Sport for Women - St..

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Sport for Women - St..
gli ebook di
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coordinamento editoriale
redazione di Storie di Sport
segreteria di redazione
Graziana Urso
testi
© Marco Della Croce, Alice Figini, Danilo Francescano, Melania Sebastiani, Graziana Urso
foto
Darwin Pastorin (foto bacheca profilo pubblico FB) - Graziana Urso (© Graziana Urso)
copertina
Discobola di Isabella Raineri - elaborazione grafica di Marco Della Croce
progetto grafico, composizione, redazione e impaginazione
© Marco Della Croce
codice ISBN
in attesa di assegnazione
Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma e con
alcun mezzo (elettronico, meccanico, fotocopia o in altro modo), compresi cinema, radio, televisione, senza l’autorizzazione scritta
dell’autore
collana: gli ebook di storie di sport - volume I
Storie di Sport è una testata giornalistica online registrata presso il Tribunale di Lecce N. 02/2012 del 9-2-2012
Direttore Responsabile: Graziana Urso
© 2013 I edizione - tutti i diritti riservati (www.storiedisport.it - [email protected])
gli ebook di
I edizione - 2013
Indice
Darwin Pastorin
Prefazione. Storie di Sport: un baule pieno di meraviglie..............................................I
Graziana Urso
«Votes for Women!». E il cavallo del re travolse la suffragetta....................................III
Melania Sebastiani
Hélène Dutrieu. La “Divina”...........................................................................................1
Alice Figini
Suzanne Lenglen. La diva del tennis...............................................................................7
Graziana Urso
Carla Marangoni. La favola delle “piccole pavesi”.......................................................11
Danilo Francescano
Ondina Valla. “Il sole in un sorriso”..............................................................................15
Danilo Francescano
Amelia Earhart. “Lady Lindy”......................................................................................19
Melania Sebastiani
Wilma Rudolph. La “Gazzella Nera”............................................................................31
Melania Sebastiani
Dawn Fraser. La “ragazzaccia” del nuoto mondiale......................................................37
Danilo Francescano
Novella Calligaris. La ragazzina che sconfisse le “Valchirie”......................................41
Marco Della Croce
Antonella Ragno. Nel nome del padre...........................................................................45
Graziana Urso
Kornelia Ender. L’altra faccia della medaglia................................................................53
Graziana Urso
Nadia Comăneci. La “farfalla” rumena.........................................................................57
Graziana Urso
Martina Návrátilova. Una vita all’attacco.....................................................................61
Alice Figini
Gabriella Dorio. I magici 1.500 m di “Riccioli d’Oro”................................................65
Alice Figini
Mia Hamm. La donna che insegnò il calcio agli USA..................................................69
Melania Sebastiani
Cathy Freeman. Un oro contro il pregiudizio................................................................73
Redazione di Storie di Sport
Alfonsina Strada. La donna che sfidò Girardengo (AudioDoc)....................................79
Crediti...........................................................................................................................82
Darwin Pastorin
Prefazione
Storie di Sport: un baule pieno di meraviglie
È
per me un motivo di orgoglio scrivere la prefazione a questo primo volume
degli ebook di Storie di Sport, sito che seguo con piacere, con attenzione,
capace ogni volta di stupirmi per la qualità della scrittura e per la forza e la poetica
delle vicende narrate.
Marco Della Croce, Alice Figini, Danilo Francescano, Melania Sebastiani e
Graziana Urso firmano i ritratti, nobili e indimenticabili, di donne che nello sport
hanno vinto, lasciando un segno indelebile della loro classe, della loro forza e della
loro tenacia. Da Suzanne Lenglen a Cathy Freeman passando per le “nostre” Alfonsina
Strada, Carla Marangoni, Ondina Valla, Novella Calligaris e Gabriella Dorio, riviviamo
la loro vita, le loro imprese, e, di volta in volta, ci appassioniamo, ci commuoviamo, ci
prende la voglia di rileggere. Forza dell’epica, forza dello scrivere con polso fermo e,
nel contempo, con fantasia, con semplicità.
Il titolo “Sport for Women” è un omaggio allo slogan “Votes for Women” e,
soprattutto, alla suffragetta Emily Davison morta tragicamente proprio durante un
evento sportivo. Perché lo sport è storia, cultura, fenomeno politico e sociale, scrigno
di ricordi e di stupori, è la nostra giovinezza ripresa, teneramente, per mano.
Le giornaliste e i giornalisti di Storie di Sport cominciano, dunque, la loro
avventura nel variegato mondo del libro elettronico. Li seguirò e vi invito a seguirli:
perché, noi, ormai antichi, “bracconieri di tipi e personaggi”, seguaci di Giovanni
Arpino, abbiamo un bisogno, quasi disperato, in questi tempi superficiali e vuoti,
di una narrazione sportiva capace di riportarci al mito, alla passione, all’epifania,
alla memoria.
Storie di Sport è proprio questo: un baule pieno di gente e di meraviglie, di
trionfi e di cadute, di gol e autogol, di sogni realizzati o infranti. È bello perdersi in
quell’immenso mare di rievocazioni, di imprese, di donne e uomini che hanno fatto
delirare generazioni e generazioni, campioni che, come gli eroi di Omero, resteranno
per sempre.
I
Sport for women!
Luis Sepúlveda ci ha insegnato che “raccontare è resistere”. I colleghi di Storie
di Sport portano avanti questa “resistenza”: con tenacia e bravura, da campioni della
penna o, se volete, del computer.
© Darwin Pastorin
direttore di Quartarete
II
Graziana Urso
«Votes for Women!»
E il cavallo del re travolse la suffragetta
I
l Derby d’Epsom non è solo la corsa di cavalli più prestigiosa del Regno
Unito. Fin dalla sua prima edizione, quella del 1780, è anche un appuntamento
mondano al quale l’alta società britannica non può mancare, tanto meno in presenza
della famiglia reale.
Mercoledì 4 giugno 1913 all’evento prendono parte, tra i cinquecentomila spettatori,
anche Re Giorgio V e la Regina Mary. Il loro cavallo in gara è Anmer, montato dal
fantino Herbert Jones, che anni prima aveva vinto quel Derby in sella ad altri due
purosangue reali, l’indomito Diamond Jubilee – da cui il soprannome di Diamond
Jones – e Minoru, entrambi di proprietà del Principe del Galles Alberto Edoardo, il
futuro Re Edoardo VIII.
Il percorso – duemilaquattrocento metri – è un tracciato a staffa di cavallo che prevede
due rettilinei e una lunga e graduale curva a congiungerli: Tattenham Corner. Proprio lì,
nello spazio dietro le transenne riservato alla working class che si gode il raro break dal
grigio tran tran londinese fumando e bevendo, ecco lei, Emily Wilding Davison. Non
una spettatrice distratta.
La militanza femminista
Quarant’anni, insegnante e istitutrice, Emily aveva coltivato invano il sogno di
laurearsi, prima al Royal Holloway College di Londra, abbandonato dopo la morte
del padre, poi al St. Hugh’s College di Oxford, dove aveva frequentato le lezioni di
Lingua e Letteratura inglese prima di sentirsi dire che no, una donna proprio non poteva
conseguire il titolo legale, neanche se la più brillante del corso.
Ma nel 1906 Emily aveva trovato nelle parole di Emmeline Pankhurst, la fondatrice
del movimento suffragista dell’Unione Sociale e Politica delle Donne (WSPU), la
forza di ribellarsi: «Dobbiamo liberare una metà della razza umana: solo così potremo
aiutare l’altra metà a liberarsi». Emily sposa in pieno la causa e i metodi dell’WSPU, e
da allora trascorre il resto della sua vita entrando e uscendo di prigione.
V
Sport for women!
Se Christabel Pankhurst e Annie Kenney non esitano a rivendicare il diritto di voto alle
donne interrompendo in un pubblico incontro il discorso dei liberali Winston Churchill
e Edward Grey, lei osa anche di più: nel 1911 irrompe nel Palazzo di Westminster,
trascorrendo la notte nella sede della Camera dei Comuni in nome di tutte le donne che
non avevano mai potuto accedervi; nel 1912 aggredisce un uomo scambiandolo per
David Lloyd George e, non paga, mesi dopo piazza una bomba nel cantiere della casa
in costruzione dello stesso Cancelliere dello Scacchiere.
Una mina vagante per l’establishment britannico, una bandiera per le sue compagne
di lotta, definite delle «pazze pericolose» dal Ministro dell’Interno Reginald McKenna
dopo l’assalto all’Ufficio del Governo che aveva provocato la distruzione della vetrata
d’ingresso dell’edificio. La famiglia reale non le sostiene, e loro s’incatenano ai
cancelli di Buckingham Palace; la polizia le arresta, e loro rispondono con lo sciopero
della fame in carcere, costringendo il Parlamento prima a imporre l’alimentazione
forzata, poi a intervenire con uno degli atti più subdoli della sua storia, il Cat and
Mouse Act: le si lascia consumarsi di fame scarcerandole quando le loro condizioni
di salute si aggravano, così da lavarsene le mani in caso di decesso o da arrestarle
nuovamente in caso di guarigione. Guai a offrire con una morte dietro le sbarre una
martire al movimento.
Ma quel giorno, a Epsom, Emily fa saltare i piani del governo. È libera da poche
settimane e di quella corsa proprio non le importa nulla. Non ha puntato un solo
centesimo su nessun cavallo, ma riconosce Anmer dai colori della divisa del suo
fantino Jones, il rosso e il blu della Casa Reale. Anche lei ha i suoi colori, quelli del
movimento suffragista che tingono il foulard avvolto intorno alla vita: il porpora della
dignità; il bianco della purezza e della libertà, il verde della speranza. Valori universali
per cui Emily e le sue compagne si battono a dispetto della campagna denigratoria dei
giornali, che le dipinge come irriducibili virago. La loro lotta è liquidata come una
mattana, un capriccio, uno dei tanti del sesso debole. E invece l’unico che le suffragette
si concedono è la moda.
Anche Emily, nonostante l’aria austera, non rinuncia a lusingare la propria femminilità
con cappelli e piume di struzzo, e gioielli ispirati alle forme dell’Art Nouveau. Le
VI
Sport for women!
suffragette a Londra hanno perfino un magazzino di fiducia, Selfridgès, che, pur diretto
da un uomo, appoggia il movimento al punto da issarne la bandiera sul tetto, intuendo
che le sue clienti, in futuro, sarebbero state soprattutto le donne libere e indipendenti.
Emily si convince che libertà e indipendenza si possano conquistare anche in quel
1913, ma a patto di compiere un’azione che buchi l’immagine, che arrivi dritto al cuore
dell’opinione pubblica. Non più scioperi della fame, non più attacchi ai politici, ma
un atto dimostrativo di straordinario impatto mediatico. Alla sua amica attivista Mary
Leigh che il giorno prima le chiede: «Vai a vedere il Derby d’Epsom?! Come mai?», lei
risponde: «Lo capirai domani sera leggendo i giornali».
Un tragico fuori-programma?
Alle tre e dieci del pomeriggio i migliori cavalli del Regno Unito sono schierati
ai nastri di partenza. Un colpo di fucile dà il via alla corsa, e i destrieri si lanciano al
galoppo. All’ingresso di Tattenham Corner sono ancora tutti lì, a pochi centimetri di
distanza l’uno dall’altro, quando improvvisamente si ode un nitrito e il rumore di un
urto violento. Un attimo dopo, riversa a terra c’è Emily priva di sensi accanto a Jones
lievemente ferito alla testa, mentre Anmer, illeso, continua la sua corsa senza il fantino.
Che cosa è successo in quella manciata di secondi?
Un filmato d’epoca mostra una donna scavalcare la staccionata e gettarsi incontro
al purosangue di Re Giorgio, che la travolge ad altissima velocità colpendola al busto.
Qualcuno dei testimoni raccontò di averla sentita gridare «Votes for women!», poco
prima dell’impatto. Emily venne ricoverata presso l’Epsom Cottage Hospital, dove
rimase quattro giorni in coma prima di spirare all’alba dell’8 giugno. Una gara di
equitazione si trasformava in una tragedia.
Il giorno dopo la suffragetta, come aveva previsto, finì davvero sui giornali, che
sulle prime raccontarono l’incidente come un increscioso fuori-programma della
competizione sportiva, già di per sé rocambolesca. Il derby fu infatti vinto dal giovane
outsider Aboyeuer – che avrebbe terminato i suoi giorni in Russia durante la Rivoluzione
– davanti a Louvois e Great Sport, dopo la squalifica di Craganour, colpevole di aver
VII
Sport for women!
ostacolato la corsa degli altri cavalli. Di Emily si tornò a parlare anche nei giorni
successivi, quando il medico legale formalizzò il decesso come una “misadventure”,
una disavventura. Ma la vicenda assunse presto i contorni del mistero: si era trattato di
un suicidio o di un’azione dimostrativa dall’esito infelice?
È certo che Emily avesse provato a togliersi la vita in carcere un anno prima: per
sottrarsi a un tentativo di alimentazione forzata, si era lanciata dal balcone della sua
cella di Holloway Prison, salvandosi solo grazie a una rete collocata tre piani sotto.
Aveva detto: «Niente eccetto il sacrificio di una vita umana potrebbe portare la nazione
a comprendere le orribili torture alle quali noi donne siamo sottoposte». Ma allora
perché le fu trovato in tasca un biglietto ferroviario di ritorno per Victoria Station?
Perché aveva dato la propria adesione a un ballo di suffragette che si sarebbe dovuto
tenere quella sera? E ancora perché aveva scritto una cartolina alla sorella Laetitia, che
viveva in Francia, annunciandole una sua visita pochi giorni dopo quel 4 giugno?
Secondo la sua compagna di lotta Sylvia Pankhurst, Emily avrebbe voluto solo
avvolgere Anmer con il suo foulard e far sventolare i colori suffragisti al collo del
cavallo reale durante uno degli eventi sportivi più seguiti del Regno, per sensibilizzare
i suoi connazionali su una causa nella quale – rimarcò la madre – si era gettata anima e
corpo senza averne alcun ritorno personale.
Premeditato, istintivo o accidentale che fosse, quel gesto realizzò le intenzioni di
Emily, la martire che il governo aveva cercato di evitare. Il 14 giugno 1913 cinquantamila
persone videro il suo feretro percorrere il tragitto da Epsom a Victoria Station su un
carro funebre guidato da quattro cavalli neri e accompagnato da sei attiviste in marcia.
Seimila suffragette, tra cui tante ex detenute, sfilarono per le vie di Londra – le più
giovani in abito bianco, le più anziane in abito nero – in silenzio, rispettosamente, prima
di incidere lo slogan «Dreeds, no words» («Azioni, non fatti»), sulla pietra monumentale
della cappella in cui Emily verrà sepolta, nel cimitero di Morpeth.
L’omaggio di Herbert Jones
Herbert Jones, il fantino rimasto ferito, non partecipò alla cerimonia. Mentre
VIII
Sport for women!
trascorreva la sua convalescenza in casa al riparo dal clamore della stampa, fu raggiunto
da un telegramma della regina-madre Alessandra, la quale, augurandogli una pronta
guarigione, espresse il suo rammarico per l’accaduto, a suo dire conseguenza della
«abominevole condotta di quella brutale e lunatica donna».
Ma Jones non si liberò mai di Emily. Perseguitato in sogno per anni dal suo fantasma,
nel 1928 partecipò alle esequie di Emmeline Pankhurst deponendo una targa anche in
memoria della suffragetta che aveva perso la vita in quel Derby maledetto.
Ci sarebbe voluta una guerra mondiale perché il Regno Unito si rendesse conto di non
poter più negare il voto all’altra metà dell’universo. Pure, il suffragio universale in Gran
Bretagna fu proclamato solo nel 1928, l’anno in cui ad Amsterdam i Giochi Olimpici
furono aperti per la prima volta ad atleti di sesso femminile: curiosamente, i diritti delle
donne e lo sport tornavano a incontrarsi lungo una strada che tra mille traversie avrebbero
continuato a percorrere insieme, oltre l’incrocio segnato da Emily. Che non sarà stata una
campionessa, ma certo aveva saputo correre più veloce del suo tempo.
© Graziana Urso
direttrice di Storie di Sport
IX
Melania Sebastiani
Hélène Dutrieu
La “Divina”
L
a sportiva nell’Ottocento: una figura affascinante, curiosa, originale. Può essere
graziosa e casta o guerriera libertina, ma in un mondo in cui lo sport è un
affaire d’hommes, rimane una squisita stranezza, come una pianta esotica in vetrina
all’Esposizione Universale.
Le donne non si mescolano agli uomini negli sport e si limitano a essere spettatrici,
confinate nelle pratiche d’ordine estetico e morale. Gonne lunghe, corsetti, doveri verso
la famiglia mal si combinano con allenamenti e sudore all’aria aperta. «La bicicletta
rende le donne sterili», recitano le pubblicità dell’epoca.
Il 10 luglio 1877, pronta a scardinare per terra, per aria e per mare la concezione della
“sportiva” ottocentesca, a Tournai, in Belgio, nasce Hélène Marguerite Dutrieu, figlia
di un ufficiale dell’esercito. A quattordici anni comincia già a guadagnarsi da sola il
pane per vivere, lanciandosi nell’avventuroso dinamismo delle due ruote, incoraggiata
dal fratello Eugène. Pantaloni infilati nelle calze, pull e bicicletta minimale, comincia a
partecipare alle corse che vengono organizzate in tutta Europa. Le gare femminili sono
soltanto corse su pista.
Il “quarto di Vichy”
Quando Hélène si affaccia all’agonismo, nel 1895, molti velodromi offrono alle
donne la possibilità di esprimersi. Hélène s’iscrive a tutte le gare ciclistiche della sua
città natale, vince e, soprannominata “quarto di Vichy” a causa della sua piccola taglia,
a sedici anni è già professionista con la squadra Simpson Lever. Pare aver raggiunto i 40
km l’ora in allenamento: all’epoca, è un ufficioso record del mondo.
È appena maggiorenne e diviene la prima stella del ciclismo. Nel 1897 e 1898 Hélène
si conferma a Ostenda campionessa mondiale femminile di velocità su pista. Nel 1898
s’impone anche a livello europeo nel Grand Prix di agosto e nella corsa londinese Dei
dodici giorni del mese di novembre. Il re del Belgio, Leopoldo II, le consegna la Croce
di Sant’Andrea, alta onorificenza belga destinata a uomini che abbiano dato prova
1
Sport for women!
tangibile delle qualità sportive.
La doppia campionessa del mondo è ormai una professionista celebrata dal pubblico
e dalla stampa. Soddisfatta, sposta l’entusiasmo per la velocità dalla bicicletta alla moto,
con uno sguardo al mondo del teatro.
L’abilità atletica diviene spettacolarizzazione: nel 1903 la ritroviamo in un cabaret
di Marsiglia con un numero aereo acrobatico. In una specie di gabbia che occupa
metà palco, Hélène esegue rotazioni complete ad anello, in verticale, in sella a una
motocicletta. Quasi un completamento dell’idea di sportiva del tempo: la Dutrieu è
paragonabile a un moderno animale da circo, pregiato, di gran valore e per questo molto
pagata. Si parla di lei anche a Londra.
Dopo poco, decide di cambiare il suo numero sopprimendo la gabbia ed effettuando
una capriola in alto su se stessa per ricadere sulle ruote. Per mettere a punto le evoluzioni
da stunt girl affitta un terreno a Boulogne-sur-Seine, alle porte di Parigi, e commissiona
il progetto all’architetto Frossard, facendosi aiutare da un ingegnere per creare una
pista adatta alle sue acrobazie. La stampa la soprannomina “la freccia umana”: riesce
a saltare nel vuoto lanciandosi con la moto a tutta velocità su un piano inclinato. Altro
che scimmia.
Il fascino dei motori
L’adrenalina della giovane belga, ormai adottata dalla Francia, ha bisogno di continui
stimoli. Le due ruote non sembrano riuscire a soddisfarla, con o senza motore. Dal 1904
al 1907 si concentra sulle corse automobilistiche.
Nel campo pittorico e in letteratura, gli artisti cominciano a esaltare le invenzioni a
motore dell’era moderna, lodano la velocità tonitruante, sono affascinati dai sempre più
rapidi mezzi di trasporto: prima il treno, poi l’automobile, poi l’aereo. Hélène incarna
questa fascinazione: le manca solo di gareggiare per aria.
Nell’estate del 1908, assiste a un volo di Wright e decide di diventare aviatrice.
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Alice Figini - Suzanne Lenglen
La società Clément-Bayart con cui collabora nella sua carriera di pilota di auto, ha
giusto giusto appena costruito un piccolo apparecchio volante, chiamato Demoiselle,
su disegno di Santos Dumont, brasiliano pioniere dell’aviazione trasferitosi a Parigi
per compiere studi di scienza e meccanica. Suo, due anni prima, il primo volo di un
apparecchio più pesante dell’aria in grado di decollare autonomamente, riconosciuto
ufficialmente in Europa dall’Aeroclub di Francia.
Il collaudo di Demoiselle deve ancora avvenire, c’è qualche difficoltà e c’è soprattutto
la necessità di un pilota leggero. Se poi questo pilota fosse anche donna, è garanzia di
pubblicità. Hélène non possiede un brevetto, non ha mai volato ma è spregiudicata e
possiede una virtù rara: non pesa nemmeno cinquanta chili. In un giorno di dicembre, un meccanico si avvicina a Hélène con qualche
raccomandazione tecnica. È una pazzia, ma tutto è pronto. La Demoiselle si mette
in moto, decolla, sale al cielo come una freccia e torna poco dopo precipitosamente
a terra. Troppo precipitosamente. La Demoiselle è distrutta, Hélène è solo molto
spaventata.
La cura migliore per guarire dalla paura di volare è continuare a volare, così la
giovane belga impara a decollare, virare e atterrare senza distruggere i velivoli grazie
all’allenamento con Roger Sommer e Henry Farman, due campioni della bicicletta
come lei, come lei affascinati dall’aria.
Nel 1909, l’Aero Club francese cambia le leggi: non è più possibile pilotare un
velivolo senza brevetto di volo, così com’è necessaria una patente di guida per condurre
autovetture che vanno più veloci dei 30 km/h in aperta campagna.
Crescono le scuole di aviazione: i fratelli Wright aprono a Pau, i campioni di ciclismo
Louis Blériot e Henry Farman aprono nella regione parigina. Hélène dovrebbe essere la
prima donna al mondo ad avere il brevetto da pilota, ma è di nazionalità belga: l’Aero
Club francese si rifiuta di concedere il brevetto a una straniera, per quanto celebre e
titolata. Il 10 marzo 1910 sarà Elise Deroche la prima donna a ottenere il brevetto di
volo e si farà chiamare Raymonde, baronessa di Laroche.
