Il ragionare matematico - Department of Mathematics

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Il ragionare matematico - Department of Mathematics
Il ragionare matematico
Marco Bramanti
Testo esteso dell’intervento all’Accademia di
Formazione interdisciplinare in Matematica, Scrittura, Storia, Dante
diretta da Eddo Rigotti e Carlo Wolfsgruber
Milano, 15 luglio 2011
Premessa. Si può insegnare a ragionare?
“Scit sibi non aliis qui nescit scita docere; tamquam nihil sciens talis habendus est1”
Pietro Abelardo (1079-1142)
“Hai compreso perché sei riuscito a far comprendere a qualcun altro”
Henri Fabre, The life of the fly.
Il ragionamento ha varie forme. Ogni disciplina ha un suo metodo, privilegia certi modi del
ragionamento. Noi insegnanti vorremmo educare a usare la ragione. Come si fa? E’ la cosa più
difficile, e anche in questo ogni disciplina può avere metodi diversi. In generale, l’esito
dell’insegnamento non è mai garantito, ma questo non significa che non si può insegnare. Quindi: si
può insegnare a ragionare? Non so se si può, ma si deve insegnare a ragionare. Intendo dire che non
c’è un metodo che garantisce che tutti imparino a ragionare bene (questo non dipende solo da noi),
ma non possiamo farcene una scusa per non insegnare a ragionare.
Faccio due osservazioni generali introduttive.
-Insegnare a ragionare, insegnare il metodo di una certa disciplina, richiede nell’insegnante
anzitutto una consapevolezza del metodo stesso, che è qualcosa di più della padronanza del metodo.
Non basta che io ragioni bene, occorre che sia diventato consapevole dei modi, delle forme del mio
ragionare; occorre una riflessione e un’esperienza di introspezione, coltivata per il piacere di capire
che cosa è servito a me per capire, qual era l’origine della mia incomprensione, del mio errore, che
cosa mi aiuta a fare passi veloci, che cosa mi rallenta. (Come il piacere di fermarsi a gustare il
panorama dalla vetta, dopo la fatica della salita, e prima di scendere: un momento in cui si sospende
il cammino per osservare dall’alto i passi del cammino). Poi certamente occorre la capacità di
immedesimazione, il desiderio e l’attenzione di capire il ragionamento dell’altro, la fatica altrui,
l’errore o il fraintendimento altrui, e che cosa invece aiuta la persona che ho davanti a capire, cosa
la mette in moto. Tutto questo è un lavoro che avviene dentro l’insegnante, anche se nel rapporto
con gli allievi.
-Poi c’è il lavoro che l’insegnante fa in aula, quindi con gli allievi, e il lavoro che sollecita negli
allievi. Penso che il metodo, il ragionare, non si insegni esclusivamente dando il buon esempio di
“metodo in azione”; questo è necessario, lo pensano tutti, a volte può essere anche sufficiente, ma
non è l’unica arma che abbiamo. Abbiamo anche la possibilità di fare un lavoro espressamente
mirato ad aiutare l’affinamento del metodo in chi abbiamo davanti. Un tempo espressamente
dedicato ad un lavoro sul metodo, sul ragionamento. Che non è un lavoro “preliminare” che si fa
una volta per tutte, e poi finalmente si passa oltre e ci si dedica ai contenuti; non sono i preamboli
del corso. Può avere una collocazione naturale, speciale, all’inizio di un corso, di un anno,
all’incontro con una nuova classe, ecc., ma poi è utile che continui in dosi calibrate anche più
avanti, in modo che il metodo sia messo in gioco sui contenuti veri, non sui preamboli.
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“Colui che non sa insegnare le cose che conosce, conosce per sé, non per gli altri; costui va considerato come uno che
non sa niente”.
