiata. E Fitto, che a Verdini si rivolge chiamandolo «compagno» o «tessera numero due del Pd», ha in mente chi possa averla imbandita. Stando così le cose, l’ipotesi dell’accusa è che Berlusconi — conscio di non avere forza contrattuale con Renzi — avrebbe trattato per sé, su tv e giustizia, con annesso tema della presidenza della Repubblica. In effetti il Cavaliere non perde mai occasione per rimarcare il proprio desiderio di riscatto, la «riabilitazione» rispetto all’onta subita con la cacciata dal Senato, e la speranza che ci sia un giudice a Strasburgo. Quanto al futuro di Mediaset, ripete il giudizio espresso da Confalonieri sul sottosegretario alle Comunicazioni, Giacomelli: «Persona perbene e pragmatica, lontano da remore ideologiche». Ma le tesi accusatorie — per quanto argomentate — finiscono per impantanarsi tra i desideri dei protagonisti del patto e la realtà delle cose. Berlusconi, per quanto desideroso di un accordo, non vede tracce di apertura su alcuni dossier della giustizia e sulla riforma della legge Severino. E a sua volta Renzi, per quanto desideroso di varare l’Italicum senza incidenti di percorso, scambia la promessa del Cavaliere per un’intesa già fatta, mentre il 23 leader di Forza Italia — così raccontano i suoi — attende di saggiare la tenuta della maggioranza prima di capire se dovrà arrendersi o provare ad affondare il colpo. Anche perché, con il premio di maggioranza alla lista, il leader che per vent’anni è stato il dominus del centrodestra perderebbe il proprio ruolo. «Potrai sempre fare il listone con la Lega», gli ha detto Renzi. «La fai facile», ha sospirato Berlusconi. Certo, se le riforme andassero in porto, si prospetterebbe per lui il piedistallo di padre della (nuova) Patria. Ed è così che — nel Palazzo dei sospetti — tra desideri e realtà si consuma un paradosso: mai era accaduto nella storia politica che un partito di opposizione tifasse per l’altrui governo, al punto da sottoscrivere — in un documento — la necessità di arrivare alla scadenza naturale della legislatura. Il lieto fine è ancora da scrivere: si vedrà se vissero tutti felici e costituenti. del 14/11/14, pag. 13 L’ultima “rivoluzione” di Forza Italia Per la prima volta da quando è sceso in politica il Cavaliere è pronto a cedere pezzi di sovranità sul suo partito Nel braccio di ferro con Fitto, l’ex Governatore pugliese ottiene il coordinamento e un terzo degli incarichi direttivi CARMELO LOPAPA ROMA . Sarà rivoluzione in Forza Italia, ma non farà rima con rottamazione. L’avvento dei giovani al comando, i “cento volti nuovi” preannunciati da Arcore per adesso resteranno in freezer. In compenso, e sarà la prima volta in vent’anni, Berlusconi si prepara a cedere fette di sovranità pur di salvare l’unità del partito. L’armistizio siglato con Fitto passa proprio attraverso la concessione di un pezzo di potere e di incarichi di peso all’eurodeputato e ai suoi uomini. Un terzo del partito sarà controllato di fatto dall’ex governatore pugliese, al quale il capo è pronto a cedere la guida (il coordinamento) dell’ufficio esecutivo, sorta di governo interno, il concorso nella scelta dei coordinatori regionali meridionali e del 30 per cento dei candidati alle politiche. Al progetto di “rilancio” di Forza Italia Berlusconi ha lavorato ieri a testa bassa proprio con Verdini, nel day after dell’ottavo faccia a faccia con Renzi che lascia non pochi insoddisfatti nel partito. Tutto deve essere pronto per la colazione di lavoro alla quale Fitto è stato invitato a Palazzo Grazioli giovedì prossimo, proprio per chiudere la partita. Il fatto è che allo schema già messo a punto, l’eurodeputato pugliese e i suoi uomini — nelle trattative sotto traccia di questi giorni — ne hanno contrapposto uno tutto loro. Verdini ha lavorato a un nuovo ufficio di presidenza composto per metà da nominati (da Berlusconi) e per metà eletto dai parlamentari forzisti. E poi, un “ufficio esecutivo” di 12 persone, presieduto da Berlusconi con un posto da coordinatore, che potrebbe essere offerto proprio a Fitto. Il capofila dell’opposizione interna — oltre a far sapere a più riprese di non essere «interessato ad alcuna poltrona» — medita altro. Ci stanno lavorando Daniele Capezzone, Francesco Paolo Sisto e Saverio Romano. I fittiani rilanciano coi “caucus” all’americana. Proporranno una due giorni con elettori e simpatizzanti su tutto il territorio nazionale, per discutere ed eleggere i coordinatori locali e i delegati ai congressi regionali e nazionale. Al posto delle vecchie tessere, una sottoscrizione da 5 euro, per rimpinguare le casse del partito. Al vertice, un ufficio esecutivo, ma di cinque figure: il responsabile elettorale, organizzazione, enti locali, formazione e un coordinatore. Insomma, gli uomini del big 24 pugliese insistono ancora sulla legittimazione dal basso. E le «facce nuove» già selezionate? «Ottimo il rilancio del partito — dice Alessandro Cattaneo, giovane dirigente incaricato dello scouting — ma l’innovazione è necessaria. Confrontiamoci pure sul metodo, ma non torniamo indietro, tanta gente meritevole ci guarda e attende un coinvolgimento». L’esito della battaglia interna resta aperto. E intanto Fitto piazza un nuovo appuntamento (Berlusconi invitato) per mercoledì a Roma sull’Europa, un altro il 27. Insomma, tiene alta la guardia. Mentre i 21 emendamenti alla legge di stabilità preparati dal “fittiano” Capezzone sono stati già firmati da 32 deputati. «Abbiamo vinto, abbiamo vinto» esultava ieri mattina Renato Brunetta, tra i più critici dell’Italicum ultima versione, entrando al gruppo di Forza Italia e alludendo all’incontro con Renzi. Ma di quale “vittoria” parlasse erano in tanti tra i colleghi a chiederselo: il silenzio quasi tombale dei berlusconiani nel giorno dopo, su quel che nei capannelli di Montecitorio è stata considerata «l’ennesima resa», dice più di tante di dichiarazioni. “Il mattinale” di Brunetta rivendica il «serio e motivato dissenso», Augusto Minzolini definisce il patto «una commedia degli equivoci », Maurizio Bianconi parla di «Nazareno delle beffe». Raffaele Fitto, pesando le parole, avverte: «Non possiamo accettare imposizioni irragionevoli, l’esito dell’incontro con Renzi registra questa realtà delle cose, la discussione in Parlamento dovrà essere molto esplicita ». Tradotto: nessun bluff, non passerà alcun compromesso al ribasso in aula. Berlusconi è avvertito. Del 14/11/2014, pag. 14 “Un bluff la declassificazione degli atti segreti sulle stragi” La direttrice dell’Archivio Flamigni: in 7 mesi pubblicati documenti marginali Rischia di trasformarsi in un clamoroso bluff, la grande operazione del governo di declassificare gli atti segreti sulle stragi che hanno insanguinato l’Italia dal 1969 al 1984. Già, perché la montagna finora ha partorito un topolino. In sette mesi sono stati resi pubblici soltanto alcuni documenti del ministero degli Esteri, relativamente ai procedimenti di estradizione di alcuni terroristi o presunti tali. Altri, documenti, quelli della Difesa, sarebbero in marcia per l’Archivio centrale dello Stato. E dov’è tutto il resto? «Ce lo domandiamo anche noi», risponde Ilaria Moroni, direttrice dell’archivio Flamigni, una delle animatrici della «Rete degli archivi per non dimenticare». Perché tanto pessimismo, Moroni? «Parlano i fatti. In sette mesi, una misteriosa commissione di cui non si riesce a sapere nemmeno chi la compone ha liberalizzato pochi documenti della Farnesina. Nel frattempo, il sottosegretario Marco Minniti ha annunciato che sono sul punto di essere declassificati 70 metri lineari di documenti dei servizi segreti». E non va bene? «Nossignore. Fa ridere che sui venti anni più insanguinati d’Italia i servizi segreti abbiano appena 70 metri lineari di faldoni da rendere disponibili. Tanto per dare una unità di misura, la corte di appello di Roma è pronta a versare 1 chilometro lineare. Sono i processi degli anni Settanta celebrati a Roma. Ecco, per capirci, questi dovrebbero essere i numeri in gioco». La direttiva di aprile di Matteo Renzi parlava di una «cospicua mole di documenti». Era implicito che sarebbe stato un lavoro lungo. O no? 25 «Sì, dovrebbe essere così. Ma se poi i servizi segreti scremano essi stessi quali debbono essere i documenti da rendere pubblici, allora è legittima la domanda che l’onorevole Paolo Bolognesi ha posto a Renzi con lettera: “Chi deve declassificare e depositare è lo stesso che fino ad oggi ha classificato, con sue valutazioni, e coperto i documenti”. Quali garanzie possiamo avere che il materiale depositato sia la totalità del materiale?». La sua domanda, insomma, è: chi controlla i controllori? «Esatto. Non vorremmo che alla fine i segreti rimangano segreti e l’operazione si trasformi in un clamoroso bluff. Ben altro investimento ci aspetteremmo sulla memoria». Ovvero? «Se si continua a considerare gli archivi come luoghi polverosi e inutili, non se ne esce. E invece la nostra memoria è tutta lì. Ma ci sgoliamo invano. Basti pensare che le amministrazioni non inviano più i documenti agli Archivi di Stato, né quelli provinciali, né quello centrale, perché questi ultimi non hanno spazio per accoglierli. È una follia: ci sono caserme dismesse e intanto gli archivi pagano cifre esorbitanti per affittare locali di deposito, comunque piccoli e arrangiati. Potremmo fare grandi cose, digitalizzando e riorganizzando. Ma il governo ci deve credere. Sapete, finiremmo persino per 26 LEGALITA’DEMOCRATICA del 14/11/14, pag. 11 Csm, via alle manovre per normalizzare Palermo I LAICI DI DESTRA SPINGONO PER LA NOMINA DI LO VOI CONTRO LO FORTE E LARI ATTESI 1.300 PENSIONAMENTI, IL CONSIGLIO DI LEGNINI RIDISEGNERÀ LA GIUSTIZIA di Giuseppe Lo Bianco Antonella Mascali La nomina del procuratore di Palermo, lo scontro ai vertici della Procura di Milano, la nomina di centinaia di magistrati per incarichi direttivi e semidirettivi dopo la legge sul pensionamento anticipato a 70 anni. Saranno mesi infuocati per il Csm sotto pressing politico e con un vicepresidente, Giovanni Legnini, che ha promesso l’autonomia del Consiglio ma viene direttamente dal governo Renzi, e prima ancora da quello Letta, sempre come sottosegretario. Al plenum di lunedì scorso, di fronte al ministro Andrea Orlando, il procuratore generale Gianfranco Ciani ha detto che con questa normativa sulla pensione, alla Cassazione ci sarà una scopertura “fino al 30%”. Secondo l’Espresso da qui al 2018 andranno via 1.300 magistrati. TRA LE NOMINE più delicate e imminenti c’è sicuramente quella del procuratore di Palermo. Anche per lo scontro con il Quirinale sulle intercettazioni Napolitano-Mancino nell’ambito dell’inchiesta, ora processo, sulla trattativa Stato-mafia. La nomina del procuratore di Palermo, in realtà era quasi fatta dal vecchio Consiglio. La competente Quinta commissione aveva già votato e l’attuale procuratore di Messina, Guido Lo Forte, ex braccio destro del procuratore Caselli a Palermo, ebbe la maggioranza dei voti: tre. A seguire, il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e l’ex rappresentante di Eurojust, Franco Lo Voi. Dunque, se si fosse andato in Plenum, avrebbe vinto quasi certamente Lo Forte. Invece, arrivò una inedita lettera del Quirinale che intimò al Consiglio di provvedere alle nomine dei procuratori in ordine cronologico e quindi quella di Palermo, sull’orlo dell’approvazione, fu bloccata. Per ora la nuova Quinta commissione non ha ancora affrontato il caso Palermo, forse comincerà a parlarne la prossima settimana. I membri togati, assicurano diversi di loro interpellati, non hanno affrontato l’argomento neppure informalmente. Quello che filtra da Palazzo dei Marescialli è che i laici del centrodestra vorrebbero Lo Voi, che però non ha mai diretto un ufficio giudiziario. L’unico neo antimafia della sua carriera è la mancata partecipazione a un funerale, quello di Paolo Borsellino. In quel luglio infuocato del ’92 Franco Lo Voi, 57 anni, rappresentante italiano a Eurojust, storico esponente palermitano della corrente di Magistratura Indipendente, rimase in vacanza in Sardegna. E quando tornò dalle vacanze rispose di no ai colleghi della Procura che gli sottoposero il documento di dimissioni firmato da otto sostituti in polemica con il procuratore Pietro Giammanco, che fino all’ultimo giorno di vita aveva negato a Borsellino la delega antimafia su Palermo. Antimafioso si, ma con moderazione, a Palermo Lo Voi è ricordato per l'imponente lavoro di indagine sulle dichiarazioni del pentito Balduccio Di Maggio. A firmare centinaia di mandati di cattura (e di richieste di ergastolo) fu, insieme con Giuseppe Pignatone, proprio Lo Voi, prudente ma determinato nel colpire picciotti e killer di Cosa Nostra: e fu lui a raccogliere per primo le rivelazioni di Mario Santo Di Matteo 27 e Gioacchino La Barbera, i killer pentiti della strage di Capaci in cui morì Giovanni Falcone, con cui aveva un rapporto di amicizia da lui mai sbandierato. Dopo il rigore manifestato contro boss e picciotti lasciò Palermo per approdare al Csm nel periodo in cui esplosero le polemiche sulla circolare del 5 dicembre 2001, che interpretava in 8 anni il termine massimo di permanenza alla Dda per i coordinatori delle indagini antimafia e che tagliò fuori dalla procura di Palermo Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato. In quel caso Lo Voi fu indicato come un regista “felpato”dietro le quinte a favore di quella circolare. E sempre al Csm, nonostante i suoi successi professionali nella stagione di Caselli, Lo Voi appoggiò Pietro Grasso contro il magistrato torinese per il vertice della Dna, e poi il “grassiano’’ Giuseppe Pignatone nel confronto con Lo Forte e Messineo nella corsa per la procura di Palermo. La tappa successiva della sua carriera è infine Eurojust, la Procura europea. Fu spedito a Strasburgo dall’allora guardasigilli Angelino Alfano. Se l’obiet - tivo oggi è quello di spegnere i riflettori sulla Procura più incandescente d’Italia, il prudente Lo Voi appare l’uomo perfetto. 