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Sport for women!
La donna dei record
Hélène rimane la donna dei record: il 9 aprile batte il record del mondo femminile
di distanza con un volo di quarantacinque chilometri tra Belfied e Bruges, compiuto
in quaranta minuti. Effettua anche voli “audaci” su Parigi: gli aneddoti, tra realtà e
leggenda, raccontano di ricognizioni aeree sui tetti in reggiseno.
Per qualche anno partecipa agli incontri dell’aviazione in tutta Europa. Nel corso
del meeting di Odessa del 1910, però, si schianta con un passaggio basso con un
biplano di proprietà di Roger Sommer. In quest’occasione lui scopre che la sua
pilota collaudatrice (aveva appena costruito il biplano a cui diede il nome) non
possiede alcun brevetto di volo. Il contratto con Sommer è sciolto, ma vengono fatte
pressioni all’Aéro-Club francese affinché Hélène possa ufficialmente iscriversi
all’esame di volo.
La portata mediatica della ragazza è infatti unica: è spesso la sola donna in mezzo
a un nugolo di uomini, ed è in grado di eseguire acrobazie incomparabili. Tra le sue
indimenticabili prestazioni c’è il primo volo non stop sulla campagna di Ostenda
nel 1910, il primo volo al mondo di una donna sulla campagna; il record di altezza
a quattrocento metri; il record di durata di all’incirca quaranta minuti; suo anche il
record di distanza di quarantacinque chilometri; suo il primo volo con un passeggero, a
febbraio del 1911, prima a Barcellona poi a Madrid, con un aereo Farman-Gnôme; e suo
il primato di essere la prima pilota di aerei in Belgio.
Quando non basta più l’aria, aggiunge l’elemento acquatico: nel luglio 1912 è la
prima donna a volare con un idrovolante. Atterra sul lago d’Enghien, nella Val d’Oise,
con un Farman a motore Gnôme di cinquanta cavalli. Il 5 dicembre 1910 vince la Coppa
Fémina, percorrendo sessanta chilometri e ottocento metri in un’ora e nove minuti.
L’anno 1911 è tutto dedicato alle esibizioni e al sodalizio con il costruttore Maurice
Farman con il fine di promuovere gli aeroplani Farman e l’aviazione in generale.
Grazie alla propria celebrità, Hélène può dettare le sue condizioni: ha un budget
personale, una logistica che fa impallidire gli altri piloti, un’automobile e due meccanici
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Alice Figini - Suzanne Lenglen
a sua disposizione, una riserva di biplani e motori.
Il 5 dicembre è a Firenze a disputare la Coppa del Re, dove vince la prova di
resistenza sbaragliando gli altri tredici concorrenti. Vince un’altra Coppa Fémina
con un volo di duecentocinquantaquattro chilometri e ottocento metri in due ore e
cinquantotto minuti.
È instancabile, non la ferma la fragilità delle macchine né la novità degli elementi,
ma gareggia sempre con entusiasmo in un milieu prettamente maschile, dove la
mortalità è molto elevata.
Un prestigioso riconoscimento
Il 9 gennaio del 1913, il Governo francese le accorda la Legione d’Onore: un
conferimento eccezionale, tenendo conto che solitamente era riservato agli uomini
e raramente agli stranieri. Il Belgio provvede a renderla ufficiale dell’Ordine di
Leopoldo.
La brillante carriera di Hélène è fermata dalla Grande Guerra. Con lo scoppio del
conflitto mette la sua abilità automobilistica al servizio della Croce Rossa francese,
ma presto passa dal guidare l’autoambulanza ad altre funzioni. Alla fine del 1914 è
il generale Gallieni in persona che la chiama per farla partecipare alle conferenze di
propaganda negli Stati Uniti.
Nel 1917 torna in Francia, dove dirige l’ospedale di Val-de-Grâce fino al termine
del conflitto. A guerra finita, si lancia nel giornalismo. Nel 1922, a quarantacinque
anni, sposa lo scrittore e direttore di giornale Pierre Mortier, di cinque anni più
giovane.
Ottiene di fatto la nazionalità francese e lavora per le riviste del marito fino alla morte
di lui nel 1946, quando si ritira solo per dedicarsi, ancora una volta, alla promozione
dell’aviazione in generale e all’aviazione femminile in particolare. Crea la Coppa
Dutrieu-Mortier, un premio di duecentomila franchi per l’aviatrice che riesce a coprire
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Sport for women!
con il suo aereo la distanza più grande senza fare scali.
Hélène Dutrieu, ormai per tutti “la Divina”, muore a Parigi il 25 giugno 1961, a
ottantaquattro anni. L’era dei corsetti è lontana, l’uomo deve ancora andare sulla luna,
la donna che ha sfidato i motori e gli elementi riposa comodamente nel letto.
© Melania Sebastiani
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Alice Figini
Suzanne Lenglen
La diva del tennis
L
a definirono La Divina: fu lei la prima donna a presentarsi a Wimbledon vestita
con abiti che non fossero divise, oppure degli orribili scafandri volti più a
nascondere che a vestire. Mentre le altre tenniste cercavano di uniformarsi alla logica
di uno sport dal dominio maschile, lei sfidò ogni convenzione indossando gonnelle che
scoprivano i polpacci e maglie che mostravano gli avambracci nudi. Se le sue avversarie
erano disposte a demolire la propria femminilità pur di emergere in un gioco di battute
e continui attacchi, lei la esaltava, soprattutto nel suo lato frivolo e vanitoso, annullando
le distinzioni che separavano le donne a casa da quelle con una racchetta in pugno al
centro del campo.
Se l’abbia fatto per malizia o per ribellione non ci è dato di sapere, quel che è certo
è che Suzanne Lenglen, apparsa in un campo da tennis agghindata come per una sfilata,
sarebbe diventata la stella del suo sport, e avrebbe continuato a dominare le scene,
anche mondane, negli anni a venire.
Disputò il suo primo torneo nel 1914 a quindici anni non ancora compiuti, e allora
la sua presenza era ancora abbastanza discreta da non suscitare troppo scalpore. Si
distinse, semmai, per la bravura: giunse alla finale dei Campionati francesi ed ebbe
il privilegio di sfidare la campionessa Marguerite Broquedis. Venne battuta, ma solo
dopo tre set molto combattuti; pochi mesi più tardi vinse a Saint-Cloud i Campionati
internazionali.
La pausa della guerra
A bloccare l’ascesa sportiva di Suzanne intervenne la guerra, pur lontana dalla vita
della ragazza, figlia di un commerciante di carrozze e abituata fin dalla più tenera età
a privilegi e agiatezze. Ma quando venne firmato il Trattato di Versailles Suzanne era
ancora giovanissima e per lei si aprirono le porte del torneo di Wimbledon, dopo una
pausa di quattro anni dalla sua ultima sfida.
Di nuovo non deluse le aspettative: giunse in finale, dove l’attendeva l’americana
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Sport for women!
Dorothea Douglass Chambers, già sette volte vincitrice. Non solo l’incontro segnò
il suo primo memorabile trionfo nel Grande Slam, ma permise inoltre alla sua
personalità di emergere in tutta la sua completezza. I giornali dedicarono intere
pagine alla descrizione della grazia dei suoi movimenti, intervallando gli elogi con
pesanti critiche al suo comportamento troppo audace.
Gli onori e gli oneri del successo
Le sue mise e i suoi atteggiamenti sconvolsero l’opinione pubblica dell’epoca, del
tutto impreparata ad accogliere un simile cambiamento nella rappresentazione della
personalità femminile. Suzanne beveva cognac ghiacciato nelle pause fra un set e l’altro,
fumava senza ritegno, e vestiva un abbigliamento poco adatto al contesto sportivo. La
gente cominciò ad appassionarsi a quella giocatrice dotata di eleganza e sfacciataggine
in ugual misura; era una donna incapace di passare inosservata, i suoi abiti erano un
capolavoro di buon gusto – spesso esibiva in campo le creazioni del sarto Jean Patou –
e, nonostante non fosse propriamente una bellezza, riusciva a esercitare un magnetismo
irresistibile.
I giornalisti furono impietosi nel descrivere i suoi vizi. Preda di inspiegabili attacchi
di isteria e depressione, Suzanne era caratterizzata da una fragilità nervosa alla quale si
univa una fragilità fisica: la Lenglen soffriva d’asma fin da quando era bambina, eppure
quegli stessi problemi di salute che tante volte l’avevano fatta sentire sul punto di non
farcela erano stati, al contempo, la sua benedizione: fu proprio l’asma a condurla verso
il tennis, considerato dal padre Charles un rimedio alla malattia.
Suzanne cominciò a giocare nel giardino della casa sul mare di Marest-surMatz, trovando nella racchetta un ottimo strumento con cui esibirsi. Lei, che aveva
frequentato la scuola di danza per parecchi anni, si trasformava in una ballerina volante
quando doveva afferrare la pallina: volteggiava, tagliava l’aria in sforbiciate, raggiungeva
una perfetta elevazione ed eseguiva movimenti di una delicatezza impressionante se
accostati a un sport che richiede un notevole dispendio di forza. Furono queste qualità a farne la regina di Wimbledon: sul prato inglese conquistò
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Alice Figini - Suzanne Lenglen
sei titoli in sette anni, escluso il 1924, quando l’asma, che continuava ad affliggerla, si
presentò con particolare prepotenza. Per oltre un decennio dominò i campi da tennis di
tutta Europa vincendo ottantun titoli nel singolare femminile e settantatré nel doppio,
nonché due medaglie d’oro (singolare e doppio misto) all’Olimpiade di Anversa, nel
1920. Il suo record di vittorie a Wimbledon – singolare, doppio e doppio misto nello
stesso anno – rimane tuttora imbattuto.
Ma anche l’invincibile Lenglen fu costretta a fermarsi. La prima delusione arrivò nel
1921 in America, la terra dei sogni e delle speranze, dove la Divina intendeva raccogliere
fondi per le regioni nord-orientali della Francia, le più devastate dalla Grande Guerra.
Chissà, forse si aspettava un passaggio a crociera nel ruolo di unica e autentica beniamina
della pace, oppure credeva che gli americani l’acclamassero senza impegnarla in una
sfida, sta di fatto che non era affatto preparata all’impegnativo susseguirsi di incontri a
cui il viaggio l’avrebbe obbligata: al suo arrivo, le venne annunciato che avrebbe dovuto
partecipare agli US Open, lo Slam americano.
Si batté con Molla Bjurstedt-Mallory, campionessa uscente dello stesso torneo, ma
perse il primo set e non fu più in grado di continuare, scossa da un violento attacco di
tosse che la lasciò estenuata ed in lacrime, oltretutto derisa dalla stampa americana che
non approvò l’abbandono della partita. In seguito, alla Lenglen venne diagnosticata la
pertosse, il che in parte giustificò il suo comportamento e le difficoltà incontrate durante
la rassegna.
Ma il riscatto era dietro l’angolo: nel 1922 a Wimbledon, nel suo “giardino”,
come molti cronisti lo definivano, la Lenglen ristabilì le gerarchie, sconfiggendo
la Bjurstedt-Mallory in soli ventisei minuti, senza concedere all’avversaria alcuna
possibilità di recupero.
L’epilogo
L’ultima grande rivale fu per Suzanne l’americana Helen Wills, che l’avrebbe emulata
nel successivo ventennio. La Divina, però, non aveva alcuna intenzione di passare il
testimone fintantoché si trovava su un campo da gioco. L’incontro con la Wills, che
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Sport for women!
avvenne nel febbraio del 1926 al Carlton Club di Cannes, fu uno dei più combattuti
e seguiti del secolo, la solenne consacrazione del tennis femminile. A spuntarla fu
Suzanne, ma a fatica; quando la folla si congratulò con lei gettandole orchidee, garofani
e rose scoppiò in lacrime, addirittura svenne, sfinita dalla tensione e dai ritmi di gioco.
La sua carriera si concluse poco tempo dopo; il grande pubblico attendeva con ansia
la sua apparizione a Wimbledon, ma Suzanne si ritirò, lasciando definitivamente la
scena. Sembra che lei avesse intenzione di partecipare un’ultima volta al torneo, ma,
a causa di un disguido di orari, fece attendere la Regina Mary e questo sgarbo fu mal
interpretato dagli aristocratici. Suzanne non resse all’ennesimo scandalo e decise di
abbandonare del tutto il mondo della racchetta per coltivare la sua passione in privato,
gestendo una scuola con il suo amante Jean Tillier.
Morì anni dopo, il 4 luglio del 1938, affetta di leucemia, già cieca e indebolita dalla
malattia. Il mondo del tennis, che le avrebbe in seguito dedicato una coppa e un campo
degli Open di Francia, salutò una delle sue più grandi campionesse di sempre, la sua
unica vera diva.
© Alice Figini
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Graziana Urso
Carla Marangoni
La favola delle “piccole pavesi”
C
’era una volta il “fiume azzurro”, quel Ticino la cui acqua si poteva ancora bere
nel punto in cui incontrava il Po. Lo solcava in barca tra maggio e settembre una
fanciulla del posto, per raccogliere i mughetti che fiorivano sulle sue rive. Ma l’estate
dei suoi dodici anni Carla Marangoni scese da una nave e scoprì i tulipani. Accadde
ad Amsterdam nel 1928, quando insieme alle sue undici compagne della Ginnastica
Pavese conquistò ai Giochi olandesi la prima medaglia olimpica femminile italiana.
Oggi quasi centenaria, Carla è l’unica superstite di un gruppo che divenne leggenda, la
sola a poter raccontare la favola dolceamara delle piccole pavesi.
La più giovane, Gina Giavotti, detta Popolo perché abitava nel quartiere delle case
popolari, aveva undici anni; la più anziana diciassette. Le aveva pescate dalle scuole di
Pavia il professor Gino Grevi, padre di quel Vittorio poi autore del Codice di procedura
penale e futuro Commissario della Nazionale femminile di ginnastica. Si allenavano tutti
i pomeriggi nella Palestra Civica di via Porta o intorno alla rotonda di Piazza Castello,
finché non furono chiamate alla prima, grande verifica: le qualificazioni olimpiche di
Pallanza. Era il 4 luglio quando «quelle della Pavia, che il diavolo se le porti via», come le
apostrofavano le loro avversarie sottolineandone la fastidiosa imbattibilità, strapparono
il pass per Amsterdam dando il “la” all’avventura in terra d’Olanda. Poi il loro primo
viaggio in treno e l’alloggio sulla Salunto, la nave attraccata al canale di Coehave dove
le piccole pavesi dormivano in quattro in una cabina, in un settore a parte da schermidori
e pugili, attente a tener a debita distanza quei giovanotti guardati in cagnesco dal
professore e da “mamma” Maria, la portinaia della Civica che per tutto il soggiorno ad
Amsterdam non le avrebbe lasciate mai sole.
Un primato ideale
Il giorno della gara Carla e le sue compagne si presentarono di fronte ai giudici
con una casacca azzurra e una fascia bianca tra i capelli a caschetto, per il concorso
di ginnastica artistica a squadre. Era la prima volta che le donne venivano ammesse
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Sport for women!
ai Giochi olimpici, nonostante le ritrosie del barone Pierre de Coubertin, che riteneva
l’ingresso delle atletesse (così le definì spregiativamente un giornalista) nello stadio un
autentico scandalo. Solo dopo Amsterdam lo sport si sarebbe reso conto di non poter più
fare a meno dell’altra metà dell’universo, deponendo le armi di una caccia alle streghe
che presto si sarebbe chiusa anche alle urne.
Le piccole pavesi non erano ancora donne fatte, ma quando si disposero al centro
dell’arena fu chiaro dal loro portamento che avrebbero dato un saggio di grazia
femminile. Poco più in là, un pianoforte muto: le ragazze volteggiarono senza musica
in un esercizio collettivo che valse loro il terzo posto provvisorio dietro alle olandesi e
alle britanniche. Poi in pedana scesero le rivali orange e il pianoforte tornò a suonare,
accompagnando la loro performance. Qualcuno disse che più del talento poterono le
note. Certo è che quando le piccole pavesi scorsero i volti compiacenti dei giudici
davanti alle padrone di casa, si rassegnarono a rinunciare al podio più alto, ma non al
primato morale.
L’occasione fu data dall’esercizio agli attrezzi, che il professor Grevi aveva preparato
avvalendosi di una rivoluzionaria combinazione di spalliera, piani inclinati e tavoli
ginnici. Fu di fronte all’armonia di quei corpi in movimento, quasi indistinti nella
visione d’insieme che ne risultava, che il pubblico tramutò idealmente il futuro argento
delle piccole pavesi in oro.
Poco importa che durante l’esibizione di Carla e compagne le olandesi già
brindassero con boccali di birra alla vittoria finale: all’eleganza delle ragazze italiane
s’inchinò perfino la Regina Guglielmina d’Olanda, che volle riceverle nella sua reggia,
scoppiando a ridere quando Carla a precisa domanda confessò candidamente di essere
anche un’ottima giocatrice di football.
Gloria e tragedie
Per le piccole pavesi fu un’estate di principi e principesse. Sulla Sagunto salirono
anche Umberto e Mafalda di Savoia, e a Carla fu affidato il compito di omaggiare i
due reali con un mazzo di fiori. Li porse con la mano tremante, raccogliendo in gola
l’emozione più grande di un’Olimpiade vissuta con la leggerezza di una bambina.
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Graziana Urso - Carla Marangoni
L’ultimo ardore d’inconsapevolezza. Sul gruppo allenato dal professor Grevi si allunga
infatti l’ombra di una malattia all’epoca mortale: la tisi. A soffrirne è Bianca Ambrosetti,
convocata come riserva, ma già malata ad Amsterdam. Morirà un anno dopo, a soli
quindici anni, lasciando nelle compagne il ricordo struggente della giovinezza sfiorita
pria che l’erbe inaridisse il verno.
Non sarà l’unica tragedia intrecciata alla storia delle piccole pavesi: sulle loro
avversarie olandesi, di cui cinque di sangue ebreo, si abbatteranno anni dopo le svastiche
naziste. Morirono in una camera a gas con i loro figli Helena Nordheim, Anna Polak
e Judikje Simons a Sobibor; Estella Agsterribe ad Auschwitz. Elka de Levi fu l’unica
sopravvissuta.
In Italia l’exploit delle ragazze pavesi non passò inosservato, tanto più in un momento
storico in cui il regime consolidava la propria simbologia anche tra le nuove generazioni.
Il Balilla, giornale della gioventù del Littorio, e La Piccola Italiana, settimanale per le
giovinette fasciste, celebrarono le piccole italiane come regine di patriottismo nell’istante
supremo del cimento. Il Duce si congratulò personalmente con loro premiandole con
un libretto di risparmio di cento lire ciascuna e invitandole a esibirsi presso il Teatro
Lirico di Milano.
Ma la vera festa fu l’abbraccio di Pavia al loro rientro il 14 agosto: una stazione
addobbata come le strade del centro nel giorno di San Siro, gremita di soci e appassionati
chiamati a raccolta dalla Pavese per accogliere le sue olimpioniche, cui rimase il solo
rimpianto di non esser potute tornare a casa circumnavigando l’Europa, come aveva
promesso loro il comandante della Salunto alla vigilia della gara in caso di medaglia
d’oro.
Dopo Amsterdam, le piccole pavesi divennero un’istituzione cittadina. Gina Giavotti,
con i suoi undici anni e trecentodue giorni, resta la più giovane medagliata della storia
olimpica. Le altre ragazze si chiamavano Lavinia Gianani, Virginia Giorgi, Germana
Malabarba, Luigina Perversi, Diana Pissavini, Luisa Tanzini, Carolina Tronconi, Iole
Vercesi e Rita Vittadini.
La maggior parte di loro insieme alla medaglia olandese appese al chiodo anche
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Sport for women!
le scarpette da ginnastica. Carla Marangoni, invece, proseguì la sua carriera fino ai
vent’anni, intervallando i volteggi alla Civica con le passeggiate in barca su quel “fiume
azzurro” che lei e le sue compagne avevano colorato di rosa.
© Graziana Urso
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Danilo Francescano
Ondina Valla
“Il sole in un sorriso”
Q
uando il 20 maggio 1916, dopo quattro figli maschi, la famiglia Valla fu
finalmente allietata dalla nascita di una bella bambina, l’orgoglioso genitore
non ebbe esitazioni. Scelse per la nuova arrivata un nome che gli era caro, quello di una
città esotica e misteriosa, evocatrice di deserto e carovane: Trebisonda (oggi Trabzon).
Fantasie di padre. Ondina, come la chiamavano in famiglia, crebbe infatti priva di
suggestioni orientali per divenire una solida ragazza emiliana, ben piantata (173 cm
di altezza per 66 Kg di peso), esuberante e soprattutto dotata di un precoce talento
atletico.
Appena undicenne, il 23 giugno 1927, vinse con un metro e dieci il salto in alto in
una gara tra le alunne di Bologna, piazzandosi poi al terzo posto nei cinquanta metri
piani e nel lungo, con un buon 3,52 m. Il maggiore Vittorio Costa, organizzatore dei
Littoriali, era presente all’evento e non si fece sfuggire quella ragazzina che sembrava
nata per l’atletica. Fu l’inizio di una carriera folgorante.
Poco dopo, nel 1929, ci fu il primo atto di un infinito duello con un’altra bolognese,
di soli cinque mesi più anziana, Claudia Testoni. Si sarebbero incontrate in altre
novantasette occasioni e la Valla avrebbe prevalso per oltre due terzi delle volte. Le due,
contrariamente a ciò che fu poi detto, furono molto amiche, tanto che, alla morte della
Testoni nel 1993, l’avversaria di sempre, profondamente commossa, l’avrebbe ricordata
legandola alle cose più belle della sua vita.
A soli quattordici anni, campionessa italiana assoluta, Trebisonda fu convocata in
Nazionale dal CT Martina Zanetti che la fece gareggiare in cinque gare (100 m, staffetta
veloce, 80 m a ostacoli, lungo e alto) e, in occasione di un Italia-Belgio del 1930, accolse
in via ufficiale il diminutivo Ondina.
