Fantinelli Manuela: Counseling Sanitario in Pronto

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Fantinelli Manuela: Counseling Sanitario in Pronto
 Master di Primo Livello in “Counseling Sanitario: tecniche di supporto al paziente” Anno Accademico 2013-­‐2014 Direttore Prof. Davide Festi COUNSELING SANITARIO IN PRONTO SOCCORSO CON PAZIENTI E PERSONALE SANITARIO: “LA RELAZIONE CHE CURA” NOME DISCENTE: DOTT.SSA MANUELA FANTINELLI RELATORE: PROF.SSA ROBERTA LORENZETTI INDICE Capitolo 1 1.1 Introduzione Pag.3 1.2 La relazione che cura Pag. 5 1.3 La difficile ricerca dell’autenticità Pag. 8 1.4 La consapevolezza delle proprie maschere Pag. 9 1.5 Riconoscimento dei bisogni e responsabilità delle proprie scelte Pag.10 Capitolo 2 Tirocinio in Counseling sanitario presso il P.S. dell’Ospedale di Lugo di Romagna 2.1 Il Pronto Soccorso nella realtà sanitaria nazionale Pag. 12 2.2 L’etereogenità degli accessi al servizio di Pronto Soccorso Pag. 20 2.3 Il dialogo costruttivo con il personale sanitario Pag. 26 Conclusioni Pag. 28 Bibliografia Pag. 30 2 INTRODUZIONE Quando ho iniziato il percorso di questo Master avevo abbastanza chiaro quale fosse il mio obiettivo, verso dove volevo andare, avevo già fatto diverse esperienze nell’ambito della psicoterapia e vedevo questo Corso come l’occasione per mettere insieme tutte le tessere del puzzle e comprendere, così, da dove ripartire per continuare la scoperta o meglio la riscoperta del mio vero sé, affinché affinassi le capacità migliori per iniziare il dialogo, la relazione d’aiuto con l’altro. Non immaginavo che sarebbe stato un passaggio che mi avrebbe portato molto oltre le mie aspettative, che avrebbe attivato in un modo così forte ed entusiasmante parti di me che avevo lasciato che mi fossero un po’ alla volta addormentate, ma per fortuna mai addomesticate, e che una volta risvegliate, mi portano scariche di energia che posso definire solo come pura gioia: dalle piccole cose quotidiane, alla comprensione di vecchie tensioni, abitudini , incastri relazionali. Ad esempio ho compreso l’espressione “ con agio”, che significa che mi permetto finalmente di fare le cose con calma, con agio di tempo, mi permetto di guardare il cielo più volte in un giorno, di fermarmi ad annusare un giardino mentre cammino, di far tardi perché in quel momento c’è qualcosa che attrae la mia attenzione, e pazienza se qualcuno si lamenterà, se qualcosa non verrà fatta alla perfezione o addirittura se qualcosa verrà fatta domani, ora non mi importa più, non mi sento a disagio, non mi vergogno e ne sono felice! Ho imparato la bellezza dell’ascolto, del silenzio, del non detto, dello sguardo che ti incontra e ti vede dentro, della mano che ti stringe e tu la puoi tenere forte, delle lacrime che scendono fiere senza vergogna, della forza della paziente attesa al posto del giudizio, del lasciare andare perché è una mia scelta. ” Ho imparato che la calma è molto più destabilizzante della rabbia… che un sorriso disarma molto più di un volto corrugato, ho imparato che il silenzio di fronte ad un’offesa è un grido che fa tremare la terra. Ho imparato che come un amore rifiutato non si perde ma torna intatto a colui che voleva donarlo, così accade per la rabbia, le offese… siamo noi a decidere se farci toccare o meno da un sentimento, di qualsiasi sentimento si tratti. Non importa se stai procedendo molto lentamente…ciò che importa è che tu non ti sia fermato. “ (massima confuciana) E tutto questo alla fine mi ha dato il coraggio anche per intraprendere il mio tirocinio al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Lugo di Romagna; parlo di coraggio perché temevo che questa 3 esperienza potesse essere molto invasiva emotivamente: ho sempre visto il Pronto Soccorso come un luogo di profonde emozioni, dove immaginavo di incontrare soprattutto pazienti e famigliari turbati da situazioni tragiche, improvvise, spiazzanti e temevo che provarmi in questo tipo di relazione di aiuto fosse al di là delle mie capacità. 4 LA RELAZIONE CHE CURA Non bisogna cercare di guarire il corpo senza cercare di guarire l’anima Platone Il lavoro svolto durante questi due anni mi ha portato alla consapevolezza che il dialogo è una cura in ogni contesto, anche in quello più ostico, è una terapia che nasce nella relazione ed è proprio la relazione che cura, che sana, perché l’uomo esiste attraverso la relazione con sé, con l’altro, col mondo ed è da questa che trae nutrimento ed evoluzione. Partendo dalla relazione con sé si diventa consapevoli che corpo e anima operano con interconnessioni costanti e anche il corpo, che è il campo in cui si compie quella grande opera che è la nostra vita, si costruisce tutti i giorni lavorando con lui e su di lui, aprendolo al contatto con il nostro mondo emotivo. Quando parliamo delle emozioni, come il dolore, la rabbia, la tristezza, il disgusto e la gioia, dobbiamo imparare a sentirle col corpo, perché siamo stati educati a sentirle solo con la mente e, intrisi di convenzioni e condizionamenti, siamo stati addestrati a nasconderle, a credere che il pudore sia più elegante della condivisione sincera. Non siamo abituati a rintracciare e riconoscere le emozioni nel corpo e ce ne meravigliamo ancora oggi, dopo millenni di culture di altri Paesi che ci mostrano quanto sia utile e salvifico il rapporto anima-­‐corpo. Questo perché il processo analitico e relativista della nostra cultura scientifica è stato posto in essere anche sull’individuo, che per definizione è indiviso e indivisibile: l’analisi dell’individuo scompone ciò che per sua natura si dichiara non scomponibile. Questo processo tende a negare il ruolo del soggetto come coscienza, e a valorizzarne piuttosto la parte materiale, considerandolo come un oggetto tra gli altri. Il conoscere è diventato un conoscere essenzialmente specialistico, che nel giusto intento di cercare di conoscere sempre più approfonditamente ha spezzettato anche l’uomo, senza però riconoscerne un’unità superiore alle parti; la mente è stata ridotta a meccanismi automatici, è stata identificata solo col cervello, non riconoscendo valore alla coscienza. Ciò che accade all’uomo privato della coscienza è il disconoscimento delle proprie responsabilità e il conseguente incaricare, investire gli altri anche delle proprie scelte. Ad esempio quando proviamo un dolore al collo, allo stomaco, un disagio articolare, o anche una malattia più destabilizzante, difficilmente li decodifichiamo con un avvenimento della nostra vita emotiva che ci ha turbato, o che ci riporta alle nostre solite abitudini di risposta al disagio; non riconosciamo che in verità nasconde il bisogno che sta evidenziando. Persino quando veniamo colpiti da un virus, non dobbiamo intenderlo come un nemico esterno che ci aggredisce malgrado noi: Pasteur diceva che il microbo è niente rispetto all’importanza del terreno, terreno inteso come stress, fatica, angoscia, che ci portano anche ad uno scorretto stile di vita e ci rendono più vulnerabili alle aggressioni esterne! La reazione più comune a tutto questo è quella di chiedere ad altri di intervenire immediatamente sulla parte specifica del corpo interessata dal disturbo, senza cercare di capire nella complessità del nostro essere cosa sta accadendo. Restiamo così bloccati, lontani dall’incontro e dalla relazione con noi stessi e quindi dalla possibile consapevolezza di una guarigione. La razionalità vuole sempre interporsi tra l’avvenimento e il suo significato profondo; dobbiamo invece imparare a farla aspettare e renderla aperta ad una comprensione superiore, data dall’incontro con la conoscenza del nostro mondo emotivo. 5 “trasformando il se’ si trasforma il corpo: la malattia è un grido del nostro sé che tramite il corpo ci chiama ad una attenzione, ad un cambiamento. Che tipo di cambiamento va letto nel libro del nostro corpo e cercando dentro di noi la strada che procede verso la nostra felicità. L’importante è saper procedere e non restare immobili nel buio dell’incomprensione”. La malattia che è l’espressione di un turbamento profondo di ordine psichico o spirituale, va curata in tutti i modi possibili dal medico, ma anche dal paziente stesso e va aiutato nel rispondere alle tante domande anche esistenziali che si pone ad esempio sul senso della malattia, partendo proprio dal dualismo occidentale vede la malattia come un agente esterno che gli è estraneo e nemico. Non si tratta di eliminarlo, ma di integrarlo essendo consapevoli che il corpo si è espresso ed ha indicato con la natura della malattia e con la parte del corpo colpita, una strada per cercare la causa profonda del male che non è esterno …... E se si cura l’organo senza una consapevolezza, il male può riapparire in altre forme per farsi riascoltare fino a quando non è udito….. Il vero messaggio è nascosto nel nocciolo del testo, come nel seme del nostro corpo, occorre imparare a togliere la buccia, gli strati uno alla volta…. la malattia, la disgrazia come l’avversario non è mai il nemico, è una resistenza che ci costringe ad accedere ad un’altra dimensione di noi stessi, che non conosciamo. Oppure ci rallenta, ci ostacola, ci impedisce di raggiungere troppo presto o determinati obiettivi che non saremmo in grado di accettare o di comprendere, finché non abbiamo conquistato una certa parte di noi chiamata a diventare cosciente attraverso quella lotta… Da Nel cuore del corpo la parola di Annik De Souzenelle,Servitium editrice 2010 pag.39 Dai docenti che ci hanno accompagnato in questo percorso e dai libri di riferimento di Rogers, Rollo May, Perls, abbiamo appreso che le basi della relazione, oltre che con noi stessi e con l’altro, sono l’ascolto comprensivo-­‐attivo e l’ empatia, cioè la capacità di accogliere i vissuti dell’interlocutore, sintonizzarsi e comprendere gli stati emotivi e cognitivi del paziente, facendo attenzione sia alla comunicazione verbale che a quella non verbale del corpo che è forse ancor più significativa. La capacità empatica presuppone l’accettazione positiva incondizionata della realtà esistenziale dell’altro e ci porta a valorizzare l’altro per ciò che è, ad accettare tutti i suoi pensieri e sentimenti, anche quando questi possono divergere profondamente per esperienza, valori o idee, dai nostri. L’empatia è strettamente connessa alla sospensione del giudizio e di ogni forma di interpretazione. Accettazione dell’altro però non significa condivisione o approvazione incondizionata di idee, opinioni e sentimenti, bensì il riconoscere all’altro la libertà di provarli ed esprimerli; è una forma di rispetto profondo, un modo di essere dell’agevolatore che contribuisce a dare alla relazione la qualità imprescindibile della comprensione profonda. Ti accetto incondizionatamente per quello che sei, per il tuo sé interiore, ma non per quello che fai. Molto spesso in ambito sanitario non si istaura questo tipo di relazione, che Buber chiama il dialogo io-­‐tu, ma piuttosto quello che chiama “io-­‐esso”: “io” che è il medico si relazione con “esso” che è la malattia, attraverso le sue conoscenze scientifiche, fa un’analisi della malattia, stila una diagnosi e il paziente entra in gioco solo quando deve rispettare una terapia. Al contrario, nel dialogo io-­‐tu si istaura una relazione di scambio, ed è la qualità della relazione che determina la cura e aiuterà a comprendere e cercare d risolvere insieme il problema. 