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-Il libro “Matematica: questione di metodo” [BT], è un tentativo di fornire uno strumento di lavoro
mirato specificamente all’educazione del ragionamento matematico, rivolto agli studenti di fine
scuola superiore in vista dell’università. E’ quindi tarato mediamente un po’ più in alto rispetto al
tipo di lavoro che si fa a scuola, ma poiché è organizzato in vaire parti e livelli di difficoltà, può
essere usato almeno parzialmente nell’arco della scuola superiore. E’ uno strumento concreto che
indico, perché la raccomandazione a dedicare tempo ed energie a un esercizio specifico di
educazione al ragionamento matematico rimane vuota senza avere a disposizione anche un
serbatoio di esempi, esercizi, osservazioni, percorsi possibili.
Parte 1. Che cos’è il ragionamento matematico – Che cos’è la matematica
Dire cos’è il ragionamento matematico non è molto diverso da dire cos’è la matematica, e questo è
curioso, ma è così. Non conosco definizioni semplici e universalmente accettate di cosa sia la
matematica, ma chi ha provato a dire cos’è la matematica normalmente ne ha definito il metodo, il
modo di ragionare.
“La matematica pura è la classe di tutte le proposizioni della forma “p implica q”, dove p e q
sono proposizioni contenenti una o più variabili, le stesse nelle due proposizioni, e né p né q
contengono alcuna costante eccetto costanti logiche”.
(Bertrand Russell)
Anche un tentativo di definizione molto meno asettico, molto più appassionato e comunicativo,
com’è il primo capoverso del famoso libro di Courant-Robbins, “Che cos’è la matematica?”, per
quanto suggestivo si guarda bene dal dire di che cosa si occupa la matematica:
“La matematica come espressione della mente umana riflette la volontà attiva, la ragione
contemplativa, e il desiderio di perfezione estetica. I suoi elementi basilari sono la logica e
l’intuizione, l’analisi e la costruzione, la generalità e l’individualità. Sebbene tradizioni
differenti possano enfatizzare aspetti differenti, è solo il gioco congiunto di queste forze
antitetiche e la lotta per la loro sintesi che costituisce la vita, l’utilità, e il supremo valore
della scienza matematica. Senza dubbio tutto lo sviluppo matematico ha le sue radici
psicologiche in esigenze più o meno pratiche. Ma una volta iniziata sotto la pressione di
applicazioni necessarie, esso inevitabilmente acquista importanza in sé e trascende i confini
dell’immediata utilità. Questa tendenza a svilupparsi da scienza applicata a scienza teorica
appare tanto nella storia antica quanto in molti contributi dati alla matematica moderna da
ingegneri e fisici”.
Courant-Robbins, v. [CR], p.25.
Curiosamente, e diversamente dalla chimica, dalla biologia, dalla storia, la matematica non è
definita in modo naturale dagli oggetti che studia. Possiamo dire che la biologia è la scienza che
studia gli esseri viventi, o la chimica la scienza che studia le trasformazioni delle sostanze, la storia
la disciplina che studia le vicende umane del passato…, ma la matematica di cosa si occupa? Il fatto
che la matematica sia “la scienza dei numeri” lasciamolo dire a qualche giornalista a corto di idee:
questo non è vero più di quanto non lo sia l’affermazione “l’architettura è la scienza che studia i
mattoni” o “la pittura è la disciplina che studia le vernici”. Si può dire piuttosto che la matematica è
definita dal suo modo di procedere.
Freudenthal, dopo aver notato che nella lingua olandese il termine per indicare “matematica” è
“Wiskunde”, “la scienza del certo2”, afferma che
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Espressione coniata dal matematico Simon Stevin, 1548-1620, cit. in [F], p.21.
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“(…) la certezza deve essere cercata e garantita, ed in matematica ciò si ottiene con una
attività mentale del tutto particolare. Ed è questa attività mentale, piuttosto che i contenuti,
che caratterizza la matematica come il campo in cui essa può essere esercitata nel modo più
adeguato ed efficiente”.