L’Olimpiade di Berlino
Tra diatribe con la madre, che (a differenza del padre) non vedeva di buon occhio
l’attività sportiva della figlia, e duelli a colpi di record con la Testoni, arrivò il 1936,
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Sport for women!
l’anno dell’Olimpiade di Berlino e di Adolf Hitler. Benito Mussolini, dal canto suo,
voleva che la partecipazione azzurra fosse all’altezza delle ambizioni del fascismo. Per
l’atletica le speranze erano riposte nei mezzofondisti Luigi Beccali e Mario Lanzi, nelle
staffette veloci e nelle due bolognesi. Eppure la Valla, soprannominata dalla stampa Il
sole in un sorriso, e la Testoni risultavano sino a quel momento assenti nei pronostici
internazionali, pur vantando entrambe nella gara prescelta – gli 80 m a ostacoli – un
ottimo 12” 00 che le poneva al quinto posto del ranking mondiale.
Sabato primo agosto 1936 la fiaccola, per la prima volta accesa a Olimpia, entrò nel
gigantesco Olympiastadion. Dopo aver agevolmente liquidato il turno eliminatorio, il 5
agosto le due ragazze superarono con facilità le semifinali. Ondina si permise addirittura
di eguagliare in 11” 60 il primato del mondo, pur se con un vento favorevole di 2,8 m/s.
Il tempo le venne omologato come record ventoso: all’epoca, infatti, non era ancora in
vigore la regola che stabilisce in 2 m/s il limite massimo accettabile.
Giovedì 6 agosto era il giorno della finale. Ondina, che aveva sognato per tutta la
notte il tricolore sventolante su un pennone, non era in forma smagliante, tormentata
da un fastidioso mal di gambe, così come Claudia che era nei giorni del ciclo. Faceva
freddo, per essere un giorno d’estate, e le due atlete cercarono di aiutarsi con delle
zollette di zucchero bagnate nel cognac.
Claudia partì fortissimo, portandosi subito in testa. Ondina, in difficoltà, si trovò a
dover rimontare. La bolognese raccontò poi di non aver guardato le altre, ma di aver
solo pensato a correre: tattica indovinata, perché ai cinquanta metri aveva già raggiunto
le avversarie. Fu allora che Ondina chiamò a raccolta volontà ed energie, aggredendo gli
ultimi ostacoli come mai aveva fatto prima e gettandosi a occhi chiusi sul filo di lana. Fu un finale incredibile, con quattro atlete con lo stesso tempo, 11” 7. La percezione
della vittoria della Valla fu subito chiara, ma per i piazzamenti si dovette attendere
a lungo. Inizialmente fu data seconda l’altra azzurra, prima che la zielzeitkamera,
il fotofinish (allora valido solo per per l’ordine d’arrivo e non ancora per il tempo
ufficiale) desse un altro responso.
Ondina fu cronometrata in 11” 748, ma l’argento andò alla tedesca Anny Steuer con
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Danilo Francescano - Ondina Valla
11” 809. La Testoni perse anche il bronzo, pur avendo ottenuto lo stesso 11” 818 della
canadese Betty Taylor (inizialmente classificata quarta) e, dopo uno sportivo abbraccio
con la Valla, rientrò negli spogliatoi convinta di essere stata defraudata di una medaglia.
Claudia si sarebbe rifatta negli anni seguenti con il titolo europeo del 1938 e quattro
primati mondiali.
Dal canto suo, Ondina divenne una star assoluta, quando le sue prime dichiarazioni
(piuttosto scontate, in verità) furono rilanciate dalla radio in tutta Italia. La premiazione
fu atipica, perché due sole atlete salirono sul podio. La Taylor infatti, convinta di essere
fuori dalle medaglie, aveva già abbandonato, triste e arrabbiata, l’Olympiastadion.
Mentre le note della Marcia Reale risuonavano e il tricolore saliva sul pennone più alto,
realizzando il sogno di Ondina, la ragazza si adeguò al clima dell’epoca e levò il braccio
destro nel saluto romano. Del resto, sarebbe stato difficile comportarsi diversamente.
Il 5 settembre la Valla e i medagliati azzurri furono ricevuti a Palazzo Venezia. Con
molta delusione da parte degli altri, Mussolini volle accanto a sé nella foto di rito la
bella ragazza bolognese. Ondina ricevette anche una medaglia speciale e un assegno di
cinquemila lire, dopodiché tornò soddisfatta ai suoi allenamenti.
Un giusto riconoscimento
Nel prosieguo della carriera non raggiunse più gli stessi livelli stellari. Tormentata da
un continuo mal di schiena (in realtà una spondilosi vertebrale), la Valla gareggiò per
altre quattro stagioni, fornendo comunque ottime prestazioni come il primato italiano
nel salto in alto, stabilito nel 1937 con 1,56 m e imbattuto sino al 1955. All’inizio
degli anni Quaranta lasciò lo sport attivo, dopo sedici presenze in Nazionale, quindici
titoli e ventuno record italiani, di cui l’ultimo nel 1940 con il pentathlon. Divenuta per
breve tempo allenatrice, sposò nel 1944 il chirurgo Guglielmo De Lucchi e si trasferì
definitivamente all’Aquila. Nel 1978 la sua casa fu svaligiata e Ondina perse tutti i suoi trofei. Primo Nebiolo,
allora Presidente della Federatletica, prese a cuore la vicenda e nel 1984 omaggiò la
bolognese con una replica della medaglia di Berlino. La Valla ne fu commossa, anche
se la valenza sentimentale era ben diversa. «Di quella vittoria mi rimane solo la quercia
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Sport for women!
che a Berlino veniva data ai vincitori. L’ho piantata a Bologna ed è cresciuta in
un’aiuola vicino alla piscina coperta dello stadio…» ebbe a dichiarare in seguito con
malinconia.
Ondina morì all’Aquila il 16 maggio 2006. Solo quattro giorni dopo Il sole in un
sorriso avrebbe compiuto novanta anni: questa volta il fotofinish le dette torto.
© Danilo Francescano
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Danilo Francescano
Amelia Earhart
“Lady Lindy”
K
«
HAQQ chiama Itasca. Dobbiamo essere sopra di voi, ma non riusciamo a
vedervi… Il carburante sta finendo, però. Non siamo riusciti a raggiungervi via
radio. Stiamo volando a mille piedi».
La voce femminile suona forte e chiara e il marconista capo dell’Itasca, Leo Bellarts,
non sospetta minimamente che quello che sta ricevendo sia quasi l’addio dell’aviatrice
più famosa del mondo. Sono le 7,42 ora del Pacifico del 2 Luglio 1937, venerdì.
Pochi minuti dopo, alle 7,58, la stessa voce comunica: «Non riusciamo a sentirvi.
Fate delle segnalazioni vocali, in modo che possiamo dirigere su di voi». Il dramma è
cominciato.
Tra le 8.00 e le 8.03 un nuovo messaggio avvisa che «We received your signals but
unable to get a minimum. Please take bearing on us and answer 3105 with voice». La
tensione, sul cutter della Guardia Costiera statunitense incaricato di guidare il Lockheed
L-10 Electra verso il previsto scalo dell’Isola di Howland, sale rapidamente. Dove
si trova di preciso l’aereo e perché, pur ricevendoli, il suo equipaggio non riesce a
individuare la direzione dei segnali Morse prontamente inviati dopo l’appello?
Alle 8.43, l’Electra trasmette ancora sulla frequenza 3105 kHz «Siamo sulla linea
157-337. Ripeteremo questo messaggio. Ripeteremo questo messaggio a 6210 kHz.
Attendete». Ora la voce, che pure la radio riceve a 5 (cioè vicinissima), non è più calma,
o almeno così sembra a Bellarts. È divenuta frenetica, anzi. Altri centoventi secondi
e su quella stessa frequenza 3105 kHz arriva una frase, breve e disturbata, ma ancora
intellegibile: «We are running north and south» ossia “Stiamo volando in rotta nord
e sud». Sono le ultime parole di una grande aviatrice e di una grande donna. Sono le
ultime parole di Amelia Mary Earhart.
La vocazione da infermiera
Nasce alle ore 23.30 di sabato 24 luglio 1897, Amelia. Proprio nel cuore degli Stati
Uniti, in quel Kansas dove solo quarant’anni prima ha imperversato una guerra spietata
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Sport for women!
e senza quartiere contro tribù dai nomi evocativi: Sioux, Cherokee, Pawnee…
I genitori, Edwin Earhart e Amy Otis, in quel periodo abitano a Kansas City, dove
Edwin fa pratica legale in uno studio di avvocato. Amy (tedesca di origine per parte
materna) ha già provato il dolore di perdere un figlio durante una gestazione difficile.
Preferisce perciò lasciare il caos della città e portare a termine la seconda gravidanza
ad Atchison, un piccolo centro di quindicimila abitanti affacciato sul grande fiume
Missouri, nella tranquilla e agiata casa dei genitori. Suo padre Alfred Otis è una persona
di notevoli mezzi: politico, giudice di Stato del Kansas, giudice della Corte Distrettuale
e persino Custode Capo della Trinity Episcopal Church. Nonno Alfred ha tutti i numeri
per garantire a Millie e alla sorellina Muriel, nata due anni e mezzo dopo, un’infanzia
felice e spensierata. E così è.
Solo nel 1909 iniziano i problemi. Edwin Earhart è a poco a poco scivolato in uno
stato di dipendenza dall’alcol, che lo porta, nel 1914, a perdere l’impiego piuttosto
modesto cui ha dovuto adattarsi con il fallimento delle ambizioni giovanili. Gli Earhart
devono così cercare una via d’uscita emigrando a Chicago.
Nel 1917 la giovane Amelia si scopre la vocazione da infermiera, in un momento in
cui gli ospedali americani si stanno riempiendo con i feriti e mutilati dei campi della
Prima Guerra Mondiale. Avviene a Toronto, dove la futura trasvolatrice, durante una
vacanza dal College cui la madre l’ha iscritta, si è recata in visita alla sorella Muriel. La
leggenda vuole che Amelia si impietosisca alla vista delle condizioni di alcuni veterani,
e decida seduta stante di abbandonare gli studi e diventare infermiera di guerra.
La carriera di Earhart come assistente medica dura sino al termine del conflitto. Un
anno vissuto intensamente, a contatto con il dolore e con un’umanità marginalizzata e
priva di prospettive. Un’esperienza formativa, che sicuramente esercita sul carattere della
giovane un peso rilevante e probabilmente la convince di una verità che l’accompagnerà
per sempre, guidandola attraverso le mille esperienze che l’attendono: «Il modo più
efficace di fare qualcosa è... farlo».
Nel 1920 torna a vivere con i genitori, nel frattempo trasferiti in California. È la svolta
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Danilo Francescano - Amelia Earhart
della sua vita, perché proprio a Los Angeles avviene l’incontro con il volo. Accade al
Daugherty Airfield di Long Beach, a un raduno aereo cui l’ha condotta suo padre. Alla
tutto sommato modica tariffa un dollaro, la giovane Amelia si assicura un’escursione di
dieci minuti nel cielo della metropoli a bordo di un biplano. È sicuramente il dollaro più
ben speso di tutta la sua esistenza, come racconterà anni dopo: «Nello stesso momento
in cui lasciammo la terra, sentii che dovevo volare».
La passione di Amelia
Non perde tempo, la ragazza, e si mette a fare ogni lavoretto che le capiti, per pagarsi
le lezioni di volo e soprattutto per realizzare il suo obbiettivo. Ci riesce un anno dopo
quando acquista, con l’aiuto determinante della madre, un Kinner Airster giallo a due
posti, subito ribattezzato il Canarino.
È il mezzo per raccontare i suoi sogni alle nuvole. Il biplano porta la Earhart là
dove sino ad allora aveva potuto volare solo con la fantasia: il 22 ottobre del 1922, la
giovane pilota si spinge a quattordicimila piedi (circa 4.260 m), quota mai toccata prima
da una donna. Un record che la rende immediatamente famosa nel circuito ristretto e
aristocratico dell’aviazione. Qualche mese dopo, il 15 maggio 1923, ottiene finalmente
il tanto desiderato brevetto di volo, sedicesima donna a conquistarlo. Ora è un pilota con
tutti i crismi dell’ufficialità.
Non che sia facile, la vita di Amelia. Neanche il tempo di godersi la sua meravigliosa
macchina volante e di provarne sino in fondo le potenzialità, e già deve venderla per
affrontare una nuova tappa del suo viaggio negli States. Questa volta la meta è Boston,
che raggiunge assieme alla madre a bordo dell’automobile appena comprata. Un
arrivederci doloroso al volo, destinato a durare un paio di anni, che se le costa molto
sopportare, non la abbatte minimamente. Nel 1926 rieccola già in pista, a investire tutti i
suoi risparmi in un’impresa creata per costruire un piccolo aeroporto e commercializzare
i Kinner Airster nel Massachusetts.
Un’occasione d’oro per promuovere il volo, specie tra le donne. «Una donna che
può inventare il proprio lavoro è una donna che otterrà fama e fortuna», sostiene. Lei
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Sport for women!
lo inventa con tanto successo da diventare un vero e proprio personaggio per la stampa.
Il più diffuso quotidiano di Boston, The Globe, dedica addirittura una prima pagina alla
coraggiosa e bellissima aviatrice che è ormai considerata «uno dei migliori piloti donna
degli Stati Uniti d’America». Come dire del mondo.
Evidentemente, la stampa è nel destino di Amelia, perché proprio in quel circolo
controverso e potentissimo che è il giornalismo americano tra le due guerre, si è già
messo in moto a sua insaputa il meccanismo che la coinvolgerà nei trionfi che la
attendono. E, purtroppo, nella tragedia finale.
“Lady Lindy”
George Palmer Putnam è un facoltoso newyorkese, noto al grande pubblico per le
sue esplorazioni artiche e soprattutto per aver pubblicato le memorie dell’eroe nazionale
degli Stati Uniti, Charles Lindbergh. Da qualche tempo, l’editore è impegnato in una
ricerca difficile, ma di grande risonanza mediatica. Putnam cerca una pilota in grado di
emulare l’impresa dello Spirit of Saint Louis e di compiere una trasvolata atlantica: la
prima donna di sempre.
Ne ha ricevuto incarico da un’aviatrice, americana ma residente a Londra, la
cinquantacinquenne e ricchissima Amy Phipps Guest. Dal canto suo, Amy avrebbe fatto
carte false per essere lei stessa a tentare il volo. Purtroppo di fronte allo scarsissimo
entusiasmo manifestato dalla famiglia aveva dovuto rinunciare, ritagliandosi tuttavia
un’onorevole via di ritirata con la possibilità di sponsorizzare una pilota.
Un giorno dell’aprile 1928, Amelia riceve una strana telefonata dal capitano Hilton H.
Railey, che le domanda se si sente in grado di affrontare il volo dall’America all’Europa.
Neanche da dubitarne: la risposta è scontata. Una settimana dopo, la ragazza è a New
York, a colloquio con Putnam. Railey gliel’ha condotta, presentandola col nomignolo di
Lady Lindy, che le ha subito affibbiato per la somiglianza (in effetti davvero notevole)
con Lindbergh. Quando si dice il destino.
L’offerta di Putnam è precisa. Nel volo, Amelia rivestirà un ruolo limitato e inedito,
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Danilo Francescano - Amelia Earhart
anche se importante. Non avendo esperienza di plurimotori e di volo strumentale, pur
avendo nominalmente il titolo di comandante, sarà solo un passeggero: la parte operativa
sarà affidata a due piloti esperti e affidabili, Wilmer Stultz e Louis Gordon.
Definita la questione, arriva presto il momento dell’impresa. Il 3 giugno 1928 i tre
decollano verso Halifax, nella Nuova Scozia canadese, scelta come base di partenza, a
bordo di un idrovolante Fokker VII/3m simbolicamente battezzato Friendship. I giorni
che seguono sono di snervante attesa.
Il tempo non vuole stabilizzarsi e la trasvolata viene rimandata sino al 18, quando
finalmente si prende la decisione di partire. Le condizioni atmosferiche continuano
purtroppo a non essere delle migliori: l’intero volo si svolge attraverso banchi di nebbia
densa e vischiosa, che rendono difficile mantenere un assetto corretto, e costringono il
trimotore a un consumo di carburante superiore al previsto. L’atterraggio avviene quindi
non in Irlanda, come programmato, ma a Burry Port, nel Galles del Sud.
Un’autentica “star”
Poco importa. L’impresa è riuscita, e Amelia è diventata di colpo una donna da
copertina, una delle persone più conosciute e intervistate del pianeta. È lei la star, i
giornalisti vogliono parlare solo con lei e ignorano i compagni di volo. La ragazza
ne è disturbata, il suo senso di giustizia e la stima verso i due piloti la costringono a
protestare. «Durante il viaggio, io ero un passeggero, solo un passeggero. Ogni cosa
che è stato fatta per portarci sin qui, è stato fatta da Wilmer Stultz e Slim Gordon. Ogni
lode che posso fare loro, se la meritano. Non credo certo che le donne non abbiano
la resistenza per fare un viaggio in solitaria attraverso l’Atlantico, ma la questione è
quella di imparare il volo strumentale, un’arte che solo pochi piloti uomini possiedono,
per ora...» dichiara con decisione. Nessuno la ascolta, ovviamente, a cominciare dal
Presidente Coolidge, che le invia le sue personali congratulazioni.
Londra, New York… Amelia è richiestissima, anche per merito di Putnam che, dietro
le quinte, manovra per tenerla sempre in primo piano. A settembre compie il suo esordio
in solitaria, coast to coast sino a Los Angeles per assistere alle National Air Races,
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Sport for women!
competizioni di velocità in un circuito chiuso delimitato da piloni, molto popolari
in quegli anni. Tornata a New York a fine mese, tiene una serie di conferenze per
promuovere il suo libro sulla trasvolata atlantica 20 hours, 40 minutes, alle quali
George Putnam assiste tanto assiduamente che si inizia a vociferare di una relazione
tra i due.
Mentre Amelia, diventata dirigente di primo piano della TWA, si impegna in mille
attività, promozionali e giornalistiche (scrive vari articoli per Cosmopolitan), Putnam
avvia la causa di divorzio dalla moglie Dorothy.
Il divorzio viene concesso a fine 1929, e l’ormai scontato matrimonio tra l’aviatrice
e il milionario ha luogo il 7 febbraio 1931. Un avvenimento di risonanza mondiale,
anche perché Amelia ha continuato a tenere il suo nome bene in evidenza con vari
record femminili di velocità e altitudine, ottenuti con il Lockheed Vega acquistato dopo
la trasvolata atlantica.
Proprio con questo aereo, leggermente modificato, Amelia programma una nuova,
sensazionale avventura. Dal 1927, seppure molti si proponessero di farlo, nessuno aveva
più osato ripetere l’impresa di Lindbergh, la trasvolata atlantica in solitaria: ebbene, lei
sarebbe stata la prima.
L’Atlantico in solitaria
Si prepara a fondo, prendendo lezioni di volo strumentale e studiando attentamente la
meteorologia e le correnti aeree atlantiche. La stampa fa a gara per avere informazioni
di prima mano. Vengono a conoscenza del pubblico decine di particolari, dai dati più
tecnici come il nuovo motore dell’aereo (un P&W Wasp da 450 Hp) e la quantità di
carburante imbarcata (quattrocentoventi galloni), alle curiosità più spicciole, come il
fatto che la trasvolatrice, che non beve tè, né caffè, si terrà sveglia fiutando sali, o che
tutte le provviste imbarcate consisteranno in un thermos di zuppa e una lattina di succo
di pomodoro.
Alle 19.12 locali del 20 maggio 1932, quinto anniversario del volo dello Spirit of St.
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Danilo Francescano - Amelia Earhart
Louis, Earhart decolla da Harbour Grace, sull’isola canadese di Terranova: destinazione,
Europa. Ancora una volta, il meteo non le è amico. È una lunga notte di maltempo,
quella che la donna affronta, sola nel cielo con i suoi pensieri, cercando nell’incontro
tra l’immensità del cielo e quella dell’Oceano l’orizzonte di un’esistenza vissuta sempre
al massimo.
Raggiunge la costa dell’Irlanda alle 13.46 locali, dopo aver percorso duemilaventisei
miglia in quindici ore e trentadue minuti. Si trova duecento miglia a nord della rotta prevista,
e atterra in una località chiamata Gallagher’s Fields, a Culmore, un paesino del Donegal
vicino a Londonderry. Un contadino si avvicina all’aereo, incuriosito dal suo arrivo.
«Dove mi trovo?», gli domanda l’aviatrice.
«Nei pascoli di Gallagher. Vieni da lontano?» risponde l’uomo.
«Sì… dall’America!» conclude Amelia, aprendosi in un liberatorio sorriso di gioia.
Ha l’altimetro fuori uso, un collettore di scarico rotto e l’indicatore di livello carburante
che funziona male. Nel serbatoio le restano settanta galloni di carburante, insufficienti a
raggiungere Parigi, come pure aveva considerato di poter fare.
I giorni che seguono sono trionfali. Amelia ha stabilito una serie impressionante di
primati (prima donna ad attraversare l’oceano da sola, prima persona ad averlo fatto
due volte, distanza più lunga mai volata da una donna in solitaria, traversata oceanica
effettuata in minor tempo e tanti altri minori) e l’America è fiera di lei. Quando rientra in
patria, il Presidente Hoover la accoglie con la Medaglia d’Oro della National Geographic
Society e varie città le consegnano simboliche chiavi. Viene nominata Women of the
Year, premio che lei accetta «in nome di tutte le donne».
Earhart sente molto il problema della condizione femminile, e non esita ad adoperare
la sua notorietà per richiamare l’attenzione del pubblico sul tema. Così quando un
articolo francese su di lei termina domandando con malizia se l’aviatrice sia in grado
di cucinare un dolce, lei risponde indirettamente e con finezza «…e così accetto tutti
questi premi in nome delle donne che sanno far torte, e di tutte quelle donne che sanno
fare cose altrettanto se non più importanti che volare, allo stesso modo che per le donne
che oggi volano».
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Sport for women!
Una sfida dopo l’altra
Non cessa di stupire, Lady Lindy. Nel 1934 progetta un altro primato, il volo senza
scalo dalle Hawaii alla California. Una rotta maledetta, lungo la quale già dieci piloti
hanno perso la vita. La donna non si spaventa certo per questo, e si prepara al tentativo
ricorrendo ad apparecchiature sofisticate per l’epoca: installa a bordo un radiotelefono a
due vie, strumento sino a quel momento impiegato solo su aerei militari.