6 “Se sto di fronte a un uomo come di fronte al mio tu, se gli rivolgo la parola fondamentale io-­‐tu, egli non è una cosa tra le cose e non è fatto di cose. Non è un lui o un lei, limitato da altri lui e lei, punto circoscritto dallo spazio e dal tempo nella rete nel mondo; e neanche un modo di essere, sperimentabile, descrivibile, fascio leggero di qualità definite. Ma senza prossimità e senza divisioni, egli è tu e riempi la volta del cielo. Non come non ci fosse nient’altro che lui : ma tutto il resto vive nella sua luce.” Cfr. Buber M., L’io e il tu in Il principio dialogico e altri saggi, a c. di Andrea Poma,Ed. San Paolo, 1993), p.64. Il primo atto terapeutico è l’incontro fra l’essere profondo di due soggetti e l’obiettivo della relazione medico-­‐paziente è quello di ottenere una comprensione non solo del disturbo ma anche della individualità del paziente, quindi il terapeuta si porrà la domanda: “perché questa particolare persona ha sviluppato questo particolare sintomo in questo particolare momento della sua vita ed in questo particolare contesto storico e sociale?” E quindi istaurerà il dialogo cercando queste risposte dal paziente. Il medico deve imparare ad ascoltare il malato, sapere aspettare, affinché da solo troverà le risposte che ha già dentro di lui, il medico deve solo aiutarlo sapendogli porgere gli strumenti necessari, affinché possa intraprendere la sua ricerca e quindi arrivare alla comprensione del senso di quella malattia e di quel disagio. Il medico dovrà persuadere in virtù del dialogo e mai imporre o polemizzare, quindi lasciarsi adeguatamente fecondare dal contributo dell’altro, sia che l’altro venga inteso come il malato, sia che venga inteso come la possibilità di un altro punto di vista sulla malattia e sulla cura. La relazione così diventa simmetrica e porta ad una integrazione reciproca creando le condizioni per una corretta diagnosi e conseguente condivisione della terapia. Se il paziente in virtù della relazione col medico inizia a guarire, altrettanto il medico in virtù della relazione col paziente guarisce dalle false immagini del sapere, dalla convinzione di possedere una scienza infallibile e assoluta. Se si confronta veramente con la realtà del paziente comprende che alcuni suoi saperi sono sicuramente confermati, ma anche che l’esperienza spesso non si lascia ricondurre a schemi predefiniti; non può mai esserci generalizzazione, perché ogni considerazione tolta dal contesto prende un altro significato e quelle che ci si presentano come verità nel qui e ora possono presentarsi diverse durante il prossimo incontro. Il paziente percepisce in tal modo la comprensione e il sostegno, non vive più la solitudine del confronto con il male ma prende coraggio, individua una luce che lo motiva a combattere, a recuperare in se la fiducia, la sua soggettività riemerge e non è più totalmente dipendente dall’altro. Il malato può riuscire così a muovere l’intenzione fondamentale dell’io che produce effetti incredibilmente positivi, difficilmente riconducibili a schemi prognostici preordinati. 7 LA DIFFICILE RICERCA DELL’AUTENTICITÀ “ Non andare fuori di te. Ritorna in te stesso. La verità abita nell’uomo interiore... tendi là dove si accende il lume della ragione Agostino Se il dialogo è la prima terapia, va poi considerato che è nel dialogo che si mettono in gioco le due identità che si celano dietro ai ruoli di medico e paziente: è la persona nella sua interezza e autenticità che entra in scena. E’ estremamente importante quindi che il medico abbia una personalità autentica, che consenta al paziente di sentirsi accolto e compreso; è fondamentale la sua formazione intellettuale, culturale e scientifica, ma lo è altrettanto la sua capacità di presentarsi a lui anche come persona, in quanto il medico è un uomo prima ancora di essere un medico e la sua identità personale funge da fondamento della sua stessa identità professionale. “É molto difficile aiutare gli altri per chi non ha capito se stesso!” Milarepa Il concetto di autenticità riguarda la capacità di essere spontanei e trasparenti nelle relazioni. Mostrare ciò che realmente si è, senza nascondersi dietro i ruoli che in quel momento si ricoprono, o dietro maschere di convenzioni o stereotipi. Essere autentici vuol dire esprimere solo ciò che realmente corrisponde al proprio sentire, è la capacità di esprimere lo stato di trasparenza interiore attraverso comportamenti adeguati, restando in contatto empatico con il nostro interlocutore. Spesso la persona non riesce ad accettarsi per quello che è, a sopportare certi propri modi di essere, comportamenti, paure, indecisioni, vuole essere diversa per poter star meglio e auspica un cambiamento prima ancora di imparare a conoscersi, di iniziare una ricerca interiore che lo porti ad accettare la propria meravigliosa unicità. Accade che il cambiamento venga cercato fuori da se’, magari colpevolizzando altre persone della sua triste condizione, cercando di responsabilizzare chi ci sta vicino o chi ci sta curando delle nostre non-­‐scelte. La non accettazione della nostra interiorità ci porta a fuggire da noi stessi, ci sono mille modi per scappare, per renderci insensibili: ubriacandoci, drogandoci, immergendoci totalmente nel lavoro, nell’attività fisica, nella superficialità della comunicazione. L’Autenticità va intesa proprio come emancipazione attraverso la determinazione a non subire alcunché e a procedere elaborando e mediando ogni assunto, ogni certezza. Ciò che l’uomo ha di più essenziale da vivere è la presa di coscienza di ciò che è, della propria natura spirituale, per far progredire così la propria coscienza e quella collettiva dell’umanità. “La resurrezione individuale della propria coscienza piega la morte, ne elimina l’assurdità di come viene intesa, da senso alla vita, la strappa alle tenebre, ne scoperchia i sepolcri e apre i cuori alla visione dell’altro, apre le acque del mar Rosso e il grido di Israele diventa uno scoppio di risa… invece la storia di oggi resta in Egitto ..la porta della sapienza è più stretta della cruna dell’ago!” Da l’Egitto interiore di Annik De Souzenell, Servitium editrice 2011 pag 158 8 LA CONSAPEVOLEZZA DELLE PROPRIE MASCHERE Tutti usiamo delle maschere, ci aiutano ad andare per il mondo, a far fronte alle convenzioni; l’importante è essere consapevoli di quando ci mettiamo la maschera e a cosa è funzionale. Diverso è quando non riconosciamo più che abbiamo una maschera e a cosa ci serve, quando diventa una parte di noi costante con la quale ricopriamo ruoli, ci mettiamo in relazione con persone, nascondiamo e anestetizziamo parti di noi o diamo vita a personaggi che interpretiamo per sentirci più sicuri, per proteggerci, per piacere, per riuscire a fare quello che riteniamo “ciò che dovremmo fare”, perché ci viene richiesto dagli altri. In questo modo non viviamo, restiamo in disparte dalla vita, perdiamo di vista ciò che siamo veramente. Compito del counselor è proprio assistere la persona nella ricerca del suo vero se’, della sua natura più autentica e nel difficile riconoscimento delle maschere e della loro utilità, di aiutarlo a trovare il coraggio di essere e agire quelle parti di sé che teme, che non conosce, e di accompagnarlo creativamente secondo i propri talenti. In questo percorso c’è rispetto per il malessere, il dolore, a volte la disperazione della persona; il counselor non vorrà far uscire a tutti i costi la persona dalla sofferenza, la resistenza non deve essere immediatamente riconosciuta, è un’attività di cui diventare lentamente consapevoli. Non aiuta la persona ad uscire dal disagio al più presto possibile ma a restarci dentro per il tempo necessario, perché solo rimanendoci consapevolmente, riconoscendolo e integrandolo nel percorso della propria vita, trova la strada per uscire. Qualunque decisione della persona, anche la più terribile e lontana dalla nostra condivisione, va rispettata, anche la decisione di rimanere fermo senza fare nulla, continuando nel dolore o intraprendendo strade che a noi paiono assurde; è una decisione sua che deve essere rispettata. Dovrà aspettarlo finché non chiederà aiuto per uscirne, volendosi responsabilizzare. Allora il counselor cercherà con la persona il modo di venirne fuori, accetterà i suoi tempi, lo accompagnerà verso l’autenticità. C’è una fiducia di base nella adeguatezza della nostra natura, per cui è sufficiente accrescere la consapevolezza, il senso di realtà e la responsabilità delle scelte, affinché si diventi completamente uniti. Il counselor aiuta la persona a capire come le parti siano legate tra loro, lo porta a decodificarle: corporea, emotiva, intellettiva, sociale e spirituale. Lo agevola a centrarsi affinché riconosca il proprio bisogno e sappia soddisfarlo, affinché comprenda ciò che gli manca e che vorrebbe raggiungere. La consapevolezza avviene attraverso l’integrazione delle parti e la loro comprensione, affinché si sviluppi la capacità di AUTODETERMINARSI e di mantenere il proprio equilibrio psico-­‐fisico attraverso la CONSAPEVOLEZZA, la quale permette la continua differenziazione e definizione dei BISOGNI e dei mezzi con cui soddisfarli nel qui e ora. 9 IL RICONOSCIMENTO DEI BISOGNI E LA RESPONSABILITÀ DELLE PROPRIE SCELTE “Siamo portatori sani di bisogni” Rosenberg Quando aiutiamo la persona ad entrare in contatto coi suoi bisogni fondamentali, che spesso sottostanno ai comportamenti di aggressione generati da rabbia e odio, riportandoglieli, avendoli accolti e compresi, si accorgerà che in realtà tali bisogni non coincidono affatto con i gesti che compie ma soprattutto che nemmeno vengono soddisfatti da essi. Quando interagiamo con l’aggressivo è utile chiedere che bisogno ha quella persona in quel momento, perché l’aggressione è “l’espressione tragica di bisogni insoddisfatti”, abbandonando il giudizio e la paura, altrimenti la violenza non si placherà. É altrettanto importante conoscere il proprio bisogno in quel momento, fare chiarezza interna, essere centrati, per capire come connetterci con la persona, per cercare di fargli esprimere il suo bisogno, di farglielo comprendere. Questo smonterà la sua aggressività e si illuminerà il buio da cui nasce la sua rabbia. Quando avviene