28 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 14/11/14, pag. 18 A Tor Sapienza lo sgombero dei minori Dopo le proteste dei residenti contro i migranti, via i primi 36 rifugiati. Oggi tocca ai maggiorenni ROMA «Bene, adesso saranno contenti, no? I ragazzi sono stati portati via e le strade saranno più tranquille...». Gabriella Errico ironizza rassegnata. Poco prima la presidente della cooperativa «Un Sorriso» è stata quasi aggredita davanti al centro d’accoglienza di viale Giorgio Morandi. L’ultimo atto di violenza in un quartiere che, per ora, ha vinto la sua battaglia: 36 rifugiati minorenni, più nove minori italiani, sono stati trasferiti ieri pomeriggio da Tor Sapienza su ordine di Comune e Prefettura dopo due notti di scontri e un’altra di forte tensione. Oggi il programma prevede che una quarantina di maggiorenni segua la stessa sorte. La loro destinazione sono alcuni centri d’accoglienza in periferia e in provincia. Uno sarebbe quello di Castelnuovo di Porto, sulla Tiberina. La pressione dei comitati dei residenti, che mercoledì avevano incontrato il sindaco Ignazio Marino, ha dato i suoi frutti: il Campidoglio aveva avuto una settimana di tempo per sgomberare i rifugiati. Sono bastate poche ore. «La struttura è stata gravemente danneggiata e al momento in molti suoi spazi è inagibile. Nei confronti dei minori Roma Capitale ha degli obblighi di legge nazionali e internazionali di tutela e protezione», spiegano dal Comune. Ma ad accelerare il trasferimento, sotto scorta di polizia e carabinieri, sarebbe stata anche la scaramuccia scoppiata ieri mattina dopo che un ragazzo africano si è visto rifiutare un caffè nel bar del quartiere. Poco dopo gli stessi baristi gli hanno portato la tazzina davanti al centro d’accoglienza. Per i residenti un gesto distensivo, per i rifugiati una trappola per l’ennesimo agguato. E per qualche attimo si è temuto di nuovo il peggio con lanci di bottiglie contro i rifugiati. In meno di due ore - su un pullmino bianco con i vetri oscurati e qualche auto privata - i minorenni hanno lasciato viale Morandi nel silenzio generale. Una prima conclusione della vicenda che potrebbe tuttavia accreditare nuove proteste in altri quartieri romani dove ci sono situazioni anche peggiori. «Qui hanno già detto che il prossimo palazzo da attaccare sarà quello di via Collatina», confermano i volontari del centro. Un edificio enorme, occupato da anni da rifugiati africani che ci vivono in condizioni disperate. Nel pomeriggio la direttrice Errico ha organizzato un’assemblea con chi è rimasto. Le porte del pianterreno sono ancora protette dalle barricate, i muri sono pieni di buchi, le vetrate rotte. «Ve la sentite di restare ancora?», ha chiesto agli ospiti e agli operatori. Qualcuno ha proposto di allearsi con i Movimenti di lotta per la casa. «È chiaro che se usciamo, chi ci attacca occuperà subito il palazzo. L’hanno sempre detto», assicurano dalla cooperativa. I raid, con tentativi di irruzione e di bruciare tutto, potrebbero coinvolgere ora altri stranieri che vivono a Tor Sapienza. La rabbia non si placa e i toni sono quelli di sempre: «Non siamo razzisti, siamo solo stanchi. Non avremo vinto finché non se ne saranno andati via tutti». Per questo la polizia ha l’ordine di non muoversi. Anche perché oggi è previsto l’arrivo a Tor Sapienza dell’eurodeputato leghista Mario Borghezio e forse nei prossimi giorni anche del leader Matteo Salvini. Ieri sera gli abitanti hanno incontrato la presidente di Fdi-An Giorgia Meloni. E il Comitato di quartiere cerca adesso di smorzare i toni: «Il trasferimento dei ragazzi è una sconfitta dei cittadini, grazie alla politica: chi paga è il più debole, sia i cittadini sia gli immigrati». Rinaldo Frignani 29 Del 14/11/2014, pag. 4 A Tor Sapienza vince piazza pulita Roma. Dopo tre giorni di proteste e tensioni, il Campidoglio cede e trasferisce tutti i minori non accompagnati e i richiedenti asilo del centro di accoglienza di Viale Morandi Eleonora Martini Le auto con i vetri oscurati si allontanano velocemente, scortate dalla polizia, dalla struttura di viale Giorgio Morandi, sotto la pioggerellina fitta che bagna i vialoni desolati di Tor Sapienza e le numerose prostitute che fin dal primo pomeriggio li animano. Sembra un trasferimento di detenuti ma a lasciare il quartiere dove vivevano e andavano a scuola, chi da qualche mese chi da qualche anno, sono ragazzini tra i 15 e i 18 anni, minori non accompagnati provenienti perlopiù dall’Egitto o dal Bangladesh. Dopo tre giorni di proteste da parte di alcuni abitanti del quartiere, con scontri anche violenti con la polizia, ieri il Comune di Roma ha capitolato e ha deciso di trasferire «per loro salvaguardia» in altre case famiglia della città e del Lazio i 36 minori che vivevano nel centro di accoglienza per richiedenti asilo e per precauzione anche gli altri 10 giovani immigrati residenti in un appartamento protetto collegato alla struttura. Nel centro che potrebbe ospitare fino a 200 persone, di proprietà di una banca milanese e gestita dalla onlus romana “Un sorriso”, rimangono ora solo 35 adulti, asylanten e rifugiati politici fuggiti dall’Afghanistan, dal Pakistan e dal Gambia. Ma l’assessorato alle Politiche sociali in serata fa sapere che a breve verranno trasferiti tutti gli ospiti perché, è la giustificazione ufficiale, «è stato gravemente danneggiato e al momento in molti suoi spazi è inagibile». Non era mai successo prima e tutta la faccenda rischia di diventare un grande spot per la giustizia-fai-da-te. Ma non finirà così, promette il vicesindaco Luigi Nieri: «Verranno ripristinate le condizioni di agibilità del centro – dice — per permettere alla struttura di continuare a funzionare regolarmente. Deve essere ben chiaro a tutti che la Capitale d’Italia rifiuta in maniera netta ogni forma di violenza, razzismo e xenofobia». «Viviamo segregati da giorni, abbiamo le porte di emergenza chiuse, barricati come fossimo in guerra, ci tirano le bombe carta, l’altra notte hanno infilato una molotov nel portone, ci stavano bruciando da sotto», racconta Gabriella Errico, supervisore dei servizi di accoglienza della onlus, esausta dopo le tante lacrime versate al momento del saluto tra gli operatori che gestiscono il centro e i ragazzi in partenza. Ieri mattina l’ultimo «agguato», come lo definisce Errico che riferisce di un ragazzo del centro che si sarebbe visto sbarrare le porte di un bar, nelle vicinanze. «No, tu qui non puoi entrare», gli hanno detto. «Poco dopo però un gruppo di donne ci ha portato dei caffè – prosegue la responsabile accoglienza – Sembrava un gesto distensivo ma invece dopo di loro sono arrivati alcuni uomini che hanno subito alzato le mani, calci e spintoni contro di me e contro gli immigrati». Insomma il bubbone è scoppiato e placare le tensioni non è cosa facile. Ma per capire cosa sta succedendo in questa come in molte altre periferie romane, e perché quei ragazzini siano diventati il bersaglio di tanta violenza, il capro espiatorio di enormi frustrazioni, basterebbe in realtà guardare solo l’alveare che sorge di fronte alle finestre del centro per rifugiati, un moderno rudere dell’Ater che cade a pezzi anche se forse ha gli stessi anni di quei giovani dallo sguardo impaurito e amareggiato. Case popolari con «affitti che vanno dai 450 agli 800 euro mensili raccontano gli abitanti scesi a godersi lo spettacolo e dove solo ora, dopo otto giorni, fatalità, è ricomparsa la 30 luce in ogni scala e ci hanno portato pure dei bidoni per la spazzatura nuovi di zecca». Ne raccontano di tutti i colori: parenti sulla sedia a rotelle sequestrati in casa perché gli ascensori non funzionano, figli e nipoti che frequentano scuole dove nei cortili spuntano solo preservativi e siringhe, donne impaurite per l’illuminazione stradale a singhiozzo, spazzatura onnipresente, roghi a non finire nei campi rom, poliziotti merce rara e abbondanza invece di prostitute e trans. Ma è storia comune, appena si mette il naso fuori dalle Ztl. E così quei ragazzi immigrati difficili, naturalmente e quel centro che li ospita «mentre noi qua non riusciamo ad arrivare a fine mese», sono diventati un simbolo, da abbattere. Perciò non ci voleva Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia-An, che arriva nel tardo pomeriggio a prendersi gli applausi e inizia a scaldare i motori per la sua candidatura a sindaco, per capire che «quando aggiungi degrado e difficoltà ad altro degrado e altra difficoltà rischi di creare delle situazioni di insostenibilità». Nelle prossime ore sarà il turno di Mario Borghezio e poi nei prossimi giorni arriverà anche il segretario della Lega, Matteo Salvini, ma per loro non tira una bell’aria. «A quei due gli menamo, prima eravamo tutti ladroni e mo’ vengono a fare passerella?», più che una minaccia è ormai il refrain. Una pagina nera che però non colpisce solo i rifugiati. «E’ una sconfitta per tutti noi – ammette Roberto Torre, vicepresidente del comitato di quartiere Tor Sapienza Per colpa dei politici assenti pagano sempre i deboli. In questo caso i cittadini come esseri umani ci stanno rimettendo la loro dignità, e non faccio distinzione, sono sia gli immigrati che gli italiani a pagare». del 14/11/14, pag. 4 I malumori della polizia “Una resa alla piazza” Poi il compromesso “Spostiamo solo i ragazzi” CARLO BONINI ROMA . La rivolta di Tor Sapienza mette a nudo i nervi scoperti del Viminale e torna a illuminare, ammesso ce ne fosse bisogno, il solco di profonda diffidenza e disorientamento che in un anno si è aperto tra il ministro Angelino Alfano e la Polizia. Accade infatti che, per un’intera giornata, il trasferimento dei 45 minori del centro di accoglienza per migranti della cooperativa “ Il sorriso” venga vissuto dall’apparato come «una resa ai malumori della piazza». Per giunta, alla vigilia di una giornata come quella di oggi, che i cortei di studenti e lavoratori previsti a Roma annunciano complicata se non addirittura «ad alto rischio». Del «malumore» danno conto le agenzie di stampa e lo confermano, con la garanzia dell’anonimato, sindacalisti e funzionari di polizia che da giorni presidiano la polveriera di via Morandi. Un cedimento alla forza dell’intimidazione e della violenza — argomentano — destinato a diventare un precedente. Oggi Tor Sapienza, domani un’altra delle periferie che formano quella corona di spine che è l’area metropolitana della città oltre il Grande Raccordo Anulare. Insomma, un ennesimo segnale di fragilità della politica in grado di disorientare e aumentare quel senso di solitudine e frustrazione di chi la rabbia della piazza è chiamata a governare. Anche per questo, alle 7 di sera, convocati con urgenza, salgono nell’ufficio di Alfano, il