Agostino Depretis - Bibliografia del Parlamento italiano e degli studi

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Agostino Depretis - Bibliografia del Parlamento italiano e degli studi
AGOSTINO D E P R E T I S
Leone Fortis, l'arguto giornalista a cui non sfuggivano i
lati comici di uomini e cose, amava rievocare questo ricordo
giovanile. Si era negli ultimi giorni di aprile del 1859; Cavour
aveva chiesto e ottenuto in Parlamento i pieni poteri pel Governo; esuli d'ogni parte d'Italia affluivano a Torino, giovani
soprattutti, che si presentavano per volontari. In uno di quei
giorni nello scendere dal treno Fortis ravvisa tra i viaggiatori Brofferio. Nel momento che questi muove i primi passi
verso l'uscita, tra una calca di gente, accorre a lui Depretis:
Era più spettinato, più irsuto del solito; voce tetra.
— Ebbene ? - gridò Brofferio.
— Tutto è finito ! - rispose Depretis.
Si strinsero la mano e si appaiarono.
— Votati ? - insistè Brofferio.
— Votati ! - replicò l'altro.
— Povero paese ! - mormorarono tutti e due.
Quelli che erano più vicini ai due uomini politici credettero
ad improvvise trattative con l'Austria. «Ne fummo tutti sgomenti e sconvolti. Ora sa Lei che cosa deploravano così ? I pieni
poteri accordati a Cavour per fare la guerra; mentre il paese
ne aveva trasalito di gioia».
Questo aneddoto non è solamente umoristico. Esso ci apprende alcune cose importanti sulla psicologia degli uomini
che componevano la Sinistra nel Parlamento subalpino e sui
primordi della vita politica di Agostino Depretis.
La Sinistra subalpina, specialmente dopo jl 1850 - cioè
da quando Urbano Rattazzi, con Lanza e altri, se n'era distaccato per costituire il gruppo del Centro sinistro - corrispondeva
piuttosto all'Estrema sinistra del posteriore Parlamento italiano.
Sebbene non fosse l'espressione di un determinato partito, ma
soprattutto di certe situazioni provinciali, era però tenuta insieme da un comune spirito giacobino. In discreti rapporti col
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movimento mazziniano - che amò avvolgere di romantico mistero - , in realtà non fu mazziniana, appunto perchè giacobina
e francesizzante. Non tutti i suoi membri inoltre accettavano
il programma unitario di Mazzini; ne dissentiva uno dei capi
più in vista, Brofferio. Quando, nel 1859, riscintillò sul cielo
d'Italia la stella di Garibaldi, la Sinistra fu cordialmente garibaldina e poco dopo confluì in gran parte nel Partito d'azione.
In tale mista compagnia si trovò l'ancor giovane Depretis fin
da quando entrò la prima Volta nel Parlamento subalpino, nel
lontano maggio del 1848, e ne risentì certamente l'influenza per
lunghi anni. Noi abbiamo visto che ancora alla vigilia della guerra
del 1859 egli appariva cordialmente legato all'indirizzo anticavouriano impresso alla Sinistra specialmente da Brofferio. Eppure
egli non sospettava che in quel preciso momento, che insieme con
l'implacabile collega prendeva arie di profeta corrucciato, un profondo mutamento stava per operarsi nella sua carriera politica.
A prepararlo lavoravano occultamente elementi nativi radicati nel suo spirito.
Depretis sedeva al Parlamento subalpino per effetto di una di
quelle operazioni di grossolana chirurgia geografica con cui si chiudono spesso le guerre. Per secoli il confine geografico tra Lombardia
e Piemonte, a mezzodì, fu quello che è ritornato ad essere ora nell'Italia unita, cioè spinto molto innanzi verso Vercelli, Alessandria
e Tortona, in modo da includere dentro la regione lombarda i territori di Mortara e Voghera: ciò per ubbidire alle ragioni etniche
del paese, che è indiscutibilmente lombardo. Ma il trattato di
Aquisgrana, dopo le lunghe guerre di predominio della prima metà
del Settecento, fece passare questo paese di re di Sardegna, e questo stato di cose durò fino alla guerra del 1859, che rimise le cose
in sesto.
Come tanti altri suoi compaesani, Depretis si trovò piemontese
per volere di Sua maestà il Re di Sardegna, lombardo per tradizioni
storiche, legami familiari e culturali, atteggiamenti spirituali. Rampollo di media, agiata borghesia terriera di Stradella, presso il nuovo
confine, quando venne il tempo di scegliersi uno stato, non andò
ad addottorarsi in giurisprudenza all'università di Torino, sibbene
a quella di Pavia, ed in. quell'ambiente acceso di spiriti liberali e
così vibrante alle ispirazioni della prossima Milano, il giovane Depretis sentì il fascino delle idee rivoluzionarie lanciate da Mazzini.