questo incontro empatico l’atteggiamento della persona cambia e le emozioni si trasformano positivamente; comprende che la rabbia è un’emozione secondaria ed è utile interpretarne il vero nucleo (bisogno sotteso) e distinguerlo dalla causa scatenante, che è solamente un innesco: sovente si tratta di un blocco o di una assenza di riconoscimento dei nostri veri bisogni che vengono frustrati. L’evento che ci fa arrabbiare e reagire con aggressività è scatenato dell’emozione che è già dentro di noi. Dobbiamo perciò distinguere tra causa interna (vero motivo) e movente, cioè la miccia che innesca l’emozione. Quando si prevarica l’altro con aggressioni si soddisfa il solo il bisogno momentaneo ma si frustra quello primario di vera connessione. Quindi aggredendo si continuerà a ripetere la modalità che è cognitivamente miope, perché non vede il vero obiettivo, ed è socialmente ignorante perché assente di strategie di prevenzione e gestione. La rabbia è un sentimento di allarme molto prezioso: ci dice che stiamo usando le nostre energie per scopi che non ci porteranno a soddisfare i nostri bisogni. Sono i giudizi che diamo sulle situazioni e sulle persone che ci fanno arrabbiare. Nessuno può farci arrabbiare, se non la nostra visione delle cose. Perciò quello che stiamo realmente facendo è allontanarci dalla felicità. Da Rosenberg apprendiamo che abbiamo dei bisogni fondamentali e quello che sta alla base di tutti, quello primario, è quello di connessione, perché è solo quando mi connetto con gli altri e con l’ambiente circostante che li soddisfo. Ogni persona ha modi diversi di soddisfare la connessione, c’è chi ha necessità di molte interazioni più o meno prolungate e chi invece viene soddisfatto da interazioni profonde e prolungate. Istintivamente sentiamo se la relazione con l’altro ci nutre a sufficienza, se ci soddisfa oppure no: dovremo di conseguenza imparare a distinguere e scegliere le nostre relazioni. Nasciamo con una capacità strategica notevole, poi la perdiamo crescendo, a causa dei condizionamenti: i bambini gestiscono i propri bisogni in modo esemplare, hanno un innato istinto di sopravvivenza, dormono in mezzo al caos, chiedono di essere nutriti quando hanno fame, hanno una aderenza perfetta tra bisogno e risposta. Nel corso dell’evoluzione, cultura, ambiente, pregiudizi, ci allontanano dalle nostre innate strategie di soddisfacimento del bisogno. 10 Il Counselor aiuterà la persona a imparare a riconoscere e scremare tra bisogni primari e surrettizi, tra falsi bisogni indotti dagli incontri con gli altri, dal vivere condizionati dalla società e i nostri veri bisogni. Aiuterà a riconoscere la figura dell’aggressore ma anche quella della vittima e a comprendere che entrambi sono responsabili di quanto avviene, entrambi hanno la possibilità di compiere una scelta. In ambito sanitario, il malato riesce a superare la propria passività o aggressività e a imporsi come autentico soggetto quando riconosce i propri bisogni, comprende da dove vengono e decide di responsabilizzarsi della propria condizione e lo decide quando ha compreso che è solo lui l’artefice delle proprie scelte. La decisione di chiedere aiuto al medico è la prima azione autentica e sana, inaugura una dialettica che trasforma la sua identità di malato, implica il coraggio di guardare la situazione e la scelta di chiedere aiuto. Ogni progetto di guarigione poggia sulla capacità del soggetto di riappropriarsi della propria soggettività, dell’accettazione della responsabilità, con il suo autentico riconoscimento, con l’emergere oltre essa. La decisione di riconoscere e accettare è la decisione di non volere più subire il proprio patire, di attivarsi, di assumersi la responsabilità di intraprendere un cammino, imparando ad essere responsabile delle proprie azioni, dei propri pensieri, e delle proprie emozioni, confidando sulla propria forza e su quella di chi è competente per fornirgli il giusto sostegno. 11 CAPITOLO 2 “C'è una cosa che si può trovare in un unico luogo al mondo, è un grande tesoro, lo si può chiamare il compimento dell'esistenza. E il luogo in cui si trova questo tesoro è il luogo in cui ci si trova.” Martin Buber IL PRONTO SOCCORSO NELLA REALTÀ SANITARIA NAZIONALE Quando ho iniziato il mio Tirocinio al Pronto Soccorso di Lugo ho chiesto al Dott. Mario Ravaglia (Direttore Pronto Soccorso/Medicina d'Urgenza) di raccontarmi la storia di come è nato il Servizio di Pronto Soccorso in Italia. Ho ritenuto di rivolgere a lui questa domanda perché è grazie alla sua umanità, determinazione e passione per il proprio lavoro, se la domanda di salute, che in modo crescente viene rivolta alle strutture ospedaliere, è stata analizzata e compresa nei suoi molteplici aspetti, affinché venisse data la migliore risposta tecnica, scientifica ed umana ai bisogni reali della popolazione. Dall’ottobre del 1994, durante il Dicastero del Ministro Elio Guzzanti, fino al maggio 1996 il Dott. Ravaglia è stato incaricato a livello nazionale, congiuntamente dalla Società Scientifica e dal Sindacato Medico maggiormente rappresentativo, affinché venissero definiti gli standard strutturali, tecnologici, organizzativi e di personale delle Strutture di Pronto Soccorso e Medicina d’Urgenza e venisse quindi sancita dalla legge la figura del medico chirurgo in situazioni di urgenza. Dal lodevole impegno di queste persone è stato emanato il DPR 10 dicembre 1997 n.484 che istituiva la figura del Medico d’Urgenza nell’ordinamento degli Ospedali, denominandolo ‘Medico Chirurgo d’Accettazione e d’Urgenza, oggi chiamato per brevità e correttezza ‘Medico d’Urgenza’. Questa figura sanitaria mette in atto il DPR del 27 marzo 1992 : “Atto di indirizzo e coordinamento alle Regioni per la determinazione dei livelli di assistenza sanitaria di emergenza” Articolo 1 Il livello assistenziale di emergenza sanitaria 1. Ai sensi del comma 1 dell'art. 4 della legge 30 dicembre 1991, n. 412, il livello assistenziale di emergenza sanitaria da assicurare con carattere di uniformità in tutto il territorio nazionale è costituito dal complesso dei servizi e delle prestazioni di cui agli articoli successivi. Articolo 2 Il sistema di emergenza sanitaria 1. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano organizzano le attività di urgenza e di emergenza sanitaria articolate su: a) il sistema di allarme sanitario; b) il sistema di accettazione e di emergenza sanitaria 12 Articolo 3 Il sistema di allarme sanitario 1. Il sistema di allarme sanitario è assicurato dalla centrale operativa, cui fa riferimento il numero unico telefonico nazionale "118". Alla centrale operativa affluiscono tutte le richieste di intervento per emergenza sanitaria. La centrale operativa garantisce il coordinamento di tutti gli interventi nell'ambito territoriale di riferimento. 2. Le centrali operative della rete regionale devono essere compatibili tra loro e con quelle delle altre regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano in termini di standard telefonici di comunicazione e di servizi per consentire la gestione del traffico interregionale. Con decreto del Ministro della sanità, di concerto con il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, entro sessanta giorni dalla data di pubblicazione del presente atto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, sono definiti gli standard di comunicazione e di servizio. 3. L'attivazione della centrale operativa comporta il superamento degli altri numeri di emergenza sanitaria di enti, associazioni e servizi delle unità sanitarie locali nell'ambito territoriale di riferimento, anche mediante convogliamento automatico delle chiamate sulla centrale operativa del “118”. 4. Le centrali operative sono organizzate, di norma su base provinciale. In ogni caso nelle aree metropolitane, dove possono all'occorrenza sussistere più centrali operative, è necessario assicurare il coordinamento tra di esse. 5. Le centrali operative assicurano i radiocollegamenti con le autoambulanze e gli altri mezzi di soccorso coordinati e con i servizi sanitari del sistema di emergenza sanitaria del territorio di riferimento, su frequenze dedicate e riservate al servizio sanitario nazionale, definite con il decreto di cui al comma 2. 6. Il dimensionamento e i contenuti tecnologici delle centrali operative sono definiti sulla base del documento approvato dalla Conferenza Stato -­‐ Regioni in data 14 gennaio 1992, che viene allegato al presente atto. Articolo 4 Competenze e responsabilità nelle centrali operative 1. La responsabilità medico-­‐organizzativa della centrale operativa è attribuita nominativamente, anche a rotazione, a un medico ospedaliero con qualifica non inferiore ad aiuto corresponsabile, preferibilmente anestesista, in possesso di documentata esperienza ed operante nella medesima area d’emergenza. 2. La centrale operativa è attiva per 24 ore al giorno e si avvale di personale infermieristico adeguatamente addestrato, nonché di competenze mediche di appoggio. Queste devono essere immediatamente consultabili e sono assicurate nominativamente anche a rotazione, da medici dipendenti con esperienza nel settore dell'urgenza ed emergenza e da medici del servizio di 13 guardia medica di cui all'art. 22 dell'accordo collettivo nazionale per la regolamentazione dei rapporti con i medici addetti al servizio di guardia medica e di emergenza territoriale, reso esecutivo con decreto del Presidente della Repubblica 25 gennaio 1991, n. 41. La responsabilità operativa è affidata al personale infermieristico professionale della centrale, nell'ambito dei protocolli decisi dal medico responsabile della centrale operativa. Articolo 5 Disciplina delle attività 1. Gli interventi di emergenza sono classificati con appositi codici. ll Ministro della sanità, con proprio decreto da emanarsi entro sessanta giorni dalla data di pubblicazione del presente atto nella Gazzetta Ufficia/e della Repubblica, stabilisce criteri e requisiti cui debbono attenersi le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano nella definizione di tale codificazione, anche ai fini delle registrazioni necessarie per documentare le attività svolte e i soggetti interessati. 2. L'attività di soccorso sanitario costituisce competenza esclusiva del Servizio sanitario nazionale. Il Governo determina gli standard tipologici e di dotazione dei mezzi di soccorso ed i requisiti professionali del personale di bordo, di intesa con la Conferenza Stato-­‐Regioni. 3. Ai fini dell'attività di cui al precedente comma, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono avvalersi del concorso di enti e di associazioni pubbliche e private, in possesso dell'apposita autorizzazione sanitaria, sulla base di uno schema di convenzione definito dalla Conferenza Stato-­‐Regioni, su proposta del Ministro della sanità. Articolo 6 Il sistema di accettazione e di emergenza sanitaria 1. Fermo restando quanto previsto dall'art. 14 del decreto del Presidente della Repubblica 27 marzo 1969, n. 128, in materia di accettazione sanitaria, il sistema di emergenza sanitaria assicura: a) il servizio di pronto soccorso; b) il dipartimento di emergenza. 2. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano individuano gli ospedali sedi di pronto soccorso e di dipartimento di emergenza. Articolo 7 Le funzioni di pronto soccorso 1. L'ospedale sede di pronto soccorso deve assicurare, oltre agli interventi diagnostico-­‐