H. Freudenthal, v. [F], pp.21-22.
E Hermann Weyl, dopo aver criticato come inadeguate le “definizioni” tradizionali di matematica
come scienza della quantità, o dello spazio e del numero, suggestivamente conclude:
“Se in sintesi si chiede una breve frase che caratterizzi il centro vitale della matematica, si
potrebbe ben dire: la matematica è la scienza dell’infinito”.
H. Weyl, [We], p.66.
Riprenderemo più avanti questo accenno all’infinito parlando del linguaggio logico.
Caratteristiche di base del ragionare matematico.
Il ragionamento matematico è tipicamente un ragionamento ipotetico deduttivo: se, allora. La
matematica stabilisce nessi necessari tra proprietà. Stabilisce verità logicamente necessarie. Quando
diciamo “in un triangolo, la somma degli angoli interni fa 180°” affermiamo che in qualsiasi
triangolo, necessariamente vale questa proprietà. Non è quindi una verità contingente, stabilita per
constatazione empirica, constatazione che sarebbe impossibile effettuare negli infiniti casi esistenti.
E’ una verità necessaria, stabilita a priori dell’osservazione o dell’esperienza, per necessità logica:
dalla nostra definizione di triangolo e dai princìpi primi della geometria discende deduttivamente
questo fatto.
Stabilire una volta per tutte verità necessarie è uno degli elementi di fascino della matematica.
Ribadiamo: ciò che è stabilito non è la verità isolata di una proprietà, ma piuttosto il nesso,
l’implicazione tra due: se – allora. Se questa figura è un triangolo piano, allora…
In questo senso ipotetico-deduttivo, la matematica si applica anche al mondo fisico: se realizziamo
un triangolo con un foglio di compensato, se quello è piano, allora posso affermare che la somma
degli angoli interni sarà di 180°: non è possibile costruirne uno in cui la somma degli angoli faccia
200°: se fisicamente è un triangolo ed è piano, necessariamente la somma degli angoli interni è di
180°: inutile cercare espedienti artigianali per violare questa legge: so già che è impossibile.
“Le leggi aritmetiche non si possono dire applicabili agli oggetti esterni: non sono leggi di
natura. Esse sono invece applicabili ai giudizi, che valgono per gli oggetti del mondo
esterno: sono leggi delle leggi naturali”.
Gottlob Frege (matematico e filosofo, 1848-1925, da “I fondamenti dell’aritmetica”, 1884).
Notiamo che l’applicazione della matematica alla realtà fisica richiede un ulteriore elemento che è
un atto di giudizio: io giudico che quello ritagliato nel compensato sia un triangolo, e che il
compensato sia piano, non curvo. Questo è un giudizio sulla realtà fisica, non è più una deduzione.
Questo aspetto è importante da tener presente quando si insegnano le scienze utilizzando anche
strumenti matematici: occorre distinguere il ruolo di osservazione sperimentale, giudizio sulla
realtà, deduzione matematica. Questo affiancarsi alla deduzione matematica di giudizi sulla realtà e
osservazione della realtà, immette un elemento di contingenza ed anche in un certo senso di
incertezza, nelle affermazioni scientifiche, o comunque empiriche, che la matematica contribuisce a
stabilire, il che faceva dire già ad Einstein:
“Fin quando le nostre leggi della matematica si riferiscono alla realtà, esse non sono certe; e
fin quando sono certe, non si riferiscono alla realtà”.
Albert Einstein, v. [E]
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frase che nella sua sinteticità mi sembra molto efficace e corretta: fin quando le leggi stabilite
matematicamente si riferiscono alla realtà, esse incorporano anche nostri giudizi e osservazioni
della realtà, sono perciò soggette a un margine di errore e incertezza; fin quando invece rimaniamo
nel campo della matematica pura, deduttiva, abbiamo leggi certe, che si riferiscono però a oggetti
matematici, non a oggetti fisici. Tutto ciò non va inteso come una sorta di maledizione, ma come un
sano chiarimento metodologico, senza il quale si cade in grossolani equivoci.