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Non tanto però che si trasformassero le qualità radicali del suo
carattere di borghese campagnuolo della « Bassa » padana. La sua
vita, anche da giovane, è uguale e terrestre. Non conosce voli;
ama consolidarsi su ciò che gli è dintorno ed è tangibile. È privo
di fantasia; ma è ricco di una tenacia che ama non ostentare, perché sa calcolare le sue mosse, e non gli è estranea una certa diffidenza contadinesca, temperata dalla lombarda urbanità scherzosa.
Perché egli conosce d'istinto l'arte di sciogliere o almeno allontanare una difficoltà od una ostilità con una barzelletta, di quel tipo
lapalissiano che riduce tutto alla più semplice espressione, e finge
di non comprendere il lato più grave di una questione. Pretto stile
lombardo, che alcuni decenni dopo avrà la sua caratteristica espressione in certe frasi di Ferravilla, rimaste proverbiali come alcune
di Depretis.
E qui mi sia lecito aprire una breve parentesi per tirare in
ballo una prima volta Carducci. In un distico famoso, da lui lanciato contro Depretis, alludendo ai motti di spirito di questo, parla
di « celie allobroghe », ed è inesatto, perché, come ho detto, lo
spirito depretisiano, come tutta la sua forma mentale, fu prettamente lombardo.
Per completare il suo ritratto interiore non si possono trascurare le circostanze nelle quali prese moglie. Sposò tardi, nel 1876,
quando era alle soglie del potere, una distinta e vivace signora di
Pavia, Amalia Flarer, che aveva conosciuta e chiesta in moglie una
ventina d'anni prima. La famiglia di lei, che era una giovinetta,
non vide favorevolmente la cosa, e forse lei stessa non fu attratta
da quello spilungone trasandato nelle vesti, spettinato e irsuto,
come ce lo presenta Leone Fortis nel 1859. Poco dopo la fanciulla
andò sposa ad altri. Agostino non fece lo*Jacopo Ortis; ma non
cambiò parere. Rimase scapolo, tranquillamente. Gli eventi s'incaricarono di riaccendere le tede nuziali. Rimasta vedova donna
Amalia, Depretis le chiese di nuovo la mano, semplicemente, come
se non fosse passata tanta acqua sotto il ponte del Ticino. Donna
Amalia non era più una fanciulla; dietro al senso positivo di donna
matura spuntava qualche ambizione. I misteri della capitale e
della politica esercitavano una pungente attrattiva. Imbarcarsi
per questa tardiva avventura con il vecchio amico esperto ed autorevole la elevava ad una condizione privilegiata nella piccola
mondanità provinciale. Accettò, e la coppia s'installò in una casa
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n u o v a della grande s t r a d a della T e r z a R o m a , via Nazionale, là dove
s'incrociava con la v i a che ora p r e n d e il nome a p p u n t o d a Depretis.
Ne m a r i t o , ne moglie, p e r a l t r o , si fecero ubriacare dai fumi
del successo e del p o t e r e . L a loro v i t a p r i v a t a si svolse agiata,
p a c a t a , modesta, negli s t r e t t i confini del bilancio domestico. La
loro casa era in u n rione n u o v o , con qualche pretesa; m a era l'app a r t a m e n t o all'ultimo piano; e il vecchio Presidente del Consiglio,
afflitto dalla g o t t a , saliva t a l v o l t a dolorando i centoventi scalini
per raggiungere la p o r t a di casa. - Ci si a b i t u a - diceva con u n
mezzo sorriso il povero vecchio, q u a n d o gli amici lo compassionav a n o ; e soggiungeva: - A b i t a n d o al q u a r t o p i a n o , pago trecento lire
mensili, ed ho u n a bella casa, che potrei subaffittare per lo stesso
prezzo il giorno che n o n fossi più ministro. L e scale sono parecchie;
ma, io, che n o n faccio m a i m o t o , t r o v o giovamento a stare in alto
e all'aria b u o n a .