prefetto Giuseppe Pecoraro e il questore, Niccolò D’Angelo. Per un incontro che, nelle intenzioni, deve definire una sorta di “linea del Piave” oltre la quale non è possibile 31 arretrare. Che deve dare conto come, nella decisione del trasferimento, vi sia stata, oltre a quella del sindaco, che l’ha formalmente “assunta”, anche la mano del Prefetto (e dunque del ministro) che l’hanno «condivisa». Che le ragioni siano dunque tutte e soltanto di «ordine pubblico» e non politico. Che il trasferimento dei minori sia solo e soltanto legato, dopo quattro giorni di battaglia, alle condizioni di inagibilità della parte del centro che li ha ospitati. Una decisione presa insomma «in stato di necessità». E che, in ogni caso, a costo di mantenere per settimane un dispiegamento di uomini e mezzi imponente, gli «adulti del centro da lì non si muoveranno ». È un’operazione di equilibrismo che serve a guadagnare tempo e prova a scommettere anche sulla “stanchezza” e le divisioni che pure cominciano a esserci nel quartiere. E che, per altro, dovrebbe rendere più agevole assicurare l’incolumità degli immigrati che ancora quel centro ospita. Una scommessa — appunto — che solo i prossimi giorni potranno dire se felice o meno. Ma che torna, appunto a declinare una questione politica, in affare “tecnico”, di “ordine pubblico”, per l’appunto. Non fosse altro perché a Tor Sapienza, lo Stato ha avuto, fino a ieri sera, solo il profilo degli scudi di plexiglass, l’odore dei lacrimogeni e il colore delle tute dei reparti anti-sommossa. Certamente non quello del sindaco Ignazio Marino, ieri a Londra ospite di un convegno organizzato dall’ Economist, e per giunta, oltre che psicologicamente frastornato dal “multa-gate”, in rotta con il ministro dell’Interno e il prefetto dai giorni delle trascrizioni dei matrimoni gay. Una maionese impazzita che un funzionario del Reparto Mobile di Roma fotografa con una qualche schiettezza: «Il ministro, il sindaco, il governo... Facessero un po’ come gli pare. Ma ci dicessero una volta per tutte quello che dobbiamo fare. Perché se no qui Roma diventa come le curve dello stadio Olimpico, dove decidono gli ultras se si deve giocare o meno». Non a caso, nell’incontro al Viminale — per quanto ne riferiscono due diverse fonti qualificate del ministero — il questore Niccolò D’Angelo e con lui il prefetto Pe- coraro sono tornati a garantire al ministro dell’Interno che Tor Sapienza non diventerà il primo quartiere della città in cui lo Stato ha deciso di abdicare alla propria sovranità. Ma è altrettanto vero che entrambi sono tornati a insistere sull’urgenza di una soluzione rapida e politica della questione dei centri di accoglienza per migranti in città. «L’odio di prossimità» tra “ultimi” innescato dalla prassi di considerare intere zone della città una sorta di “discarica” dei marginali (migranti o cittadini che siano) è diventata una delle questioni da tempo in cima all’agenda della Prefettura e una delle prime emergenze con cui il neo-questore D’Angelo è stato costretto a misurarsi. «E il tempo — come conferma anche un’autorevole fonte del Dipartimento di Pubblica Sicurezza — non è infinito. Anzi, forse è già esaurito. Non basta per far sapere che lo Stato è presente mandare in giro le poche volanti a disposizione con i lampeggianti accesi. E’ un effetto placebo che, come si vede, dura poco». del 14/11/14, pag. 3 LA PIAZZA DEI FASCIOLEGHISTI ROMA S’ARRENDE AI VIOLENTI IERI GIORGIA MELONI, OGGI BORGHEZIO, FRA QUALCHE GIORNO MATTEO SALVINI CASA POUND IN PRESIDIO FISSO. VIMINALE IN ALLARME: “LO STATO SI È PIEGATO” 32 di Tommaso Rodano La destra ha scoperto Tor Sapienza. Il quartiere abbandonato, all’improvviso, è il centro di Roma: sul carro armato dell’odio vogliono salire tutti. La borgata si è trasformata in uno dei primi palcoscenici della nuova alleanza fascio-leghista tra il Carroccio e Casa Pound. Ma non solo. La sfilata degli onorevoli l’ha inaugurata Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia. Oggi tocca al solito Mario Borghezio. C’è da celebrare una piccola vittoria: i rifugiati sgomberano. Non tutti, si comincia dai minori: 43 ragazzini, tutti orfani, arrivati dal nord Africa sui barconi. Li portano via dal centro accoglienza per preservarli dalle violenze, e per dare in pasto un successo simbolico alla piazza. IL COMUNE di Roma si giustifica: “Il centro di viale Morandi è stato gravemente danneggiato e al momento in molti dei suoi spazi è inagibile”. Ecco perché ieri i ragazzi sono stati trasferiti in altre strutture. Ma la versione più credibile –che rimbalza nei corridoi del Dipartimento Immigrazione del Ministero dell’Interno –è che lo Stato si è piegato alla piazza inferocita. Una resa che spaventa il Viminale e Angelino Alfano che ha convocato prefetto e questore per diramare una nota che scarica tutte le responsabilità sul Comune: “Hanno deciso loro, il primo piano era inagibile”. Ma in realtà per il Viminale è un precedente gravissimo e una dimostrazione di debolezza. Anche di fronte alle forze di polizia, che a Tor Sapienza sono state colpite: gli agenti feriti in queste notti di guerriglia sono dodici. Intanto il quartiere continua a ribollire. La borgata era abituata alla separazione anche fisica dal resto della città: un’isola di cemento arrampicata su una lunga salita poco oltre via Palmiro Togliatti, confine psicologico della periferia est romana. Fino all’altro ieri esisteva solo per i suoi abitanti. Oggi, dopo quattro giorni di violenze, scopre le telecamere, i taccuini dei giornalisti e le passerelle degli onorevoli. “Qui non è mai venuto nessun politico e nessuno deve venire. I partiti non esistono”, ringhia una voce del quartiere. Ma quando inizia la sfilata di chi vuole mettere il cappello sulla rabbia, la gente si scioglie. Gior - gia Meloni è accolta come la salvatrice della patria. È la leader di Fratelli d’Italia, il partito dell’ex sindaco Alemanno, che ha amministrato questa città –Tor Sapienza compresa – per cinque anni. Contraddizione che non pare disturbare nessuno. La Meloni è circondata dai giornalisti. I ragazzi del quartiere si spazientiscono: “Sei venuta qua per noi o per le telecamere?”. Ma Tor Sapienza è soprattutto una delle prime prove di forza della nuova creatura di Matteo Salvini, la “cosa neroverde” che tiene insieme i neofascisti di Casa Pound e gli ex (?) secessionisti della Lega Nord. Casa Pound in piazza c’è, pure se si fa vedere poco. Federico, 46 anni, si definisce un “simpatizzante” del centro sociale nero. Viene dal Quarticciolo, borgata dell’altro lato di via Togliatti. “Dite pure che è una protesta fascista, ma non è così, non capite niente”. Non ha tutti i torti: la regia di questa piazza magari non è politica. Ma la destra questo furore lo cavalca, eccome. Simone Di Stefano , leader di Casa Pound, non lo nasconde. “Noi a Tor Sapienza ci siamo sempre stati. Non abbiamo mai governato questa città e questo territorio, non ci siamo sporcati la coscienza. Noi siamo accanto alla gente, diamo una mano al comitato di quartiere. È un terreno incontaminato: siamo gli unici che possono venire qui senza prendersi gli insulti. Chi è che può parlare a questa gente? Marino? Alemanno? Per carità...”. OGGI a Tor Sapienza tocca a Ma - rio Borghezio. L’eurodeputato gongola: il fascioleghismo è anche una sua creatura. I voti di Casa Pound l’hanno portato a Bruxelles, la rabbia delle periferie romane gli sta regalando i riflettori. “Io candidato sindaco per il dopo Marino? Sarebbe meglio un romano”, si schernisce. “Magari di Casa Pound”. Soffiare sul fuoco di un quartiere in fiamme non lo spaventa. “Queste situazioni non le abbiamo mica create noi per fare campagna elettorale. Si trascinano da anni. A Corcolle (l’altra periferia romana esplosa a ottobre, ndr) sono stato accolto da un cartello: Lega salvaci tu”. È il mondo alla rovescia. Lorenza, anziana, capelli rossi e occhiali sottili, abita in una casa 33 popolare e strilla contro “le puttane e i culattoni che infestano il quartiere”. Nel calderone dell’odio non ci sono solo “i negri”. Lorenza è qui per ascoltare la Meloni, ma sogna Salvini. Lo grida alle telecamere: “Addavenì Matteo. Ha promesso che sarebbe venuto”. Arriverà anche lui. “Lo aspettiamo, qui ci vuole la Lega”. Intanto c’è Borghezio. La rabbia è per il territorio devastato, per le strutture fatiscenti, l’immondizia per strada, i mezzi pubblici insufficienti, la città lontanissima. I migranti che c’entrano? Chiosa Borghezio: “La questione della cattiva amministrazione ce la sbrigheremo noi politici. Ma questi qui, i neri, perché non li portano dove abita il sindaco, a via Condotti o al centro? L’incazzatura di queste persone è sa-cro-san-ta”. del 14/11/14, pag. 1/2 “Basta con i neri, sono tutti bestiacce” Così il ghetto trasforma la rabbia in razzismo FRANCESCO MERLO ROMA EPPURE Ambra, la ragazza bionda che subì il tentativo di stupro, anche a me dice: «Non erano neri, non erano musulmani ». Ha raccontato alla polizia di 3 rumeni, e invece sono i neri e i musulmani che ora stanno cacciando. E non è il primo pogrom della Repubblica italiana contro gli immigrati solo perché manca il sangue. Di sicuro c’è stata la rivolta ed è in stadio avanzato l’espulsione del capro espiatorio: erano 81 e ne sono rimasti 35. Difatti ben più della metà, 46 egiziani, tutti minorenni, ieri mattina sono stati portati altrove: «Per proteggerli ovviamente» dice, con enfasi eccessiva ed artefatta, il dottor Fabozzi, che gestisce l’ordine pubblico in ben cinque periferie con l’aria dello sceriffo buono e «Dio sa quanta umiltà e quanto rispetto ci mettiamo». Ma lui, il ministro Alfano, il questore e pure il Comune sanno bene di averli trattati come delinquenti. Perciò, forse per risarcirli, il poliziotto scuote la testa quando una signora, mimando lo scorrere della cerniera dei calzoni, dice: «Ogni volta che vedono una donna, quei porci, specie i più giovani, tirano fuori il … trallallà». La signora racconta adesso il tentativo di stupro, ma senza parlare dei rumeni. Comincia dal buio «che dobbiamo ai bastardi della società elettrica». Poi cambia soggetto e mi invita ad andare con lei «a contare i preservativi nel parco». Passa il filo del racconto ad un’amica e a poco a poco il mondo diventa un capogiro collettivo di donne e ancora donne: «La farebbe passare sua figlia in mezzo alle prostitute della Prenestina?», «e sa quanti sono i transessuali nell’antico Mattatoio?» e «dovrebbe vedere la sera le Mercedes che vengo a prendere le loro donne per portarle a battere». Arriviamo così ai «fuochi neri che ogni notte si alzano dai due campi Rom, dicasi due». Quindi torniamo al tentativo di stupro, ma sempre senza quel dettaglio di verità sui violenti che erano rumeni. Si capisce bene che le spinge e le unisce non il razzismo, ma l’orgoglio di appartenere alla periferia oltraggiata, e che il racconto è modellato sulle ragioni superiori della Comunità, discusse e approvate al bar Lory. E forse è ancora l’amore per questi luoghi, che solo per pigrizia e conformismo raccontiamo come deserto di affetti, che Ambra ora si nega ai giornalisti. «Mio marito non vuole» dice, ed è protetta dalle amiche che la circondano a cordone. Sarebbe stata un bella lezione per il sindaco Marino. Qui infatti non è difficile capire come si diventa razzisti e come nasca l’intolleranza dalla povertà, dalla tracimazione rancorosa della solidarietà (generosità?) di ghetto: «Noi viviamo in tre con le 500 euro della pensione del nonno. Sa quanto guadagnano quelli della cooperativa “Un sorriso” che gestiscono gli 34 immigrati? Trentacinque euro al giorno per ogni immigrato. E dove finiscono i soldi? Sa quanti sono “i bravi ragazzi” che ci mangiano? Quaranta. Si ricorda quanti erano quelli di Ali Babà?». E mi mostra il suo vecchio Nokia tenuto insieme con lo scotch: «Quelli hanno iPhone e iPad». Tra i ragazzi di Ali Babà incontro Gabriella che ha stampata sul viso l’idea forte e generosa che bisogna arredare le fauci dell’arretratezza con il sorriso e la bontà d’animo; un altro di Ali Babà somiglia invece al quartiere che combatte, ha dentro la stessa violenza ma di segno opposto: «Ci chiamano scimmie». Anche a te che sei romano? «Soprattutto a me». Una signora con la tuta e la Kefiah attorno al collo li copre di insulti, li accusa di tenere chiusi i ragazzi immigrati, di punirli «e mentre quelli si menano