Ma proseguiamo sul filo principale del discorso sul metodo della matematica, e chiediamoci: come
la matematica stabilisce la verità di una certa implicazione, di un certo teorema? Attraverso la
dimostrazione. Si può far coincidere l’invenzione della matematica con l’invenzione della
dimostrazione. Noi sappiamo che il teorema di Pitagora, come elemento di conoscenza, come
enunciato, magari in qualche suo caso particolare, è noto da millenni, ma diciamo che la
matematica, come noi la intendiamo, nasce in Grecia tra il 6° e il 3° secolo a.C. perché quello è il
contesto in cui nasce la dimostrazione. Noi pensiamo che Pitagora sia stato il primo a dimostrare il
suo teorema, e sappiamo per certo che Euclide ne ha dato una dimostrazione, inserendo quel
teorema nel corpo di una teoria, un intero sistema, un grande disegno in cui un passo dopo l’altro
dai principi primi si deducono via via le conseguenze.
Ora, come avviene la dimostrazione? Come possiamo mostrare che in tutti gli infiniti triangoli
rettangoli vale una certa proprietà? Non passando in rassegna ciascun triangolo, ma piuttosto
eseguendo un ragionamento che sia valido per un generico triangolo rettangolo; per un triangolo
rettangolo qualsiasi, cioè: per un oggetto che si suppone unicamente soddisfare quelle (poche)
proprietà che definiscono il concetto di triangolo rettangolo. Qualsiasi concreto triangolo
rettangolo avrà qualche proprietà speciale, ma nei passi del ragionamento noi ci appoggiamo solo a
quelle che valgono per ciascuno di essi. Questa universalità è resa possibile dall’astrazione: il
concetto di triangolo rettangolo è astratto, è stato definito isolando poche proprietà, comuni a tutti i
triangoli rettangoli concreti. Notiamo quindi che quel tratto caratteristico, potente, della
dimostrazione, ossia la possibilità di stabilire per sempre e oltre ogni ragionevole dubbio, con un
ragionamento di un numero finito di passi, ciò che una vita intera non basterebbe a verificare
empiricamente caso per caso, è resa possibile dalla natura astratta degli oggetti matematici,
definiti da poche proprietà astratte. La tradizionale insistenza didattica, nell’affrontare un problema
di geometria, di fare una figura il più possibile generica (“se si parla di un triangolo, disegnate un
triangolo scaleno”) nasce dalla giusta preoccupazione che la figura, da supporto del ragionamento,
non diventi pietra d’inciampo, suggerendo illecitamente la validità di certe proprietà che esulano
dalle poche che sono garantite dalle nostre ipotesi e definizioni.
Raccogliamo da questa prima veloce analisi alcuni punti fermi:
la matematica normalmente non si occupa di oggetti singoli, ma di totalità di oggetti, insiemi
(spesso infiniti) di oggetti;
oggetti di un certo tipo sono definiti astrattamente mediante (solitamente poche) proprietà astratte
comuni;
la dimostrazione di una “implicazione universale” (“Per ogni oggetto di tipo x, se vale la proprietà p
allora vale la proprietà q”) viene compiuta considerando il generico oggetto di tipo x che soddisfa la
proprietà p, e deducendo da questo che necessariamente deve valere la proprietà q.
Potremmo quindi provare a dire di che cosa, in generale, si occupa, o meglio si può occupare la
matematica come disciplina, e tentare così di dare una definizione di matematica che comunichi
qualcosa tanto del metodo quanto del contenuto.
La matematica è la disciplina che studia le classi di oggetti che è possibile definire
(compiutamente) precisandone (poche) proprietà astratte. Attorno a questi oggetti stabilisce,
mediante dimostrazione logica, delle verità necessarie, solitamente espresse da implicazioni tra
proprietà.