Questo l'unico r o m a n z o della v i t a di Agostino D e p r e t i s . Romanzo in pantofole, se vogliamo; m a che a t o r t o si giudicherebbe
indegno di ricordo nella biografia dell'uomo di S t a t o . Oltre che avvolgere di u n a b l a n d a luce casalinga i costumi politici del t e m p o ,
questi casi ci dicono molto sul c a r a t t e r e dell'uomo, e ci spiegano
i suoi m e t o d i d'azione preferiti anche nel c a m p o politico. Coloro i
quali lo ritennero u n semplice o p p o r t u n i s t a , senza principi, si sbagliarono di grosso. Egli t e n n e fede c o s t a n t e m e n t e ai grandi principi
del liberalismo; rivendicò sempre le libertà civiche, ed io credo che
poco di più esplicito sia s t a t o d e t t o nella n o s t r a v i t a p a r l a m e n t a r e
di quello che, sulla l i b e r t à di s t a m p a , Depretis disse al P a r l a m e n t o
subalpino nel l o n t a n o 1852:
Io credo che importi sommamente di rendere robusto e virile il carattere nazionale. Tutti sanno che la stampa trova sempre il modo di dire
quello che vuole... Però gli scrittori che si avvezzano a parlare per reticenze o per figure, a non chiamare le cose col loro nome... influiscono certamente sul carattere nazionale; gli abiti della letteratura diventano molte
volte abiti della nazione, e lo stesso rimprovero che si fa agli scrittori si
viene dopo un certo tempo a fare al paese. Io tengo per fermissimo che
la robustezza di carattere, di cui va tanto a ragione distinta la forte razza
anglosassone... è dovuta al lungo esercizio del diritto di libera stampa...
Ora dunque non dobbiamo toccare tanto leggermente a questo prezioso
diritto, imperocché... abbiamo una gravissima ed inevitabile lotta da sostenere. Ed è la libertà di pensiero quel mezzo col quale si potrà dare tempra robusta al carattere nazionale.
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A queste cose egli credè sempre sinceramente, e, per rimanere
nel campo specifico della stampa, non fu un caso che l'avvento della
Sinistra al potere aprì il periodo forse più brillante del giornalismo
italiano. È certo che ciò non sarebbe potuto avvenire, se colui che
tenne più a lungo in mano il timone dello Stato lo avesse volto
verso le costellazioni infauste alla vita del pensiero.
Non fu un opportunista; ma è vero invece che fu un uomo che
ebbe squisito il senso della opportunità e della tempestività - e
questo si potè equivocare per malinteso o per malafede. Ed ebbe
perciò la sapienza dell'attesa e la giusta valutazione delle proprie
forze e di quelle dell'avversario, col quale fu sempre estremamente
cortese, evitando con cura di portare le cose agli estremi, di ferire
l'amor proprio altrui in maniera irrimediabile. Sui primi del '78 il
deputato di opposizione De Renzis - che era un dilettante così di
politica come di letteratura e di arte - in un discorso sul bilancio
di politica estera, lo attaccò con virulenza. Quando rispose ai vari
oratori, Depretis riservò a De Renzis questa battuta:
« L'onorevole De Renzis è un artista, e quindi anche collega
mio, perché in gioventù ho suonato il violino ».
Scoppiò una generale ilarità, e lo stesso De Renzis abbozzò un
sorriso, sebbene nel fondo della facezia ci fosse qualche aculeo.
Qual'era l'altra faccia di questa figura ? Il suo temperamento
flemmatico, metodico, abitudinario gli precludeva la via per le
rapide intuizioni, per gli slanci arditi, per giocare di sorpresa con
l'avversario, e questo dà la spiegazione della lenta carriera e della
lenta evoluzione da un radicalismo piuttosto di maniera al liberalismo di sinistra.
Tale evoluzione era già principiata dentro di lui - anche se
tuttora nascosta a sé stesso dal velo delle vecchie abitudini mentali
- quando, nella primavera del 1859 andava mestamente a braccetto
di Brofferio, presagendo sciagure alla patria sotto la tirannia di
Cavour. Gli avvenimenti nel loro rapido corso si incaricarono di
affrettare la maturazione della evoluzione depretisiana.
A questo punto, per rendersi conto del concatenamento dei
fatti, è necessario chiarire succintamente i rapporti di Depretis con
Rattazzi.
Depretis lo aveva avuto suo vicino di settore, nella Sinistra,
al suo primo ingresso nel Parlamento subalpino; ma, dopo Novara,
Rattazzi s'era distaccato, per fondare, insieme con Lanza, il Centro
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sinistro, col quale si avviò ài govèrno, tre anni dopo, trattando la
famosa alleanza con Cavour. Depretis, che era rimasto immotile cori
la Sinistra, deprecò Con questa il « connubio » Cavour-Rattazzi, e con
questa, nel 1854, votò disciplinato anche contro la partecipazione
del Piemonte alla guerra di Crimea - grosso errore politico, che
discreditò la Sinistra.