Il decollo avviene dal Wheeler Field di Honolulu, l’11 gennaio 1935. Diciassette ore
e sette minuti di volo, sino all’atterraggio a Oakland, dove viene accolta da migliaia di
persone festanti. Ancora, un inquilino della Casa Bianca si congratula con lei: tocca a
Franklin Delano Roosevelt, questa volta. Invia un telegramma entusiasta, in cui afferma
che Amelia «ha di nuovo colpito il segno… Ha dimostrato anche ai San Tommaso che
l’aviazione è una disciplina che non può essere limitata ai soli uomini».
Nei mesi che seguono, l’attività di Earhart è senza soste. Le conferenze promozionali
si susseguono con un ritmo costante, e sono appuntamenti trendy, cui la gente accorre
sempre numerosa. A un ricevimento, Amelia conosce il Console Generale del Messico,
che le procura un invito del governo messicano a una visita ufficiale. Il volo in solitaria
da Los Angeles a Ciudad de México avviene in aprile e, neanche a dirlo, è una prima
assoluta, cui fa seguito, il mese successivo, un altrettanto storico ritorno a New York.
Nel mezzo, un soggiorno trionfale, in cui è acclamata e contesa nei circoli più esclusivi.
Le dedicano persino un annullo postale.
A metà anno, Lady Lindy accetta un incarico come Visiting Faculty Member dalla
Purdue University dell’Indiana: dovrà prestare consulenze al dipartimento di studi
sulla carriera delle donne e al dipartimento dell’aeronautica. E proprio con i fondi
dell’Università procede alla preparazione dell’aereo che dovrà consentirle l’avventura
più rischiosa della sua vita.
L’idea che va formandosi è quella di un giro completo del globo: non una prima
assoluta, questa volta, ma comunque un volo da leggenda, perché sarebbe stata la prima
donna a compierlo e soprattutto perché avrebbe navigato su una rotta equatoriale, ossia
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Danilo Francescano - Amelia Earhart
sulla massima distanza possibile.
Nel luglio 1936, nello stabilimento di Burbank, la Lockeed Aircraft Corporation
procede alla costruzione di un monoplano bimotore Lockeed L-10 Electra, modificato
seguendo le istruzioni di Amelia, riguardanti in primo luogo la fusoliera, nella quale
deve essere incorporato un grande serbatoio per il carburante.
Anche la scelta dell’equipaggio è accuratamente pianificata. Al capitano Harry
Manning, che Earhart conosce personalmente, viene affiancato l’ufficiale di marina
Fred Noonan, che ha una grandissima esperienza sia nautica che aerea. In previsione
della necessità di una navigazione astronomica, Noonan, che ha di recente lasciato la
Pan Am dove ha elaborato per anni le rotte degli idrovolanti China Clipper nel Pacifico,
è apparso a tutti la persona ideale.
Anche se per la verità alcune fonti insistono nel volerlo imposto dal governo USA.
Dietrologia, forse, ma chi può dirlo? I tempi non sono certo dei più tranquilli. Comunque
sia, i piani iniziali prevedono che Noonan ricopra il ruolo di navigatore da Honolulu
all’Isola di Howland, il tratto forse più difficile della rotta, per essere poi sostituito da
Manning sino all’Australia, da dove Amelia proseguirà da sola.
La folle scommessa
Il 17 marzo 1937, l’aereo con l’equipaggio al completo e l’aggiunta di Paul
Mantz, imbarcato come consulente tecnico, decolla da Oakland verso Honolulu. Gli
inconvenienti iniziano subito, con problemi di lubrificazione al mozzo dell’elica. Il
velivolo deve essere riparato, e la sosta alle Hawaii si prolunga oltre le previsioni.
Finalmente, dopo tre giorni, l’Electra è nuovamente posto in grado di volare.
Evidentemente, l’impresa è però nata sotto una cattiva stella: durante il decollo da
Pearl Harbour, l’aereo va in testa-coda. Sbanda sulla sinistra, fuori controllo, il carrello
cede e la fusoliera striscia a lungo e con violenza sulla pista prima di arrestarsi. Per
fortuna non sopravviene un incendio, letale con la quantità di carburante caricata, ma
i danni sono tali da costringere Amelia a rimandare il velivolo via mare in fabbrica, a
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Sport for women!
Burbank, per il ripristino.
Il raid è per il momento fallito, e, come spesso succede, non manca qualche polemica
sulle cause dell’incidente. Testimoni oculari, tra cui un giornalista della Associated
Press, indicano l’esplosione di uno pneumatico, il destro secondo l’aviatrice, che
ipotizza pure il collasso strutturale del carrello. Altri però, tra cui Mantz, comunque non
presente a bordo in quella fase, parlano di un chiaro errore di pilotaggio. Un’ombra sulla
reputazione di Earhart, che comunque, come al solito, non si scoraggia.
Mentre l’aereo viene riparato, Amelia e Putnam raccolgono altri fondi, e imbastiscono
un nuovo tentativo. La rotta scelta, questa volta, è in direzione occidente-oriente, a causa
principalmente dei mutamenti atmosferici dovuti all’andamento stagionale. L’annuncio
ufficiale avviene a Miami, dove Lady Lindy è arrivata da Oakland con un volo non
pubblicizzato.
Il solo navigatore previsto per il progetto, un viaggio di quarantaseimila chilometri, è
Fred Noonan, e con lui a bordo, Amelia spicca il volo il 1º giugno in direzione sud. La
prima sosta è San Juan di Portorico, poi la rotta segue la costa orientale del Sud America,
dal Suriname al Brasile, per deviare verso l’Africa e toccare Dakar, Karthoum, e quindi
l’India. Dopo Calcutta, l’Electra procede verso Rangoon, Bangkok e Singapore. A
Bandoeng, sull’isola di Java, i due restano per dieci giorni, a causa dell’arrivo dei
monsoni, e approfittano della sosta per alcuni aggiustamenti agli strumenti di bordo.
In realtà, Amelia non sta bene. Da una settimana soffre di dissenteria, ma non vuole
rallentare ulteriormente sulla tabella di marcia, e così il raid riprende. Il 27 giugno Port
Darwin in Australia è raggiunto, e il 29 il bimotore atterra in Nuova Guinea, a Lae: sono
stati percorsi trentacinquemila chilometri e ne mancano undicimila alla mèta. Qualche
giorno di pausa, sino al nuovo decollo. È la mezzanotte in punto del 2 luglio 1937. Di
quel maledetto 2 luglio 1937.
La scomparsa dell’“Electra”
Poco dopo l’ultimo, preoccupante messaggio di Earhart, l’Itasca inizia una ricerca
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Danilo Francescano - Amelia Earhart
(secondo alcuni non esente da negligenze) a nord e a est dell’isola di Howland, basandosi
sulla provenienza delle trasmissioni dell’aereo. Viene lanciato l’allarme, che rimbalza
veloce in tutto il mondo e riempie le prime pagine dei giornali.
La perdita dell’Electra è avvertita dagli Stati Uniti come una tragedia nazionale:
Roosevelt ordina la più grande e dispendiosa operazione di ricerca della storia americana,
che costerà quattro milioni di dollari. Una cifra sbalorditiva, per l’epoca. La Marina
statunitense agisce rapidamente e nel giro di tre giorni tutte le risorse disponibili sono
concentrate nelle vicinanze dell’isola di Howland.
L’Itasca, la portaerei Lexington, la nave da battaglia Colorado e due navi giapponesi
(il vascello oceanografico Koshu e la nave appoggio idrovolanti Kamoi) coprono
un’area di 390.000 km2, un quarto di più dell’intero territorio italiano. Gli aerei da
ricognizione della Lexington sorvolano senza sosta l’Oceano, i radioamatori di tutto
il mondo scandagliano le frequenze sperando in qualche messaggio di Amelia. Ne
ottengono centinaia, alcuni forse plausibili, altri decisamente catalogabili come scherzi
di pessimo gusto. Nessuno decisivo, purtroppo.
È la fine. Il 17 luglio hanno termine le ricerche ufficiali, anche se Putnam non si
rassegna e affitta due piccole navi, estendendo le ricerche alle Isole della Fenice, alle
Kiribati, alle Marshall. Tutto inutile: dell’Electra, nessuna traccia. Il 5 gennaio 1939
Lady Lindy è dichiarata legalmente morta.
«Le donne devono pagare per tutto. Ottengono più gloria degli uomini per imprese che
sono a loro comparabili, ma hanno più notorietà di loro quando falliscono». Aveva ragione
ancora una volta, Amelia. A tre quarti di secolo di distanza, la sua scomparsa conserva
intatto tutto il fascino di un intrigante mistero, per spiegare il quale mille ipotesi sono state
fatte, dalla missione segreta per conto del governo alla cattura da parte dei giapponesi.
La donna che sfidò i cieli è ancora tra noi, un personaggio che sentiamo vicino in
tutta la sua complessa femminilità e in tutta la sua straripante volontà. Può anche darsi
che un giorno qualche ritrovamento arrivi a scrivere la parola fine su uno dei gialli più
famosi e appassionanti del XX secolo, ma perché poi scriverla, la parola fine?
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Sport for women!
È molto più seducente pensare Lady Lindy e il suo Electra nell’azzurro, al confine tra
il tempo degli umani e quello della fantasia, come una gentile Americanina Volante. O
magari, chissà, che se ne sia fuggita sull’asteroide B 612, la bella ragazza con i capelli
rossi e le lentiggini, e ora sorrida nel coltivare la rosa con il piccolo Principe.
© Danilo Francescano
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Melania Sebastiani
Wilma Rudolph
La “Gazzella Nera”
N
ella visione di Pierre de Coubertin, padre delle Olimpiadi moderne, la
concezione dell’Uomo sportivo va ben oltre il motto mens sana in corpore
sano: l’atleta olimpico assorbe i valori e l’etica dello sport nel suo comportamento,
combinando il talento fisico con la forza di volontà e il cuore, si muove in un universo
di eque opportunità dove le distinzioni di sesso, razza e religione sono messe al bando
ed esibisce il primato sportivo come esempio meritevole di valore umano. Una filosofia
utopica, audace, oltre la performance sportiva, quella del barone de Coubertin, un ideale
che ai Giochi di Melbourne del 1956 si è incarnato in una ragazza americana e nera di
sedici anni.
Elegante anche in pista, dall’andatura veloce e maestosa, tremendamente fragile, la
ragazza esordì con un bronzo nella 4×100 m, portandosi sulle gambe il peso di una storia
strappalacrime: si era preparata per l’Olimpiade in cinque soli anni, ma non perché
prima non avesse possibilità di allenarsi. Semplicemente, fino a cinque anni prima, non
era in grado di correre.
La lotta contro la poliomielite
Wilma Glodean Rudolph venne alla luce prematuramente il 23 giugno 1940 a St.
Bethlehem, a nord est di Clarksville, nello stato del Tennessee. Pesava 2 kg, ed era la
ventesima di quelli che saranno i ventidue figli del padre Ed, sesta degli otto figli della
madre Blanche. Ed lavorava in ferrovia come fattorino e Blanche come domestica in
una casa di bianchi della città, mentre Wilma cresceva in una casa di legno in quella
parte cittadina riservata alle residenze dei neri.
I figli più grandi badavano ai più piccoli, la madre cuciva alle ragazze vestiti fatti
con i sacchi di farina, i fratelli andavano a lavorare presto. Wilma si ammalava spesso:
morbillo, scarlattina, tosse, polmonite e, nel 1944, a quattro anni, le fu diagnosticata la
poliomielite, conosciuta negli anni Quaranta come una delle malattie più paralizzanti.
La cura sarebbe arrivata nel 1955, un anno prima di Melbourne. Fino a quel momento,
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Sport for women!
la polio avrebbe menomato o ucciso più di trecentosettantamila statunitensi, soprattutto
bambini, solo cinquantamila in meno rispetto ai caduti a stelle e strisce nella Seconda
Guerra Mondiale. «Il dottore disse che non avrei mai più camminato» scriverà la Rudolph nella
sua autobiografia pubblicata nel 1977. «Mia madre mi disse che avrei di nuovo
camminato. Credetti a mia madre». E certamente, in un periodo in cui non era facile
trovare un ospedale disposto a fare trattamenti di cura a una bambina nera, non era
nemmeno facile credere alla mamma. L’unica speranza per Wilma e la madre era
l’ospedale del college per neri della Fisk University a Nashville, a ottanta chilometri
da Clarksville.
Blanche portò la bambina a Nashville due volte a settimana per due anni per una
terapia di acqua e calore, fino a che non fu in grado di camminare con un apparecchio
d’acciaio sulla gamba sinistra. Duecento viaggi andata e ritorno in autobus,
rigorosamente percorsi nei sedili in fondo, nella parte dove potevano sedere i neri:
tanto fece la madre per la figlia malata. E fece ancora di più: imparò a praticare alla
bambina di ormai sei anni massaggi terapeutici. In casa c’erano più di quaranta mani
per aiutare nella terapia: a nove anni, Wilma non aveva più bisogno dell’apparecchio
alla gamba.
Con quattro massaggi al giorno per cinque giorni a settimana, era in grado di
camminare da sola per un giorno. Per altri due anni portò una scarpa ortopedica come
supporto e a dodici anni poteva già sfidare fratelli e amici in cortile. Nove anni dopo
aver abbandonato quella scarpa, Wilma avrebbe vinto quattro medaglie olimpiche, di
cui tre d’oro, e avrebbe battuto due record del mondo nella corsa.
L’ascesa sportiva
Sfregando forte, era nata una campionessa. Meglio di Aladino con la lampada.
In principio fu pallacanestro e solo pallacanestro. Il padre convinse l’allenatore
della scuola superiore a prendere Wilma in squadra, promettendo che con lei avrebbe
giocato anche la sorella Yolanda, un’allieva più accondiscendente. Dopo due anni in
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Melania Sebastiani - Wilma Rudolph
panchina, Wilma divenne un’eccezionale segnapunti, arrivando a marcare un record
di quarantanove punti in una sola gara. Quando il coach di pista dell’Università del
Tennessee a Nashville, Ed Temple, decise di fondare una squadra di atletica nella scuola
delle sorelle Rudolph, andò a cercare le reclute nella squadra di pallacanestro. Wilma
fu scelta, e rimase imbattuta per ben venti gare nei 50 m, 75 m, 100 m, 200 m e nella
staffetta 4x100 m.
Temple allenò la ragazza per tutta l’estate nel suo college: Wilma fu qualificata per
l’Olimpiade a Melbourne assieme a Mae Faggs, Willye White, Margaret Matthews e
Isabelle Daniels. In Australia fu eliminata nei 200 m al secondo turno ma raggiunse
le compagne Faggs, Daniels e Matthews nella staffetta. Fu bronzo. Tornata in patria,
raccontò al Chicago Tribune che a scuola «tutti volevano toccare, sentire, vedere come
fosse una medaglia olimpica. Quando me la ridiedero, era piena di ditate. Avevo cercato
di pulirla, ma avevo scoperto che il bronzo non luccica. Mi sono detta: la prossima
volta che ci proverò, punterò all’oro». L’anno seguente però Wilma rimase incinta e perse un’intera stagione di gare. Nacque
una bambina che fu chiamata Yolanda, come la sorella. Padre della bimba era Robert
Eldrige, che Wilma sposerà nel 1963, due anni dopo la morte del padre Ed Rudolph,
che proibì all’uomo di vedere sia Wilma che la bambina. Yolanda fu data in custodia
ai familiari e, grazie a speciali accordi – l’Università del Tennessee proibiva alle madri
di gareggiare –, Wilma poté studiare e prendere la qualifica di maestra elementare e
continuare ad allenarsi nella corsa. Arrivò così nel 1960 ai Giochi di Roma, dove, come
si era promessa, non ci fu bronzo. Solo luccichii.
L’oro di Roma
Wilma fu la mattatrice dell’Olimpiade romana: oro nei 100 m, nei 200 m e nella
staffetta 4x100 m, tre vittorie capaci di offuscare il mitico trionfo dell’italiano Livio
Berruti (primo non nordamericano a conquistare l’oro nei duecento metri), l’esaltante
maratona a piedi nudi dell’etiope Abebe Bikila e il successo sul ring (oro annunciato)
del futuro Muhammad Ali, Cassius Clay.
La folla dell’Olimpico esplose dopo i 100 m in 11’’ netti, mentre Wilma completava
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Sport for women!
il giro d’onore: «Wilma, Wilma!”, la acclamavano. Sul podio si presentò con un
cappello di paglia infiocchettato, che sventolò alla folla per altre due volte. Suoi i
200 m in 24’’, determinante il suo contributo nella vittoria americana della staffetta,
dove correva come ultima frazionista, record del mondo di 44’’ 5. «Tutte le Olimpiadi
creano un mito» fu scritto sul Corriere della Sera del 9 settembre 1960 . «Il mito
fiorito in questa edizione dei Giochi porta il nome di una ragazza nera di vent’anni,
un’americana degli Stati Uniti: Wilma Rudolph. È giovane, bella, orgogliosa. È la
donna più veloce del mondo».
Sessanta chili per un metro e ottanta, magnetica e vincente, la stampa italiana la
chiamava la “Gazzella Nera”; i giornali francesi titolavano “la Perla nera”; gli inglesi
l’avevano soprannominata “il Tornado del Tennessee”. Accese gli animi dentro e fuori
dalla pista. Emblematica la foto mano nella mano con il campione Livio Berruti: dita
bianche intrecciate tra dita nere, maglia a righe orizzontali per lei, giacca portata con
nonchalance sul braccio per lui, una mini sullo sfondo. Un’immagine da Vacanze
Romane bis, quasi una riedizione sportiva del film del 1953 di Wiler, protagonisti un
Italian boy e una nera del Tennessee. Galeotta fu una tuta da ginnastica, a gare ancora
non iniziate: «La Rudolph vorrebbe scambiare la tuta con te, Livio», gli dissero. Lo
sventurato rispose.
«Io e Wilma non consumammo mai quell’amore», dichiarerà Berruti al Corriere
della Sera in un’intervista di cinquanta anni dopo. «Gli allenatori della squadra
USA, che al villaggio olimpico ci seguivano ovunque, mi fecero capire che su Wilma
aveva messo gli occhi un giovane pugile del Kentucky, che sarebbe stato meglio non
infastidire per due motivi: perché era a Roma per vincere l’oro dei mediomassimi,
una delle medaglie a cui gli Stati Uniti tenevano di più, e perché, se provocato,
avrebbe potuto diventare aggressivo. Quel pugile che stava dietro a Wilma era un
certo Cassius Clay».
Al tempo le trasgressioni al Villaggio Olimpico non erano permesse e la legge
del “niente sesso prima delle gare” imperava. Bisognava espletare gli impegni
agonistici, ma finite le gare, Wilma partì per una tournée in Europa con i suoi tre
ori al collo e chissà, forse una promessa non mantenuta nella stiva. Al suo rientro a
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Melania Sebastiani - Wilma Rudolph
Clarksville, nell’ottobre del 1960, il sindaco organizzò una parata e un banchetto di
gala dove, per la prima volta nella storia della municipalità, neri e bianchi sedettero
allo stesso tavolo.
Wilma tornerà a Roma dieci anni più tardi, sposata e madre di quattro figli, su invito
di un quotidiano romano. Ad accoglierla all’aeroporto, sarà proprio Livio Berruti.
«Attualmente sono disoccupata» disse Wilma, smentendo le voci sulla sua caduta in
miseria. Poi, sollecitata dalle domande dei giornalisti, aggiunse che «negli Stati Uniti,
per avere successo nella vita e costruirti una posizione grazie allo sport, un nero deve
vincere la concorrenza dei bianchi, che spesso partono avvantaggiati. Io ce l’ho fatta
fino a quando sono riuscita a vincere in pista. In seguito, però, ho trovato molte porte
sbarrate. Se avessi avuto la pelle bianca, non sarebbe successo».
L’ultima sfida
A cinquantaquattro anni, la sfida finale, un’altra prova in cui non conta il sesso, la
razza o la religione: un tumore al cervello. Lo sprint di Wilma non è bastato. Dopo il
suo ritiro dalle gare nel 1963 si era dedicata all’insegnamento e attraverso l’opera della
fondazione che porta il suo nome continua tutt’oggi ad aiutare i bambini in difficoltà.
«Il premio non è mai così grande se manca la lotta per ottenerlo» era il suo motto per i
bambini. Una frase tra le tante citazioni che sono raccolte nella sua autobiografia: «Non
so perché corressi così forte. Pensavo solo a correre». E ancora: «Non è importante
l’obiettivo che stai cercando di raggiungere. È una questione di disciplina. Volevo
scoprire cosa aveva in serbo la vita per me oltre le strade cittadine».
Parole che fanno eco all’ideale decoubertiniano: «Vincere è bellissimo, ma se vuoi
veramente fare qualcosa nella tua vita, il segreto è imparare a perdere. Nessuno
può essere sempre imbattibile. Se riesci a riprenderti dopo una sconfitta e riesci ad
andare avanti e a vincer un’altra volta, un giorno sarai un campione». E, una volta
campione, come racconta nella sua autobiografia: «Tre medaglie olimpiche: il senso
di realizzazione riempiva il mio corpo. Sapevo che era qualcosa che nessuno poteva
portarmi via, mai».
La medaglia non vale meno di un’uniforme: da qualche parte, in casa Berruti, dentro
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Sport for women!
a un cassettone, conservata nella naftalina, c’è una tuta di Wilma, donata nel corso dei
Giochi di Roma del 1960, ricordo tangibile della grandezza di una vera campionessa
olimpica, veloce, determinata e con il cuore pieno di promesse che nemmeno il tempo e
i nuovi record del mondo possono cancellare.
© Melania Sebastiani
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Melania Sebastiani
Dawn Fraser
La “ragazzaccia” del nuoto mondiale
N
ei risultati di ricerca Dawn Fraser è un mito vivente dello sport, amante
del cioccolato fondente e dell’acqua, che ascolta Willie Nelson e ha due
cani, Conrad e Max. Dawn è un film del 1979, una storia di successi e bravate.
Dawn Fraser è un lungo viale di un Parco Olimpico, omaggio moderato della terra
australe alla figliola prodiga; è un vaporetto che fa servizio sul fiume Parramatta,
impegnato nella quotidianità. È una statua di cera scoperta al Madame Tussaud’s
di Sydney: una ragazza con la tuta australiana e la medaglia al collo con lo stesso
sorriso simpatico ed estroverso della signora al fianco, in carne e ossa, con i capelli
bianchi e i fiori in mano.
«Piccola Dawn, mio eroe, mi ricordo quando ti tuffavi nella piscina di Leichardt,
saranno stati gli anni Sessanta e salutavi sempre i bambini. Sei una leggenda vivente!