terapeutici di urgenza compatibili con le specialità di cui e dotato, almeno il primo accertamento diagnostico, clinico, strumentale e di laboratorio e gli interventi necessari alla stabilizzazione del paziente, nonché garantire il trasporto protetto. 2. La responsabilità delle attività del pronto soccorso e il collegamento con le specialità di cui è dotato l'ospedale sono attribuiti nominativamente, anche a rotazione non inferiore a sei mesi, ad un medico con qualifica non inferiore ad aiuto, con documentata esperienza nel settore. 14 Articolo 8 Le funzioni del dipartimento di emergenza 1. Il dipartimento di emergenza deve assicurare nell'arco delle 24 ore, anche attraverso le unità operative specialistiche di cui è dotato l'ospedale, oltre alle funzioni di pronto soccorso, anche: a) interventi diagnostico-­‐terapeutici di emergenza medici, chirurgici, ortopedici, ostetrici e pediatrici; b) osservazione breve, assistenza cardiologica e rianimatoria. 2. Al dipartimento di emergenza sono assicurate le prestazioni analitiche, strumentali e di immunoematologia per l'arco delle 24 ore giornaliere. 3. La responsabilità delle attività del dipartimento e il coordinamento con le unità operative specialistiche di cui è dotato l'ospedale sono attribuiti nominativamente, anche a rotazione non inferiore a sei mesi, ad un primario medico, chirurgo o rianimatore, con documentata esperienza nel settore. Articolo 9 Le funzioni regionali 1. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, anche a stralcio del Piano sanitario regionale, determinano, entro centoventi giorni, dalla data di pubblicazione del presente atto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, la ristrutturazione del sistema di emergenza sanitaria, con riferimento alle indicazioni del parere tecnico fornito dal Consiglio superiore di sanità, in data 12 febbraio 1991, e determinano le attribuzioni dei responsabili dei servizi che compongono il sistema stesso. Il provvedimento di cui al comma precedente determina altresì le modalità di accettazione dei ricoveri di elezione in relazione alla esigenza di garantire adeguate disponibilità di posti letto per l'emergenza. Con il medesimo provvedimento sono determinate le dotazioni di posti letto per l'assistenza subintensiva da attribuire a e singole unità operative Articolo 10 Prestazioni dal personale infermieristico 1. Il personale infermieristico professionale, nello svolgimento del servizio di emergenza, può essere autorizzato a praticare iniezioni per via endovenosa e fleboclisi, nonché a svolgere le altre attivita e manovre atte a salvaguardare le funzioni vitali, previste dai protocolli decisi dal medico responsabile del servizio. Articolo 11 Onere del trasporto di emergenza 15 1. Gli oneri delle prestazioni di trasporto e soccorso sono a carico del servizio sanitario nazionale solo se il trasporto è disposto dalla centrale operativa e comporta il ricovero del paziente. Detti oneri sono altresì a carico del Servizio sanitario nazionale anche in mancanza di ricovero determinata da accertal11entl effettuati al pronto soccorso. Articolo 12 Attuazione All'attuazione di quanto disposto dal presente atto provvedono le regioni e le province autonome. 2. Le spese in conto capitale per l'organizzazione del livello assistenziale fanno carico come priorità agli stanziamenti di cui all art. 20 della legge 11 marzo 1988, n. 67, nonché agli stanziamenti in conto capitale del Fondo sanitario nazionale, mentre quelle correnti fanno carico al Fondo sanitario nazionale di parte corrente di cui all'art. 51 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, nella misura che sarà determinata al sensi del combinato disposto delle norme di cui ai commi 1 e 16 dell'art. 4 della legge 30 dicembre 1991, n 412. 3. Entro sei mesi dalla data di pubblicazione del presente atto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, la Conferenza Stato regioni verifica le iniziative assunte. Lo stato di attuazione del sistema emergenza sanitaria in ciascuna regione e provincia autonoma, nonché le risorse finanziarie impiegate. Allo scopo di attuare il sistema di emergenza sanitaria nelle regioni che non lo abbiano attuato, in tutto o in parte la Conferenza Stato-­‐regioni approva uno schema tipo di accordo di programma, che, sottoscritto daí Ministro della sanità e dal Presidente della regione interessata, determina tempi, modi e risorse finanziarie per l'attuazione, anche avvalendosi di apposite conferenze dei servizi. L'accordo di programma può essere attivato anche prima della verifica, su richiesta della regione e provincia autonoma.” Dopo gli approfondimenti legali il Direttore inizia il suo racconto sulla storia del P.S. in Italia: “Tanti piccoli ospedali sorsero in Italia molti anni fa, quando la più efficace risposta sanitaria era fornita dalla grande esperienza e dalle capacità professionali dei medici, coadiuvati dalle conoscenze tecnico-­‐scientifiche presenti in quel tempo. Oggi, dopo 90 anni di scoperte scientifiche, il bagaglio di conoscenze e di tecnologie è talmente aumentato da aver spostato il baricentro dell'atto medico verso la tecnologia, talora in maniera anche artificiosa: sembra che oggi non si possa neppure fare una diagnosi di broncopolmonite senza un radiogramma toracico. Prendendo ancora in considerazione la storia, notiamo che è stata l'Igiene a portare la vita media da 30 a 60 anni, mentre, in un secondo tempo, questo ruolo è stato ricoperto dalla tecnologia, che ha portato la vita media oltre i 70 anni; successivamente, grazie all'unione di Igiene e Tecnica la vita media si è innalzata oltre gli 80 anni. In questo contesto, l'associazione di tecnologia e poli-­‐disciplinarietà ha elevato l'Ospedale, in Italia, a centro della sanità. Inoltre l'Ospedale risulta, nell'immaginario collettivo, come luogo di protezione, anche solo come 'mura': è un ricordo ancestrale a collocazione medievale, nato dalle infermerie dei conventi e delle abbazie, ove le 'mura' avevano un ruolo protettivo di notevole importanza. Ancora, le scoperte batteriologiche della fine del secolo scorso, imposero per alcuni ammalati, la necessità dell'isolamento: i medici misero il camice e furono così irrobustite le 'mura' dell'Ospedale. 16 Queste 'mura' assumevano ruolo non solo di protezione per chi era dentro, ma anche di isolamento per chi era fuori; non si dimentichi che alcune malattie ancora oggi sono oggetto di stigmatizzazione sociale; prima della riforma ospedaliera del 1968, era prescritto dalla legge che l'Ospedale fosse circondato da un 'muro' di 6 metri di altezza. Soltanto la legge 833/1978 ha iniziato ad abbattere idealmente questo muro di cinta, che, ancora nel 2005, resiste e crea un barriera antistorica e dannosa tra la medicina esercitata in ospedale e quella cosiddetta extra-­‐ospedaliera. Ancora oggi, infatti, a proposito di Libera Professione, l'Italia parla di "intramoenia" ed "extramoenia". Circa 30 anni fa, in un periodo di piena euforia economica, si è creduto di poter fornire in queste strutture ospedaliere, a tutti i cittadini tutta la salute possibile, alimentando la domanda sanitaria attraverso un'offerta indiscriminata di servizi. Tuttavia ci si è poi accorti che il progresso tecnologico comporta un costo che, rispetto ai risultati, è esponenziale: solo una società che consideri la vita umana un valore incommensurabile è disposta a pagare questo prezzo; comunque, oltre un certo limite di sviluppo, nessuna società può più permettersi di offrire in ambito Ospedaliero il massimo delle prestazione a tutti i cittadini. É diventato necessario scegliere se dare tutto il necessario a pochi, oppure solo una parte di cura a tutti. La cultura sanitaria italiana ha scelto di dare a tutti l'Ospedale come sede di cura per i malati acuti. Ma chi sono gli ammalati acuti? Se è facile identificare l'acuzie nei pazienti infettivologici e traumatologici, non è sempre facile coglierla in pazienti in stato di 'criticità cronica' e neppure è sempre facile rilevare l'iniziale fase acuta di una malattia cronica e degenerativa. A riguardo vi è anche un equivoco, non solo lessicale: noi chiamiamo "patologia acuta" l'incidente previsto di una patologia cronica. L'infarto miocardico, cerebrale -­‐ ischemico o emorragico -­‐ è incidente vascolare di patologia cronica, l'aterosclerosi. L'atto di identificare il momento in cui il malato affetto da patologia cronica ha bisogno dell'ospedale per acuti, è compito arduo, particolarmente per le grandi malattie croniche e degenerative. Il Pronto Soccorso, oltre che porre gli interventi immediati per i casi gravissimi, ha il compito di svolgere l'accettazione sanitaria in urgenza. Si tratta della funzione di ‘regolare’ l'accesso di ammalati cronici ad un ospedale per acuti: deve quindi distinguere, nell'evoluzione della malattia cronica e degenerativa, quegli elementi premonitori di incidente o rapido aggravamento che possono far precipitare il livello di salute del soggetto. Il giudizio clinico che riguarda la necessità di ospedalizzazione del portatore di patologia cronica, in un ospedale per acuti, alcune volte può essere emesso subito dopo la prima visita di Pronto Soccorso. In altri casi, occorrono la riflessione di alcune ore e l'ausilio della tecnologia per poter esprimere tale giudizio. Sono spesso i pazienti ad alta complessità oppure ad alta, ma breve, criticità -­‐ soggettiva o oggettiva -­‐ che necessitano di una osservazione breve ed Intensiva (O.B.I.), in genere di poche ore, affinché possa essere consentito un giudizio ponderato sul loro percorso assistenziale in urgenza. Vi sono poi i pazienti ad alta complessità che si presentano in P.S. con sintomi di non univoca interpretazione che lasciano supporre un grado di criticità potenziale o protratta; vi sono pazienti a criticità medio-­‐alta che hanno un quadro fisiopatologico a rapida evoluzione, non così gravi da richiedere l'intervento delle terapie intensive, ma di difficile gestione nelle comuni Unità Operative. Sono pazienti che necessitano di alcuni giorni di attenzione per risolvere o stabilizzare l'evento ed infine poter esprimere un giudizio sul loro percorso terapeutico: se cioè mantenerli in cura