Senonchè la guerra di Crimea e le sue conseguenze ebbero ripercussioni anche sulla politica interna del Piemonte, e sullo schieramento dei partiti. Verso il 1857 il «connubio» non teneva più:
Rattazzi era attratto nell'orbita del partito di Corte, avverso a
Cavour; Cavour mirava a prepararsi un più largo partito di governo,
accentrato intorno alla sua persona.
Questi movimenti durarono quattro anni circa. La prima fase
si chiuse col grave scontro tra Vittorio Emanuele II e Cavour a
Monzambano, la vigilia dell'armistizio di Villafranca; la seconda si
chiuse - e chiuse fatalmente anche il ciclo storico - con la iriorte
di Cavour.
Questi quattro anni furono quelli che agirono in modo definitivo sull'animo di Depretis, impririiendogli una^ fisionomia propria
tra gli altri uomini di sinistra, ed avviandolo ai maggiori
destini.
Finché Rattazzi rimase stretto con Cavour, nel « connubio »,
Depretis, insieme con gli amici Brofferio, Biancheri, Saracco, Valerio, si tenne distante da lui. Depretis, in quel periodo, era ancora
un distinto gregario e non più. La sua personalità comincia a formarsi proprio dopo il 1856, quando la situazione parlamentare si
rimette in movimento, e quasi lo strappa alla disciplina di gruppo,
che lo impigliava e impigriva in certi abiti mentali che non gli appartenevano. Il suo pragmatismo e la sua argutezza lombarda erano
distanti da un astratto schematismo venato di settarismo giacobino,
quale in un Brofferio. Depretis cominciò ad affidarsi al proprio
giudizio, al suo istinto di uomo politico nato, che ha il senso delle
cose, e comprende la differenza tra ciò che è sostanziale e ciò che è
transeunte. Molti anni dopo egli riassunse quest'arte della combinazione in una frase che si sarebbe potuta incidere sulla sua tomba:
« Raccogliamoci intorno a quello su cui andiamo d'accordo; tralasciamo quello su cui discordiamo». Ma fin da quegli anni lontani
della sua vera primavera politica egli cominciò a muoversi con
questa nuova guida mentale.
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Si riawicinò a Rattazzi; ma senza entrare, né allora né poi,
nel suo gruppo; e, quando, in seguito al tempestoso episodio di
Monzambano e alle dimissioni di Cavour, Vittorio Emanuele formò
di propria iniziativa un ministero con presidente La Marmora e
Rattazzi ministro degli interni, Depretis accettò da questo Pufficiò di commissario straordinario per Brescia. Circa sei mesi dopo
quattro collegi di Lombardia lo elessero nelle elezioni del marzo
1860, nelle quali per la prima volta votarono le province lombarde.
Era il saluto della regione nativa ad un suo figliuolo; ed egli dovè
rimanere commosso. Optò per Stradella, che gli rimase fedele fino
alla morte.
Poco più di un mese dopo avveniva la partenza di Garibaldi da
Quarto. INel giugno si risentirono a Torino i contraccolpi politici
della grande impresa. Scoppiò il conflitto con Garibaldi e Crispi
(cioè Mazzini) sugli sviluppi di essa, e sulle conseguenze di un eventuale sconfinamento negli Stati papali. La Farina, il fedele di
Cavour, mandato commissario regio a Palermo, fu bruciato dentro
poche settimane. Per suggerimento di Crispi, Garibaldi espresse
le sue preferenze per Depretis. Per suggerimento di Cavour il Re
esitò. Cavour non poteva dimenticare il passato politico di Depretis,
troppo legato fino a tutto il 1859 con Brofferio ed altri simpatizzanti col mazzinianesimo; non poteva dimenticare che nella famosa
seduta del 23 aprile 1859 era stato proprio lui, Depretis, a proporre
l'ordine del giorno della sospensiva alla votazione sui pieni poteri
da dare al Governo. Gli avrebbe preferito Valerio, e così anche il
Re; ma non stimarono opportuno impuntarsi, e aderirono al desiderio di Garibaldi. Cavour non manca però di mettere in guardia
Persano (lettera 7 luglio 1860) nell'annunziargli la prossima partenza di Depretis:
È un uomo indeciso, che mal sa affrontare l'impopolarità. H a ingegno,
ina difetta di studi politici, che valgono ad informare i giudici sull'opport u n i t à di atti che sono di indole internazionale. Sarebbe un ottimo esecutore sotto un capo deciso. Riuscirà un mediocrissimo direttore in un gran
movimento politico.