Grazie per gli splendidi ricordi, brava! Australia, Australia, Australia». Il messaggio,
lasciato nel web del museo sotto alla recente statua di Dawn Fraser da un ammiratore, è
un inno alla vita per una campionessa del nuoto mondiale, gioviale, entusiasta e ribelle;
umana, forse troppo umana, prima donna ad aver infranto il muro dei sessanta secondi
nei 100 m stile libero e prima a conquistare lo stesso podio in tre edizioni di fila dei
Giochi Olimpici, da Melbourne 1956 a Tōkyō 1964. Dopo di lei, ci riuscirà l’ungherese
Krisztina Egerszegi – 200 m dorso dal 1988 al 1996 – , e lo statunitense Michael Phelps,
che ha chiuso con l’oro dei 200 m misti nell’Olimpiade di Londra 2012.
Un mito nella vasca, un personaggio fuori della piscina. Nata il 4 settembre 1937
a Sydney, Dawn Lorraine Fraser cresce in una famiglia numerosa con quattro sorelle
e tre fratelli nel sobborgo di Balmain. Vorrebbe praticare l’equitazione ma i cavalli
costano troppo, vorrebbe giocare a calcio ma soffre d’asma: così finisce in piscina.
L’accompagna di solito il fratello preferito, Don, che muore quando lei ha appena
tredici anni. «M’intrufolavo dalla finestra nella stanza d’ospedale dove era ricoverato
Don» ricorda Dawn nelle interviste. «Mi disse: tu, Dawn, hai un dono, continua ad
allenarti per me. Credo sia l’ultima cosa che mi abbia mai detto». Nella vasca Dawn
è notata da Harry Gallagher, che si offre di allenarla gratuitamente. Sarà l’unico coach
della sua carriera agonistica.
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Sport for women!
Nel 1953 la Fraser partecipa ai Campionati Australiani per la selezione dei Giochi
dell’Impero e del Commonwealth Britannico di Vancouver. Non vince e, delusa, decide
che dalla gara seguente avrebbe vinto tutto. Si allena con gli uomini ed è un crescendo
di primati. Nel corso della sua carriera infrangerà trentanove record del mondo e vincerà
ogni competizione dei 100 m stile libero disputata.
Gli ori di casa
Dawn ha diciannove anni quando partecipa alla sua prima Olimpiade, quella di
Melbourne del 1956. Sono i primi Giochi organizzati nell’emisfero australe, motivo per
cui si tennero a novembre e dicembre, con un prologo in Svezia nel mese di giugno per
l’equitazione.
Con la fiaccola olimpica, che fa gran parte del viaggio in aereo, si trascinano down
under anche le tensioni politiche: nel novembre 1956 l’intervento militare sovietico
aveva represso la rivolta ungherese, mentre francesi e inglesi avevano inviato truppe
nella zona del canale di Suez, nazionalizzato dagli egiziani. Per protesta, non partecipano
Olanda, Spagna e Svizzera, mentre giunge una piccola rappresentanza della Repubblica
Popolare Cinese che torna subito a casa quando, all’inaugurazione del villaggio olimpico,
è issata solo la bandiera della Cina nazionalista. I Giochi si concludono in un clima di
rinnovata concordia con una sfilata degli atleti senza bandiere né divisioni nazionali. I
padroni di casa sono terzi a sorpresa nel medagliere, dopo i sovietici e gli statunitensi.
Gli australiani che nuotano portano a casa otto dei tredici titoli in palio, occupando tutto
il podio dei 100 m stile libero, maschili e femminili. I componenti dello squadrone vengono definiti dalla stampa “terribili adolescenti
australiani”. La “ragazzaccia” Dawn vince l’oro nello stile libero, l’oro nella staffetta
4x100 m stile libero, l’argento nei 400 m stile libero. Riconquista il bottino nei Giochi
del Commonwealth di Cardiff nel 1958 e bissa due anni dopo all’Olimpiade di Roma,
dove rosicchia qualche decimo al suo tempo dei 100 m a stile. Per festeggiare, si tuffa
nella dolce vita notturna romana e per questo viene criticata dai compagni. Per tutta
risposta, lancia un cuscino in faccia a un collega, va a comprarsi un vestito da sposa e
torna a passeggiare per Roma: quando rientra, si sente dire che deve disputare la frazione
di staffetta a farfalla. Si rifiuta e per il resto dei Giochi la squadra non le rivolge parola,
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Melania Sebastiani - Dawn Fraser
mentre alla stampa lei denuncia il comportamento poco morigerato dei compagni nel
villaggio olimpico. Porta a casa l’oro nei 100 m stile libero, l’argento nelle staffette stile
e misti.
Turbolenze da stile libero
I risultati in vasca compensano il comportamento bizzarro fuori dall’acqua di
quest’atleta, sempre sorridente, che continua ad abbattere i record del mondo stabiliti da
lei stessa e lavora ancora nelle ore libere come commessa in un negozio d’abbigliamento
o in un pub. Il 27 ottobre 1962 Dawn diventa leggenda per 59’’ 9: è la prima donna a
scendere sotto il minuto nei 100 m stile libero. Ha venticinque anni e sorride. Dawn perde prima il padre per malattia e, in seguito, la madre per un fatale incidente
d’auto in cui era lei stessa alla guida. Passa nove settimane in trazione, ha una vertebra
fuori posto, ma sette mesi dopo è ai Giochi Olimpici di Tōkyō, dove ottiene l’oro nei
100 stile libero, l’argento nella staffetta e… un arresto. Negherà di averlo mai fatto,
ma pare che organizzò il furto notturno di una bandiera nel Palazzo dell’Imperatore. A
poco valse che l’imperatore stesso, incuriosito, volle incontrarla e regalarle la bandiera:
il raid boccaccesco le costa la sospensione per dieci anni (poi limitata a quattro) della
Federnuoto australiana. Ovvero, la fine dell’avventura olimpica, che si chiude nel 1964
con un totale di quattro ori e quattro argenti.
La sua vita turbolenta continua ai vertici del pettegolezzo e dello sport: si sposa,
ha una figlia, divorzia, accusa un marinaio polacco di averla violentata, mette
all’asta una medaglia per finanziare i Giochi del Commonwealth australiano, diventa
patrona dell’Associazione Sport in Carrozzina dello stato del Victoria, è presidente
dell’Australian Sports Hall of Fame, è eletta al Parlamento del New South Wales e le
viene conferita l’onorificenza di Membro dell’Ordine dell’Australia «in riconoscimento
del servizio pubblico, in particolare come consulente e dirigente sportivo, e per l’aiuto
alle persone disabili e il contributo all’ambiente».
All’Olimpiade di Atlanta del 1996 è lei a passare la torcia a Muhammad Ali.
All’Olimpiade di Sydney del 2000, è la first lady dell’edizione. A più di settanta anni,
non ha perduto l’indole agonistica e originale: lo sa il ladro che s’infilò in casa sua nel
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Sport for women!
2009, beccandosi una bella ripassata; lo sanno i dirigenti sportivi con cui ebbe sempre
contrasti, non in ultimo nel 2010, quando Dawn lanciò la proposta di boicottare per
ragioni politiche i Giochi del Commonwealth.
Le “ragazzacce” buone sono così: hanno il cuore grande e il sorriso beffardo che
una statua di cera non può rappresentare appieno. E soprattutto, hanno inciso il nome
sull’acqua. Eterne. Sorridenti.
© Melania Sebastiani
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Danilo Francescano
Novella Calligaris
La ragazzina che sconfisse le “Valchirie”
C
«
he io vinca non è una novità. La vera rivelazione dell’Olimpiade è quell’italiana
piccolina, Novella Calligaris…».
Questa frase stupì il mondo intero, anche perché a pronunciarla fu l’atleta più grande
e meno modesto mai sceso in acqua, l’inarrivabile nuotatore americano Mark Spitz.
Proprio quello dei sette ori-sette record del mondo in sette gare.
Erano i giorni di Monaco 1972, l’Olimpiade dell’attacco dei fedayyìn alla
delegazione israeliana. Ammesso che si potesse pensare allo sport in quei frangenti,
anche l’Italia poteva finalmente vantare un fenomeno delle piscine: la padovana Novella
Calligaris. Uno scricciolo alto centosessantatré centimetri e pesante meno di cinquanta
chilogrammi, con un carattere determinato e grintoso che il suo allenatore, Costantino
Bubi Dennerlein, seppe esaltare con una preparazione dura e pianificata.
Un carattere spigoloso
I giornalisti non avevano troppa simpatia per la ragazza, famosa per le sue risposte
pepate, e le avevano assegnato per ben due volte il Premio Limone, una sorta di ironico
attestato al personaggio più scostante. Agli sportivi, viceversa, la Calligaris era tutt’altro
che antipatica. Facevano tenerezza la sua struttura minuta e aggraziata, il suo visino
intelligente e il suo sorriso schietto, reso ancor più accattivante dai due grossi incisivi.
La padovana aveva conquistato un titolo nazionale giovanissima, a soli tredici
anni. A fine carriera furono ben settantasei, quei titoli, ma il primo trionfo la convinse
definitivamente che la piscina era proprio la sua strada. Negli anni successivi la sua
nuotata si raffinò moltissimo e si completò da un punto di vista tecnico: Novella
Calligaris, vincente agli esordi soprattutto per la sua combattività, acquistò infatti una
bracciata armoniosa e veloce.
Nel 1969 arrivò il primo record continentale, ma le prestazioni nei successivi
Campionati Europei del 1970 non furono eccezionali. Pur favorita nelle sue due gare
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Sport for women!
preferite, i 400 m e gli 800 m stile libero, Novella conquistò solo il bronzo nella gara
più lunga. Era, in ogni caso, una medaglia, e il biennio successivo vide la padovana
stabilire primati su primati, anche se non furono poche le sconfitte pesanti, come quelle
subite nel Meeting di Santa Clara, in California. Del resto, la Calligaris aveva di fronte
autentici mostri sacri, come l’australiana Shane Gould e le poco femminili Valchirie
della Germania Est.
Novella arriva così all’Olimpiade di Monaco piuttosto sottovalutata dalla grande
stampa internazionale. È il giorno della finale dei 400 m stile libero, la gara d’esordio. In
semifinale la piccola padovana innesta la marcia in più e non ce n’è per nessuna. Primo
posto e record olimpico ed europeo, davanti alle fortissime tedesche. In finale Novella
deve vedersela con Shane Gould.
La favorita prende subito il largo, inseguita a distanza dall’americana Keena
Rothhammer e dall’altra australiana Mina Wylie. La Calligaris, quarta ai centocinquanta
metri, è terza ai duecento. La sua bracciata è agile, potente, regolare. Ai trecento metri la
Rothhammer cede e viene scavalcata dall’azzurra che arriva seconda facendo registrare
il nuovo record continentale. Racconterà poi, la padovana, di aver visto sullo schermo
il numero due accanto al suo nome e di non aver capito. È un due che vale la prima
medaglia di sempre per il nuoto italiano. Siamo ai 400 m misti. Non è la gara della Calligaris e a lei, come a tutti, basterebbe
l’ingresso in finale. Ai trecento metri l’azzurra si trova però in un’insperata quarta
posizione e la favolosa frazione a stile libero la porta ancora sul podio, per un bronzo
assolutamente inaspettato.
L’Olimpiade di Novella si conclude con gli 800 m stile libero, la sua distanza. Ancora
una volta la rivale più accreditata è Shane Gould e il lotto delle finaliste è formidabile.
Vicino ai colossi del resto del mondo, l’esile padovana fa tenerezza ma in compenso,
in acqua, sorprende tutti. Parte come un razzo e va subito in testa. A metà gara è
sempre prima, poi le altre iniziano a rimontare. La Calligaris resiste a oltranza sino ai
cinquecento metri, ma poco dopo la Rothhammer la raggiunge, seguita dalla Gould.
L’italiana sembra cedere, perché anche l’altra americana Ann Simmons ormai la tallona
da vicino… e invece no, il terzo posto è suo e Novella entra nella storia.
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Danilo Francescano - Novella Calligaris
Potrebbe bastare, ma la padovana decide che non sarà così. Nel 1973, ai Campionati
del Mondo di Belgrado, Shane Gould non c’è più. Si è infatti ritirata, paga di tre ori
olimpici, un argento e un bronzo. La Calligaris ha diciannove anni, un’età che a quei
tempi è considerata veneranda per una nuotatrice.
Novella esordisce sui 200 m misti e, tanto per gradire, è subito quarta, con un tempo
strepitoso, il sesto al mondo. La ragazza si arrabbia per il terzo posto sfuggito nelle
ultime bracciate, ma la sua gara è di assoluto valore. Nei 400 m stile libero, invece,
Novella conferma il terzo posto dell’anno prima, dietro le americane Heather Greenwood
e l’eterna Rothhammer, ma il record europeo non copre un pizzico di delusione.
L’attesa per i 400 m misti è spasmodica, la Calligaris è tra le favorite d’obbligo.
Nonostante un feroce mal di denti, la padovana si batte con grinta e migliora di due
secondi il suo record italiano. Non basta. Le Valchirie della Germania Est fanno ancor
meglio e l’azzurra è solo terza, dietro la fortissima Gudrun Wegner (che abbassa il
mondiale di ben quattro secondi!) e Angela Franke. Un mezzo fiasco, per l’incontentabile
stampa italiana.
Contro ogni pronostico
Si giunge così agli 800 m stile libero dove, a questo punto, ben pochi credono nella
Calligaris. Invece è il giorno dei giorni per la piccola nuotatrice. Il 9 settembre 1973 è
infatti la data del primo oro italiano nel nuoto. L’italiana parte fortissimo, ai duecento
metri è già in testa e la sua nuotata elegante crea ben presto il vuoto. A metà gara è
appena tre secondi sopra il suo record europeo sui 400 m e nessuno pensa che possa
reggere quel ritmo incredibile. Invece, a quattro vasche dall’arrivo, sono tre i metri che
la separano dalla seconda: spinta dal tifo assordante degli spettatori presenti. Novella
non rallenta e termina in 8’ 52” 97, nuovo record mondiale. Le tedesche orientali
sono lontane, battutissime. L’americana Jo Harshbarger è a 3”, la Wegner a 9”, la
Rothhammer a 23”. È il trionfo e le prime pagine dei quotidiani sono tutte per la piccola italiana che ha
sconfitto le Valchirie, anche se da lì a poche ore la sua impresa passerà in secondo piano,
sostituita dalle tragiche cronache del golpe cileno contro Salvator Allende.
43
Sport for women!
Con gli ultimi bagliori di una carriera breve e folgorante, la Calligaris conquistò
ancora un argento e un bronzo agli Europei del 1974, per poi ritirarsi a meno di venti
anni, con la soddisfazione di aver stabilito un record del mondo e ventuno record
continentali.
Oggi la piccola padovana che fece impazzire l’Italia è una splendida signora che
commenta sport in televisione: nessuno pensa più ai suoi due Premi Limone.
© Danilo Francescano
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Marco Della Croce
Antonella Ragno
Nel nome del padre
P
er l’ennesima volta si spengono le luci, s’illumina la pedana, si azzera il tabellone.
Tra gli spalti affollati della Fechthall di Monaco cala nuovamente il silenzio:
sta per cominciare il dodicesimo round del barrage di finale del fioretto individuale
femminile. Quello decisivo.
In realtà, a seguire, ce ne sarebbero ancora tre ma, qualunque sarà il loro esito, non
potranno più incidere nell’assegnazione delle medaglie. Con questo, infatti, i giochi
sono fatti. Ad assistere, nei pressi dell’area tecnica, c’è Antonella Ragno, stretta accanto
al marito Gianni e al Maestro Pignotti.
Non sta più nella pelle, la schermitrice azzurra: ha da poco terminato i suoi cinque
incontri previsti e si trova, contro ogni pronostico, in testa alla classifica provvisoria con
uno score di 19-13. Un vantaggio importante che, male che vada, le garantirà comunque
la medaglia d’argento.
Antonella, però, non può accontentarsi, non questa volta. Come darle torto? Si trova a
un passo da quell’oro olimpico che le sfugge da ben dodici anni. Un oro che ha promesso
anni prima a suo padre. Deve solo sperare che la francese Marie-Chantal DepetrisDemaille, di fatto fuori dalla zona medaglie, vinca contro la sovietica Galina Gorochova
che, al contrario, è ancora in corsa per il podio più alto e, dunque, motivatissima.
Curioso, perché dopo la griglia eliminatoria nessuno, tra giornalisti e addetti ai lavori,
avrebbe scommesso un soldo bucato su Antonella. Sconfitta nella poule eliminatoria da
modeste avversarie, come la britannica Clare Henley-Halsted, la tedesca occidentale
Brigitte Oertel e la polacca Halina Balon, la Ragno è riuscita a qualificarsi ai quarti
di finale per il rotto della cuffia. Suo è infatti il terzo posto – l’ultimo disponibile –
del girone, in virtù delle fortunose vittorie contro la svizzera Fabienne Regamey e la
statunitense Ann O’Donnell, combinate a una fortunata serie di risultati ottenuti dalle
altre avversarie (con cui, invece, ha perso).
Difficoltà niente affatto casuali. Ad Antonella, infatti, manca il giusto ritmo della gara,
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Sport for women!
l’odore della sfida, l’adrenalina che scorre nelle vene prima di ogni stoccata decisiva. In
questi ultimi mesi ha disputato troppi pochi incontri ad alto livello per poter affrontare
le difficoltà di un torneo olimpico esibendo la necessaria condizione mentale.
Figlia predestinata
Eppure per lei, essere arrivata fin qua è già di per sé una specie di miracolo. Solo
quattro anni prima, infatti, la brava schermitrice veneziana era, di fatto, un’ex atleta.
L’ennesima delusione patita a Città del Messico, il dolore per la successiva scomparsa
del padre-allenatore, e l’esigenza non più rimandabile di diventare finalmente mamma
sembravano averla allontanata definitivamente dalla scherma.
E invece no. Qualche mese dopo la nascita del piccolo Lorenzo, nel 1970 la Ragno
risale in pedana e torna ad allenarsi. A seguirla, dunque, non c’è più papà Saverio, oro
olimpico a Berlino nel 1936 in quella squadra di spadisti che aveva avuto come punta di
diamante Edoardo Mangiarotti. La Federazione, che crede ancora in lei, la invita così a
trasferirsi al Circolo Raggetti, a Firenze, sotto le cure di Ugo Pignotti. Anche l’anziano
Maestro vanta un oro alle Olimpiadi: è successo ad Amsterdam , nel 1928, nel concorso
a squadra di fioretto.
Che destino, per la Ragno! Sembra che le circostanze della vita continuino,
imperterrite, a obbligarla a conquistare per forza l’alloro olimpico, forse ancora di
più della sua effettiva volontà. Prima papà, ora Pignotti: grandi atleti del passato,
carichi di gloria e di vittorie, ma entrambi uniti dal cruccio di non essere riusciti a
conquistare la medaglia più ambita nelle discipline individuali, ma solo in quelle di
squadra. Già, il papà…
Antonella sembra nata apposta per riscattare quell’antica delusione. O almeno è
quello che pensa suo padre mentre la vede crescere. E, tuttavia, non ha fretta, il Maestro
Saverio, nel perseguire il suo disegno. Tanto è sicuro che l’obbiettivo prima o poi sarà
raggiunto. Aspetta che la ragazza abbia compiuto quindici anni – e, dunque, abbia «il
fisico a posto» – prima di metterle finalmente in mano una spada. È il 1955 e l’olimpionico
di Berlino comincia, con pazienza, abilità e tenacia, la sua lenta costruzione di un’atleta
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Marco Della Croce - Antonella Ragno
formidabile e destinata al successo. In cambio le strappa la promessa di portare in casa
Ragno quell’oro olimpico che a lui è sfuggito.
Saranno le qualità nascoste nei suoi geni, sarà che in casa ha sempre respirato
aria di scherma, sarà la voglia di non deludere le aspettative paterne, fatto sta che
Antonella apprende così bene i suoi insegnamenti da diventare, in breve, una delle
schermitrici più forti a livello giovanile. La specialità che predilige è il fioretto, col
quale conquista fin da subito titoli italiani e prestigiosi piazzamenti in giro per il
mondo.
Delusioni olimpiche
Finché, nel 1960, le si schiudono le porte della Nazionale e, con essa, l’Olimpiade
romana. E fa subito il botto: bronzo nel concorso a squadre di fioretto e semifinale
sfiorata nella categoria individuale. Davvero niente male per una ventenne che ha
iniziato a calcare le pedane solo da cinque anni.
Da qui in poi comincia una carriera ricca di vittorie e soddisfazioni. In Italia non
ha praticamente rivali, all’estero non sempre raccoglie ciò che si merita, anche se è
considerata tra le più forti fiorettiste in circolazione. Antonella, del resto, ha le qualità
di una fuoriclasse: stile, classe, potenza, forza, tecnica e agilità. Ciò che le manca, forse,
è solo la tranquillità necessaria per reggere fino in fondo lo stress delle competizioni
internazionali.
Il suo chiodo fisso, del resto, si chiama oro olimpico. Sente di doverlo, prima ancora
che a sé stessa, al padre Saverio che ha sempre creduto in lei e che aspetta paziente
quel riconoscimento che a lui è inopinatamente sfuggito sulla pedana di a Berlino. Nel
frattempo la ragazza si è fidanzata con Gianni Lonzi, pallanuotista della Pro Recco e, a
sua volta, medaglia d’oro ai Giochi di Roma.
L’Olimpiade di Tōkyō diventa così il suo obbiettivo primario. Ogni competizione
a cui partecipa, dopo il 1960, in Italia o all’estero, è solo una tappa di avvicinamento
all’agognato traguardo.
47
Sport for women!
Ma le cose, durante i Giochi nipponici, non vanno come sperato. Antonella si libera
ben presto delle incertezze e dei timori patiti nella poule eliminatoria, approdando in
finale dopo aver facilmente avuto ragione delle sue avversarie sia nei quarti che in
semifinale. Ma durante il barrage finale qualcosa, purtroppo, va storto.
La veneziana parte col piede sbagliato, rimediando subito due sconfitte, poi
fortunatamente si riprende e comincia a risalire la china, inanellando una minisequenza
di vittorie. L’obbiettivo è lì, a portata di mano, ma allo scontro decisivo arriva scarica e
nervosa. Per l’esperta magiara Ildikó Ságiné è uno scherzo conquistare la medaglia d’oro,
mentre la Ragno scivola al terzo posto. Risultato prestigioso, è vero, ma insufficiente a
placare l’amarezza dell’azzurra.