presso un ospedale per acuti o se affidarli alle cure della Medicina di Base. Sono pazienti che 17 devono trovare un posto letto presso i nostri Servizi, in un settore chiamato "Medicina d'Urgenza". Non si tratta dell'ennesima Unità Operativa specialistica dell'Ospedale, ma di uno strumento del Pronto Soccorso per regolare l'accesso ad un ospedale per acuti, avendo cura dell’indicatore di qualità: ‘ricovero appropriato’. L'orizzonte culturale poli-­‐disciplinare del medico d'urgenza, le sue rapide capacità d'intervento e decisionali offrono a questi letti la potenzialità di un rapidissimo 'turn-­‐over', con soddisfazione per il paziente e per il bilancio delle Aziende. Sono indicati 3 gg di Degenza Media, l'85-­‐88 % dei pazienti ricoverati in Medicina d'Urgenza deve essere dimesso, e solo il 12-­‐13 % trasferito ad altre Unità Operative; vi devono poi essere report di attività a D.R.G.s con peso specifico medio alto, oltre lo 0,85 di ‘punto medio’ DRG. In un mondo, che, nel 3° millennio, sta modulando la propria crescita sulle tre grandi variabili intuite da Albert Einstein, l’energia, la massa e il tempo, e che misura lo sviluppo principalmente sulla variabile fisica del tempo cronologico, sempre più si sente l’esigenza, come osservò il Dot. Assal , di progettare la medicina in modo coerente con questo orientamento sociologico. Ad esempio, Assal osservò che nelle malattie croniche molti ricoveri erano dovuti alla cattiva osservanza da parte del paziente delle terapie prescritte. Si pose allora il problema di come migliorare questa osservanza. Dalle sue riflessioni nacque la Educazione terapeutica. Nel 1975 Assal aprì l'Unità per l'insegnamento nel trattamento del diabete nell'ambito dell'Ospedale di Ginevra. Nel '95 l'Unità divenne la Divisone per l'educazione terapeutica nelle malattie croniche. Consulente dell'Organizzazione mondiale della sanità, Assal ha fondato nel 79 il Gruppo di studio sull'educazione nel diabete nell'ambito della Associazione europea per lo studio del Diabete. La Medicina può essere considerata, progettata ed il suo esercizio programmato come in due grandi segmenti organizzati: -­‐ la Medicina dell’urgenza, delle malattie acute e dei traumi -­‐ la Medicina delle malattie croniche e della prevenzione. Nella prima, che è richiesta sempre più dalla società, il tempo incalza e l’esigenza, sia del paziente che del medico, è di contrarre tutti i tempi: ‘quello che dovete fare fatelo presto, e se possibile fatelo in fretta’; La malattia in questo caso è vissuta come un corpo estraneo, la patologia è estrinseca al soggetto. Nella Medicina delle malattie croniche e della prevenzione, la malattia non è più di tanto vissuta come corpo estraneo, essa è intrinseca al soggetto; tutto lo sforzo pare quello di mantenersi nel livello di salute che si possiede. In questo modo la malattia cronica diventa un modo di vivere e, per alcuni, la malattia è essa stessa vita. L’antropologia della malattia vede la malattia cronica anche come un modo per tentare di guarire. Purtroppo è un tentativo che spesso fallisce: il tempo cronologico spesso soccorre il medico. Il rapporto medico-­‐paziente nella medicina dell’urgenza, della malattia acuta e dei traumi è una relazione fortemente asimmetrica in cui il paziente si affida totalmente al medico. Il rapporto medico-­‐paziente nella medicina della malattia cronica e della prevenzione è debolmente asimmetrico; il paziente ha tutto il tempo e la possibilità di essere parte attiva nella relazione e alla fine scegliere se e come procedere nella relazione terapeutica. L’attesa del paziente, nella malattia acuta è alta, è di guarigione; nella malattia cronica l’attesa del paziente è bassa, è di remissione: “se si può, migliorare, se non si può migliorare, almeno non peggiorare”. 18 La distinzione appare come antropologicamente e sociologicamente più rispettosa delle condizioni del paziente: -­‐ nella Medicina dell’urgenza della malattia acuta e dei traumi il paziente è costretto, dagli eventi che lo riguardano, ad affidarsi ad un medico che non conosce e che non ha scelto, -­‐ nella Medicina della malattia cronica e della prevenzione il paziente ha tutto il tempo e le possibilità per esercitare la propria libera scelta.” Quello che dovrebbe fare il medico è essere responsabile della propria professionalità e al contempo riuscire a portare la relazione a livello simmetrico.“ Il Triage L’altra figura fondamentale all’interno del servizio di ProntoSoccorso è l’Infermiere, in particolare l’infermiere chiamato abitualmente “triagista”, affianco del quale ho svolto il mio Tirocinio. ll Triage (dal francese “trier”, scegliere) consiste nell’attribuire al paziente che si presenta in Pronto Soccorso un codice di priorità per l’accesso all’area di trattamento sulla base della sintomatologia e delle condizioni cliniche oggettive. L’aumento progressivo dei pazienti trattati in PS e l’incidenza sempre più elevata di casi non urgenti che vi accedono ha reso necessaria la gestione dell’afflusso e dell’attesa degli utenti, secondo criteri che salvaguardino i casi gravi, che hanno priorità di trattamento. La funzione di Triage Infermieristico in Pronto Soccorso viene svolta, secondo la normativa vigente, da un infermiere professionale con esperienza di PS (minimo 6 mesi) che, dopo un percorso formativo specifico, opera sulla base di linee-­‐guida e protocolli elaborati dal personale medico in collaborazione con il personale infermieristico. All’infermiere triagista compete il ruolo di accoglimento e valutazione di tutti gli utenti che accedono al PS secondo un sistema di codifica che ne rispetti le priorità. La corretta attribuzione del Codice Colore e la sua eventuale sottostima o sovrastima, sono di responsabilità dell’Infermiere addetto al triage; l’adeguatezza, la pertinenza e la congruità. dei protocolli sono di competenza del Dirigente Medico di Pronto Soccorso. (D.M. n.285, Accordo Stato-­‐Regioni 25/10/2001). Partendo da questo principio ed analizzando le linee guida prodotte a livello nazionale riguardo al triage infermieristico, un gruppo di lavoro aziendale costituito dagli operatori di Pronto Soccorso e del 118 dell’AUSL di Ravenna ha rivisto e uniformato i protocolli di assegnazione del Codice Colore già utilizzati nei Servizi di Pronto Soccorso di Ravenna, Lugo e Faenza nell’anno 2000. Sono previste revisioni a cadenza triennale. Il gruppo di lavoro comprende il personale infermieristico addetto al triage, i coordinatori infermieristici del Pronto Soccorso di Ravenna, Faenza e Lugo, ed i rappresentanti medici dei tre Presidi Ospedalieri. Ai lavori, per perseguire l’obiettivo comune di una uniformità di valutazione, hanno contribuito anche gli infermieri dell’Emergenza Territoriale 118. Per l’elaborazione del triage pediatrico ci si è avvalsi della collaborazione dei Pediatri dei tre Presidi Ospedalieri. Le scale di riferimento, sia per la traumatologia che la valutazione del malato internistico sono di derivazione internazionale e sono state inserite per una più semplice consultazione. Il metodo di lavoro per la determinazione del codice colore delle patologie è quello appreso dalle linee-­‐guida del GFT (Gruppo Formazione Triage), da anni punto di riferimento nazionale sulle problematiche inerenti il Triage Infermieristico in Pronto Soccorso. 19 L’ETEREOGENITÀ DEGLI ACCESSI AL SERVIZIO DI PRONTO SOCCORSO: La mia esperienza in Pronto Soccorso Dopo il primo giorno in cui il Direttore mi ha dettagliatamente informato sulla parte teorica, passando dalle varie funzioni del personale, al significato dei vari colori dei codici assegnati ai pazienti, a quelli dei numeri degli ambulatori, al rapporto col 118, etc., mi ha accompagnato in sede e mi ha proposto la postazione al fianco dell’infermiere di turno nel triage, mi ha presentato al personale spiegando il mio ruolo e chiesto di ripresentarmi di volta in volta a chi sarà di turno durante il mio tirocinio. Questo stage consiste nell’ascoltare la prima accoglienza e valutazione dei sintomi e segni operata dall’infermiere al paziente per comprendere il motivo del suo arrivo in P.S., la sua condizione di salute e valutarne quindi la priorità di intervento. Il paziente viene poi invitato ad attendere in sala d’aspetto per essere indirizzato all’ambulatorio destinato, oppure inviato in un’area dove viene sistemato in una barella sempre in attesa, o direttamente trasportato nell’ambulatorio dei casi urgentissimi perché gli è stato assegnato un codice rosso. Se l’infermiere dopo la visita ritiene che il paziente possa trarre giovamento da un mio intervento, ci confrontiamo e decidiamo di chiedere alla persona, dopo avergli spiegato il mio ruolo, se desidera parlare con me del motivo per cui si è recato in P.S. PAOLO -­‐ Il primo paziente che ho accolto è Paolo: è un Signore di 56 anni di corporatura robusta, vestito con abiti sgualciti, e poco in ordine, lamenta una stipsi che non gli consente di evacuare da almeno una settimana, lo racconta con tono accorato e preoccupato, quasi come avanzando l’idea che non ci sia più soluzione, e chiede aiuto all’infermiere affinché possano intervenire proprio immediatamente. Alla prima visita dell’infermiere tutti i controlli appaiono regolari inoltre dallo schedario si evince che già il mese scorso e nei due successivi si era presentato in pronto Soccorso per lo stesso problema erano state eseguite tutte le analisi (Tac, risonanza, eco , colonscopia ) e non era emerso nulla di patologico, si era comunque ogni volta liberato, e gli erano state prescritte diverse cure che però a dire di Paolo non davano alcun risultato. Gli è stato assegnato un codice verde ed è stato fatto accomodare in sala d’attesa; l’infermiere mi ha detto che pensava fosse adeguato un mio intervento: “ritengo che a livello fisiologico non ci sia nulla di rilevante…forse si tratta di qualcosa d’altro…” in questo invio a me si legge anche tutta la stanchezza di dover intervenire anche in situazioni in cui il P.S. non dovrebbe. Mi sono avvicinata a Paolo e a bassa voce mi sono presentata, gli ho spiegato il mio ruolo e gli ho chiesto se mentre aspettava avesse voglia venire con me e di dire anche a me il motivo per cui si è recato in P.S. e di come si sentiva. Mi ha accennato della difficoltà ad evacuare ma subito ha risposto alla seconda domanda e mi ha raccontato, senza sosta, per un lungo tempo, la sua vita in questi ultimi mesi. La moglie vuole separarsi e gli dice continuamente che lo lascerà in mutande, gli porterà via tutto: casa, soldi in banca, auto e moto. Gli chiedo come si senta a seguito di queste esternazioni della moglie e lui mi risponde che non è tanto preoccupato della mancanza affettiva , che tanto quella non c’è più da tempo, ma dalla parte pratica: lui in casa non sa fare nulla e se lei gli porta