Giudizio duro, ma, in fondo, giustificato da parte di un uomo
che non aveva intimità con lui, e lo giudicava dalla sua posizione ancora di seconda fila dopo dieci anni di carriera politica.
Invece la prima sorpresa Depretis doveva darla proprio
in quella delicata missione. Crispi credeva di potersi valere fa12.
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cilmente di Depretis per rimandare l'annessione al Piemonte,
secondo il programma garibaldino-mazziniano, che mirava a
Roma. Faceva probabilmente della persona di Depretis un
giudizio non dissimile da quello di Cavour, e pensava di poterselo tirare dietro in nome della intransigenza di sinistra.
Fu una grande delusione. Con tattica temporeggiatrice egli
riuscì a dare, tempo che maturassero gli eventi sia nel Mezzogiorno continentale sia nell'Italia centrale. Quando ha l'impressione che le truppe regolari stanno per marciare verso la
frontiera pontificia, rompe gl'indugi e appoggia apertamente gli
annessionisti. Poche settimane dopo (14 settembre) è costretto
a dare le dimissioni da prodittatore per la Sicilia; ma ormai la
spedizione garibaldina è contenuta dentro i confini del Regno
di Napoli.
Depretis ha saputo smentire i timori di Cavour; ha affrontato l'impopolarità, l'irruenza di Crispi, i giudizi severi di vecchi
amici di sinistra, informando la sua azione proprio alle ragioni
ed esigenze di carattere internazionale.
Dopo la primavera del 1861, in seguito all'inopinata scomparsa di Cavour, e di fronte a tanti problemi da risolvere urgentemente, la situazione politica si complicava, sia per effetto delle
stesse difficoltà sia per deficienze di uomini. L'amalgama meditato da Cavour, per raccogliere una nuova maggioranza intorno al suo programma di governo, non si effettuò più; si delinearono varie tendenze intorno ad alcune personalità, nessuna
delle quali capace di dominare la situazione. Attratti la massima
parte dal brillante avvenimento del « connubio » del 1852 - il
quale però fu un riuscito espediente di strategia parlamentare, e
non la quintessenza della politica cavouriana - si pose un grande
studio a ricalcare il « metodo del connubio », mentre la situazione non era più quella; l'Italia unita, con dentro le caotiche
Provincie meridionali, non era il Regno di Sardegna con la ultramontana Savoia.
Fallirono per questo così i tentativi di « connubio » con
direzione di Destra (Ricasoli), come - e peggio - quelli con direzione di Sinistra (Rattazzi), e la Corona potè approfittarne per
appoggiarsi a governi emananti da essa (ministero La Marmora,
dopo i fatti di Torino del settembre 1864; ministeri Menabrea
(1867-1869), dopo Mentana).
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In questo secondo periodo della sua vita politica Depretis
si tenne in una posizione insieme riservata ed eclettica. Era
uscito ormai definitivamente dalla Sinistra intransigente - ed
infatti non fece parte del Partito d'azione, germinato da quella;
era diventato un uomo di Centro sinistro, ed entrò infatti nel
ministero Rattazzi del 1862, come ministro dei Lavori pubblici;
ma evitò di entrare formalmente nel gruppo, ed anzi, quando
Hicasoli formò il suo secondo ministero, nel giugno 1866, alla
vigilia della guerra, accettò l'offerta del portafogli della Marina
dove, in una situazione da tempo compromessa per impreparazione e dissidi personali, dovè assistere impotente al precipitare degli eventi verso la disfatta. Chiusa la guerra passò al
ministero delle Finanze; poi non partecipò più ad altre combinazioni ministeriali.
Pareva un isolato, forse logorato, per quella sua aria stanca
e cascante - e non aveva ancora calcata la soglia della sua vera
carriera politica.
Il 1873 morì Urbano Rattazzi. Dopo l'ultima infelicissima
prova del ministero del 1867, egli era oramai un sorpassato. Anche
la sua salute rapidamente declinante lo aveva messo fuori della
competizione politica, nei nuovi aspetti che si andavano delineando dopo la presa di Roma.