La delusione, per fortuna, passa alla svelta. Antonella, lungi dal darsi per vinta, si
rimbocca le maniche e torna ad allenarsi con impegno ancora maggiore. In fondo è
ancora giovane e l’Olimpiade in terra messicana sembra fatta apposta per soddisfare,
una volta per tutte, la sua aspirazione. Il papà, in ogni caso, non la rimprovera, anzi fa di
tutto per non farla sentire in colpa. Tanto sa, in cuor suo, che prima o poi l’oro olimpico
sua figlia lo metterà al collo. È stato un atleta di valore, il Maestro Saverio, certe cose
le sa, le intuisce. Alla sua ragazza non manca nulla per arrivare là dove lui ha fallito.
Deve solo aspettare.
Antonella Ragno arriva alla vigilia dell’Olimpiade forte del secondo posto conquistato
l’anno prima ai Mondiali di Montréal. Questo la rende, di diritto, una delle principali
candidate alla vittoria finale e lei lo sa. Ma, ancora una volta, una circostanza imprevista
rallenta il suo cammino prima ancora che sia iniziato. Poco prima dell’inizio dei Giochi,
infatti, il padre di Gianni muore all’improvviso, gettandola nello sconforto. Davanti
agli occhi della veneziana si profila ancora una volta lo spettro della sconfitta. Che,
puntualmente, arriva.
Con le gambe molli e il morale rasoterra, Antonella esibisce fin dalle prime
battute una scherma approssimativa, lontana mille miglia dalle sue possibilità, tanto
che non va oltre i quarti di finale. I giornali, all’ennesima delusione, infieriscono
sulla sua inguaribile mancanza di autocontrollo nei momenti che contano, sul non
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Marco Della Croce - Antonella Ragno
riuscire mai concentrarsi a dovere quando servirebbe. Ciò che le manca, invece,
è solo la serenità e la consapevolezza di non sentirsi mai completamente padrona
della sua vita.
Momentaneo ritiro
Ed ecco allora la svolta decisiva. Basta con la scherma, basta con fioretto, allenamenti,
pedane, trasferte, avversarie che ti guardano dall’alto in basso. Basta con i sacrifici.
La Ragno si guarda allo specchio e vede riflessa una donna di ventotto anni che ha
rinunciato a tutto per inseguire un sogno che, nei fatti, si è rivelato impossibile. È
arrivato il momento di entrare nella vita reale, costruirsi una famiglia, fare dei figli.
Vivere, insomma. E così fa.
Nel 1969 Antonella sposa il suo amato Gianni e resta subito incinta. Ma niente, per
Antonella, deve essere semplice. Il padre, infatti, la figura che fin lì ha dominato la sua
vita, viene a mancare qualche mese dopo. Sarebbe facile, adesso, dire che il vecchio
Maestro decide di arrendersi non appena si accorge che il suo sogno per interposta
persona è svanito per sempre. Facile, ma ingiusto. Così come facile, ma ingiusto,
sarebbe affermare che, liberatasi dal fardello emotivo costituito dalle aspettative del
padre, Antonella decide, l’anno dopo, di tornare in pedana.
Perché non è così. O, comunque, non è solo così. Le dinamiche relazionali tra
genitori e figli – si sa – sono per loro stessa natura estremamente complesse e spesso
misteriose. Tutte le interpretazioni fatte su questo argomento non sono altro che
delle mere congetture, potenzialmente lontanissime dalla realtà. L’indubbio peso
che da sempre ha gravato sulle spalle dell’atleta azzurra può, dopo la scomparsa del
padre, essersi invece aggravato per il senso di colpa di non essere riuscita a regalargli
in vita quella medaglia d’oro inseguita per tanti anni. Non lo sapremo mai.
L’ultimo tentativo
Ciò che sappiamo, invece, è che nel 1970 Antonella si trasferisce a Firenze e,
rimboccatasi le maniche, comincia l’ennesima scalata al sogno olimpico. L’obbiettivo
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Sport for women!
massimo, questa volta, è la qualificazione per i Giochi di Monaco e classificarsi tra le
prime dieci fiorettiste del mondo. Tutto ciò che eventualmente verrà in più sarà tanto di
guadagnato.
Il Maestro Pignotti è bravo ed esperto, e sa come motivare i suoi atleti. In pochi mesi
rimette in forma la ragazza, la sprona, la motiva tanto che, nel 1971, vince ancora una
volta il Campionato Italiano. Il tempo, però, è poco e le occasioni per combattere ad alto
livello non sono molte. Ma i progressi ci sono e l’atleta veneziana viene meritatamente
convocata per la sua quarta Olimpiade. Ecco perché, per lei, essere arrivata fin qua è già
di per sé una specie di miracolo.
Ed ecco perché ora Antonella non sta più nella pelle. Per una volta che è partita
senza i favori del pronostico si trova inaspettatamente a un passo da quella maledetta
medaglia d’oro. I suoi cinque incontri del barrage di finale, di cui tre contro delle
atlete mancine – che ha sempre sofferto oltre ogni logica –, si sono conclusi con
quattro vittorie e una sola sconfitta, rimediata proprio contro la Gorochova. Guarda
caso una “destra”.
È stato durante il duello contro Elena Belova sua autentica bestia nera, che la Ragno
ha capito che le cose stavano girando per il verso giusto. Serena e attenta come non mai
ha condotto i suoi assalti con grande efficacia, per una volta senza timore dell’avversaria.
Nemmeno quando la squadra sovietica al completo ha invaso la pedana per un punto
contestato, Antonella ha perso la concentrazione. Dopo diversi minuti di interruzione,
tra strepiti e imprecazioni, ha semplicemente ripreso a combattere come niente fosse.
Fino alla stoccata finale.
Il dodicesimo match, quello decisivo, sta dunque per cominciare. Da una parte, come
detto, la francese Depetris-Demaille, reduce da una vittoria e da una sconfitta e, anche
se la matematica non la condanna – dal momento che è solo al suo terzo turno – di fatto
fuori dai giochi principali. Il suo 6-6 complessivo non lascia, infatti, alcuna speranza.
Dall’altra c’è l’esperta Gorochova, giunta invece al suo ultimo assalto. La sovietica
è terza in classifica, grazie a uno score di 13-10, frutto di tre vittorie e una sola sconfitta
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Marco Della Croce - Antonella Ragno
contro la fortissima magiara Ildikó Farkasinszky-Bóbis, che la precede al secondo posto
con un buon 15-10.
Il match è dunque fondamentale per la schermitrice di Mosca. L’argento infatti è a
portata di mano, ma anche l’oro non è un sogno impossibile, per quanto difficile. Solo
se batte 4-0 l’atleta transalpina, infatti, la Gorochova scalzerà dal gradino più alto del
podio Antonella.
Un’eventualità che non si verifica. Combattendo come mai in vita sua, la DepetrisDemaille, alla fine di un incontro drammatico e tiratissimo, inchioda l’avversaria sul
4-3. La sovietica scende dalla pedana piangendo per la delusione: il terzo posto, certo,
non la soddisfa. Antonella Ragno, invece, può finalmente liberare tutta la sua gioia
repressa per troppi anni. Ubriaca di felicità abbraccia il marito, abbraccia il Maestro
e le compagne di squadra, abbraccia il grande Mangiarotti che, emozionato come un
bimbo, ha seguito l’incontro della figlia del suo vecchio amico come corrispondente
della Gazzetta.
Alla fine Antonella rivolge il suo sguardo verso le tribune gremite della Fechthall.
Sembra quasi che in mezzo alle gente che invoca a gran voce il suo nome cerchi di
scorgere il suo papà. Durante il duello con la Belova – sarà lei stessa a rivelarlo qualche
anno dopo – è infatti sicura di aver sentito provenire dagli spalti un «Forza Lollo!». Lo
stesso incitamento, la medesima voce, l’inconfondibile accento veneziano con cui suo
padre era solito spronarla quando gareggiava.
Quello sguardo commosso alla ricerca di un’impossibile presenza chiude il cerchio
e fa calare per sempre il sipario su una storia che ha distribuito – da entrambe le parti
– amore e rancore, riconoscenza e sensi di colpa, sentimento e ragione, dolcezza e
crudeltà. Sentimenti, questi, sempre sopiti, quasi sfumati, mai esibiti, ma non per questo
meno laceranti.
Una storia, quella di Antonella Ragno, complicata, dura, difficile perfino da raccontare.
Una storia in cui lo sport e la vita si sono mescolati, rincorrendosi per molti anni e
provocando ferite profonde. Guarite solo grazie alla caparbietà e alla forza d’animo
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Sport for women!
di una giovane donna che alla fine è riuscita a mantenere quell’antica promessa e a
conquistarsi la sua libertà, per troppo tempo ostaggio di un sogno infranto molti anni
prima sulla pedana olimpica di Berlino.
© Marco Della Croce
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Graziana Urso
Kornelia Ender
L’altra faccia della medaglia
Q
uando lo sport diventa strumento di propaganda politica a farne le spese sono
anzitutto gli atleti. Con una collezione impressionante di ori olimpici e di
titoli e record mondiali, Kornelia Ender è di fatto la prima vera campionessa moderna
della storia del nuoto, ma è stata anche una vittima inconsapevole del programma di
supremazia sportiva a base di doping che la Germania Est, il paese in cui è cresciuta,
aveva concepito negli anni Settanta per rilanciare la propria immagine internazionale.
Se il talento della Ender sbocciò in circostanze non sospette (a tredici anni Konny aveva
già sbalordito la platea dei Giochi Olimpici di Monaco conquistando tre argenti), sospetti
sono quantomeno la facilità irrisoria con cui la nuotatrice staccava le avversarie e il suo
esponenziale aumento di peso (otto chili) poco prima dell’Olimpiade di Montréal. Lei
stessa, in un’intervista al Times, anni dopo avrebbe confessato di essersi meravigliata
di quella metamorfosi fisica, che però aveva ingenuamente attribuito al duro lavoro in
piscina più che alle sostanze iniettatele durante allenamenti e competizioni «per aiutarla
a recuperare le forze».
Una virago
Kornelia divenne una virago, anzi l’archetipo della serie di virago DDR – tutte
muscoli e voce baritonale – che fecero razzia di vittorie iridate (ben quarantaquattro
su ottantotto) tra il 1973 e il 1989; con una variazione sul tema, che la rese amatissima
anche al di fuori della piccola Repubblica democratica tedesca: la femminilità di un
volto incastonato in un fluente caschetto biondo, gli occhi espressivi pronti ad accendersi
di entusiasmo e il sorriso aperto e contagioso dei suoi diciassette anni. Tanti ne aveva
quando si ritirò, e forse è per questo che il suo fisico resse all’assalto dei farmaci.
Konny aveva iniziato a nuotare all’età di dieci anni nelle piscine di Plauen, la
cittadina sassone in cui era nata il 25 ottobre 1958, per correggere un difetto della
colonna vertebrale, ma presto i tecnici della Federazione tedesca, fiutandone le
potenzialità, l’avevano convinta a trasferirsi ad Halle per intraprendere la strada
dell’agonismo. Infilando al collo sei medaglie, nel 1970 la Ender è la rivelazione della
53
Sport for women!
Spartachiade, la competizione per ragazzi riservata ai paesi del blocco sovietico. Due
anni dopo, fa capolino sulla scena internazionale presentandosi ai Giochi di Monaco
come l’outsider dei 200 m misti, in cui si piazza mezzo secondo dietro alla fuoriclasse
australiana Shane Gould, che sigla il record del mondo prima di abbandonare le piscine;
poi aiuta la sua nazionale ad arrivare sul podio nelle staffette 4x100 m stile libero e misti,
in cui trionfa il team americano. Insomma, l’olimpiade del secondo posto la promuove
nuotatrice di punta della Federazione teutonica.
Già nel 1973 a Berlino Est, in occasione dei Campionati Nazionali, Kornelia fa
capire di che pasta è fatta battendo il primato della Gould nei 200 m misti con il tempo
di 2’ 23” 01; si ripete poi nei 100 m stile libero fermando il cronometro a 58” 25 – che
diventano 58” 12 ai trials di Utrecht – e nei 100 m farfalla, con un 1’ 02” 31. La ragazza
arriva dunque lanciatissima ai Mondiali di Belgrado, organizzati dalla Federazione
internazionale per la prima volta nella storia della disciplina, che sanciscono il
predominio della Germania Est su Stati Uniti e Australia.
Dando prova delle sue straordinarie doti di sprinter, Konny conquista quattro ori (100
m stile libero e farfalla, staffetta veloce e mista) e un argento nei 200 m misti. Nei 100 m
stile libero, in particolare, svetta su tutte con un 57” 54 che umilia l’americana Shirley
Babashoff e l’olandese Enith Brigitha, appaiate in seconda posizione con il tempo di
58” 87.
Ma il record del mondo nelle mani di Kornelia è argilla da plasmare, e agli Europei
di Vienna la tedesca straccia il suo primato, infrangendo dopo quello dei cinquantotto
secondi anche il muro dei cinquantasette. Konny sperimenta poi una nuova distanza,
i 200 m stile libero, una prova che le vale l’oro al primo tentativo: il secondo andrà
diversamente. I Mondiali colombiani di Calì del 1975 sono il grande appuntamento pre-olimpico e
Kornelia ci tiene a far bene. La tedesca bissa tutti gli ori di Belgrado, ma vuole vincere
anche la gara dei 200 m stile libero. In una finale al cardiopalmo, la Ender transita
al passaggio dei cento metri molto prima della rivale Shirley Babashoff, ma la stoica
statunitense recupera superandola negli ultimi metri: è questa, per Konny, la più cocente
delusione della carriera.
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Graziana Urso - Kornelia Ender
Tuttavia, l’anno dopo a Montréal la Ender non avrà nulla da recriminare. Forte dei
nuovi record mondiali conquistati ai Campionati nazionali di Berlino Est nei 200 m
stile libero e nei 100 m farfalla, Kornelia è la favorita dei Giochi Olimpici, e dà subito
corso al suo piano di vittorie. L’ouverture della manifestazione le regala nei 100 m stile
libero il primo alloro, corredato dal solito primato: questa volta un 55” 65 che segna
una progressione di 2” 4 rispetto al record olimpico della Gould. Un incremento che in
passato aveva necessitato di ben quattordici anni di competizioni.
Si tuffa poi alla ricerca dell’oro nei 100 m farfalla, uguagliando il suo precedente
primato prima di lanciarsi alla conquista dei 200 m stile libero. Venticinque minuti
dopo – i giudici modificano il programma olimpico per concederle di riprendere
fiato – arriva il terzo trionfo ai danni della malcapitata Babashoff. La Ender vanifica
gli sforzi sovrumani dell’americana, riscattando con il tempo record di 1’ 59 “26
la débâcle colombiana dell’anno prima.
Dopo l’en plein nelle prove individuali, la campionessa di Plauen infila la medaglia
d’oro davanti agli USA anche nella staffetta 4x100 m stile libero e misti, migliorando
con la sua nazionale di oltre sei secondi il primato mondiale che già apparteneva alla
Germania Est. Le statunitensi si rifaranno in quella veloce, trascinate alla vittoria dalla
rabbia della Babashoff, nonostante le bracciate di Kornelia assicurino alle tedesche la
prima frazione di gara.
Il matrimonio con Roland Matthes
Ormai paga, vittoriosa come nessun’altra nuotatrice prima di lei, la Ender torna in
Germania col fermo proposito di lasciare le competizioni. Lo aveva detto alla vigilia di
Montréal: «Dopo i Giochi penserò alla mia vita privata». Così due anni dopo Konny si
sposa, e il prescelto è l’ex fuoriclasse tedesco delle piscine Roland Matthes. Sull’unione,
destinata a fallire in soli quattro anni, un’altra ombra, a dispetto delle dichiarazioni di
autenticità da parte di entrambi i coniugi: che sia stata pilotata dalla Stasi nell’ambito di
un programma eugenetico per la creazione di una razza di supercampioni. Ma Franziska,
la figlia nata dal matrimonio, non ebbe successo nel nuoto. Kornelia Ender oggi vive con la sua nuova famiglia a Schornsheim, a pochi chilometri
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Sport for women!
da Magonza. Diventata una fisioterapista, non ha esitato a puntare il dito contro quei
medici che non chiesero mai, a lei e compagne, il permesso di imbottirle di steroidi. E
se il frutto di quel dissennato piano sportivo nel suo caso furono solo medaglie su cui
aleggerà sempre lo spettro del doping, per altre ex campionesse furono anche gravi
problemi di salute per loro e per i loro figli.
A volte si perde vincendo.
© Graziana Urso
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Graziana Urso
Nadia Comăneci
La “farfalla” rumena
S
ulla Romania non si è ancora allungata la mano di Nicola Ceauşescu (al potere
dal 1965), quando a Oneşti, cittadina industriale all’ombra dei Carpazi, in un
piccolo appartamento tra i fumi delle fabbriche, nasce Nadia Comăneci, l’incarnazione
ginnica della perfezione. Nadia come Nadežda, la protagonista del film russo al quale
papà Gheorghe e mamma Ştefania-Alexandrina si ispirano per regalare alla figlia un
nome che significa “speranza”. Lei non deluderà le attese. Quel 12 novembre 1961
s’invola verso la leggenda. Sette volte il punteggio di dieci all’Olimpiade di Montréal
1976: Nadia riscriverà la storia della ginnastica artistica.
Che la ragazzina fosse una predestinata lo intuisce prima di tutti, osservandola nella
palestra della scuola, il coach Béla Károlyi. Nadia ha un temperamento vivace, corre e
salta. Soprattutto salta. A forza di farlo, in casa ha già rotto quattro divani. Károlyi, che
ha aperto in città un centro sportivo con la moglie Marta, non vuole lasciarsela sfuggire,
ma la perde di vista quando termina l’intervallo e lei rientra in classe. La cerca aula per
aula, chiedendo alle scolare a chi piaccia la ginnastica. La trova poco dopo: «A me, a
me!».
Il provino nella palestra di Károlyi Nadia lo supera con una naturalezza sbalorditiva.
Le viene chiesto di saltare dopo una rincorsa di quindici metri sulla trave alta un metro
e venti. Nadia non ha paura – «non conosceva la paura» dirà di lei Károlyi – e balzata
sulla trave, dieci centimetri di larghezza, vi cammina sopra come lungo un marciapiede.
A sei anni le si aprono le porte di una carriera folgorante che costruisce immolando la
sua giovinezza.
Talento e tenacia
Nadia si allena quattro ore al giorno, sei giorni alla settimana; ripete e ripete gli
esercizi, senza mai invocare una pausa. Passano pochi mesi ed è già pronta per i
Campionati Nazionali Juniores, in cui si piazza al tredicesimo posto. Non male per una
bambina di sette anni, ma Károlyi non è soddisfatto, le regala una bambola portafortuna
e le ordina: «Mai più un tredicesimo posto!». Sa di avere tra le mani un gioiello, lo
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Sport for women!
plasma, lo forgia e l’anno dopo arriva la medaglia d’oro. Nadia, otto anni e la bambola
di Károlyi sotto il braccio, trionfa per la prima volta nella sua vita: la prima di tante.
Nel 1971 entra nella Nazionale di ginnastica, con cui partecipa alla Coppa
dell’Amicizia in Bulgaria, dove conquista due medaglie d’oro che le valgono
altrettante nuove bambole. Una collezione che cresce proporzionalmente ai suoi
successi, facendo presagire un imminente salto nel firmamento professionistico.
A tredici anni, la pupilla di Károlyi si misura con la ginnastica che conta, sfidando
il suo idolo Ludmilla Ivanovna Tourisheva agli Europei del 1975. Risultato: una
medaglia d’argento, quattro medaglie d’oro. Nadia è la regina di Skien, ma cerca la
consacrazione internazionale.
I Giochi Olimpici di Montréal del 1976 sono dietro l’angolo, se pure dopo
un’infuocata vigilia di scontri politici, che sfociano nel boicottaggio di Taiwan e di
molti stati africani. Sarà proprio lei a riscattare l’Olimpiade canadese. Quattordici
anni sono pochi, ma non per i suoi sogni. L’allieva di Károlyi – centocinquantatré
centimetri per trentanove chilogrammi – si presenta alle parallele asimmetriche con
un body bianco a strisce rosse sui fianchi e il numero settantatré. Ha i capelli raccolti
in una coda di cavallo, e una frangia che si apre su due occhi concentratissimi, che
guardano gli staggi e poi per terra, verso la pedana da cui spicca il volo, dopo un breve
respiro, la ginnasta totale.
La Comăneci esegue movimenti precisi, rapidi, librandosi con leggerezza da uno
staggio all’altro. Nel suo corpo, la forza del leone e la grazia della farfalla: Nadia sembra
nuotare, così dice un cronista, in un oceano d’aria. Quando conclude la sua performance,
il pubblico, che l’ha seguita in estatico silenzio, l’accoglie con un’ovazione. Attende col
fiato sospeso il voto, e improvvisamente sul display compare un 1.00. Uno per dire dieci,
perché il computer è stato programmato per registrare votazioni solo fino a 9.99: Nadia
è la prima ginnasta di sempre a ottenere il massimo punteggio che, in seguito, consegue
altre sei volte mandando in visibilio un Forum mai così gremito. In totale, vince tre
medaglie d’oro, una d’argento e una di bronzo.
La ragazzina diventa una stella mondiale, ma è anzitutto una stella rumena e
Ceauşescu approfitta della sua popolarità per ripulire l’immagine del regime. Il dittatore
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Graziana Urso - Nadia Comăneci
riceve Nadia e le conferisce la medaglia d’oro di Eroe del Partito Socialista, invitandola
a trasferirsi a Bucarest. Lei perde la testa – complici anche l’allontanamento di Károlyi
dalla Federazione e il divorzio dei genitori –, si allena poco e grida la sua solitudine
ingerendo della candeggina.