via tutto non potrà permettersi nemmeno una colf. Si sofferma nei racconti più dettagliati della loro triste relazione, del figlio che ritiene un inetto, del fatto che lui non lavora più perché ha una pensione di invalidità perché per un breve periodo è stato alcolizzato…di come a volte tenti di recuperare il rapporto con la moglie , ma viene sempre mortificato e l’unico suo sfogo è la moto, ma proprio per questo ora 20 la moglie gli ha nascosto le chiavi. Lo ascolto con attenzione e cerco i suoi occhi, ma sfugge, gli rimando le sue parole affinché prenda coscienza dell’attinenza tra la sua parte fisica e quella emotiva e molto prima di quanto sperassi, mi chiede se secondo me tutta questa situazione famigliare e di tristezza che ristagna da troppo tempo e che lui trova senza soluzione, possa in un qualche modo bloccarlo anche fisicamente. Gli restituisco la domanda e lui mi dice finalmente guardandomi negli occhi che sì, certo che sì, e che forse vorrebbe andare a casa senza fare la solita visita… ma già che è lì… così sente anche da loro… e poi a casa si sta così male con quella là sempre arrabbiata… Mi ringrazia moltissimo e mi chiede se possiamo parlare ancora, se può tornare in P.S. non per essere visitato, perché da questa volta la cura la farà, (ammette senza accorgersene di non averla mai fatta) e forse andrà meglio, ma proprio per parlare un po’, a casa non lo ascolta mai nessuno… Ci vorrebbero altri incontri per aiutarlo nei primi passi verso la responsabilità delle proprie scelte, per ora forse sarebbe sufficiente se avesse preso coscienza che non è il P.S. il posto dove correre ogni qual volta si senta saturo di emozioni negative. FRANCA -­‐ Franca: è una signora di 61 anni robusta e claudicante con stampella, lamenta un peso al petto e una certa difficoltà respiratoria da qualche giorno, viene visitata e tutti i parametri sono regolari, le viene chiesto se ha altre patologie (vedendo la stampella) ma lei risponde assolutamente no, non ha altri problemi. L’infermiere la fa accomodare su di una barella e mi invita ad intervenire. Mi presento e le faccio la solita domanda. “vuole dire anche a me il motivo per cui è venuta in P.S. e come si sente?” Ha un modo di parlare molto dolce e si scusa con la figlia che l’accompagna ed anche con me se ci fa perdere tempo, la tranquillizzo dicendole che il tempo che passo in P.S. è proprio dedicato ai pazienti, quindi ora è tutto per lei e che ho desiderio di ascoltala con attenzione. Lei mi dice che non ha nulla di importante da dirmi, che nella sua vita va tutto molto bene, proprio per questo si è preoccupata ed è venuta in P.S. Le rifaccio la domanda dell’infermiere chiedendole se anche precedentemente non avesse mai avuto problemi di salute (e con lo sguardo vado sulla stampella) ma lei continua a dire che è sempre stata benone. Allora le chiedo esplicitamente a cosa le serva la stampella, senza però dirle che ho notato che zoppicava e lei con sorpresa mi dice (come se la stampella fosse la sua borsetta da passeggio) “ ah ma questa ce l’ho da tanti anni ,che c’entra? E’ stato un intervento che non è riuscito bene… poi un lungo silenzio e quindi aggiunge: “che mi ha fatto tanto soffrire, tanto che a volte mi toglieva il respiro…” Non vado su quel ricordo e le chiedo invece di esprimermi la sofferenza che prova ora, Franca diventa seria e mi dice che non ha proprio voglia di parlare di quell’incidente e se credo che la sofferenza di adesso dipenda da quell’incidente mi sbaglio di grosso. Le rispondo che non credo proprio nulla se non alle sue parole e che se vuole può dirmelo lei, se c’è un qualche rapporto tra il disagio di adesso e quello del passato che posso esserle utile ora, altrimenti può dirmi com’è il peso che prova ora. Da questo momento Franca non parla più dolcemente, è molto arrabbiata e mi dice che è proprio come quella di allora, perché teme che il nuovo intervento che l’ortopedico le ha consigliato di fare il mese prossimo non abbia nuovamente buon esito. Mi chiede di chiamarle la figlia perché vuole andare a casa perché tanto sa che quel peso non le andrà più via. Le chiedo se ha già preso la decisone di fare quell’intervento e come si sente, lei mi risponde che hanno deciso i suoi famigliari e non si sente di contraddirli ma ha tanta paura. Allora le chiedo di dire a me quello che vorrebbe dire ai sui famigliari, lei con aria triste mi dice : “ io cerco di non essere un peso per loro, faccio tutto come prima anche se zoppico, ma non posso fare proprio tutto, non riesco a star dietro ai nipotini e nemmeno ad accompagnare mio marito a ballare come prima, ma io ormai mi ci sono abituata e non ce la faccio a pensare di 21 ricominciare da capo, perché non lo capiscono?”. Le chiedo se ne ha parlato con loro e se loro le fanno pesare in un qualche modo queste cose, lei prontamente mi dice che assolutamente no, le dicono sempre che è anche troppo efficiente e che si stanca troppo per loro e suo marito addirittura fa finta che non gli piaccia più ballare, ma lei sa che non è vero! Allora le riporto quanto mi ha raccontato affinché le possa essere di aiuto per comprendere a chi è utile l’intervento: se è un’esigenza dei parenti affinché lei sia più efficiente per loro, se i parenti pensano invece che lo sia proprio per lei, se lo è per se stessa. Franca si mette nuovamente silenziosa poi ritorna ad avere un tono dolce e mi richiede di chiamarle la figlia perché vuole farle delle domande. Allora mi congedo e le lascio sole mentre aspettano la visita, Franca mi stringe forte la mano e mi ringrazia. EDVIGE -­‐ Edvige ha 43 anni è una alta e forte ragazza di campagna che dimostra almeno 10 anni di meno, pelle fresca e sorriso contagioso, lamenta forti crampi alla pancia (che chiama stomaco) e diarrea a intermittenza. La prima visita non evidenzia nulla di rilevante e decidiamo di chiederle se vuole un colloquio con me. É molto facile entrare in empatia con lei, si rende subito disponibile e curiosa di capire cosa possiamo fare insieme lei e io. Le chiedo cosa l’ha portata in P.S. e mi risponde che proprio non capisce questo suo malessere che le rovina un periodo così bello. Allora le chiedo di raccontarmi questo periodo, mi dice che ORA sta proprio bene, ha risolto poco prima di andare in vacanza i suoi problemi lavorativi e quindi è partita serena per la Sicilia, ma pochi giorni prima del rientro sono iniziate queste scariche di diarrea precedute da forti crampi. Si sente come di doversi liberare di qualcosa ma è sicura di non aver mangiato nulla di avariato… .Le chiedo come si è sentita al rientro e lei mi risponde di nuovo che sta bene, se non fosse per quelle scariche che riprendono ogni volta che sta per andare al lavoro e proprio mentre sale in auto, deve subito rientrare in casa e poi correre al lavoro perché appena arriva, ecco una nuova scarica… .Le chiedo al lavoro come si sente e mi risponde che finalmente ora è serena, le hanno riconfermato il contratto proprio per la mansione che sperava… poi aggiunge: “ mi sto levando un bel peso, avevo una “scaga” che il mio posto lo dessero ad una ragazza più giovane appena arrivata, che finché non la vedo fuori dal mio ufficio ancora non ci credo, la stanno trasferendo proprio in questi giorni alla filiale di Treviso”. Le riporto le sue parole calcando col tono della voce sul termine “scaga” che riporto in “ho una paura da farmela sotto” che non la trasferiscano…. Lei mi sorride e dice “non mi vorrà mica dire che la mia diarrea è colpa di quella là?” “no,io non dico nulla, dimmi tu cosa ne pensi?, lei scoppia in una bellissima risata e io la saluto, mentre la stanno facendo entrare alla visita. RENATA -­‐ Renata: è una signora di 72 anni, conta ben 34 accessi in P.S. negli ultimi 6 mesi , si presenta ogni volta con forti tremori e tachicardia, ma ogni volta non viene rilevato nulla. L’infermiere scoraggiato mi prega di andare da lei, mi presento e le chiedo il motivo di questo nuovo accesso, cercando di capire se si rende conto della frequenza con cui chiede aiuto al personale del P.S., ma mi dice che, solo: “ogni tanto mi capita di avere questi disagi e corro in P.S. perché temo che possa essere un infarto come è capitato a mia mamma e mia zia che ne sono morte ! Poi qui vengo sottoposta ad accurati accertamenti e quindi torno casa più tranquilla”. Le chiedo come si sente in questo periodo e lei scuotendo la testa mi dice che sta proprio male, che è un periodo lungo e difficile in cui tutto va male, il lavoro: aiuta il figlio in una agenzia assicurativa, che non guadagna più; il marito che è ammalato e pure con l’altro figlio ci sono problemi, non le parla più da un anno, senza però che lei ne comprenda il motivo. É molto stanca e confusa, parla con la testa a ciondoloni e mi indica il figlio in lontananza che l’ha accompagnata e 22 mi dice che anche lui dovrebbe parlare con me, “perché anche solo parlare con qualcuno aiuta, magari non risolvi nulla, ma ti aiuta a schiarire le idee e poi è bello quando qualcuno ti ascolta anche se sta zitto!” Le chiedo quindi se le va di continuare a raccontarmi dicendomi magari qual’è, di tutti i problemi che mi ha esposto, quello che vorrebbe approfondire nel poco tempo che abbiamo. Lei mi risponde che più di tutto le dispiace di non riuscire a risolverne nemmeno uno, che si sente piena di troppi problemi e quando non ce la fa più a sopportarli le viene la tachicardia e allora può venire in P.S. a chiedere aiuto, qui almeno qualcuno si prende cura di lei! Viene chiamata in un ambulatorio e mi chiede di poter venire in P.S. a parlare ancora con me perché se l’aiuto magari riesce a capire perché il figlio non le parla più…prima che le venga un infarto! DEBORA -­‐ Debora: è una signora di 53 anni, arriva accompagnata da una amica e l’infermiera che ha esperienza, già vedendola in lontananza, mi dice che a questa paziente sarà utile il mio intervento: ha il volto sconvolto, grandi borse sotto agli occhi e un pianto ininterrotto che proseguirà per ore. Alla domanda dell’infermiera del perché del suo accesso in P.S. lei risponde con un filo di voce che vuole morire, che sta malissimo, poi le parole le si fermano in gola e prosegue l’amica dicendo che l’ha trovata stamattina stesa per terra nel suo negozio di abbigliamento in preda alla disperazione e pensa sia depressa. L’infermiere in questi casi chiama lo psichiatra (che probabilmente arriverà solo nel pomeriggio), nell’attesa la fa accomodare in sala d’aspetto e la destina ad un ambulatorio per un primo intervento neurologico. Mi avvicino e le chiedo se si sente di parlare con me del motivo di quel pianto, lei mi fa cenno di si con la testa, cerca di calmarsi e inizia dicendo che sta facendo molto male a suo marito e ai suoi figli, che è meglio se muore così lui potrà avere una nuova brava moglie e i suoi