In una situazione politica più chiara e più salda, dentro e
fuori il Parlamento, gli avvenimenti del 1870, conclusivi di un'era,
potevano essere il principio di una revisione generale delle posizioni rispettive. Questo sentì vagamente la classe politica al
governo, e cercò di soddisfare una tale esigenza; errando però
nell'attuazione. Essa credeva di potersi identificare con un partito, detto anche dagli storici molto approssimativamente Destra;
onde l'illusione di rinnovarsi e rinsaldarsi col dare al partito
una organizzazione più rigida, una più irta intransigenza. Fu
il tempo in cui Silvio Spaventa, che era ostico a parecchi dei
suoi stessi amici, e che per vari anni era rimasto in penombra,
riapparì alla ribalta, come ministro dei Lavori pubblici nel ministero Minghetti del 1873, ultimo della Destra, influendo fortemente nel darvi un carattere intransigente ed esclusivista.
Questi uomini, i quali si gloriavano di essere successori e quasi
depositari del pensiero cavouriano, non si accorgevano di aver
percorso un cammino inverso a quello di Cavour, il quale, uscito
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intorno al 1850 dalla ristretta cerchia di un gruppo politico,
era arrivato, alla vigilia della morte, alla concezione di un largo
partito di governo, dalle numerose sfumature, e che non coincidesse più con questo o quel partito politico dentro il Parlamento, ma più in generale con la classe politica predominante
nel Paese.
Non risponderebbe alla natura di questo scritterello addentrarsi in una discussione teorica sui dati di fatto accennati or ora;
personalmente io credo che l'indirizzo dato da Cavour nell'ultimo
periodo della sua vita, come uno dei mezzi per risolvere l'enorme
problema dell'assorbimento di tutta la variegata società italiana,
che di colpo veniva ad addossarsi al piccolo Piemonte; che quell'indirizzo, dico, sia stato saviamente concepito; e che la incapacità d'intenderne le profonde ragioni, e quindi di proseguirlo
con conoscenza di causa, sia stata una delle principali ragioni
della ritardata unificazione nazionale. In seguito a ciò era fatale
che a un certo momento Governo e Paese non s'intendessero più.
Ma anche l'opposizione dell'Estrema sinistra rimaneva chiusa
in formule astratte, invecchiate, che erano l'antitesi delle
formule della Destra e dell'appartata società clericale del tempo;
ma non costituivano elementi per fondare un governo nuovo
appoggiato a larghi consensi di opinione.
Qualche cosa di questo genere pensò di fare quella parte
della vecchia Sinistra subalpina, la quale si avvicinò ai nuovi
elementi provenienti dalle altre regioni d'Italia nell'intento di
costituire un più largo Centro sinistro, abbandonando la pregiudiziale del regime. Anche di questo nuovo Centro Rattazzi ambì
di farsi capo, col solo effetto di ritardare la fusione di quelle varie
correnti con le sue ambagi e il suo particolarismo; sicché, alla
morte di lui, il Centro sinistro era formato da tanti gruppetti
raccolti intorno ad alcuni capitani, che, con le armi al piede,
circondavano la fortezza della Destra, aspettando ormai la resa.
Depretis, che era entrato in quest'ordine d'idee, questa
volta smentì la fama di lentezza e di eccessiva prudenza. In seguito ai risultati favorevoli all'opposizione, nelle elezioni del
1874, fu lui questa volta a muoversi, in vista della successione.
La prima mossa fu verso i compagni di settore — visto che
questo non costituiva una vera unità. I suoi passi si rivolsero
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verso Nicotera e - ironie della vita politica - verso Crispi, il
Serissimo antagonista di Palermo, nella estate del 1860.
Perchè egli preferì questi due irruenti parlamentari, tanto
lontani dai suoi modi di condurre gli affari politici ? Per la ragione molto semplice che esisteva ancora un profondo distacco
fra Settentrione e Mezzogiorno, ed egli comprese che un uomo
politico del Settentrione il quale si preparava a prendere il governo per la prima volta non avrebbe avuto nessun risultato
apprezzabile ad agire nel Mezzogiorno direttamente. Era necessario piegarsi ad una necessità non priva di ombre, ed era di
associarsi questo o quello dei colleghi meridionali e isolani di
maggiore seguito, e mettere il Paese nelle loro mani proconsolari.
Questo metodo, che dette il maggiore motivo alle più implacabili accuse, lanciate a Depretis, di corruttore della vita pubblica
italiana, non fu inventato da Depretis. La Destra ebbe non meno
le sue baronie elettorali nel Mezzogiorno; solo che male organizzate,
cioè vere baronie, troppo numerose, sparpagliate, incastellate.
Depretis, col suo spirito organizzatore e metodico di lombardo,
dette un'organizzazione alla macchina elettorale meridionale. Quel
meccanismo, così impiantato, ha poi funzionato su per più eguale
per oltre quarant'anni. Ai primi di questo secolo, Giolitti non gli
dette che alcuni ritocchi per aggiornarlo ai tempi nuovi. Solo il
suffragio universale e i grandi spostamenti sociali dopo la Prima
guerra mondiale cambiarono in parte l'ambiente politico.