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Nella sua vaghezza, questa definizione credo comunichi qualcosa delle caratteristiche importanti
della matematica, e ne delimita un po’ il campo. E’ vero che qui non si dice che la matematica parla
di numeri, o di triangoli, o di funzioni, difatti in un certo senso la matematica potrebbe parlare di
qualsiasi cosa. Ma in effetti l’insieme di tutti i triangoli si può definire compiutamente con poche
proprietà astratte, l’insieme di tutti i cavalli no, e difatti la matematica non ha teoremi sui cavalli.
Nota bene: si può obiettare all’ultima affermazione fatta (la matematica non ha teoremi sui cavalli)
che in effetti noi possiamo applicare teoremi matematici anche a oggetti concreti; quando facciamo
questo, però, valgono le avvertenze già fatte sul margine di incertezza che rimane, per cui in pratica
le nostre affermazioni sono più valide in modo così universale e a priori. Inoltre, quando
applichiamo un risultato astratto a una cosa concreta, noi non stiamo considerando la cosa concreta
in tutti i suoi aspetti; piuttosto, secondo un’espressione di Evandro Agazzi, usando il punto di vista
specifico della matematica stiamo ritagliando nella cosa concreta un oggetto astratto, che legge
solo alcune delle caratteristiche di quella cosa concreta, prescindendo da tutte le altre. Ad esempio,
come scrive efficacemente uno dei padri della statistica moderna, Ronald Fisher, nell’introduzione
di una sua opera:
“Se noi abbiamo le registrazioni delle stature di 1000 studenti, è la popolazione delle stature
piuttosto che quella degli studenti che prendiamo in esame”.
R. Fisher, Statistical Methods for Reasearch Workers, 1958, Introduction.
Abbiamo usato il termine verità, nel dire che la matematica stabilisce delle verità necessarie attorno
ai propri oggetti. Naturalmente, il concetto di verità in matematica è delicato; richiederebbe un
approfondimento ampio, che qui desidero evitare. Rimando all’opera di Agazzi [A] per una
discussione approfondita del tema, e a [B2] per un’introduzione divulgativa a temi simili.
A parziale scusante del mio non soffermarmi su questo punto, dirò che il problema di cosa
significhi verità in matematica emerge sicuramente quando si discute dei suoi fondamenti, ma meno
quando si discute della sua pratica quotidiana: nel concreto dello studio e dell’insegnamento della
matematica, quando ci occupiamo di teoremi che sono “veri in quanto dimostrati”, non nascono di
solito particolari problemi di interpretazione.
Desidero invece trattare un altro punto su cui a volte c’è poca chiarezza e che, credo, abbia
maggiormente a che fare con il nostro rapporto quotidiano con la matematica che si insegna e si
studia a scuola: il tema del valore conoscitivo della matematica, che è legato a quello, cui abbiamo
già accennato, del rapporto matematica – realtà.
Parte 2. Matematica e conoscenza
Affrontiamo ora un tema che viene vissuto da molti come un’obiezione al valore della matematica
(potrebbe accadere anche a chi la insegna). Vorrei documentare in che senso la matematica è una
forma di conoscenza della realtà, rispondendo ad alcune tipiche obiezioni che si fanno a questa tesi.
Se questo non è chiaro anzitutto in chi insegna matematica, e poi in chi la studia, non può esserci
una vera stima di questa disciplina, e quindi una stima del valore che ha l’impegnare la nostra
ragione nella matematica. Se fosse così qualsiasi discorso sul ragionamento matematico si
ridurrebbe a una serie di consigli su come ben addestrare a certe abilità. Queste obiezioni solo a
volte sono fatte in modo esplicito; più spesso rimangono implicite, come incrostazioni di pregiudizi
che non vengono mai messi in discussione.
Sapere ipotetico deduttivo e conoscenza
La prima obiezione si può esprimere così: un sapere ipotetico-deduttivo (come la matematica è) può
essere conoscenza?
A sua volta, questa obiezione ha due aspetti diversi, si dettaglia in due obiezioni:
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La prima: “Se le tue conclusioni sono solo svolgimento logico di quanto contenuto nelle premesse,
alla fine, in fondo, non hai niente di nuovo”.