figli una vera madre. Le chiedo cosa la porta a queste parole e mi risponde che questa mattina la banca le ha chiuso i conti, anche quelli del marito che aveva dato in garanzia perché il negozio, su cui paga un mutuo, va malissimo e deve pagare anche i fornitori. Per colpa di tutto questo lei è sempre triste, arrabbiata e non solo è fallita nel lavoro ma anche come madre e moglie, quindi è meglio se muore! Non sa come dire ai suoi familiari di questa situazione così drastica di cui sono al corrente solo in parte…. Intanto l’amica sta cercando al telefono il marito che non risponde, Debora mi chiede di starle vicino quando lui arriverà e poi riprende a piangere disperatamente. Il nostro colloquio resta a lungo un incontro silenzioso, poi senza guardarmi allunga appena una mano, credo stia pensando che mi voglia congedare e mi indica di restare lì nella sedia accanto a lei, intanto si asciuga le lacrime che continuano a sgorgare a fiotti. Le chiedo se vuole raccontarmi questo ultimo periodo che mi ha descritto così complesso e lei continua a parlare solo della situazione finanziaria e lavorativa che è precipitata oggi, colpevolizzandosi di aver fatto scelte sbagliate di non aver avuto le capacità di rimediare. le chiedo allora se vuole parlarmi della sua relazione con i figli e col marito, ma lei scuote la testa e dice che non se li merita; in quel momento arrivano cognato e marito che la guardano spaventati e attoniti le chiedono cosa è successo, lei resta immobile sfinita sulla sedia, a testa bassa. Io mi congedo e il P.S diventa la scena di un tragico incontro familiare, costretti in quel luogo fino all’arrivo dello psichiatra forse troveranno il coraggio di parlare, le dico che se vogliono possono rimanere nello stanzino. 23 SILVIA -­‐ Silvia: è una ragazza di 26 anni che lamenta un forte mal di testa da diversi giorni, la prima visita rileva parametri fisiologici regolari e decidiamo di chiederle se vuole avere un colloquio con me. Mi presento e le chiedo come si sente, mi dice che ha sempre una forte emicrania e che è un periodo brutto perché è stata lasciata dal fidanzato col quale aveva una relazione da 4 anni, è abbastanza rigida e parla a scatti. Dice che il mal di testa le è iniziato subito dopo il litigio e all’inizio pensava che fosse proprio a causa di questo, ma il suo perdurare così a lungo l’ha allarmata e vorrebbe fare tutti i controlli. Sa che sarebbe dovuta andare dal proprio medico di famiglia per le prescrizioni, ma dice che non c’è quasi mai, riceve pochi giorni alla settimana e poi c’è sempre una gran fila e lei è già troppo indisposta per sopportare anche questo. Le faccio notare che anche qui dovrà aspettare molto perché ci sono pazienti con codici che evidenziano patologie più gravi che avranno la precedenza, lei mi risponde che va bene lo stesso perché comunque qui farà tutti gli accertamenti in una sola giornata, senza prendere appuntamenti e spostarsi in tanti luoghi diversi che la costringerebbero a più file. Le chiedo se vuole raccontarmi questo ultimo periodo e lei mi ripete un po’ seccata che è stata lasciata da quello stupido del suo fidanzato senza riuscire a capire il perché, glielo ha chiesto tante volte e lui risponde SOLO che si è stancato di lei :“dopo 4 anni come si fa a stancarsi di una persona, ormai sai com’è o ti va bene o non ti va bene! Cosa c’è da stancarsi?” Mi dice che anche la madre, che l’ha accompagnata, non si dà pace, proprio ora che Mirco aveva trovato un ottimo lavoro con un signor stipendio! “ diamo tutte e due la testa nel muro perché non sappiamo come fare per farlo rinsavire”. Le restituisco le sue parole, cercando di chiarire il passaggio in cui lei riporta la chiara risposta di lui: si è stancato di lei; nel contempo lei e la madre continuano a battere la testa nel muro rifacendosi la stessa domanda. Comprendo che non ascolta la mia riformulazione e appena termino continua a ripetere come un mantra: “vorrei sapere perché mi ha lasciato proprio ora?” Allora riparto da lì e le chiedo cosa è accaduto proprio ora? Lei mi ripete: ora che ha trovato un buon lavoro e potevamo sposarci e io così smettevo di fare la commessa. Le riporto ancora le sue parole affinché possa scorgere, anche in questo caso, il riproporre la medesima modalità, che riporta quando decide di approfittare del P.S. per poter fare prima gli accertamenti; inoltre nel colloquio non mai ha esternato un dolore sentimentale. Ma anche in questo caso lei riprende le precedenti frasi. Le chiedo allora come si sente sentimentalmente, se oltre alla testa senta dolore anche al “cuore”, lei rimane in silenzio per un po’ poi mi dice “ bhé è ovvio che ci sono rimasta male mica me lo aspettavo , poi sa in un paese, adesso chissà cosa ci ricamano..” Il mio tempo con lei sta per terminare, riformulo, un po’ rassegnata a non essere ascoltata quanto mi ha detto, terminando con la parte in cui lei mi riporta la risposta di lui… stavolta il suo sguardo diventa triste e mi chiede: ma secondo lei Mirco si può essere stancato di qualcosa che ho fatto io? Ripeto la domanda da lei ma mi risponde che ha troppo mal di testa per pensarci, magari dopo la visita, dopo che le hanno dato un antidolorifico…. Forse però uno spioncino si è aperto! PATRIZIA E NICOLA -­‐ Patrizia e Nicola: questi due colloqui li descrivo insieme perché sono molto simili , presentano le stesse dinamiche, Patrizia si presenta in P.S. accusando prurito al viso da alcune ore, si tocca lo zigomo dove non si scorge alcun rossore, accusa anche dolore ma non sa descriverlo, dice che potrebbe essere stata punta da un insetto, ma non sa che tipo , l’infermiere la sottopone ai primi semplici accertamenti che rilevano una totale regolarità, le assegna un codice bianco e la informa che dovrà aspettare a lungo, lei non è per nulla dispiaciuta di questo e si accomoda in sala d’aspetto, sedendosi proprio davanti alla porta del triage. 24 Nicola arriva precipitandosi verso la scrivania del triage come se fosse in fuga da qualcosa e dice di aver molto dolore all’alluce perché mentre si stava tagliando le unghie dei piedi si è ferito con le forbici che gli sono entrate sotto l’unghia, intanto che spiega l’accaduto si sfila la scarpa e butta il piede nudo sulla scrivania: ci mostra un arto assolutamente sano, non c’è sangue e nemmeno rossore. Anche lui alla richiesta di descrivere il dolore non sa cosa dire e si tira nelle spalle. Altro codice bianco, lunga attesa e si accomoda anche lui di fronte alla porta del triage (non è la stessa giornata di Patrizia) Avvicino Patrizia, mi presento e le chiedo come si sente, lei è molto disponibile al colloquio e mi dice molto francamente che gli infermieri lo sanno che lei va lì con delle scuse, e non sa più cosa inventarsi, perché vede che scrivono il motivo del suo accesso ogni volta che viene, ma lei va in P.S. perché soffre di attacchi di panico e solo lì si tranquillizza, si mette proprio in bella vista di fronte all’infermiere perché vuole essere certa di essere vista se dovesse stare molto male. Non dichiara queste crisi perché sa che le dovrebbero chiamare lo psichiatra e lei non vuole rifare la visita con lui, come la prima volta che è venuta, perché poi le prescrive degli psicofarmaci e lei non ci pensa proprio di prendere tutte quelle medicine. A lei basta stare lì il tempo necessario per riprendersi e poi se ne va senza fare la visita, è sicura che prima o poi le passeranno, invece se prende i farmaci rimane intontita a lungo e peggiora. Le chiedo se vuole dirmi come si sente ora e lei mi racconta che alcuni mesi fa ha avuto un brutto incidente ed è rimasta intrappolata in auto finché non sono arrivati i soccorsi, poi ha dovuto subire un intervento ad una gamba e da quel momento sono iniziati gli attacchi di panico. Ora si sente già bene, gli attacchi sono forti ma brevi , mi ringrazia ma vorrebbe andar via prima che la chiamino per la visita, ….mi chiede se posso darle un indirizzo per incontrare privatamente un Counselor per farsi aiutare… e smettere così di prendere in giro gli infermieri, cosa che le dispiace molto. Nicola è sudato e nervoso, mi presento e gli chiedo se vuole avere un colloquio con me, un po’ guardingo mi risponde di sì che forse è meglio. Gli chiedo cosa intenda per “ forse è meglio”, mi dice: “sicuramente, dato il lavoro che fa, ha capito che il piede non c’entra nulla”. In verità soffre di attacchi di panico, ma la prima volta che lo ha dichiarato lo hanno inviato in psichiatria e lui non ci vuole tornare, ora è in cura da uno psicoterapeuta, ma le crisi non passano, allora senza dare fastidio a nessuno sta un po’ in P.S. Stavolta si farà visitare il piede e poi torna a casa, tanto stasera ha la seduta dal suo psicoterapeuta. Poi qui gli controllano anche la pressione che quando ha gli attacchi è sempre un po’ alta, perché sente che gli batte forte il cuore e gli frigge la testa. Mi dice che ora che me lo ha detto si sente meglio, “tanto lei ha il segreto professionale e non dirà nulla agli infermieri vero?”, aggiunge che non continuerebbe il colloquio perché stasera lo dovrebbe ripetere, gli spiego per chiarezza che è un modalità diversa e poi mi congedo. Da lontano, sempre guardingo, mi controlla se parlo di lui con l’infermiere del triage. 