Non bisogna dare giudizi affrettati o generici in una materia
così complessa. Si consideri che sia pure in forma anormale - conseguenza di tutta una situazione arretrata e decadente — con l'avvento della Sinistra la questione meridionale entrò - per la scala
di servizio - nella politica italiana.
Parallelamente alle alleanze meridionali Depretis condusse
altre intese fuori dei gruppi di sinistra: col vecchio amico conterraneo Correnti, il quale primeggiava al centro destro, e coi toscani
di destra, malcontenti e straniati dal partito a causa della politica
statalista di Spaventa, che minacciava il voluminoso capitale toscano investito in azioni ferroviarie.
Con queste alleanze la Sinistra poteva dare battaglia in Parlamento a colpo sicuro. In ottobre del 1875, alla vigilia della nuova
sessione parlamentare, Depretis parlò a Pavia, ad un banchetto
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offertogli dai suoi elettori di Stradella. Il discorso fu come il proclama alle truppe. Esso per altro non aveva niente di sconvolgente.
Un partito conservatore che non fosse diventato chiuso ed ombroso,
come allora la Destra, poteva accettarlo nelle sue linee generali.
Su di un punto però la Destra in ogni caso non avrebbe potuto
seguirlo,- ed era la promessa di un allargamento del suffragio elettorale. Che una simile riforma, la quale prevedeva un corpo elettorale di non più di un paio di milioni, sia potuta essere causa di
gravissime preoccupazioni e di un conflitto politico, può fare sorridere noi con la nostra mentalità da suffragio universale; ma, riportandoci alle condizioni dei tempi, non si esagera nel chiamare
ardita la riforma elettorale promossa da Depretis. Si tenga presente
che nel seno degli stessi gruppi di sinistra più d'uno era tutt'altro
che convinto, almeno, della tempestività del progetto - tra i più
autorevoli Zanardelli; e Depretis trovava appoggi piuttosto al
centro destro, in un drappello di giovani parlamentari - Sonnino,
Villari e qualche altro - che si richiamavano all'esempio inglese.
La famosa seduta del 18 marzo 1876 era dunque una specie di
manovra avvolgente preparata con cura dal flemmatico capitano,
ed attesa da tutti. Non ci fu sorpresa in quel giorno; ma piuttosto
nei giorni posteriori delle consultazioni per la formazione del nuovo
ministero.
La caduta del ministero Minghetti era stata determinata dal
voto di una coalizione. A rigore, questa avrebbe dovuto succedere
nel governo. Tale era anche l'intima idea di Depretis, il quale, il
18 marzo, a Minghetti, che invocava i grandi principi, rispondeva
escludendo le posizioni antitetiche:
« Qui non si tratta di mutare alcun grande principio, ma di dare
un indirizzo al governo che calmi il malcontento che esiste nel paese ».
Aperta la crisi, Depretis intendeva risolverla includendo Correnti e un rappresentante della Destra dissidente toscana. Qnanto
alla sistemazione di Nicotera, conoscendone il carattere e i metodi,
pensava di tenerlo lontano dal ministero degli Interni, dove avrebbe
preferito Crispi. Ma era proprio là che intendeva di andare Nicotera. L'ex cospiratore mazziniano aveva conservato degli anni
giovanili l'arte e il gusto del complotto, e s'era fatte le sue entrature presso il partito di Corte. Quando Depretis espose al Re le
sue ripugnanze nei riguardi di Nicotera, e lo pregò di indurlo a ritirare quella specie di ipoteca che aveva messa sul ministero degli
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Interni, Vittorio Emanuele promise che avrebbe fatto; mai poi
dichiarò a Nicotera che non divideva l'opinione di Depretis.
Fu un fatto che ebbe gravissime conseguenze. Centro destro e
Destra dissidente rimasero fuori; Depretis dovè rinunziare al suo
disegno, non avendo più sufficienti forze per imporlo, in seno alla
stessa Sinistra, e Nicotera prese possesso del ministero degli Interni
come di una fortezza. Si presentò alla Camera un ministero di
minoranza, con un ministro degli Interni deciso a farla diventare
maggioranza con qualsiasi mezzo. Le elezioni del novembre successivo, specialmente nel Mezzogiorno, furono uno sterminio per
gli avversari. Tutto il Mezzogiorno continentale non diede che
quattro deputati di Destra; la Sicilia cinque.