tra loro, voi venite qui a farci la lezioncina». Adesso i codici saltano davvero e viale Morandi diventa un pandemonio di sudori, di odori, di tensione. Né il sindaco Marino né il suo assessore alle periferie se la sono sentita di venire qui in periferia a scoprire insieme a noi come un’anonima e brutta strada possa diventare un teatro di eversione, e con quanta facilità le belle facce delle borgatare, con la testa incassata nelle spalle, si deturpino nell’odio. «Bestiacce, sono bestiacce» si è messa a urlare quella Mamma Roma con la Kefiah che l’odio ha trasformato in megera. La barbarie è scenica perché stasera la trasmissione Matrix trasformerà in piazza universale della violenza il razzismo scombiccherato di un mondo che è ancora piccolo piccolo, più “Accattone” di Pasolini che fu girato qui accanto al Quarticciolo, che racaille, feccia e sguardi assassini di banlieusards. Ci sono le telecamere ad ogni angolo del borghetto Tor sapienza che solo ai margini, lungo viale Morandi appunto, diventa ghetto suburbano e umanità confinata, quando non ci sono più le piazze, i mercati, le strade, le fontane e le case anni venti di mattoni rossi, ma cominciano i palazzoni grigi di edilizia popolare degli anni sessanta, il cemento scrostato che mostra il ferro, l’acqua che cola in strada da chissà dove, qualche vetro rotto. Forse meriterebbero “il rammendo” di Renzo Piano queste cinquemila famiglie romane che hanno preso d’assedio gli 81 immigrati con diritto d’asilo. E i cinquanta poliziotti che li hanno chiusi dentro, prima di iniziare l’esodo? Solo i cassonetti arredano viale Morandi. Mi racconta Alessandro Rosi, che è assessore nel municipio di quartiere, che «la notte si raccoglie un’umanità di cercatori di immondizia, vagabondi per i quali non esiste la strada del ritorno, i nuovi miserabili che hanno ormai spazzato via la mitologia del povero buono e filosofo, del barbone poeta, sagome di uomini e donne che si dileguano con il loro bottino di niente». No, davvero non si giustifica l’assenza del sindaco dei diritti, il primo cittadino giacobino che nei comizi elettorali aveva promesso di «trasformare Roma nella città dell’accoglienza». In tutti questi giorni di passione non ha trovato un minuto per venire qui, a Tor Sapienza, e addirittura ieri Ignazio Marino, sempre più sconnesso con la realtà, è volato a Londra per parlare di car sharing, ancora di quelle auto che sono ormai la sua ossessione. Riprovo a far parlare Ambra che è una bionda di 28 anni con due bellissimi bambini: «Sono mamma e casalinga». I capelli lunghi raccolti dietro, un bel viso con i lineamenti appena marcati, nulla di appariscente, è abbronzata, ha le unghia smaltate nere ma con tanti brillantini, i pantaloni da ginnastica e il giubbetto screziato: «Ero a passeggio con il cane. Ed era buio». L‘hanno ag- gredita e il pitbull ha reagito. Da quel momento il quartiere si è mobilitato e, senza che nessuno la fomentasse, la rabbia ha acceso il bar Lory, la farmacia, il piccolo supermercato, il negozio di parrucchiere, la rivendita di tabacchi, e gli interni di quegli appartamenti tutti uguali e tutti con le serrande chiuse, dietro alle quali si indovinano mille occhi di arrabbiati con i cinque sensi tesi. Ce l’hanno tutti contro i neri e contro i mussulmani che lo Stato ha ricoverato in quel palazzo a sei piani, 3000 metri quadri gestiti appunto dalla cooperativa “Un sorriso” per conto del ministero e del comune. Li hanno assediati, hanno assaltato il portone di ingresso, hanno lanciato sassi e bottiglie 35 contro la polizia, hanno danneggiato 8 volanti. Hanno dato botte e le hanno prese. E nella foga, durante una carica, è stata picchiata anche Ambra, che dunque si è sentita aggredita due volte. E le ha prese un cameramen della trasmissione Virus. La sera arrivano pure gli spacciatori, i piccoli boss. Il dottor Fabozzi dice che «hanno il volto coperto coi cappucci, sono veloci, incombono, cercano di organizzare », ma non sono ancora i nomadi metropolitani raccontati dai nuovi teorici dell’estremismo, si chiamano Romolé, Antò, zia Orsa, Mariangela, Francé,… E il marito di Ambra si chiama Toni. «È vero, abbiamo bruciato i cassonetti per farci notare» mi dice un uomo piccolo, rotondo e imperioso mentre dal bar esce Carletto, un ragazzo dall’aria fragile che agita le mani come per strangolare qualcuno, il berretto è girato al contrario, l’aria è da ‘ora ci penso io’: «Li dobbiamo caccia’ tutti ‘sti stronzi che ce dicono che semo razzisti». L’uomo che mi stava parlando dei cassonetti in fiamme si guarda in giro: «Dateglie ‘na botta a Carletto, che se no finisce male». Da quel sabato, la rabbia di Tor Sapienza ha attirato l’attenzione di tutta l’Italia e ovviamente della politica, l’altra notte la deputata di Sel Celeste Costantino ha dormito dentro la casa assediata con gli immigrati, ieri pomeriggio è arrivata Giorgia Meloni e li ha invitati a non prendersela «con i poveri immigrati ma con Marino che non è venuto, che vi ha abbandonato ». Non è ancora banlieue perché Roma non è ancora metropoli ma forse queste sono prove generali di modernità. Incontro la signora con la Kefiah, adesso siamo soli io e lei, parliamo, mi fa vedere che «il verde è molto curato», è fiera di tagliare l’erba, adesso ha il sorriso timido, le dico che poco prima mi aveva spaventato il suo odio. Ha sempre vissuto qui e ricorda che una volta era un mondo fertile e ordinato, un’isola … «ma le cose vanno troppo male, e quando tutto va male anche la ragione va in malora». Poi mentre mi saluta: «Di lì però se ne devono andare ». Del 14/11/2014, pag. 11 Guerra tra poveri I cento focolai d’Italia Da Prato a Padova dilagano le contestazioni contro il degrado Francesca Paci Poi a un certo punto anche le famiglie alzano la voce. Non i nerboruti rappresentanti della protesta dei Forconi, non i professionisti dell’antagonismo No Tav, non i secessionisti nostalgici dell’Italia pre-unitaria e neppure il «lumpenproletariat» delle periferie dove, come nella romana Tor Sapienza, la sopravvivenza diventa spesso guerra fra poveri. Quando viene meno (o si percepisce che venga meno) il contratto sociale scendono in piazza le famiglie, la classe media, la maggioranza solitamente silenziosa, quelli che magari versano 10 euro al mese per l’educazione di un bambino africano ma alla lunga non sopportano più di portare all’asilo il proprio dribblando con il passeggino cassonetti traboccanti spazzatura, venditori di merce rubata accampati sul marciapiede, buche stradali che neppure a Baghdad. Allora il gioco si fa veramente duro. Le famiglie italiane sono esasperate. Basta sfogliare le cronache locali per vedere che manifestazioni e sit-in si moltiplicano da Nord a Sud, in provincia e nelle grandi città, nelle borgate e nei rioni storici. Sabato scorso a Roma, quartiere San Giovanni, 10 minuti a piedi dal Colosseo, almeno 150 persone si sono radunate sotto la statua di San Francesco per denunciare l’incuria che dilaga in barba all’aumento degli estimi catastali (e delle tasse). 36 «Siamo persone di ogni colore politico accomunate da un’indignazione trasversale che non punta l’indice contro gli immigrati ma contro il degrado» spiega l’avvocato Gaetano Lauro Groppo, presidente del comitato locale Villa Wolkonsky, una cinquantina di abitanti tra cui un americano e un francese. Il cahier de doléances è zeppo: il mercato illegale a ridosso delle mura Aureliane, la concentrazione di rom «sempre più aggressivi», la scarsa manuntenzione delle strade, l’illuminazione carente, «un abbandono che si aggrava con la chiusura dei negozi impossibilitati a pagare affitti da 5 mila euro al mese». A Roma non c’è solo la bomba Tor Sapienza. Fino al 2004 i cittadini, sedotti dallo slogan avveniristico «la periferia fa centro», scommettevano sul recupero dei sobborghi al punto da pagare 210 mila euro per 80 metri quadrati a Tor Pignattara, promettente hinterland capitolino. Oggi che contrariamente alle aspettative è il centro a periferizzarsi la stessa casa viene valutata 200 mila euro. Si fa presto a dire razzismo. Non perché non ce ne sia, ma perché poi a Padova capita d’incontrare il rapper marocchino Abdelhamid Talibi che racconta di come molti suoi connazionali abbiano votato per il sindaco leghista Bitonci in rivolta contro lo spaccio di droga a cielo aperto. Il suo gruppo, i Fratelli Kamikaze, canta in italiano i problemi dei padovani: «Denunciamo la criminalità, siamo dalla parte delle forze dell’ordine, vorremmo che i giardini pubblici non fossero appannaggio della delinquenza, una delle nostre canzoni più popolari, “Città del peccato”, parla proprio di questo disagio diffuso». Roma, Padova ma anche Milano, dove all’inizio dell’estate 400 persone hanno organizzato un presidio per contestare la diffusione a macchia d’olio dei campi nomadi nel quartiere Adriano e per lamentare «il disinteresse del Comune verso le difficoltà di una zona da cui i residenti storici stanno migrando». E poi Prato, teatro di una singolare protesta da parte dei genitori che, la scorsa primavera, per rivendicare l’uso delle altalene di piazza Mercatale «occupate» dagli spacciatori e dunque di fatto inaccessibili ai bambini, hanno coperto il cartello con le disattese regole del parco con una nuova insegna: «Questo giardino è stato concesso in comodato d’uso a tossicodipendenti e prostitute». Un anno fa a Perugia furono anche le associazioni studentesche dell’università degli stranieri a invadere il centro storico per chiedere il recupero di piazza Grimana. E a settembre a Nogaro di San Giorgio, provincia di Udine, si sono mobilitati perfino i nonni, colonna portante del sistema familiare italiano, disposti a supplire perfino alla carenza di nidi a condizione però di poter contare almeno sul parco pubblico di piazzetta XXV Aprile, dove invece oggi nella migliore delle ipotesi i nipotini possono giocare alla guerra tra tombini rotti, vetri, erba alta e incolta. Le famiglie italiane medie sono pazienti per antonomasia. Quello zoccolo duro e invisibile di irriducibili cittadini su cui uno Stato come il nostro può contare quando la crisi impone di stringere la cinghia. Ma che succede se nel loro piccolo anche le formiche si arrabbiano? I grandi conoscitori dell’animo umano come Shakespeare insegnano a temere la rabbia dei penultimi. del 14/11/14, pag. 21 La Corte di giustizia europea ha stabilito che i governi nazionali possono negare le prestazioni sociali ai comunitari. Una sentenza lodata da Le Pen e Cameron “Stop ai sussidi per gli immigrati Ue” Bruxelles frena il turismo del welfare 37 ANAIS GINORI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI L’EUROPA è sempre meno solidale quando si tratta di welfare. I cittadini dell’Ue possono circolare liberamente ma le condizioni per beneficiare di servizi sociali e sussidi pubblici non sono uguali per tutti. Dall’inizio della crisi, molti Stati membri stanno cercando di imporre nuovi limiti e restrizioni. E da mercoledì è arrivata una sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue che dà ragione ai movimenti populisti che vorrebbero imporre una “preferenza nazionale” per il welfare. Secondo i magistrati della Corte europea i cittadini disoccupati che si recano in un altro Stato membro con l’unico fine di beneficiare degli aiuti pubblici «possono essere esclusi da alcune prestazioni sociali di base». La sentenza è partita dal caso di una cittadina rumena e di suo figlio che vivono a Lipsia e che si sono visti negare i servizi dell’assicurazione sanitaria di base perché senza reddito e non alla ricerca di un lavoro. Secondo i Jobcenter, i centri di assistenza sociale tedesca, la donna non parla tedesco, non cerca lavoro e non ha mostrato alcuna volontà di integrarsi. Un caso limite, rispetto a quello di migliaia di cittadini che si muovono tra le nazioni europee in cerca di opportunità professionali e con spirito di adattamento. Negli ultimi anni, gli attacchi alla libera circolazione e al Trattato di Schengen si moltiplicano. E le regole sono diventate sempre più rigide e severe non solo per cittadini extracomunitari o dei nuovi paesi membri, come Romania e Bulgaria, ma anche per le nazioni che hanno fondato l’Europa, tra cui l’Italia. Nonostante i ripetuti allarmi dei movimenti euroscettici, il cosiddetto “turismo del welfare” è molto limitato. Uno studio realizzato nel 2013 per la Commissione