Questa è un’obiezione tanto comune quanto superficiale. Un’obiezione che davvero è fuori dalla
realtà. Noi non siamo esseri superiori che vedono a colpo d’occhio tutte le conseguenze delle
premesse. Trarre le conseguenze delle premesse per noi può essere il lavoro faticoso di una vita.
Andare dall’osservazione della biglia che rotola sul piano inclinato al lancio di un’astronave è poca
cosa? O dagli assiomi dei numeri naturali alla dimostrazione dell’ultimo teorema di Fermat, che ha
richiesto 300 anni di sforzi? Se, dopo aver fatto un po’ di questo lavoro, ti guardi indietro, vedi che
prima non sapevi che certe premesse hanno certe conseguenze, ora lo sai. Se prima non lo sapevi e
ora lo sai, la tua conoscenza è aumentata. Quindi il metodo ipotetico-deduttivo è un metodo di
conoscenza. Un passo di Galileo esprime bene questo concetto:
“Però, per meglio dichiararmi, dico che quanto alla verità di che ci danno cognizione le
dimostrazioni matematiche, ella è l'istessa che conosce la sapienza divina; ma vi concederò
bene che il modo col quale Iddio conosce le infinite proposizioni, delle quali noi conosciamo
alcune poche, è sommamente piú eccellente del nostro, il quale procede con discorsi e con
passaggi di conclusione in conclusione, dove il Suo è di un semplice intuito: e dove noi, per
esempio, per guadagnar la scienza d'alcune passioni del cerchio, che ne ha infinite,
cominciando da una delle piú semplici e quella pigliando per sua definizione, passiamo con
discorso ad un'altra, e da questa alla terza, e poi alla quarta, etc., l'intelletto divino con la
semplice apprensione della sua essenza comprende, senza temporaneo discorso, tutta la
infinità di quelle passioni (…)”
G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi Tolemaico e Copernicano, Giornata Prima.
La seconda obiezione rivolta alla matematica come sapere ipotetico-deduttivo è la seguente:
“Se stabilisci solo dei nessi logici, delle verità ipotetiche, in fondo non concludi mai la verità di
nulla”. Certo, dire “Se vale questo, allora vale quello” apre ovviamente il problema di quali sono le
premesse da cui partire, visto che non possiamo risalire all’infinito nelle nostre deduzioni. Questa è
un’obiezione più seria, che porta all’eterna discussione: le nostre premesse sono verità evidenti o
sono pure convenzioni? Rimando ancora ad [A] e a [B2] per un approfondimento di questi temi, e
mi limito qui a qualche osservazione.
In effetti c’è stata un’evoluzione storica del nostro modo di concepire il ruolo delle premesse nella
matematica. Se per Euclide, 2300 anni fa, le premesse del discorso (assiomi o postulati) erano verità
evidenti, a partire dal 19° secolo, sotto l’influsso prima della scoperta delle geometrie non euclidee
e poi per vari altri fattori, si iniziò a sottolineare il ruolo delle premesse come pure e semplici
“regole del gioco”, oggetto di convenzione. Attenzione a non intendere troppo frettolosamente
questa svolta come l’approdo a una posizione relativista. Il punto di vista contemporaneo prende
atto che viviamo in un mondo complesso, in cui, a seconda di qual è il pezzo di realtà che ci
interessa studiare e il punto di vista da cui ci interessa studiarlo, dobbiamo scegliere
opportunamente le premesse della teoria. Ciò che dal punto di vista formale è “solo una
convenzione”, dal punto di vista del rapporto tra la teoria e la realtà è invece oggetto di
osservazione, riflessione, valutazione e scelta. E questo, se vogliamo, è sempre stato vero. La novità
che i tempi moderni hanno portato è la sottolineatura del fatto che questa scelta non si fa una volta
per tutte, ma caso per caso: se voglio studiare la geometria delle figure disegnate sulla superficie
della sfera, le premesse saranno diverse da quelle che farei per studiare le figure disegnate nel
piano: nel primo caso il 5° assioma di Euclide non vale, la somma degli angoli interni di un
triangolo non fa 180° ma di più, il teorema di Pitagora non vale, e così via. Un grande cambiamento
di prospettiva, certo, ma non il crollo di ogni certezza o scemenze simili.