25 IL DIALOGO COSTRUTTIVO CON IL PERSONALE SANITARIO La mia esperienza di tirocinio è iniziata a fianco degli infermieri di triage e sin dal primo giorno si sono dimostrati molto interessati alla figura del Counselor, non conoscevano questa professione e nemmeno questo tipo di relazione di aiuto, ma man mano che gliela presentavo ne sottolineavano l’utilità per il sostegno che ne avrebbero potuto trarre durante le ore di lavoro e anche per eventuali colloqui personali al termine del loro lavoro, tutti hanno definito questa relazione di aiuto, necessaria e mi hanno pregato di fare il possibile affinché venga introdotta nel loro servizio! Quasi tutti gli infermieri che ho incontrato in questi mesi accusano sintomi riconducibili a burnout: si sentono troppo gravati dalle problematiche altrui, parlano di un accumulo di un duplice stress, quello personale e quello della persona curata, si sentono stanchi, anzi sfiniti fisicamente e psichicamente. A fine turno sentono di aver esaurito tutta la loro energia nell’accogliere l’eterogeneità di accessi che si presenta loro nelle 6 ore di turno. “La maggior parte dei pazienti viene qui e ci scarica addosso, come fossimo dei bidoni dell’immondizia, tutta la loro sofferenza, molto spesso però non solo questa, per questa siamo preparati, ma anche la loro rabbia, impazienza, maleducazione, pregiudizi…” Arrivano così ad un esaurimento emotivo, che a volta sfocia in cinismo e scarsa empatia, si innesca, a loro volta, il pregiudizio e l’impazienza verso il paziente, che viene così interpretato come un fastidio. Immediatamente però come si rendono conto di questi sentimenti e delle conseguenti reazioni si accorgono anche di essersi allontanati dal loro ideale progetto di lavoro e si colpevolizzano, provando un sentimento di colpa e scarsa realizzazione personale, aumentando così ancora di più lo stress. Lamentano spesso anche un deterioramento del benessere fisico, accusano sintomi come l'insonnia, la stanchezza cronica, ma soprattutto desiderio di fuga dall’ambiente lavorativo. Gli uomini raccontano di trovare giovamento nell’attività fisica: praticano sport, stanno in mezzo alla natura e questo li rigenera. Le donne invece accumulano anche lo stress che gli procura l’ambiente familiare: figli, genitori, mariti e faticano a trovare uno spazio in cui scaricare l’accumulo emotivo, infatti sono soprattutto le infermiere che richiedono una relazione di aiuto dopo il turno di lavoro. Nonostante lo stato di stress che hanno espresso ho trovato il personale sanitario che ho conosciuto in questo P.S. molto motivato e disponibile, lamentano burnout ma non sembrano manifestarlo, riescono sempre a dare sostegno e cura anche in situazioni molto difficili, anzi direi che proprio nelle situazioni più complicate danno il meglio della loro professionalità e umanità, sono le situazioni paradossali e quelle, che mi permetto di definire, di non specifica pertinenza del P.S. a metterli più a disagio e sotto stress: le difficoltà di comunicazione e di gestione di pazienti come quelli sopra descritti, per i quali non sono stati preparati nel corso della loro formazione e ai quali hanno ritenuto utile proporre i colloqui con me. Ritengono che ci sia, da parte dei cittadini, un abuso di utilizzo di una struttura che dovrebbe essere solo di emergenza-­‐urgenza: i codici rossi e gialli sono quelli di reale necessita e per i quali loro sono stati preparati (dal pericolo di vita, al dolore acuto, alla manifestazione di sintomi che possono essere prodromi di patologie gravi etc.), mentre i codici verdi e ancor più quelli bianchi, andrebbero gestiti diversamente. Dopo una prima visita di messa in sicurezza del paziente, cioè dopo aver accertato il loro stato fisiologico, dovrebbero essere inviati in una struttura vicina ma diversificata, in cui si possa contare anche su competenze psichiatriche, psicologiche e di relazione di aiuto. Mi informano che la media di questa seconda tipologia di accessi è più del doppio della prima tipologia: ad esempio su 600 accessi , 200 sono di codici rossi e gialli e 400 di codici verdi e bianchi. Di questi 400, circa la metà sono pazienti che potrebbero e dovrebbero risolvere il loro problema 26 rivolgendosi al loro medico di base: presentano semplici febbri da virus influenzale, mal di gola, orzaioli, herpes, gastrite, mal di schiena , etc. Sono i pazienti con cui è più difficile entrare in empatia perché si recano in P.S. non per vera necessità ma per sveltire tutti i passaggi, per non pagare le visite, per eccessiva preoccupazione, per disinformazione, si presentano giustificandosi di essere andati in P.S. perché il loro medico di famiglia non c’è tutti i giorni, o perché dovrebbero fare troppa fila, o ancora, se si prenota la visita per appuntamento il giorno in cui riceve non è quello che va bene a loro. Questi pazienti credono e pretendono di non dover aspettare in P.S., controllano, senza avere conoscenza delle priorità, chi entra prima negli ambulatori, si lamentano, chiedono spiegazioni continuamente, interrompendo il lavoro degli infermieri, discutono con gli altri pazienti, telefonano ad alta voce etc. Il personale sanitario riscontra in questa tipologia di pazienti una più alta percentuale di arroganza, maleducazione, mancanza di rispetto per l’altro, (l’altro inteso sia come altro paziente che come il sanitario) egoismo, pessima comunicazione , quando gli viene chiesto di spiegare il loro malessere divagano, usano termini sanitari inventati, vogliono essere informati ma tendono poi a responsabilizzare il medico del loro stato di salute. Questi pazienti sono gli stessi che chiamano l’ambulanza, accusando ad esempio dolori fortissimi, poi il personale del 118 riporta che in realtà è solo un attacco di vomito, il paziente giustificandosi che è a casa da solo, ritiene di non disturbare un parente o un amico, ma non si preoccupa del fatto che l’ambulanza viene utilizzata non per vera necessità. In questi casi si corre il rischio che rispondendo ad una chiamata di simulata necessità, l’ambulanza non possa andare dove potrebbe essere necessario un intervento per un caso veramente grave, occorre così far muovere un’ambulanza da un ospedale più lontano e il tempo di arrivo potrebbe essere fatale. Il personale del 118 ritiene che sarebbe utile, come accade ad esempio nella Provincia di Trento, far pagare una cifra prestabilita per le chiamate definite non di codice rosso o giallo (a Trento sono € 40 e a breve verrà raddoppiato l’importo) . Gli altri 200 sono i pazienti che, più o meno coscientemente, utilizzano il P.S. come relazione d’aiuto e anche questi affaticano molto il personale sanitario, sia fisicamente che emotivamente. Gli infermieri che affianco mi raccontano di aver riscontrato un minor afflusso di questa tipologia di pazienti, in certi periodi, ad esempio il mercoledì mattina; per molto tempo si sono chiesti il perché, poi hanno ritenuto di poter identificare nel mercato, il loro sostituto, anche perché alcuni pazienti glielo hanno confermato : “sono venuto oggi perché ieri c’era il mercato e non ce l’ho fatta” e quando l’infermiere gli fa notare che evidentemente non stava così male, molti rispondono che proprio oggi sono peggiorati… lo stesso mi dicono dei periodi di raccolta della frutta o di vendemmia, cioè i periodi in cui si ritrovano a lavorare con altre persone, in gruppo, per brevi periodi e in mezzo alla natura, questo pare che sia un forte analgesico e/o antidoto all’ansia. Vorrei concludere riportando il racconto di un giovane Medico del P.S. Una notte mentre stava terminando il suo turno di lavoro, stanco e un po’ irritato dai tanti casi affrontati, stava seduto sfinito su di una sedia e ha visto entrare ancora un paziente: un ragazzo che gli è andato incontro con un’aria smarrita e gli ha detto che voleva parlare con qualcuno ed essere assistito per quel malessere che non sapeva spiegare ma che lo faceva stare tanto male da diverse ore, al punto di pensare di poterne morire. Il medico di fronte a quel giovane così spaventato ha sentito che l’irritazione si trasformava in empatia e guardandolo dritto negli occhi, gli ha offerto uno stanco sorriso, il giovane ha allargato le braccia e come per scusarsi ha detto : “ era l’unica luce accesa!” 27 CONCLUSIONI A seguito di questa esperienza svolta presso il P.S. dell’ospedale di Lugo, mi è stato proposto, dal personale sanitario, di presentare al Direttore e quindi alla Direzione sanitaria dell’Ospedale di Ravenna e Lugo, un progetto che preveda la presenza di un Counselor che affianchi gli infermieri di triage durante la prima visita effettuata al paziente al momento dell’accesso. La figura del Counselor potrebbe supportare l’infermiere di triage nei casi definiti di codice verde o bianco e sostenere anche i familiari che accompagnano i pazienti a cui vengono assegnati codici che evidenziano situazioni più complicate. Questa relazione di aiuto agevolerebbe l’infermiere che riesce così a dedicarsi con maggior tempo e concentrazione ai casi più gravi, prevedendo il burnout da stress di sovraccarico comunicativo ed emotivo e aiuterebbe con più competenza relazionale, di ascolto e di accettazione i pazienti meno gravi dal punto di vista dei parametri fisiologici. Questi colloqui potrebbero avvenire in un ambiente situato vicino alla sala d’aspetto, in tal modo il paziente sentirebbe quando viene chiamato per la visita nell’ambulatorio designato. Tali colloqui, su richiesta del paziente, potrebbero ripetersi su appuntamento, secondo percorsi stabiliti dall’Azienda Sanitaria, e potrebbero essere estesi anche al personale sanitario, sempre su richiesta, al termine del turno di lavoro o su appuntamento in altri orari non lavorativi. Inoltre è stata evidenziata l’utilità di seminari riservati al personale sanitario in cui vengano a loro proposte lezioni di teoria e tecnica della comunicazione verbale e non verbale, lezioni di teoria e pratica di tecniche anti-­‐stress , di rilassamento e di tutela personale. Questa figura inizialmente potrebbe essere proposta senza costi per il servizio sanitario venendo ricoperta da tirocinanti di master universitari o di scuole riconosciute per validità di percorso formativo, con l’obiettivo di venire in seguito inserita nei piani sanitari regionali. Infine vorrei condividere la richiesta esplicitata dal giovane medico di cui ho riportato il racconto, il quale sottolinea la necessità che nel Corso di laurea di Medicina venga inserito anche un insegnamento che porti ad acquisire abilità di supporto e di relazione di aiuto al paziente, “per saper offrire anche altro, oltre o in alternativa alla somministrazione di ansiolitici”. Ringrazio il Direttore del P.S. di Lugo che con intelligenza, sensibilità e lungimiranza mi ha concesso questa importante esperienza di tirocinio e ringrazio tutto il personale sanitario che mi ha accolto e accompagnato con grande interesse e disponibilità. 28 Ogni persona che passa nella nostra vita è unica. Sempre lascia un pò di se e si porta via un pò di noi. Ci sarà chi si è portato via molto, ma non ci sarà mai chi non avrà lasciato nulla. Questa è la più grande responsabilità della nostra vita e la prova evidente che due anime non si incontrano per caso. J. Luis Borges 29 Bibliografia: M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, Ed. San Paolo, 1993 F. Capra, Il punto di svolta, Feltrinelli 2000 R. Carkuff, l’arte di aiutare, ed. Erikson 1987 A. De Souzenelle, Il simbolismo del corpo umano Servitium editrice 2010 A. De Souzenelle, Nel cuore del corpo la parola, Servitium editrice 2010 A. De Souzenelle, L’Egitto interiore, Servitium editrice 2011 J. Hillmann Il Codice dell'Anima, Adelphi 1997 B.H. Lipton, La biologia delle credenze, Macro edizioni 2006 Maharishi Mahesh Yogi, La scienza dell’essere e l’arte di vivere, Astrolabio 1970 R. May, L'arte del counseling, Casa editrice Astrolabio, 1991 Mogol-­‐ Stella, Il corpo dell’anima Sperling & Kupfer Editori 1999 F. Perls-­‐R.F. Hefferline-­‐ P. Goodman, Terapia della Gestalt, Astrolabio 1997 Platone, Teeteto, Rizzoli, 2011 C. Rogers, La terapia centrata sul cliente, Giunti Editore, 2013 M. B. Rosenberg, Le sorprendenti funzioni della rabbia, come gestirla e scoprirne il dono, Edizioni Esserci, 2005 A. Stella, Medicare e meditare, Guerini Stidio 2002 A. Stella, Cognizioni e coscienza, Guerini Studio 2004 30