europea ha dimostrato che solo il 2,8% dei cittadini Ue cambia resi- denza ogni anno e meno di un terzo è inattivo (disoccupato, in pensione o studente). La presunta invasione di furbi (secondo un cliché, venuti dal Sud) che vogliono sfruttare i generosi welfare tedeschi, francesi o inglesi, non esiste. Un altro rapporto dell’Ocse ha sottolineato come i lavoratori migranti all’interno dell’Ue paghino più tasse e contributi dei sussidi che incassano. Ma nell’attuale contesto politico i dati reali non vengono presi in considerazione. È più forte la battaglia contro i “parassiti” stranieri dello Stato sociale: una bandiera dei nemici dell’Europa, e non solo. In Germania la sentenza è stata accolta da un plauso bipartisan. «Finalmente è stato chiarito che la libera circolazione non significa automaticamente accesso al sistema di previdenza degli Stati membri», ha commentato il vicepresidente Frans Timmermans. Per il Front National la decisione «è la prova che la priorità nazionale agli aiuti sociali è possibile: se si applica agli stranieri dell’Unione, si applica anche a tutti gli stranieri non europei». Per David Cameron si tratta di una vittoria simbolica e di “buon senso”. Da tempo il premier britannico, incalzato dagli euroscettici dell’Ukip di Nigel Farage, si batte per limitare l’accesso al welfare per i cittadini comunitari. Insieme a Olanda, Austria e Germania, la Gran Bretagna ha chiesto a Bruxelles di varare sanzioni legali e finanziarie “efficaci” contro chi abusa della libertà di movimento e pesa in maniera indebita sul welfare dei paesi più ricchi. L’iniziativa non aveva finora avuto seguito. E Angela Merkel ha frenato Cameron sull’idea di limitare la libera circolazione dei cittadini comunitari. Ma la sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue dimostra che, anche nel cuore dell’Europa, il vento è cambiato. 38 SOCIETA’ del 14/11/14, pag. 26 La Curia scheda le classi pro gay. È bufera Lettera segreta a seimila docenti di religione della Lombardia: “Diteci in quali istituti si parla di omosessualità” Scoppia la polemica: “Intrusione inammissibile”. E alla fine la diocesi si scusa: “Formulazione inappropriata” ZITA DAZZI MILANO . Insegnanti di religione invitati a trasformarsi in “spie” e a segnalare alla Curia in quali scuole della Diocesi ambrosiana ci siano docenti o progetti che parlano agli studenti dei temi legati all’omosessualità. L’invito a collaborare a questa schedatura di massa nelle scuole pubbliche è partito dalla Curia di Milano. Doveva restare un’indagine segreta, svolta senza dare nell’occhio dai 6102 docenti cattolici destinatari di una lettera pubblicata on line su un portale riservato. Ma quando il documento arriva a “Repubblica” scoppia un caso nazionale. Le scuse giunte ieri sera dalla Curia milanese, che ha ammesso di aver usato «parole inappropriate», non hanno messo a tacere le polemiche. «Cari colleghi — si leggeva nella missiva che ha dato il via alla bufera — in tempi recenti gli alunni delle scuole italiane sono stati destinatari di una vasta campagna tesa a delegittimare la differenza sessuale affermando un’idea di libertà che abilita a scegliere il proprio genere e il proprio orientamento sessuale». Di fronte a questa situazione, l’ufficio di Curia che si occupa dell’insegnamento della religione nelle scuole milanesi e lombarde chiede ai suoi “dipendenti” notizie precise: «Per valutare l’effettiva diffusione dell’ideologia del “gender”, vorremmo avere una percezione del numero delle scuole in cui sono state attuate iniziative e di quelle in cui sono state solo proposte. Chiederemmo a tutti i docenti di riportare il nome delle scuole nella tabella». L’«indagine informale» viene confermata da don GianBattista Rota, responsabile dell’ufficio di Curia, che prova in un primo momento a giustificarla con «la preoccupazione che gli eventuali discorsi su temi così delicati e all’ordine del giorno del dibattito pubblico, vengano sempre affrontati dagli insegnanti di religione con competenza e rispetto delle posizioni di tutti». Ieri mattina il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha preso le distanze: «Mi parrebbe una cosa estremamente improbabile e strana che ci possa essere una sorta di censimento ». Nessuna dichiarazione dall’arcivescovo Angelo Scola, ma una nota della Curia che esce in serata rivela tutto l’imbarazzo dello staff del cardinale: «La comunicazione è formulata in modo inappropriato e di questo chiediamo scusa. L’intento originario era esclusivamente quello di conoscere dagli insegnanti di religione il loro bisogno di adeguata formazione per presentare, dentro la società plurale, la visione cristiana della sessualità in modo corretto e rispettoso di tutti». Scuse che non mettono la sordina alle proteste. Il sottosegretario alle Riforme del governo Renzi, primo firmatario della legge contro le discriminazioni omofobiche, Ivan Scalfarotto, definisce «inopportuna» l’iniziativa aggiungendo «la preoccupazione per un’impostazione della Chiesa istituzionale che vive come una aggressione ai propri valori una normale evoluzione dei costumi e della comunità». Un’inchiesta del «ministro dell’Istruzione» viene chiesta da Valeria Fedeli, vicepresidente di Palazzo Madama e da altri undici senatori Pd. A favore della maxi schedatura si schierano invece Carlo Giovanardi ed Eugenia Roccella (Ncd) secondo cui «da mesi la 39 scuola italiana è terreno di conquista da parte delle associazioni Lgbt» che avrebbero dato il via a «un clima di caccia alle streghe, di intimidire chiunque non voglia piegarsi a questa dittatura culturale ». Alessandro Zan, deputato pd, replica denunciando la «caccia alle scuole che portano avanti il contrasto al bullismo omofobico e transfobico». del 14/11/14, pag. 38/39 Dalle slot al gioco su internet. Senza fermarsi, come un’ossessione Avviliscono se stessi e rompono con i familiari Sono i ludopatici a grave rischio di dipendenza 250mila persone su 16 milioni di italiani che tentano la fortuna Vite d’azzardo GIANLUCA MORESCO FABIO TONACCI ANDREA è uno zombie. Spinge quel tasto con su scritto “start” una volta ogni tre secondi, da un’ora e mezzo. Parla con la slot, in una mano stringe tre ricevute, due sulle corse di cavalli, una piazzata sul calcio. Non sente i rumori, non sa che ore sono, segue le quote anche sullo smartphone. È registrato su tre piattaforme diverse, dove insegue la quota più vantaggiosa. «Che poi mi fa pure schifo questo gioco, è fatto per farti venire il mal di testa... «. Un’altra moneta va giù. «È una fregatura, non vinco mai... Pagami, bella, pagami... «. Niente, la sua bella non lo paga, deve cambiare altri venti euro. «Su Internet è meglio, la notte gioco a poker, casinò online, tutto... Sì, sono uno zombie». Fino all’alba i suoi occhi sono piantati sul display dei due computer, poi dorme qualche ora. Il pomeriggio di Andrea invece scorre qui, nella sala scommesse Snai di via Gai a Roma, quartiere Flaminio. Un luogo storico, per chi è cresciuto a pane e cavalli. Trentadue televisioni accese, sfilze di numeri, schedine accartocciate sul pavimento, Herta BerlinoHannover 96 in diretta su uno schermo, le corse della tris di Napoli e Pisa sugli altri. Negli anni Novanta fuori dal locale, sui bidoni della spazzatura, con 100mila lire ti sfidavano a scopa. Ma se cercate le fucine del vizio compulsivo, bisogna cercare altrove. I ludopatici, quelli che sul piatto mettono macchine, case, carriere, famiglie, vite, oggi siedono sul divano di casa davanti al pc. Oppure nascondono il tablet dentro la ventiquattrore in ufficio. Usano lo smartphone, come Andrea. «Ho tre account aperti», mostra sul telefonino. «Scommetto sul calcio, il gratta e vinci, e le videolotteries». La sua scimmia te la sbatte in faccia, senza convenevoli. Ha 47 anni e ne dimostra dieci di più. Vestito male, ma con un paio d’occhiali di marca. Una sfilza di lavori alle spalle, mai stabili. Una ex compagna che non lo ama più. «Mi ha lasciato quando mi hanno pignorato la macchina. Si è portata via mia figlia». È Andrea, “lo zombie”. E non riesce a smettere. C’è un fenomeno che, in psicologia, descrive quello che gli sta succedendo: bus stop entrapment . Rincorre le perdite, persegue una strategia fallimentare. È un errore cognitivo, uno dei tanti, che turba le menti dei compulsivi e impedisce loro di staccare: sono convinti che la fortuna stia per arrivare, dunque non possono lasciare il tavolo o la slot proprio in quel momento. Ma la vincita, proprio come succede con gli autobus, spesso non arriva. L’ultimo studio Ipsad condotto dalla sezione di Epidemiologia del Cnr di Pisa, che Repubblica è in grado di anticipare, sostiene che i “giocatori problematici”, cioè quelli che rischiano di sviluppare disturbi psicosomatici e dipendenze compulsive, sono l’1,6 per cento. Si tratta di 256mila persone sui 16 milioni di italiani che, almeno una volta, hanno 40 affidato alla fortuna un po’ del loro denaro. Sono giovani, i problematici: il 78 per cento ha tra i 15 e i 34 anni, il resto tra i 45 e i 64 anni. Sono numeri che fanno paura, perché costringono tutti a interrogarsi. «Io non ci casco», ci si dice. Poi però gli esperti che studiano il fenomeno in crescita preoccupante (lo studio Ipsad sostiene che i “problematici” erano lo 0,6 per cento nel 2007 e l’1,3 nel 2010) ti spiegano che il meccanismo che ti risucchia nella voragine dove ora affoga Andrea non è poi così lontano. Può capitare a tutti. La storia di Marco Baldini, che di recente ha lasciato la trasmissione Fuoriprogramma del collega e amico Fiorello perché non si sente più in grado di «garantire un buon livello di professionalità », in fondo racconta questo. Nonostante lui giuri di aver smesso con il gioco d’azzardo nel 2009, oggi si trova a fare i conti con le conseguenze di quella vita là, attorno ai tavoli, negli ippodromi, e chissà dove. «Chiunque può sviluppare tali comportamenti patologici in relazione al gioco d’azzardo», è la premessa, per niente rassicurante, di Claudio Dalpiaz, psicoterapeuta che dal 2007 si occupa con il progetto Orthos delle dipendenze. Nella testa dell’uomo che si fa “zombie” scatta qualcosa. La scienza ha individuato dei sentieri, almeno tre, che è meglio non percorrere. «Chi è tormentato — spiega Dalpiaz — e sperimenta stati d’ansia, depressione, solitudine, incomunicabilità, può arrivare a usare l’azzardo come maldestro tentativo di autoterapia: si dissocia, si dimentica dei problemi». Andrea percorre quella via, mentre inebetito si destreggia tra i suoi account di gioco online. Se gli chiedi cosa vede, mentre fa scivolare le dita sul touch screen, risponde: «Niente, non voglio pensare a niente». Che poi le sale sono perfidamente fatte apposta per spingere alla dissociazione. Non è un caso che non ci sia un orologio al muro, che le finestre siano oscurate, che sia l’unico luogo pubblico dove nessuno protesta se fumi, che girino hostess che servono da bere direttamente alle macchinette. «C’è anche chi prova solo per divertirsi una lotteria o un gratta e vinci — continua lo psicoterapeuta — e gli capita “la vincita del principiante”: questo lo espone a un momento “eccitante”, il suo cervello ne chiederà ancora». Eccolo, il secondo meccanismo. Il terzo: «Diventano ludopatici i sensation seekers , quelle persone che, per loro natura, hanno bisogno di stimolazioni continue. Ieri erano solo alcol e droghe, ora hanno a disposizione un ventaglio di forme d’azzardo mai visto in precedenza». Di che pasta sia fatto questo ventaglio, lo dicono i numeri: 3.472 Gratta e Vinci acquistati in Italia ogni secondo, 32.243 euro al minuto giocati alle slot, 70 milioni di euro al giorno puntati sul Bingo, 2,2 miliardi l’anno affidati all’estrazione del Lotto, 4 miliardi alle scommesse sportive, 10.229 punti sparsi sul territorio per i concorsi pronostico, 5657 spazi dedicati alla raccolta delle puntate sull’ippica, 7.059 attività dove piazzare almeno una scommessa sportiva, 33.624 ricevitorie del Lotto, 65.321 punti dove acquistare un tagliando della lotteria. Il principio è lo stesso che guidò Benny Binion alla creazione del Horsehoe di Las Vegas nei primi anni Cinquanta: «Costringi i turisti ad attraversare corridoi dove si punta ai giochi, prima o poi lasceranno un dollaro sul tavolo». Corollario: riempi il web di casinò e poker online, e prima o poi qualcuno aprirà un conto. «Sulla Rete si vive una dimensione di assoluta privacy — dice Dalpiaz — non ci sono occhi critici che giudicano, pure i soldi sembrano virtuali. Con le carte di credito non si riesce a capire quanto si stia spendendo, ogni clic se ne vanno 5-10 euro». La nuova frontiera per far sentire meno soli gli utenti sono i web croupier che, grazie alle microtelecamere, interagiscono direttamente col giocatore. A Riga, sul Baltico l’azienda internazionale che ha inventato il Live Casinò Online con sale in diretta streaming 24 ore su 24 (oltre 400 addetti alle puntate di tutte le nazionalità), usa la bellezza delle croupier in abito nero e scollatura per tenere incollati allo schermo i giocatori. Poi una mattina ti sveglia la telefonata del direttore della tua banca imbestialito. Tutto facilissimo e accessibile, la sala di via Gai è archeologia al confronto delle app disponibili oggi sui 41 telefonini. Alcune sono studiate apposta per i bambini, giocano alla roulette o alla slot senza vincite in denaro. Preparandosi, domani, a diventare i consumatori dell’azzardo. 