Triste vittoria. La Sinistra, rimpinzata di uomini nuovi, politici improvvisati, divenne caotica e si frantumò sempre più; e già
nel 1877 Francesco de Sanctis ammoniva: « Oramai siamo a questo,
che non ci sono partiti solidamente costituiti, se non quelli fondati
sulla regione e sulla clientela, le due piaghe d'Italia ».
Lo spirito fazioso aveva fatto fallire la prima prova della Sinistra al potere, neutralizzando lo spirito conciliativo del Presidente.
Sorse il gruppo Cairoli a contendergli il potere, che portò incespicando, finché lo scacco di Tunisi lo mise fuori competizione.
Tornò Depretis, immutato nei suoi propositi, secondo la sua
natura, ma libero ormai dagli impegni del 1876. Sinistra e Destra
s'erano disintegrate; il problema che si era affacciato alla mente
di Cavour, al momento in cui il Parlamento subalpino spirava per
dar vita al Parlamento italiano, si ripresentava ora che chiudeva
il suo ciclo la classe politica del Risorgimento, e si affacciava incerta e senza guida la nuova generazione. Bisognava dare ad essa
una direttiva, una organizzazione, una esperienza di governo e di
amministrazione, per cui fosse possibile attuare un programma di
riforme indispensabili e di consolidamento finanziario.
Depretis questa volta non si fece sviare. Ripreso il potere nel
maggio 1881, condusse in porto finalmente la legge elettorale, e
nell'autunno dell'anno appresso fece votare due milioni di elettori,
di 600 mila che erano. Dopo di che gettò le basi di una maggioranza
di governo, offrendo la mano al vecchio avversario sconfìtto, Minghetti, e stringendo alleanza col suo gruppo.
Con assiduo paziente lavoro il parlamentare veterano aveva
raggiunto il suo vero fine, riallacciandosi all'ultima fase dell'opera
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MARIO VINCIGUERRA
cavouriana. Già nel discorso di Stradella dell'ottobre 1876 egli
aveva chiaramente esposto le sue idee in proposito:
Io spero che le mie parole potranno facilitare quella concordia, quella
feconda trasformazione dei partiti, quella unificazione delle p a r t i liberali
della Camera, che varranno a costituire quella t a n t o invocata e salda maggioranza, la quale, ai nomi storici t a n t e volte abusati e forse improvvidamente
scelti dalla topografia dell'aula parlamentare, sostituisca per proprio segnacolo una idea comprensiva, popolare, vecchia come il moto, come il moto
sempre nuova: il progresso. Noi siamo, o signori, u n ministero di progressisti.
Sotto questa formula Depretis fu come il tutore e il precettore
della nuova classe politica italiana, la generazione democratica
che durò fino alla Prima guerra mondiale: grande fatto storico, il
cui compimento è sufficiente per la gloria di un uomo.
Per uno di quegli spiegabili, ma pur strani fenomeni d'incomprensione per passione di parte, egli mietè larga messe di vituperio,
soprattutto nel mondo intellettuale, e la sua opera fu chiamata a dispregio col termine di « trasformismo », nel senso di premeditata distruzione dei partiti: i quali erano sopravvissuti ad un'epoca storica
ormai chiusa, e quindi erano destinati a morire di consunzione.
Depretis ebbe, per tutt'altra ragione, la cattiva sorte di papa
Adriano VI, il quale fu ostico a tutti i letterati d'Italia, che lo
vilipesero. I due maggiori letterati del tempo, De Sanctis e Carducci, che poco s'intendevano così in letteratura come in politica,
si trovarono d'accordo nel colpire duramente il « freddo vecchio »,
« irto, spettrale », il desultor, confermando coi loro severi autorevoli giudizi la fama di cinismo suscitata dalla rabbiosa opposizione
di INicotera, che dal ritorno di Depretis fino alla vigilia della sua
precoce morte rimase fuori del governo a consumarsi dentro di
se come Filippo Argenti. Meno male che Carducci, prima di
scagliare le sue frecce, nel discorso agli elettorali di Pisa del
maggio 1886, dà un saluto cavalleresco all'avversario:
« Dichiaro anzitutto che io nell'onorevole Depretis rispetto
la onestà della vita e la benemerenza dei lunghi servigi alla patria».
Di tutta la sua diatriba sono queste le parole che hanno maggiore giustezza storica e giustizia umana, ed avevano valore per
quegli estremi anni pesanti di cure come per gli anni alati di speranze del lontano 1848, che trasvolava talvolta nella memoria del
vegliardo avvolto nelle familiari brume del Po.
MARIO VINCIGUERRA