Ma si rialza e centra due ori e un argento agli Europei del 1977 e un oro e due argenti
ai Mondiali del 1978. Un anno dopo, ritrovato il riabilitato Károlyi, Nadia sigla con tre
ori e un bronzo gli Europei e vince con la Romania il titolo mondiale a squadre. Non la
ferma neppure un misterioso avvelenamento e il conseguente ricovero in ospedale. C’è
tempo per recuperare. Ora l’obiettivo è a due passi da casa: Mosca 1980, l’Olimpiade
del boicottaggio americano. Nadia/Nadežda punta a un nuovo traguardo: ripetersi ai Giochi, impresa ai limiti
dell’impossibile in una disciplina che brucia le sue atlete nel giro di pochi anni. Ma lei è
una fuoriclasse, e si presenta in URSS all’apice della forma. Tramuta in oro il bronzo di
Montréal nel corpo libero, ottiene il podio più alto nella trave e lo conquisterebbe anche
nel concorso generale individuale se la giuria non le preferisse la campionessa di casa
Yelena Victorovna Davydova, con un verdetto assai discutibile. Nadia fa spallucce, e
chiude con un altro argento, inanellando la sua nona medaglia olimpica.
Fuga dal regime
È a questo punto che decide di mollare, provata nel fisico e nello spirito da anni di
ostinato lavoro. I cinque ori alle Universiadi del 1981 sono la sua ultima perla. Nadia
viene arruolata tra gli allenatori della nazionale rumena all’Olimpiade di Los Angeles,
ma già sogna di lasciare la Romania. Sfuggirà alla morsa del regime, che non vuole
privarsi di un simbolo nazionale, e di Nicu Ceauşescu, il figlio del Conducător con cui
intreccia una pericolosa liaison, solo alla vigilia della Rivoluzione, scappando a piedi
verso l’Ungheria una notte del novembre del 1989.
Oggi Nadia Comăneci vive in Oklahoma, dove gestisce col marito ed ex campione
olimpico Bart Conner una scuola di ginnastica. È madre di una bambina, attiva
promotrice di numerose iniziative benefiche e ambasciatrice dello sport della Romania.
Riconciliarsi con il suo paese e il suo passato è stata forse la vittoria più sofferta, ma
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Sport for women!
le ferite non guariscono d’incanto e Nadia lo ha capito col tempo: la perfezione è una
categoria dello sport, non della vita.
© Graziana Urso
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Graziana Urso
Martina Návrátilova
Una vita all’attacco
L
a mattina del 1962 in cui Martina Šubertová diventa Martina Navrátilová, il
funzionario dell’ufficio anagrafe di Praga non può sapere di aver appena registrato
il nome di un pezzo di storia del tennis. Nove vittorie a Wimbledon, cinquantanove
titoli del Grand Slam conquistati per un totale di trecentoquarantacinque trofei, tra
singolare e doppio, una longevità agonistica di ventisette anni. Sono i numeri di un
marchio di successo, che segna il destino di un’altra stella della racchetta, la svizzera
Hingis; Martina anche lei, in omaggio alla leggenda ceco-americana.
Nata a Praga il 18 ottobre 1956, Martina assume il cognome definitivo dal patrigno
Miroslav Navratilov, che la madre Jana sposa in seconde nozze. I tre vivono a Řevnice,
in casa della nonna Agnes Semanska, alla quale il regime comunista ha tolto tutto,
fuorché un campetto privato in terra rossa dove si allenava ai tempi in cui faceva parte
della nazionale cecoslovacca di tennis. Martina stacca dal chiodo le vecchie racchette
della nonna e comincia a palleggiare contro un muro.
A sei anni gioca per la prima volta su un campo vero e quando vede la palla superare
la rete capisce di essere nel posto giusto. «Un giorno giocherai a Wimbledon» le
profetizza Miroslav, che la affida alle cure dell’ex campione George Parma. Sotto la sua
guida, la ragazza abbandona il rovescio a due mani per abbracciare uno stile di gioco
offensivista, in cui la forza fisica diviene strumento di creatività.
L’invasione di Praga
Martina sente di aver trovato la sua strada, ma nell’estate del 1968 i carri armati
sovietici minacciano di sbarrargliela. Quando la Primavera di Praga implode, la
futura campionessa è a Pilsen per un torneo juniores: al rientro, la città le apparirà
un’altra, spenta, senz’anima. È in quei giorni che in lei matura la sua grinta, non
più solo voglia di vincere, ma anche consapevolezza del prezzo della sconfitta.
Poco prima di un incontro, Martina replica a denti stretti a un’avversaria russa che
si rifiuta polemicamente di stringerle la mano: «Per battermi avrai bisogno di un
carro armato».
61
Sport for women!
Con il primato nazionale in tasca e la tessera di professionista, nel 1974 Martina
vola in Florida, a Orlando, dove si aggiudica il suo primo trofeo internazionale. Ma per
lei quel viaggio è soprattutto la scoperta di una nuova realtà, in cui ritrova il respiro,
lontano dalle costrizioni di una federazione ingerente, che pretende di programmare
il suo calendario minacciandola di non concederle il permesso di espatrio; lontano
dall’autoreferenzialità di un mondo che incatena, negando tutto ciò che travalica le sue
ferree logiche.
L’America diventa l’orizzonte di Martina, che durante gli US Open del 1975
defeziona, trascorrendo la maggior parte del torneo in albergo, controllata a vista
dagli agenti dell’FBI. Otterrà la nazionalità americana nel 1981, dopo essere stata
condannata dal governo cecoslovacco alla damnatio memoriae: cinque anni dopo
difenderà a Praga i colori statunitensi nella finale della Fed Cup contro la Nazionale
che un tempo era stata sua.
In America Martina deve ritrovare la propria identità anche nel tennis. Il serve
and volley non le basta per vincere quanto potrebbe, e sono piuttosto i suoi chili
in eccesso a catturare l’attenzione della stampa che la ribattezza, impietosamente,
la Larga Speranza Bianca. Per tutta risposta lei si mette a stecchetto, si allena con
la cestista Nancy Lieberman e inizia a dominare il circuito femminile. In realtà
Martina brilla già nel 1978-79, appropriandosi per due edizioni di fila della chiavi
di Wimbledon. Nel tempio della racchetta, la tennista, non ancora statunitense, dà
compimento alla predizione di Miroslav, vincendo lo Slam della Regina contro la
rivale di sempre: Chris Evert. Molte volte lo sport propone appassionanti duelli tra i suoi protagonisti, ma quello
tra le due campionesse è stato il leit motiv del tennis rosa per oltre dieci anni. Chris o
Martina, Martina o Chris, per le altre le briciole o poco più. L’una elegante e razionale,
dotata di profondità e precisione di gioco, l’altra martellante e istintiva, con le sue
discese a rete e un servizio micidiale. Un braccio di ferro lungo ottanta match, leale,
contraddistinto da una grande stima reciproca. Ricorda la Evert: «Quando perdevo ero
delusa, ma non devastata. Se non vincevo io, preferivo toccasse a lei».
Martina vince, anzi stravince, nella prima metà degli anni Ottanta, all’indomani di
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Graziana Urso - Martina Návrátilova
una sconfitta che muta il corso della sua carriera. Agli US Open del 1981 è battuta dalla
diciottenne Tracy Austin, ma quando lo speaker la richiama in campo per la premiazione,
il pubblico le tributa un’ovazione di oltre un minuto.
Martina è sorpresa: finalmente è entrata nel cuore della gente, lei che ha sempre avuto
il coraggio di essere sé stessa anche quando ha scelto di rivelare la scomoda verità della
sua bisessualità, rompendo i tabù del compassato circuito tennistico. Martina ricambia
l’affetto dei fan infilando un trionfo dietro l’altro. Roland Garros, Wimbledon, US
Open, Australian Open: non c’è Slam in cui non trionfi, nel singolare come nel doppio.
Nel 1983-84 la Navrátilová fa manbassa di quasi tutti i match (realizzando un record di
settantaquattro vittorie consecutive) e quasi tutte le competizioni cui partecipa.
Il ritiro
Poi il tennis cambia volto, nascono le racchette oversize e il serve and volley, che
Martina aveva imposto a colpi di successi, lascia il posto a un gioco più tecnico,
da fondocampo. Arrivano nuove rivali (Steffi Graf, Monika Seleš), ma Martina è
sempre lì. Nel 1990 centra il nono sigillo a Wimbledon e tre anni dopo si toglie la
soddisfazione di battere, a trentasei anni, la Seleš, numero uno in carica. È il momento
del ritiro. Il 1994 è l’anno del tour dell’addio, che le regala una standing ovation a ogni
apparizione. Martina se ne va, portandosi via un ciuffo d’erba che strappa commossa
dal prato di Wimbledon.
Nella sua casa di Aspen scrive, fotografa, si dedica ai suoi nipoti e ai suoi animali.
Il tempo passa, eppure lei non riesce a dimenticare le partite di tennis; così, a
quarantatré anni, decide di tornare. Gioca in doppio calcando le superfici dei più
importanti tornei, che puntualmente si aggiudica: l’ultimo trionfo, l’ennesimo, il 21
agosto 2006 agli US Open, nel doppio misto in coppia con Bob Bryan. Questa volta
Martina saluta per sempre: sui campi che le hanno permesso di incantare le platee
mondiali non la rivedremo più.
Ora che ha ritrovato anche l’altra metà di sé, riacquisendo la nazionalità ceca accanto
a quella americana, ora che gira il mondo per promuovere le cause che le stanno a cuore,
dai diritti degli omosessuali alla lotta contro il doping, siamo certi che Martina abbia
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Sport for women!
trovato un posto anche lontano dal rettangolo di gioco. Un posto in cui declinare nelle
vite degli altri la voglia di farcela che un giorno le fece affermare: «Chiunque dica ‘Non
conta che tu abbia vinto o perso’... probabilmente ha perso».
© Graziana Urso
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Alice Figini
Gabriella Dorio
I magici 1.500 m di “Riccioli d’Oro”
V
«
incerò un’Olimpiade» Così disse, appena dodicenne, Gabriella Dorio ai
compagni di scuola dopo la sua prima emozionante vittoria allo Stadio dei
Marmi, durante una corsa campestre. Un sogno – forse dettato dall’entusiasmo del
momento, ma non per questo meno sincero – che l’accompagnerà per buona parte della
sua vita futura, fino alla conquista dell’agognata medaglia d’oro all’Olimpiade di Los
Angeles nel 1984.
Tutto era cominciato come un gioco, complice quel desiderio di correre alimentato
dalla vivacità infantile, però quella ragazzina bionda e minuta ebbe presto ben chiaro
quanto lo sport potesse diventarle un alleato formidabile, su tutti i fronti. Correre
significava sfidare i propri limiti, non solo fisici ma anche psicologici, vincere quella
timidezza che troppo spesso la riduceva al silenzio. Eppure, se in altri campi la sua
presenza si rivelava discreta, in gara diventava perfino ingombrante, soprattutto per le
sue avversarie. Il primo traguardo importante Gabriella lo ottiene con la vittoria sui 1.000 m ai
Giochi Studenteschi della Gioventù nel 1971, un’esperienza che le permette di mettersi
in luce e che funge da trampolino di lancio per le sue conquiste future. Seguono infatti
diversi primati nelle categorie giovanili: appena due anni dopo si aggiudica l’ottava
posizione negli 800 m ai Campionati Europei Juniores e nel 1974 occupa già il nono
posto nei 1.500 m ai Campionati Europei di Roma.
L’opposizione in famiglia
Appare evidente che la vita della ragazza sia votata allo sport quando Gabriella
centra il podio, terza posizione, nei 1.500 m del Campionato Europeo Juniores.
Nonostante questo, la giovane deve scontrarsi con l’opposizione dei genitori prima di
indossare la maglia nazionale che la porterà all’Olimpiade. La sua è una famiglia di
contadini vicentini, gente onesta per cui la vita ha il prezzo della fatica e del lavoro, ma
condizionata dalla mentalità provinciale dell’epoca, che percepiva una donna dedita ad
assidui viaggi come immagine di dissolutezza. Che la ragione dei continui spostamenti
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Sport for women!
di Gabriella fosse da attribuire allo sport era soltanto un aggravante al malcostume.
I genitori non vogliono proprio saperne di lasciarla andare: la sola idea della loro
bambina tutta sola esposta ai pericoli di città sconosciute li sgomenta, preferirebbero
di gran lunga che a girare il mondo fosse Sante, l’uomo di casa, fratello di Gabriella.
Alla fine, però, la straordinaria bravura della ragazza, tanto decantata dall’insegnante di
ginnastica, riesce a spuntarla ancora una volta: grazie anche al provvidenziale intervento
del parroco del paese e alla sua influenza sulla famiglia, viene concesso a Gabriella di
partire e abbandonare il nido.
E lei, finalmente libera dai vincoli che la relegavano alle competizioni in territorio
nazionale, non tarda molto a spiccare il volo: dapprima partecipa ai Giochi Olimpici
di Montréal e agli Europei del 1978 guadagnando la sesta posizione nei 1.500 m, poi
approda ai Giochi Mediterranei in Jugoslavia all’eccezionale risultato di 1’ 57” 66 sugli
800 m, un record che le varrà la conquista del primato italiano, ancora oggi imbattuto. Nel 1980 prende parte ai Giochi Olimpici di Mosca, piazzandosi all’ottavo e al
quarto posto rispettivamente negli 800 m e nei 1.500 m. La competizione si rivela
ardua, soprattutto per lo scontro con rivali del calibro delle russe Tat’jana Vasil’evna
Kazankina, Yekaterina Podkopayeva e Nadesha Raldugina, veri e propri razzi umani,
atlete allenate con ogni mezzo, programmate per una gara feroce.
Ora le preoccupazioni di Gabriella non sono i timori per le sottili invidie, gli scherni
che la assillavano nelle competizioni domenicali, quand’era ancora al paese; allora gli
uomini non accettavano di essere superati da una ragazzina e la aggredivano con fischi
e insulti, non solo durante la corsa ma anche dalle tribune, spesso costringendo lei e le
amiche a una partenza ritardata per evitare di essere sbeffeggiate nel mezzo della gara.
Quando si ritrova ai fatidici Giochi Olimpici la giovane atleta deve ammettere a se
stessa che la competizione diventa una belva ancora più spietata e sleale – spesso nutrita
da sostanze anabolizzanti, al fine di conquistare la vittoria – proprio dove dovrebbe
essere praticata per pura passione, nel tempio sportivo per eccellenza. Ma a Los Angeles
le carte si rimescolano: il boicottaggio dell’Unione Sovietica, in risposta a quello degli
Usa a Mosca, consente l’ascesa di altri Stati rimasti fino ad allora nell’ombra, come
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Alice Figini - Gabriella Dorio
la Cina e i paesi africani, ma soprattutto sgombra il campo dalla potenza delle podiste
russe.
Gabriella Dorio ha tra le mani la sua occasione d’oro; finalmente potrà permettere
al suo gioco pulito di emergere senza l’ostacolo delle energumene sovietiche. Certo,
la Romania rappresenta un’altra temibile rivale da fronteggiare, con atlete imbattibili
come Doina Ofelia Melinte e Maricica Puică. In particolare la Melinte, già vincitrice
degli 800 m, darà parecchio filo da torcere a Gabriella e proprio nella loro sfida sarà
concentrata l’attenzione negli ultimi minuti di gara, attimi in grado di tenere pubblico e
cronisti col fiato sospeso.
Una sfida al cardiopalmo
È l’11 agosto del 1984 e a Los Angeles il sole cade a picco sulle mezzofondiste
allineate in attesa della partenza per i 1.500 m: la quarta posizione conquistata negli
800 m è per Gabriella un buon risultato, ma non sufficiente a placare l’eco delle
parole pronunciate da ragazzina. E non sono soltanto i retaggi dei suoi sogni infantili a
motivarla, ma anche una promessa - fatta proprio il giorno precedente alla gara - a Sara
Simeoni, campionessa italiana del salto in lungo, che dopo la vittoria della medaglia
d’argento aveva incoraggiato la giovane connazionale donandole uno dei fiori ricevuti
alla premiazione.
Eppure, negli istanti che precedono l’inizio della gara, l’oro aleggia solo come un
presagio nelle menti delle atlete; al segnale di partenza la priorità diventa correre, e
forse pure l’immagine del traguardo si annulla sovrastata dal fragore di movimenti
allineati, delle scarpe che solcano con regolarità il terreno sfiorandolo appena prima di
affrontare il passo successivo.
La prima parte della gara appare molto tattica, le mezzofondiste corrono con un
ritmo costante mantenendo una distanza ravvicinata. Poi, a un giro e mezzo dalla fine,
è Gabriella ad accelerare, staccando le altre: la sua maglia azzurra, contrassegnata dal
numero 226, spicca come uno scorcio di cielo sulla terra rossa del campo. L’unico
dettaglio che definisce la sua figura nei rapidi istanti della corsa sono i capelli corti e
mossi color castano chiaro: non a caso Gabriella è per tutti Riccioli d’Oro. L’ultimo
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Sport for women!
brivido è a duecentocinquanta metri dal traguardo, quando Donia Melinte la sorpassa,
ma Gabriella non cede e continua a tallonarla, torna all’attacco all’uscita della curva, si
allarga all’inizio del rettilineo finale e supera la rumena ad appena ottanta metri dalla
fine, arrivando al traguardo con un vantaggio di cinquantuno centesimi di secondo sulla
rivale.
Il sogno di Gabriella si è realizzato e lei, sorridendo di incredula soddisfazione, leva
le mani verso il cielo e si volta in direzione degli spalti che la applaudono. Un ragazzo
del pubblico le porge perfino una bandierina, lunga dieci centimetri, uno di quegli
stecchi decorativi che si infilano nei gelati, e lei, stringendo quel piccolo riconoscimento,
compie il giro d’onore lungo la pista della sua Olimpiade.
È proprio la minuscola bandiera il ricordo più caro che Gabriella ancora oggi
conserva di quell’emozione indimenticabile. Un oggetto all’apparenza insignificante,
ma che per lei avrà sempre l’energia della vittoria, anche ora che di vittorie ne ha avute
molte; non solo nello sport ma anche nella vita privata, come madre e moglie e come
tutor dei ragazzi che allena, perché, come lei, possano trovare nell’atletica una forma
di libertà personale.
© Alice Figini
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Alice Figini
Mia Hamm
La donna che insegnò il calcio agli USA
È
stata definita da Micheal Wilbon, cronista del Washington Post, «la miglior
atleta degli ultimi quindici anni». Poco importa che in America il calcio sia
uno sport di serie B. Mariel Margaret Hamm, attaccante della nazionale statunitense, è
riuscita dove ha fallito persino un Mondiale. Diciassette anni consecutivi nel team “a
stelle e strisce” per un totale di centocinquantotto gol segnati in duecentosettantacinque
partite, una carriera in continua ascesa con tre titoli olimpici vinti, due ori e un argento,
e numerosi successi riscossi nei Campionati Mondiali. Mia ha dato una storia e una
dignità al pallone anche oltreoceano.
Un inizio precoce
Nata in Alabama con un piede parzialmente deforme e costretta a indossare scarpe
correttive per i primi passi, la piccola Hamm non lasciava di certo presagire un futuro
da atleta. Il problema, però, con il tempo si risolse e presto la ragazzina poté scorrazzare
in tutta libertà. Al principio i genitori di Mia non avevano considerato seriamente la
passione della figlia per il calcio, limitandosi non senza qualche imbarazzo a recuperarla
quando s’intrufolava nelle partite giocate da altri ai giardini pubblici. Marachelle infantili,
insomma, cui dar poco conto, specie quando si ha a che fare con una bambina vivace
che di stare seduta composta per il picnic di famiglia non vuole proprio saperne.
Fu l’Italia a confermare la vocazione di Mia: il padre Bill, militare dell’Aeronautica,
venne trasferito a Firenze quando la giovane campionessa aveva appena un anno. Bill,
già tifoso della Fiorentina, trovò nelle attività di arbitro e allenatore lo svago ideale
dalle incombenze lavorative e trasmise lo stesso entusiasmo ai cinque figlioletti, in
particolare al maggiore, Garrett. Mia, legatissima al fratello, non esitò a sfidarlo in gare
sportive e Bill, considerando le difficoltà d’integrazione della figlia dovute ai continui
trasferimenti, decise di iscriverla a un corso di calcio per darle l’opportunità di fare
nuove amicizie.
Rientrata negli Usa, Mia continuò a dedicarsi al pallone in una squadra femminile
texana, fino all’incontro con l’allenatore della Nazionale Anson Dorrance, che la
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Sport for women!
condusse nel circolo delle elette: nel 1987 Mia divenne a quindici anni la più giovane
giocatrice ad aver mai indossato la maglia della rappresentativa statunitense.
Nel 1991 le stelline americane conquistarono la Coppa del Mondo: Mia e le sue
compagne cominciarono a essere motivo d’orgoglio per il loro Paese, una squadra di
intrepide eroine di cui seguire le gesta e invocare i trionfi. Ai Mondiali 1995 le americane
si piazzarono al terzo posto con un’inarrestabile Hamm investita del titolo di “miglior
giocatrice”: la sua capacità di adattarsi a qualunque tattica di gioco la rendeva unica, in
grado sia di partecipare alla manovra d’attacco sia di finalizzarla.
A suon di successi le ragazze arrivarono all’Olimpiade di Atlanta, i Giochi di casa.
Nonostante tra le novità sportive ci fossero anche la mountain bike e il beach volley,
l’America fremeva per vedere soprattutto loro: le ragazze in pantaloncini impegnate per
la prima volta nella competizione olimpica. Le sue ragazze.
Costretta a saltare una partita a causa di una distorsione alla caviglia, Mia fu però in
grado di rimettersi giusto in tempo per affrontare la finale contro la Cina, che si svolse
ad Athens, nello stadio della Georgia University. La sua presenza si rivelò fondamentale
nella fase decisiva della partita: un tiro di Mia che minacciava di andare verso l’esterno
del campo venne intercettato dalla compagna Shannon MacMillan che gettò la palla
dritta in rete segnando il gol della vittoria, per 2 a 1, sul colosso asiatico.
Durante la cerimonia di premiazione, le americane ricevettero gli applausi scroscianti
dei settantaseimila spettatori, entusiasmando anche i diciotto milioni appostati di fronte
alle televisioni. Un consenso di pubblico senza precedenti, che condusse la squadra alla
ribalta. La gente cominciò a fermare le ragazze per strada, indicava e pronunciava i loro
nomi come se fossero amiche di vecchia data: Mia e le sue compagne erano diventate
l’idolo di milioni di ragazze americane.
Tre anni dopo, la seconda vittoria sulla Cina ai Mondiali, seguita da un numero
record di ottantamila persone: gli sponsor iniziarono a rivaleggiare per aggiudicarsi le
calciatrici, grandi marchi come Nike e Mattel puntarono sull’immagine vincente delle
fantastiche calciatrici a stelle e strisce. Mia a ventotto anni raggiunse l’apice della fama,
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Alice Figini - Mia Hamm
contesa da multinazionali e colossi televisivi che vedevano in lei, ragazza semplice e
introversa, il prodotto pubblicitario dell’anno. La chiamavano Jordan, proprio come
Micheal, perché Mia rappresentava l’emblema dell’idolo americano al femminile.