42 BENI COMUNI/AMBIENTE Del 14/11/2014, pag. 7 I soldi mai spesi contro frane e alluvioni Duecento milioni disponibili e inutilizzati Dossier del ministero dell’Ambiente sui fondi distribuiti tra il 1999 e il 2008 Nessuno di questi centoquaranta “interventi urgenti” è stato ancora avviato Giuseppe Salvaggiulo Talvolta finisce come a Riomaggiore, nelle Cinque Terre, con i quattrini per mettere in sicurezza i torrenti dopo l’alluvione del 2000 finiti nelle tasche di funzionari pubblici e imprenditori. Nelle carte del Comune i lavori sui corsi d’acqua risultavano realizzati; in realtà non erano nemmeno cominciati. Nella maggioranza dei casi non c’è materia penale, ma «solo» scandalo istituzionale. Undici anni a Chiavari per convocare una riunione di sindaci. Dodici a Napoli per approvare un progetto. Quindici a Porto Empedocle per concludere un esproprio. Il catalogo dei soldi inutilizzati per il dissesto idrogeologico è questo. Dal 2009 il ministero dell’Ambiente ha finanziato opere per 2 miliardi e sono partiti lavori per meno della metà. Tempi tecnici, si difendono le Regioni, e contenziosi come nel caso del torrente Bisagno a Genova. Ma è sui fondi distribuiti nei dieci anni precedenti che ogni alibi cade: ci sono oltre 200 milioni non spesi. Non si tratta di mega opere come quelle di Sarno e del Seveso, ma di 140 interventi minori. Il necessario rammendo di un Paese fragile. Pareri decennali Eppure restano sulla carta, come dimostra la mappa Ispra-ministero. Il record nero spetta al Comune di Camaiore, in Toscana: dieci progetti finanziati per 800 mila euro quindici anni fa, nessuno completato. A Napoli ci sono voluti dodici anni per avere il progetto del primo lotto di sistemazione della frana in località Costone San Martino. Intervento definito «urgente» e finanziato con 5 milioni di euro nel 2002. Ora si parte? Macché: è passato troppo tempo e la Regione ci ha ripensato. Non solo «urgenti» ma addirittura «indifferibili» erano i lavori sui torrenti di Cancello ed Arnone, in Campania. Eppure sono nove anni che li differiscono, tanto che lo stesso Comune non ne sa più nulla. A Chiavari, in Liguria, i primi otto milioni per il fiume Entella, esondato lunedì scorso, arrivarono nel 2002, all’indomani dell’ennesima alluvione. Bisognava far presto per evitare altri disastri. Ma solo nel 2011 è stata convocata la conferenza di servizi (l’organo che riunisce tutti gli enti coinvolti) e nel 2013 è arrivato il parere favorevole. Poi sono cominciati gli espropri. Ora tocca ai progetti, quindi si bandiranno gli appalti... Com’è possibile? A dispetto delle giaculatorie dei politici contro i Tar, non sono i contenziosi giudiziari la causa principale dei ritardi. Piuttosto pesano l’inadeguatezza tecnica dei Comuni (fare un progetto richiede il doppio del tempo necessario a realizzare l’opera), l’intrico legislativo (1200 norme sedimentate in meno di trent’anni), la lentezza delle procedure (almeno 34 mesi per una valutazione d’impatto ambientale), l’eccesso di enti coinvolti (3600), le diatribe locali (fino a 25 enti nelle conferenze di servizi, una specie di suk), i conflitti tra partiti, i vincoli contabili del patto di stabilità. Tutte questioni politiche. Troppi enti e confusi La patologia ha declinazioni fantasiose. All’isola del Giglio ci sono 700 mila euro disponibili da sette anni: la conferenza di servizi ha approvato il progetto, ma la legge impone al 43 Comune una variante al piano regolatore. E quando sarà fatta, la conferenza dei servizi dovrà riconvocarsi. A Porto Azzurro, dieci anni fa erano arrivati 800 mila euro per briglie e casse di espansione. Ma nel passaggio dalla Comunità Montana all’Unione dei Comuni, come nel gioco delle tre carte, le competenze sono state trasferite alla Provincia. Peccato che nel bilancio di quest’ultima non vi sia traccia di quei denari. Gli otto milioni arrivati nel 2005 in Campania per sistemare l’alveo dei Camaldoli li aveva chiesti il Commissario straordinario per l’emergenza idrogeologica, ma quando l’altisonante organismo è stato sciolto, nessun ente ha pensato di farsi carico della pratica. Mistero sui soldi, mentre le esondazioni continuano (l’ultima in luglio, con rifiuti e melma sulle strade). A Caserta è successo di tutto: prima i ricorsi contro gli espropri, poi l’attesa dei pareri della soprintendenza e dell’autorità di bacino, infine il buco nero del dissesto finanziario del Comune, che ha inghiottito anche i 3,5 milioni stanziati nel 2004 per drenaggi e riforestazione. A Porto Empedocle, in Sicilia, dopo sei anni si sono accorti che i due milioni per mettere in sicurezza il centro abitato erano stati devoluti «per errore» alla Provincia anziché alla Regione. Adesso, corretta la svista, si attende il progetto esecutivo. A ottanta chilometri di distanza, copione diverso ma stesso genere da teatro dell'assurdo: un milione a disposizione, ma non s’era deciso chi, tra Provincia e Comune di Butera, dovesse spenderlo. Infine si sono chiariti: tocca alla Provincia, che ha indetto la conferenza di servizi a sei anni dallo stanziamento. Altri cinquanta chilometri e c’è Vittoria, dove la ricostruzione della spiaggia di punta Zafaglione, per cui da Roma arrivarono 2 milioni nel 2008, non è ancora cominciata perché da Palermo l’agenzia ambientale della Regione non ha inviato i risultati delle analisi sulla sabbia. Granello per granello, chissà quando finiranno. L’effetto è tragico: paralisi istituzionale generalizzata e irresponsabilità politica di massa. Salvo chiedere altri soldi, alla prossima alluvione. 44 CULTURA E SCUOLA del 14/11/14, pag. 27 No ai voti, sì al wi fi e via le classi-pollaio i desideri del web per la “buona scuola” Si chiude domani la consultazione in rete del Miur Ma l’istituto della moglie di Renzi boccia la riforma LAURA MONTANARI MARIO NERI IN RETE spopola, oltre un milione di contatti, tremila proposte, più di otto milioni di pagine viste, una valanga di idee, quasi un libro dei sogni. Ma quando poi, dal virtuale si passa al reale, capitano brusche sorprese per la «Buona scuola» del governo Renzi. Una su tutte. Qualche giorno fa la riforma che è ancora un cantiere di lavori in corso, è stata bocciata all’istituto Balducci di Pontessieve, proprio la terra del premier e oltretutto la scuola in cui insegna, con un part time, Agnese Landini, la moglie di Matteo Renzi. Nessun timore reverenziale all’istituto superiore in provincia di Firenze, il collegio docenti (va detto che Agnese non ha partecipato alla riunione) ha approvato con 34 voti a favore e 29 contrari un documento che suona come una bocciatura per la “Buona scuola”. In otto punti i motivi del no, fra questi: troppo pochi gli investimenti («tranne che per la stabilizzazione dei precari, peraltro già prevista dalla normativa europea»), no agli incarichi aggiuntivi per gli insegnanti, no alla valutazione interpretata come una «gara» fra le cattedre. E no anche ai privati nella scuola pubblica. Conclusione messa nero su bianco: «Il piano ci sembra redatto con la tecnica del prendere o lasciare e sottende una visione aziendalista della scuola, lontana dai dettami costituzionali». Ma se questo schiaffo sia l’indizio di un malessere profondo o soltanto una delle voci dissonanti dal coro è presto per dirlo. Di certo il progetto di riforma del governo un obiettivo l’ha centrato: quello di far discutere tutte le componenti, dagli insegnanti agli studenti al personale Ata guardando alla scuola del futuro. Basta viaggiare un po’ nelle pagine del portale labuonascuola. gov. it per rendersene conto. In più di centomila hanno risposto alle trenta domande del questionario che sarà un po’ il termometro degli umori che si agitano nel mondo dell’istruzione. La consultazione in rete si chiuderà domani, poi il Miur metterà al lavoro un gruppo di esperti per esaminare i risultati emersi in questi due mesi nella piazza della riforma social 2.0. Da quel che si può leggere al momento — è accessibile tutta l’area delle sedici stanze tematiche selezionate dal Miur — le idee che si affacciano sono le più disparate. Fra i più popolari la questione dei voti: «Il voto è diventato una somma algebrica insensibile. La scuola oltre la cultura deve formare la persona». Segue il dibattito, Andrea per esempio sostiene: che bisogna cambiarli, «meno insufficienze», «5 voti negativi non sono utili nella didattica». Raccoglie molti favori, oltre mille interventi e duemila “like” alla maniera di Facebook, la proposta di Samuele che chiede un pedagogista e un educatore per ogni scuola «di supporto ai docenti, di consulenza pedagogica alle famiglie e di sostegno agli studenti ». A seguire la tesi di Alanto (è un nickname): «Per rendere più efficiente il nostro sistema scolastico servono due semplici requisiti: 1) diminuzione del numero di studenti per classe; 2) aumento dello stipendio dei docenti». E spiega: «Se si vuole veramente investire sull’istruzione è necessario restituire valore alla funzione docente». Come? «Con un insegnante che si occupi soprattutto della propria professionalità» per migliorare la didattica. I pareri poi si dividono su valutazione e premi. Scrive, per esempio, Matteo: 45 «Voler dare gli scatti stipendiali a una percentuale fissa (66 per cento ogni anno) dei docenti di ogni scuola è una proposta infame e in odore di incostituzionalità. Come se si potesse stabilire a priori che il 34 per cento dei docenti non abbia svolto il suo lavoro». Uno chiama la mobilitazione «come i metalmeccanici che bloccano le autostrade». La scuola è una macchina articolata e i temi sul tappeto sono tanti: per esempio più formazione, più “digital”, wi-fi per tutti, connessioni, programmi open source o certificati dal Miur. C’è poi chi chiede più ore per le lingue straniere, per la geografia e la storia dell’arte. Il caro libri non sfugge alle sferzate del web «usiamo i libri dell’anno prima» ipotizza uno. Oreste e altri si schierano per abolire l’Invalsi e “la test mania”. Molti like contro le classi pollaio, dall’infanzia alle superiori, «per aumentare la qualità dell’apprendimento ». C’è chi invoca la libertà di iscrivere gratis i figli alla pubblica o alla paritaria, chi si schiera per abolire l’ora di religione e chi la vorrebbe curriculare. Come si potrà conciliare tutto questo? del 14/11/14, pag. 45 Amazon-Hachette la guerra dei libri adesso è finita Il colosso online e il più “ribelle” dei grandi editori siglano l’intesa Incentivi per il prezzo degli ebook STEFANIA PARMEGGIANI AMAZON e Hachette hanno deposto le armi, mettendo fine a uno dei più lunghi e aspri conflitti nella storia dell’editoria. Basta con la censura di autori commercialmente scomodi perché pubblicati da un editore ribelle, basta con le lettere di denuncia e con gli appelli sui giornali: dopo sette mesi, il gigante dell’e-commerce e il gruppo editoriale hanno firmato un contratto pluriennale per la vendita di libri ed ebook. La pace è stata sancita ieri mattina con un comunicato stampa a doppia firma che, senza svelare i dettagli, ha ufficializzato “l’accordo di Natale”. Michael Pietsch, amministratore delegato di Hachette, ha commentato: «Questa è una grande notizia per gli scrittori. Il nuovo accordo darà benefici agli autori del gruppo negli anni a venire». David Naggar di Amazon ha aggiunto: «Siamo soddisfatti del fatto che il nuovo accordo includa specifici incentivi finanziari per Hachette per spingere al ribasso i prezzi, cosa che riteniamo una vittoria per i lettori e per gli scrittori». Il contratto entrerà in vigore all’inizio del prossimo anno, ma qualcosa è già cambiato. Quello che era stato un vero e proprio boicottaggio del distributore Amazon nei confronti di autori ed editori sembra essere finito. Da ieri è di nuovo possibile fare un pre-ordine, assicurandosi ad esempio una copia dell’autobiografia della superstar mondiale del cricket Kevin Pietersen o la nuova edizione di Cathy del fotografo John Carder Bush. Anche le consegne dovrebbero tornare alla normalità sebbene ieri, qualche ora dopo l’annuncio, continuavano a essere indicati ritardi su The Universal Tone di Carlos Santana, Nine stories di JD Salinger e altre opere. Tutti i libri riappariranno nella lista dei consigli in tempo utile per diventare un regalo di Natale: le vendite nel periodo migliore dell’anno sono assicurate. Una boccata di ossigeno per un settore in crisi, che arriva dopo giorni durissimi. La guerra era cominciata a maggio, in sordina, al chiuso delle stanze in cui i dirigenti delle due società stavano rinegoziando i rapporti. Il punto più delicato della trattativa era quanto dovesse costare un ebook: 9,99 dollari al massimo secondo Amazon. Durante l’estate la 46 situazione è precipitata, il dialogo si è interrotto, l’azienda di Seattle ha reso difficile se non impossibile l’acquisto sul suo sito di molti dei titoli di Hachette. Ad agosto quasi mille scrittori americani hanno pubblicato una lettera aperta sul New York Times invitando i lettori a tempestare Jeff Bezos di email di protesta perché la finisse di prendere in ostaggio i libri. Immediata la reazione delle star del self-publishing: hanno fatto notare come Hachette sia stato uno dei cinque editori citati in giudizio nel 2012 dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti con l’accusa di avere fatto cartello sul prezzo degli e-book. Da quel momento i toni si sono fatti più accesi e Hachette ha trovato una sponda non solo in molti scrittori americani, ma anche in tanti intellettuali europei. Un secondo fronte si è infatti aperto in Europa quando i libri pubblicati dalla svedese Bonnier Group hanno cominciato a essere boicottati con tecniche molto simili a quelle già sperimentate in America. In prima linea il premio Nobel Elfriede Jelinek e romanzieri molto popolari nel Nord come gli autori di crime story Ingrid Noll e Nele Neuhaus. La eco degli scontri è poi arrivata in Italia: sebbene nel nostro Paese il mercato degli ebook sia ancora marginale, molti editori sono preoccupati della politica aggressiva di Bezos. E se alcuni scelgono di stringere accordi - in questi giorni parte la collaborazione tra Giunti e Amazon la maggior parte, da Mondadori a Feltrinelli, dal gruppo Gems a Einaudi, si accontenta di un patto di non belligeranza. Dallo scontro aperto tutti hanno da perdere. Lo si è capito seguendo la disputa americana: gli autori boicottati hanno visto crollare le vendite, gli incassi di Hachette sono calati sensibilmente e nel frattempo l’immagine di Amazon si è molto appannata. Dato che ci stavano perdendo tutti, era evidente che fosse arrivato il momento di deporre le armi. Da settimane era nell’aria un accordo commerciale simile a quello firmato in ottobre da Amazon con Simon & Schuster. Ed effettivamente la lettera che Pietsch ha inviato ai suoi scrittori e che subito è rimbalzata su Twitter contiene rassicurazioni simili a quelle a suo tempo firmate dall’amministratore delegato di Simon & Schuster: gli ebook in teoria potranno costare anche più di 9,99 dollari e Hachette potrà continuare a deciderne il prezzo accettando o rifiutando di volta in volta gli incentivi economici di Amazon. «Grazie al cielo» - ha commentato Douglas Preston, l’autore che ha guidato la rivolta degli scrittori e che per questo è stato duramente boicottato - «Speriamo che se in futuro sorgeranno altri disaccordi con gli editori, Amazon non faccia più leva sui libri e sugli autori ». Sollevati anche gli altri editori americani che devono rinegoziare i propri accordi: è probabile che firmata la tregua con Hachette, anche la trattativa di HarperCollins, Macmillan e Penguin Random House possa proseguire e concludersi senza colpi bassi. La guerra del libro, al momento, è finita. del 14/11/14, pag. 46 Volontari di guerra e di pace L’amicizia tra i Paesi cominciò così Un’intuizione di Abram Piatt Andrew, che fece nascere un servizio di ambulanze durante il primo conflitto mondiale, è alle origini dell’associazione che oggi promuove scambi internazionali fra studenti . Perché conoscersi e imparare serve a migliorare il mondo MASSIMO RAZZI 47 Cent’anni per diffondere e praticare l’idea dell’interculturalità. Cent’anni a partire da una guerra (la prima mondiale) che fece strage di uomini e donne e da un gruppo di “ambulanzieri” pazzi che scelsero di aiutare i loro simili che si ammazzavano sui campi di battaglia della Marna. Mezzo secolo, poi, a mandare ragazzi e ragazze in giro per il mondo per scoprire il valore della convivenza delle diversità, delle lingue, delle tradizioni e delle culture diverse. Cent’anni, in tutto, per accorgersi che il cammino è appena cominciato, che venti di guerra soffiano ancora e, sempre, a spingerli ci sono le differenze di colore, di provenienza, di religione. E che c’è ancora tanto bisogno dell’American Field Service e di Intercultura, rispettivamente l’organizzazione mondiale e la sua struttura italiana, che governano, ogni anno, oltre 12mila scambi studenteschi tra sessanta Paesi diversi. Nei giorni scorsi si è svolto il congresso mondiale dell’Afs, a Parigi, dove tutto cominciò nell’aprile del 1915. Anzi, quasi un anno prima, quando Abram Piatt Andrew, 43 anni, professore di Economia di Harvard da tempo in politica, esce sconfitto nelle primarie repubblicane per un seggio al Congresso. La delusione porta Piatt Andrew ad andare in Europa per “avere una parte sia pure infinitesimale in uno dei più grandi eventi della storia, di essere di qualche aiuto…”. Piatt Andrew scrive queste cose a Robert Bacon, presidente dell’Ospedale Militare Americano allestito nel grande edificio del Lycée Pasteur a Parigi. Bacon accetta. Il professore sbarca nella Ville Lumière il 30 dicembre del 1914 e, ben presto, comincia a prestare servizio, insieme ad altri volontari americani, alla guida delle TinLizzie, le Ford modello T che la signora Anne Vanderbilt e altri mecenati Usa avevano donato alla Francia. Piatt Andrew era un uomo geniale, ma non aveva nessuna competenza specifica nel campo del soccorso ai feriti: «La casualità », racconta Roberto Ruffino, segretario generale di Intercultura e da sempre leader della sezione italiana Afs, «unita a razionalità, intelligenza e passione è all’origine di questa storia. Lui era benestante e, a quei tempi, la patente di guida era una cosa da ricchi. Così quando arriva in Francia lo mettono a guidare le ambulanze. Ma siccome è geniale, si accorge che il modo in cui vengono utilizzate le maneggevolissime Ford T è sbagliato». Le TinLizzie servono infatti solo a portare i feriti dalle stazioni ferroviarie di Parigi e dintorni fino agli ospedali. Piatt Andrew si rende subito conto che sarebbero più utili al fronte dove poche ore fanno la differenza tra la vita e la morte: si batte così per avere il permesso, difficile da ottenere perché i francesi non vogliono un intervento sul campo degli americani, che devono restare neutrali. Alla fine raggiunge il suo scopo. Nell’aprile del 1915 nasce l’American Ambulance Field Service: l’Aafs (nel luglio 1916 sarà poi eliminata la “a” di ambulance). Sui campi di battaglia compaiono le Ford T. Sono veloci e resistenti; salveranno migliaia di vite anche grazie al sacrificio di alcuni eroici autisti. «Dopo la guerra», aggiunge Ruffino, «Piatt Andrew si chiedeva quale fosse la lezione della sua esperienza. E diceva che si può diventare amici e fratelli di persone mai viste prima, indipendentemente da origini, nazionalità e livello sociale». Da questa lezione nasce, nel 1919, il primo programma di scambio tra Francia e Stati Uniti per studenti universitari, la French-American Fellowship Program. E, nel 1939, con la Seconda guerra mondiale, l’Afs è di nuovo in campo per portare aiuto ai feriti su tutti i teatri di guerra: in Europa, Asia e Medio Oriente. «Nel 1945 gli “ambulanzieri” rilanciano e allargano gli scambi ad altri Paesi e agli studenti delle medie superiori», spiega ancora Ruffino. «Piatt Andrew aveva capito che le guerre scoppiano per vari motivi, ma, di certo, l’ignoranza reciproca dei popoli, nel senso proprio di “non conoscenza”, aiuta la propaganda di chi vuole i conflitti. E pensava che far incontrare i giovani di tanti Paesi avrebbe fatto crescere la coscienza della comune umanità». All’origine del programma di scambi dell’Afs (il primo gruppo di 87 studenti di 22 Paesi parte per gli Stati Uniti nel 1947) non c’è un progetto pedagogico, ma molto più culturale, umanitario e di semplice esperienza di vita. Nel tempo gli elementi di carattere educativo 48 sono cresciuti: «Ma per decenni i sistemi scolastici nazionali hanno manifestato perplessità e chiusure», dice Ruffino, «convinti che i loro studenti andassero educati all’interno delle proprie tradizioni culturali. Col tempo e col lavoro, le cose sono cambiate. Ci vogliono soldi e la fatica di tanti meravigliosi volontari, ma oggi si può dire che le indicazioni del rapporto sull’educazione di Jacques Delors del 1996 hanno fatto breccia. Delors diceva che i pilastri della scuola sono quattro: imparare a conoscere, imparare a fare, imparare a essere e imparare a vivere insieme. Dopo cent’anni di Afs si può dire che anche il quarto pilastro sta crescendo» . 49 ECONOMIA E LAVORO Del 14/11/2014, pag. 3 Fiom e sciopero sociale, due piazze per due cortei Milano. Mezza Italia metalmeccanica manifesta a Milano (porta Venezia ore 9,30), mentre precari, sindacati di base e movimenti si ritrovano in piazza Cairoli (ore 9,30). Sul palco del Duomo, insieme a Maurizio Landini, anche Susanna Camusso. Il segretario generale della Cgil attacca i "renziani" del Pd che ironizzano sullo "sciopero ponte" e replica alla Cisl che ha preso le distanze dallo sciopero generale del 5 dicembre: "Debolezza è non reagire, loro decidano da che parte stare". Luca Fazio Sciopero, anzi scioperi. Oggi a Milano sfila mezza Italia metalmeccanica (l’altra metà sfilerà a Napoli venerdì prossimo 21 novembre). Sono otto ore di sciopero proclamato dalla Fiom in tutte le aziende del centro nord (Valle d’Aosta, Trentino, Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Friuli, Emilia e Toscana). Gli operai ce l’hanno con Matteo Renzi, tanto per sintetizzare la piattaforma di uno sciopero che non si limita a contrastare la filosofia regressiva del job act ma chiede anche “legalità, uguaglianza, democrazia e diritti per tutti”. Un manifesto (quasi) politico che ha raccolto l’adesione di ciò che resta della sinistra milanese, e che non dispiace ai sindacati di base e ai “movimenti” che contemporaneamente si ritrovano in un’altra piazza per lo sciopero sociale (largo Cairoli). La manifestazione della Fiom, invece, parte alle 9,30 da Porta Venezia e si conclude in piazza Duomo, con gli interventi di Maurizio Landini e di Susanna Camusso, Il segretario generale della Cgil approfitterà della piazza più calda per alzare il tiro in vista dello sciopero generale del 5 dicembre. Ma anche per rispondere alle ironie dei “renziani” sullo “sciopero ponte” e per replicare al prevedibilissimo attacco della Cisl che “non ci pensa nemmeno” ad incrociare le braccia con la Cgil. “Davvero ci sarebbe bisogno di un bagno di realtà — ha ribattuto ieri Susanna Camusso — da parte dei tanti che parlano e pensano a un mondo nel quale il lavoro sarebbe tutto quanto strutturato tra il lunedì e il venerdì e la gente è entusiasta di preparare ed andarsene per il week end. Basterebbe guardare le statistiche delle ferie estive per realizzare che si racconta un mondo che non c’è”. Per Susanna Camusso, quelli che fanno queste affermazioni “sono gli stessi che in parlamento hanno votato le leggi sull’obbligo di apertura domenicale, forse è bene che si ricordino di quello che fanno”. E ancora: i renziani che ironizzano “dimostrano che non