Grazie alla popolarità delle ragazze, nel 2001 nacque la Women’s United Soccer
Association, l’unione di otto squadre delle principali città americane. Il calcio
femminile iniziò a prendere piede nel contesto nazionale dando vita a un vero e proprio
campionato.
Il periodo buio
Ma all’ascesa sportiva fece da contraltare un’infelice vita personale. La scomparsa
dell’amatissimo fratello Garrett, morto poco dopo il successo di Atlanta in seguito
a una grave malattia del sangue, gettò un fascio buio sui trionfi di Mia, che ai suoi
occhi persero ogni valore. Dopo questa tragedia la calciatrice ripeterà più volte la
frase: «Ridarei indietro tutta la mia fama e ricchezza se servisse a riportare Garrett
ancora fra noi».
Eppure il dolore della perdita scatenò in lei di riflesso una nuova forza. La
campionessa dedicò i suoi gol al fratello e diede vita alla Mia Hamm Foundation,
un’associazione che si poneva due obbiettivi fondamentali. Il primo era dare sostegno
alla ricerca sui disturbi legati al trapianto di midollo osseo e la tutela dei pazienti che
subivano questo processo. Il secondo era invece legato a un’altra causa che aveva
investito gran parte delle energie di Mia: lo sviluppo di programmi e iniziative volti a
promuovere lo sport femminile. Un settore purtroppo ancora troppo spesso vittima di
pregiudizi e discriminazioni.
La Women’s United Soccer Association non ebbe vita facile: dopo soli tre anni dalla
sua nascita fu costretta a chiudere i battenti perché contava un deficit di oltre venti
milioni di dollari. Gli stadi erano semivuoti e gli sponsor iniziarono a battere in ritirata;
la reazione di Mia non si fece attendere: «Quando sento di sponsorizzazioni da trenta
milioni di dollari per le scarpette di un giocatore di basket, mi viene voglia di mandare
tutto all’aria. Ci trattano ancora da atlete di serie B».
71
Sport for women!
Il calcio era diventato una forma di emancipazione per le donne americane, a cui
erano già preclusi baseball e hockey; con la chiusura della Lega femminile si infrangeva
il sogno di milioni di bambine e adolescenti. Mia reagì a questa catastrofe con tutti i
mezzi a sua disposizione, stabilendo fra l’altro un taglio di stipendio sostanzioso per lei
e le sue compagne di squadra; sacrificio che agli atleti maschi, autentici divi dello sport,
non era mai stato chiesto.
La tenacia della Hamm non venne meno e, nonostante il dramma di dover assistere
alla sua carriera stroncata, lei tenne sempre viva la sua passione per lo sport, l’unica
risorsa in grado di gratificarla nel periodo di crisi. All’Olimpiade di Atene del 2004
la squadra conquistò un’altra impareggiabile vittoria e Mia venne scelta per portare
la bandiera “a stelle e strisce” nella cerimonia di chiusura dei Giochi. Le spettava così
il giro di campo definitivo, da vincente, tenendo alto il simbolo del suo Paese, quella
stessa America da cui era stata così poco sostenuta.
A trentadue anni Mia Hamm si ritirò dalle competizioni, appendendo le scarpette
al chiodo senza rimpianti. Ora si dedica alle attività della sua associazione e alle sue
gemelline, Ava Caroline e Grace Isabella, avute dal marito Nomar Garciaparra, leader
dei Red Sox. Con loro, Mia torna la ragazzina irrequieta con la coda di cavallo che
scalpitava durante i picnic, lei che anche nei giorni di gloria esultando per un gol
mostrava una maglia con la scritta: «Da qualche parte dietro l’atleta che sei diventata
e le ore di pratica e gli allenatori che ti hanno motivata, c’è una bambina innamorata
del gioco che non si guarda mai indietro... Gioca per lei!».
© Alice Figini
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Melania Sebastiani
Cathy Freeman
Un oro contro il pregiudizio
A
i Giochi di Sydney del 2000, nella finale dei 400 m, una sprinter australiana ha
portato in corsia (la sesta) il peso politico delle esclusioni razziali ed etniche e
quello del nazionalismo. Può una vittoria sportiva apportare un cambiamento al di
fuori della pista d’atletica? Lo sport agonistico è un dovere sociale? Riesce a ergersi
a paradigma di un intero popolo? Il fardello della storia grava sulle scarpe degli atleti,
come aveva gravato su quelle di Jesse Owens nell’Olimpiade di Hitler. Talvolta conta
di più il colore della pelle, talvolta pesano di più le discriminazioni di genere, e non c’è
dittatura o democrazia che faccia la differenza, succede anche in situazioni di apertura
mentale e libertà.
Tutti gli occhi sono puntati su di lei, quel 25 settembre 2000 a Sydney. Le telecamere
presentano le atlete in pista: in prima corsia la russa Olga Kotlyarova, mani sui fianchi
e lunghi respiri; poi l’inglese Donna Fraser che saltella, occhi semichiusi dietro gli
occhiali; in corsia tre, l’altra inglese, Katharine Merry, che sorride a stento alzando
il braccio. Segue la carrellata con la giamaicana Lorraine Graham, immobile, una
statua d’ebano di centosettantacinque centimetri; poi la messicana Ana Guevara che
bisbiglia incomprensibili incantesimi nella corsia cinque. Alla sesta corsia lo stadio
esplode mentre la telecamera si ferma sul battito di mani serio della favorita di casa,
Cathy Freeman, involta in una tuta spaziale che diverrà celeberrima (e che da allora i
designer della Nike stanno cercando di perfezionare). Il boato non si placa e continua ad
accompagnare la telecamera che chiude la rassegna con la sudafricana Heide Seyerling
e la nigeriana Failat Ogunkoya, che guarda a terra alla ricerca di un qualcosa d’invisibile
(forse la forza per vincere).
La bandiera aborigena
L’aria è elettrica, le atlete si mettono in posizione. Manca la campionessa in carica, la
francese Marie-José Pérec: non ha retto allo stress e non si è presentata ai blocchi della
prima batteria. Lorraine Graham ha vinto la prima semifinale; Cathy Freeman ha vinto
la seconda su Ana Guevara. Il boato dello stadio non cessa. Il via: un crescendo di urla,
la giamaicana in testa, l’australiana che rimonta. Stringe i denti, corre, supera: 49’ 11’’
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Sport for women!
dopo il via Cathy Freeman taglia il traguardo. Tre passi, abbassa la cerniera, si toglie
il cappuccio, si siede e realizza con la testa tra le mani l’impresa appena compiuta.
Respira profondamente. Si china su di lei Donna Fraser, arrivata quarta. Un piccolo
gesto sororale di complimento per congratularsi di un successo che ha il sapore della
storia. Non c’è record del mondo a rendere sensazionale l’evento, ma c’è una stretta di
mano storica. La Freeman si rialza dopo quello che sembrava un lunghissimo tempo, si
fascia il corpo con due bandiere: quella australiana e quella degli aborigeni d’Australia,
come già aveva fatto all’Olimpiade di Atlanta e ai precedenti Giochi de Commonwealth.
Fa così il giro d’onore avvolta dalla croce e dalle stelle su sfondo azzurro e dal sole
giallo al centro, tra i colori della terra del territorio australe. Catherine Astrid Salome Freeman nasce il 16 febbraio 1973 a Mackay, nel Queensland.
Il nome Catherine deriva dal greco e significa “purezza”; Astrid deriva dal tedesco e
significa “stella”; “Salome” in ebraico significa “pace”. Il cognome Freeman tradotto in
italiano suona come “uomo libero”. Una singolare etimologia lega la ragazza, aborigena,
figlia diretta della storia di discriminazioni e massacri che costella le relazioni tra i
bianchi e i neri nel Continente Australe, al futuro di successo sportivo e alla visibilità
mediatica che la aspetta. Con la serena innocenza dei predestinati, Catherine Astrid
Salome Freeman porta una promessa di riconciliazione nel nome. Ma il cammino è
lungo, non bastano quattrocento metri.
La Freeman entra nella leggenda all’Olimpiade di Atlanta, quando diventa la prima
aborigena a vincere una medaglia, argento al secondo posto dietro alla francese MarieJosé Pérec, sua acerrima avversaria degli anni Novanta. La sfida sarà sempre tra di loro:
la Pérec vince i Mondiali di Göteborg nel 1995, la Freeman è al quarto posto, la Pérec
bissa l’oro nei 200 m e nei 400 m ad Atlanta; i Mondiali del 1997 e del 1999 sono della
Freeman, ma la Pérec non gareggia. Il confronto torna a Sydney 2000 ma non ci sarà.
La vittoria più bella
Cathy Freeman ha già uno storico primato: a sedici anni è stata la prima aborigena
a vincere i Giochi del Commonwealth. A ventisette anni la consacrazione a Sydney,
migliorando l’argento di Atlanta con l’oro nei 400 m. L’Australia la soprannomina “la
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Melania Sebastiani - Cathy Freeman
nostra Cathy”, facendola entrare in una storia che era sempre stata negata ai neri down
under. Fino al 1966, ai bambini aborigeni era vietato l’accesso alle piscine pubbliche.
Catherine alla scuola elementare aveva assistito alle premiazioni di bambine bianche in
una gara in cui lei era stata migliore. E sua nonna era una bambina della “generazione
rubata”, strappata alla famiglia d’origine per essere cresciuta tra i bianchi. Di qui, la
via della “riconciliazione” aborigena intrapresa dal Governo australiano, una strada
purtroppo piena di sangue e pregiudizi sociali, culturali e, non in ultimo, tribali.
Bisognerà aspettare il 1967 affinché la popolazione aborigena sia ufficialmente censita
come australiana. Bisognerà aspettare il 2008 affinché il Governo porga le scuse ufficiali
alla popolazione aborigena.
Ma allo scoccare del Millennio, il volto rappresentativo dell’Australia è un volto nero. È
il volto di Cathy Freeman. È lei, ambasciatrice di un popolo oppresso, ad avere l’onore
di accendere il braciere olimpico, un gesto indimenticabile d’impatto spettacolare, vista
la cerimonia acquatica che lascerà l’atleta completamente bagnata. Ed è lei a correre
più veloce di tutte: oro nei 400 m. È l’unico atleta ad aver acceso la torcia e ad aver
vinto una medaglia nella stessa edizione dei Giochi Olimpici. Il commentatore della
TV australiana, mentre lei incredula si toglie il cappuccio a bordo pista, commenta:
«Tutti amiamo Cathy». In mezzo alla folla che si gode lo spettacolo dal maxischermo di
Circular Quay, una voce grida: «Amateci tutti».
In quei quattrocento metri Cathy dà il meglio di sé, chiudendo con una storica medaglia
i conti con il Paese che tanto le aveva dato, ma che altrettanto le aveva tolto. La sua
vittoria sembrava poter aprire un nuovo futuro, fatto non di assimilazione, ma di rispetto
e di tolleranza. Ci vorranno ancora otto anni perché l’Australia compia un passo ufficiale verso la
riconciliazione: il 13 febbraio 2008 il premier australiano, il laburista Kevin Rudd,
ha chiesto ufficialmente perdono per le sofferenze inflitte alle «generazioni rubate»
mediante la politica praticata dal governo sino al 1969.
Ritiratasi dalla scena sportiva, nel 2012 il volto che annuncia l’Olimpiade di Londra
in Australia è ancora quello della Cathy nazionale. Che per l’occasione, ha passato
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Sport for women!
anche qualche giorno in Europa, a Londra dove ha casa, per seguire le gare di atletica e
commentarle in TV e via Twitter.
Da piccola, Cathy lo aveva ben chiaro: voleva essere una campionessa olimpionica.
Raggiunto il traguardo, ha abbandonato l’agonismo ma non la pista d’atletica e ha
continuato ad amare la sua terra, occupandosi dell’educazione e della crescita di giovani
donne aborigene. Opera attraverso la Cathy Freeman Foundation, un’organizzazione
che dal 2007 si occupa del territorio di Palm Island, all’altezza della Grande Barriera
Corallina, territorio di cui la madre della Freeman era originaria. Qui il 60% della
popolazione è sotto i venti anni e l’aspettativa di vita è di cinquanta, il 38% in meno
rispetto alla media dello stato. L’alfabetizzazione è sotto la media nazionale. La
disoccupazione ha toccato la vetta percentuale del 90%.
Sono numeri da battere, primati da vincere fuori dal circuito sportivo. Oltre i pregiudizi
e le prescrizioni. Magari con la corsa: Cathy doveva correre per beneficenza la maratona
di New York, annullata a causa dell’uragano Sandy. Ora ha chiesto al popolo virtuale
che la segue su quale altra maratona dirottare le donazioni. Chissà se la rivedremo con
quella tuta da astronauta che protegge, dal basso di una corsa a piedi, tutti gli indigeni
della terra.
© Melania Sebastiani
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Redazione di Storie di Sport - AudioDoc
Alfonsina Strada
La donna che sfidò Girardengo
Storia di una ragazza che agli albori del XX secolo si mise
in testa un’idea folle: diventare una ciclista e correre a fianco
di campioni del calibro di Giovanni Gerbi, Henri Pélissier e
Costante Girardengo. Alfonsa Rosa Maria Morini, – in seguito
Alfonsina Strada – fu, per tutta la vita, una donna caparbia
e combattente, abituata a lottare contro la fatica, contro le
montagne e, soprattutto, contro le convenzioni. La sua incredibile
partecipazione al Giro d’Italia del 1924, tra ali di folla osannanti,
rappresentò, all’epoca, un passo straordinario per l’emancipazione della donna, prima
che il clima creato da un regime violento e ottuso riconducesse la figura femminile al
più tranquillizzante ruolo di “angelo del focolare”.
CREDITI
Testo: Danilo Francescano
Voce narrante: Graziana Urso
In redazione: Melania Sebastiani
Regia: Marco Della Croce
MUSICHE IMPIEGATE
David Schombert - Sport Jingle
Achille Togliani - Conoscerti
Silvana Pampanini - Bellezza in bicicletta
Carlo Buti - Le rose rosse
Achille Togliani - Signora fortuna
Odoardo Spadaro e Maria Pia Arcangeli - La bicicletta
Coro Alpino - Sul ponte di Bassano
Caesar Pezzolo - La motocicletta
Emilia Veldes - Reginella campagnola
Francesco Portelli - O Mary
Têtes de Bois - Alfonsina e la bici
Ryan W. Farish - Night Wind
ascolta l’AudioDoc (27’)
Le musiche presenti sono state ritenute dotate di licenza Creative Commons (cc). Fa eccezione la canzone “Alfonsina e la bici”
dei Têtes de Bois che hanno gentilmente concesso l’autorizzazione alla riproduzione. I brani sono state impiegati come musica
di sottofondo, in frammenti di pochi secondi, al solo scopo di ricreare un’atmosfera compatibile con l’argomento trattato.
La Redazione di Storie di Sport è comunque disponibile a rimuovere ogni brano a richiesta esplicita degli eventuali aventi
diritto, nel caso fosse ravvisata una (involontaria) violazione dei diritti stessi.
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ISTRUZIONI PER L’ASCOLTO: per scaricare
l’AudioDoc dedicato ad “Alfonsina Strada” (27 minuti),
realizzato dalla redazione di Storie di Sport, devi cliccare
sull’icona a sinistra e avere, contemporaneamente, un
collegamento attivo a internet. A questo punto puoi ascoltare
l’AudioDoc in streaming, direttamente sul tuo computer,
oppure scaricarlo e ascoltarlo anche su dispositivi mobili.
GLI AUDIODOC DI STORIE DI SPORT
Un uomo solo al comando è il titolo dell’AudioDoc (di fatto un podcast) di Storie di
Sport, ovvero una delle travi portanti dell’intero progetto, assieme al sito magazine.
Si tratta di un file audio, della durata prevista di venticinque-trenta minuti, che
periodicamente ripropone, in forma di documentario radiofonico, eventi e campioni
dello sport diventati leggenda.
Alcune puntate di Un uomo solo al comando contengono il racconto principale
e un breve aneddoto, sotto forma di scheda, riguardante persone o fatti inerenti al
tema trattato. Chiunque voglia proporre temi nuovi, criticare, discutere, esprimere la
propria opinione sul contenuto del podcast può farlo per posta elettronica inviando
una e-mail all’indirizzo [email protected].
Un uomo solo al comando è gratuito, privo di pubblicità e può essere ascoltato senza
difficoltà con tutti i computer, con ogni sistema operativo (Windows, Apple, Linux)
e con qualunque lettore portatile, cliccando semplicemente sulle icone corrispondenti
o abbonandosi gratuitamente al feed (feed://storiedisport.podomatic.com/rss2.xml) che
avvertirà automaticamente dell’uscita di nuovi episodi.
EPISODI DISPONIBILI
- Dorando Pietri. La folle corsa del garzone emiliano
- La partita maledetta. 1950: Uruguay-Brasile 2-1
- Mexico 1968. Giochi di record. Giochi di sangue
collegamenti e informazioni su Storie di Sport (www.storiedisport.it)
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GLI AUTORI
Marco Della Croce: (La Spezia, 1961) Laureato in farmacia, pubblicista,
scrittore, saggista e webdesigner. Tra le sue collaborazioni ci sono periodici
come Tuttoturismo della Editoriale Domus, i mensili Quark e Vitality e il
settimanale Gente, della Hachette Rusconi, le testate Airone e Dodo, della Giorgio
Mondadori. Ha collaborato con le riviste di fumetti Fumo di China e IF e ha sceneggiato
due serie per bambini, Dodo e Clarissa & Co., oltre ad aver scritto libri, articoli e saggi
critici sui comics. È anche coautore del pluripremiato podcast dedicato alla storia
Historycast, nonché coautore e sceneggiatore del documentario Il cielo sopra Srebrenica.
È in uscita, presso la casa editrice Felici di Pisa, il suo primo romanzo.
Alice Figini: (Como, 1993) Studentessa presso il Liceo socio-psico-pedagogico T. Ciceri
di Como, collabora alla redazione del blog d’istituto www.vispateresa.wordpress.com.
Da anni si dedica con passione alla scrittura, cimentandosi tanto nel giornalismo quanto
nella narrativa. È la più giovane collaboratrice del gruppo.
Danilo Francescano: (Monterosso al Mare, 1958) Laureato in Storia con una tesi
sull’evoluzione e la scomparsa dei Giochi Olimpici e dell’agonismo in età grecoromana, dagli studi compiuti ha mutuato interessi in svariati ambiti, dalla storia antica
all’archeologia e alla numismatica. Per l’Autore Libri Firenze ha pubblicato nel 2009
Quando scese in piazza l’impossibile, un saggio dedicato agli Anni Sessanta. Nel campo
del fumetto ha scritto articoli, saggi critici e libri (è coautore del volume L’oro di Zio
Paperone, Abaco 2000, Rimini), oltre a essere stato curatore di cataloghi e di mostre
dello stesso settore. Ha al suo attivo svariate sceneggiature, tra cui quelle della serie a
strisce ambientata nell’antica Roma Caligola, di cui è anche uno degli ideatori.
Melania Sebastiani: (La Spezia, 1983) Laureata in Lettere, un master in Women’s and
Gender Studies, una collezione di tirocini al collo. Curiosa e orgogliosamente choosy,
ama ascoltare storie di vita. Soprattutto quando c’è di mezzo il mare.
Graziana Urso: (Putignano, 1981) Laureata in Lettere e giornalista pubblicista,
è docente di Italiano e Latino e corrispondente per varie testate. Ha collaborato al
progetto C.I.R.C.E (Catalogo Informatico Riviste Culturali Europee), promosso
dalla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trento. È stata
redattrice del mensile Tennis Oggi e del quotidiano ufficiale degli Internazionali
di Roma Qui Foro Italico. Ha lavorato come giornalista televisiva per l’emittente
leccese RTS (Gruppo Mixer Media), spaziando dalla politica allo sport. Nel 2008 ha
vinto il Premio Michele Campione, organizzato dall’Ordine dei Giornalisti di Puglia,
per la sezione Cultura e Costume.
LA COPERTINA
Isabella Raineri: (Fidenza, 1963), in arte “RAISA”, ha iniziato a dipingere nel
1990 utilizzando l′acquerello e la tempera, interpretando uno stile semifigurativo e
espressionista. Continua la sua formazione utilizzando l′acrilico e l′olio su tela passando
poi a smalti e metalli su tavola, approdando negli ultimi anni a uno stile informale
permeato di geometrie astratte e virtuali. L′artista si definisce interprete originale di un
nuovo geometrismo composto. Vive e lavora tra La Spezia e Pietrasanta (info su www.
raisart.eu). Per Storie di Sport ha realizzato il disegno riprodotto in copertina.
la discobola (© 2013)
Sport for Women!
storie di donne che conquistarono lo sport
I edizione - marzo 2013
codice ISBN: in attesa di assegnazione
www.storiedisport.it – [email protected]
© 2013 SdS - tutti i diritti riservati
Marco Della Croce, Alice Figini, Danilo Francescano, Melania Sebastiani
e Graziana Urso firmano i ritratti, nobili e indimenticabili, di donne che
nello sport hanno vinto, lasciando un segno indelebile della loro classe,
della loro forza e della loro tenacia. Da Suzanne Lenglen a Cathy Freeman
passando per le “nostre” Alfonsina Strada, Carla Marangoni, Ondina
Valla, Novella Calligaris e Gabriella Dorio, riviviamo la loro vita, le
loro imprese, e, di volta in volta, ci appassioniamo, ci commuoviamo,
ci prende la voglia di rileggere. Forza dell’epica, forza dello scrivere
con polso fermo e, nel contempo, con fantasia, con semplicità (dalla
prefazione di Darwin Pastorin).
Storie di Sport nasce come progetto curato da un gruppo di appassionati che si
propone di raccontare – tra cronaca e letteratura – le piccole e le grandi imprese
dello sport. Di tutti gli sport, da quelli più famosi a quelli meno praticati, passando
per le Olimpiadi e i vari campionati, gare, competizioni e tornei nazionali e
internazionali. Con l’intento dichiarato di condividere con i lettori le storie e le
emozioni di cui sono stati protagonisti atleti conosciuti o ignoti, indimenticabili
o dimenticati, celebrati eroi o semplici comparse.
gli ebook di
€ 3,99