conoscono proprio più come è fatto il mondo del lavoro”. Ben detto, in maniera fin troppo garbata, anche se forse non ci volevano due twitter poco simpatici per giungere alla conclusione che il Pd non è più un partito che sta con i lavoratori. Ma l’attacco più duro, anche se la Cgil è più sensibile al “fuoco amico” del Pd, arriva da Annamaria Furlan. Il neo segretario generale della Cisl si è sfogata a margine del consiglio generale della Fim. “Ricordo riforme pensionistiche e ben altre finanziarie lacrime e sangue — ha attaccato — di fronte alle quali si è scelto unitariamente di non scioperare”. Come dire che il fronte sindacale lo ha rotto la Cgil. E ancora: “Lo sciopero è solo della Cgil, l’ha proclamato la Camusso. Noi non ci saremo, non ci pensiamo nemmeno: non è lo strumento adatto. Ancora una volta la Cgil per fare il suo accordo interno ha diviso i lavo50 ratori e le lavoratrici italiane. Questa è la responsabilità che si assume, non è la prima volta che sciopera da sola”. La replica è ferma ma non stizzita. “E’ noto che il mondo del lavoro più è unito e più è forte — ha detto Camusso — dopodiché la vera debolezza penso sia il fatto che non si reagisca di fronte a scelte che manterrebbero il paese in una condizione di recessione e di attacco ai diritti del lavoro. La scelta che abbiamo fatto tiene conto della nostra idea che bisogna respingere il tentativo di dividere sistematicamente il mondo del lavoro. Decida la Cisl se contrastare questa riforma o subirla”. Schermaglie sindacali. Fortunatamente la piazza milanese, anzi le piazze, oggi diranno anche altro. Per esempio, se sarà mai possibile la convergenza di lotte sociali che pur andando confusamente nella stessa direzione ancora non riescono ad accumulare la forza per generare un unico percorso politico (possibilmente con una certa urgenza). Perché oggi non sciopera solo la Fiom. Ci saranno diverse manifestazioni (in tutta Italia) e altrettante azioni a sorpresa che dureranno tutta la giornata nell’ambito della prima giornata di “sciopero sociale”. Un azzardo necessario. Un esperimento lanciato dai sindacati di base (Cub, Cobas, Usi, Usb, Si,Cobas) e da diversii settori del “movimento” con l’obiettivo di coinvolgere tutte le persone che in qualche modo si sentono sfruttate senza avere nemmeno una sponda sindacale o politica che bene (o male) sia in grado di rappresentarle: precari, disoccupati, senza casa, stagisti, universitari, studenti delle superiori, nuovi e vecchi poveri, migranti, solitudini. La strada da fare è molta e non sarà facile percorrerla insieme. A Milano, in largo Cairoli (ore 9,30), il tentativo prende la forma di un corteo diviso in due: da una parte i sindacati di base più “sintonizzati” sul job act, dall’altra gli studenti e gli attivisti contro la “buona scuola” del governo Renzi e contro l’Expo, il paradigma della fine del lavoro retribuito. Saranno mobilitazioni a tappe sparse per la città, trovare il filo del discorso non è facile. Ma è necessario. Del 14/11/2014, pag. 3 I mille volti dello sciopero sociale, oggi prove generali di coalizione Quinto Stato. «Metropolitano», «di genere», «migrante», «online», «per la cultura e la scuola». Da Milano a Napoli, da Roma a Torino, passando per Pisa, Bologna e Venezia cortei, blocchi e sit-in: venticinque città contro il Jobs Act Roberto Ciccarelli L’ Ambizione dello sciopero sociale, organizzato oggi in venticinque città dai sindacati di base (Cobas, Usb Cub e Adl Cobas), dai centri sociali, dagli studenti (Rete della Conoscenza) e da associazioni del lavoro precario o a partita Iva è rappresentare tutte le sfumature della sotto-occupazione, dei sotto-salari, del lavoro povero, volontario e servile esistenti in Italia. Secondo i promotori, questa condizione verrà drasticamente peggiorata dal Jobs Act in discussione in parlamento, con l’abolizione dell’articolo 18 per i neo-assunti e l’introduzione del «contratto a tutele crescenti» che sospende i diritti dei lavoratori per un lungo periodo a discrezione dell’impresa. La piattaforma richiede l’abolizione dei 46 contratti precari della legge 30; la creazione di un salario minimo europeo da 10 euro e un reddito di base universale finanziabile con la fiscalità generale. Viene auspicata la redistribuzione dei 1,5 miliardi di cofinanziamento europeo della fallimentare «garanzia giovani» ai suoi reali beneficiari (under 29, laureati o inoccupati) e non alle agenzie interinali o agli 51 enti di formazione. Significativa è l’apertura rispetto al mondo del lavoro autonomo, quello iscritto alla gestione separata dell’Inps, e quello del lavoro professionale ordinistico. Per loro si chiede equità fiscale e contributiva e l’estensione dei diritti sociali fondamentali (malattia e maternità ad esempio). Un’apertura che ha spinto all’adesione allo sciopero della Mobilitazione generale degli avvocati (Mga), un gruppo numeroso che ha rinnovato la politica forense negli ultimi anni. Prepotente è la vertenza contro il «lavoro gratuito» stabilito dall’accordo sindacale del 2013 per l’Expo. In poco più di un anno è diventata una battaglia simbolica per la retribuzione di tutti i lavori, che siano sotto forma di stage, tirocini, prove, volontariato. «Quello di oggi non è lo sciopero di un soggetto unico – sostengono gli attivisti del laboratorio romano per lo sciopero sociale – ma è una mobilitazione dell’insieme dei soggetti del lavoro precario, autonomo e impoverito per creare una coalizione». La mobilitazione non si declinerà nella sola forma dell’astensione da una prestazione salariata. Lo sciopero sarà onnipresente sui social network e si declinerà come «sciopero di genere», intendendo il genere un «mezzo di produzione sociale» che mette a valore le differenze sessuali, gli stili di vita o il lavoro di cura. Sarà uno «sciopero per la cultura»: per ripensare il diritto d’autore fuori dal monopolio della Siae o gestire in maniera «trasparente e partecipata» i fondi pubblici. Forte è l’attenzione per i beni comuni e alla battaglia contro lo Sblocca Italia. Per questo il Forum italiano per l’acqua ha aderito. Lo sciopero sarà «migrante»: la coalizione internazionale dei Sans Papiers «Migranti Rifugiati e Richiedenti Asilo» manifesterà alle 14 a piazza Montecitorio. E coinvolgerà la scuola dove i Cobas saranno in sciopero generale. L’Usb ha dichiarato quattro ore di sciopero generale a livello nazionale. Alle manifestazioni ha aderito anche Rifondazione Comunista. In questo arcipelago è emersa l’esigenza di creare uno «spazio permanente e generale di mobilitazione» che in Italia manca dal 2011, dopo la giornata del 15 ottobre. Da allora sembra essere cambiato l’approccio tra alcune reti di movimento. «Si è passati dalla competizione alla cooperazione» è stato detto nel corso di un’assemblea alla Sapienza dell’11 novembre dove anche il segretario della Fiom Maurizio Landini ha provato a sillabare il concetto di «coalizione». Vengono inoltre riscoperte parole seppellite dall’industrialismo e dalla credenza che il salariato fosse la categoria centrale attorno alla quale riunire i frammenti del lavoro. Il mutualismo, ad esempio, oggi considerato come una pratica trasversale capace di rivolgersi alle esigenze dei singoli, e non solo alle loro identità professionali o precarie. Da Torino (piazza Arbarello, ore 9,30) a Milano (Largo Cairoli), da Bologna (Sala Borsa) a Napoli (piazza Mancini) a Roma (piazza della Repubblica) partiranno le manifestazioni classiche in forma di sfilata (o parata). All’alba fino alla notte di oggi ci saranno blocchi, presidi e sit-in. Alcune azioni di sensibilizzazione sono partite ieri sera in molte città, da Nord a Sud, nei luoghi dell’intrattenimento e della movida, luoghi del precariato giovanile. del 14/11/14, pag. 8 Licenziamenti disciplinari controlli e ammortizzatori il Jobs act cambia così Fissate le varie tipologie che prevedono la riassunzione Verso un innalzamento a 3,4 miliardi delle risorse per i sussidi ROBERTO MANIA ROMA . 52 La riforma dell’articolo 18 entra nel Jobs Act. Per i licenziamenti disciplinari dichiarati nulli da un giudice, sarà previsto il reintegro nel posto di lavoro. Tutela reale anche per quelli discriminatori, indennizzo monetario per i licenziamenti dovuti alla crisi economica dell’azienda. È questo il cuore dell’accordo raggiunto ieri all’interno del Pd. Dunque cambierà una parte della legge sulla riforma del mercato del lavoro perché la regolamentazione dei licenziamenti individuali ingiustificati non sarà rinviata ai decreti attuativi (come il governo aveva intenzione di fare), ma diventerà parte integrante del testo in discussione alla Camera (come chiedeva la minoranza del Partito democratico). Il testo dovrà poi tornare al Senato per una terza lettura, perché nella versione approvata da Palazzo Madama non c’era alcun riferimento all’articolo 18. L’esecutivo si è impegnato a varare i decreti attuativi entro la fine dell’anno per permettere l’applicazione della riforma fin dal primo gennaio 2015 quando, con la legge di Stabilità, scatteranno pure gli sgravi contributivi a favore delle nuove assunzioni a tempo indeterminato, le prime cioè con il cosiddetto “contratto a tutele crescenti”. I LICENZIAMETI DISCIPLINARI Di fatto, con l’intesa di ieri tra i democratici si è parzialmente tornati all’impianto della legge Fornero del 2012. L’intenzione del governo è però quella di fissare in maniera più chiara possibile (tipizzazione, la chiamano) i casi nei quali il licenziamento disciplinare potrò essere dichiarato nullo dal giudice, cercando di azzerare i margini di discrezionalità del magistrato. Per fare un esempio: un lavoratore licenziato dal proprio datore di lavoro con l’accusa di aver rubato, verrà reintegrato se il giudice dovesse accertare non solo che non aveva commesso il fatto ma anche che l’imprenditore ne era perfettamente al corrente. Un licenziamento nullo, quindi, seguito dalla tutela reale per il lavoratore, cioè la riammissione. GLI ALTRI LICENZIAMENTI Restano del tutto invariate, rispetto alle indicazioni che aveva fornito il ministro Poletti al Senato, le discipline per le altre due “famiglie” di licenziamenti: per quelli discriminatori (per motivi di razza, religione o idee politiche, per esempio) sarà previsto il reintegro; per quelli economici (per crisi aziendali) il ricorso all’indennizzo monetario crescente in base all’anzianità di servizio. In tutti i casi le innovazioni normative riguarderanno esclusivamente i neo assunti. Per gli altri lavoratori ai quali si applica attualmente l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (nelle aziende con più di quindici dipendenti) non cambierà nulla. I CONTROLLI A DISTANZA C’è un’altra novità nell’intesa raggiunta ieri. Anche questa viene incontro alle richieste della minoranza del partito: il controllo a distanza, indipendentemente dall’esistenza di un relativo accordo sindacale, non riguarderà le persone, cioè i lavoratori, bensì gli impianti, gli strumenti per il lavoro in senso stretto. Secondo il governo questo era già chiaro nel testo approvato dal Senato ma poiché dalla minoranza dem veniva una richiesta di maggiore chiarezza, un emendamento ne fisserà meglio i contorni. Non cambia, invece, il capitolo sul demansionamento: in casi di ristrutturazione aziendale, il datore di lavoro, con la disponibilità del lavoratore che così non perderà l’occupazione, potrà inquadrare a un livello inferiore il dipendente senza ridurre però la retribuzione. PIU’ RISORSE PER GLI AMMORTIZZATORI Il governo si è impegnato anche incrementare le risorse destinate agli ammortizzatori sociali che saranno progressivamente estesi a tutti i lavoratori, indipendentemente dal rapporto di lavoro. Lo stanziamento potrebbe passare dagli attuali 2 miliardi indicati nella legge di Stabilità a circa 3,4 miliardi, comprensivi dei 700 milioni circa per la cassa integrazione in deroga. Ma su questo bisognerà fare i conti con i “controllori” di Bruxelles. MENO CONTRATTI PRECARI 53 Impegno del governo pure a rafforzare il cosiddetto “disboscamento” dei contratti precari. Salteranno i collaboratori e le false partite Iva. Resteranno i contratti a tempo determinato tanto più dopo la liberalizzazione introdotta con il “decreto Poletti”. L’intento della riforma è quello di fare del contratto a tutele crescenti la strada standard per l’ingresso nel mondo del lavoro. 54