Il metodo ipotetico-deduttivo della matematica rivela storicamente la sua potenza nella
comprensione della realtà fisica quando, a partire dal 1700 e oggi più che mai, si unisce alla scienza
moderna, matematizzata. La scelta, volta per volta, delle premesse valide, diventa la
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modellizzazione matematica dei concetti e fenomeni fisici. Questa scelta è un esercizio di giudizio
compiuto dalla scienziato che applica la matematica. La storia dimostra che questo nostro “esercizio
di giudizio” è stato ed è estremamente utile alla descrizione, comprensione e previsione dei
fenomeni. (Per fare il disegno geometrico dell’arredo di una stanza la geometria euclidea va
benissimo, per studiare l’universo su grande scala ci vuole la geometria pseudoriemanniana della
teoria della relatività). La matematica, unita all’osservazione della realtà ha dimostrato di offrire un
potentissimo strumento di conoscenza della realtà, anche fisica.
Quello che emerge, stando di fronte alla storia della matematica e della scienza, è quella
sorprendente efficacia della matematica nella comprensione del mondo fisico, di cui tanti autori si
sono giustamente meravigliati.3 Allo stupore di molti, Benedetto XVI ha aggiunto un commento
profondo, che è stato tra gli spunti iniziali che hanno messo in moto la mostra sulla matematica al
Meeting di Rimini 2010:
“Una caratteristica fondamentale delle scienze moderne è l’impiego sistematico degli
strumenti della matematica per poter operare con la natura. La matematica come tale è una
creazione della nostra intelligenza: la corrispondenza tra le sue strutture e le strutture reali
dell'universo suscita la nostra ammirazione e pone una grande domanda. Implica infatti che
l'universo stesso sia strutturato in maniera intelligente, in modo che esista una
corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella
natura. Diventa allora inevitabile chiedersi se non debba esservi un’unica intelligenza
originaria, che sia la comune fonte dell’una e dell’altra. Così proprio la riflessione sullo
sviluppo delle scienze ci riporta verso il Logos creatore. Viene capovolta la tendenza a dare
il primato all'irrazionale, al caso e alla necessità, a ricondurre ad esso anche la nostra
intelligenza e la nostra libertà.”
(Benedetto XVI, dal discorso alla Chiesa Italiana, Verona 19/10/2006).
Il carattere ipotetico-deduttivo della matematica quindi non le toglie affatto il suo valore
conoscitivo anche verso la realtà fisica.
Astrazione e conoscenza
Quanto detto fin qui risponde anche ad un’altra obiezione frequente che si fa al valore conoscitivo
della matematica, obiezione basata sull’aspetto dell’astrazione matematica: “Tu non parli della
realtà, ti occupi di cose astratte”. Quindi, come può essere conoscenza un discorso che non parla
della realtà?
Abbiamo visto come l’astrazione sia una caratteristica degli oggetti matematici che rende possibile
lo stabilire verità necessarie attorno ad essi (è un punto di forza del suo metodo). In secondo luogo,
l’astrazione matematica è una lettura sintetica della realtà concreta, uno sguardo che coglie gli
aspetti profondamente comuni presenti in tante realtà concrete. E questa è una forma di
comprensione e conoscenza della realtà, che avviene in matematica come in ogni altra disciplina
del pensiero, perché in ogni ambito la ragione non fa molti passi senza usare anche delle categorie
astratte. In questo senso possiamo anche dire che l’astrazione è un punto di vista, un punto di
osservazione sulla realtà concreta, non una negazione della o un disinteresse per la realtà concreta.
Infine, abbiamo visto come l’astrazione matematica, unita all’osservazione scientifica della realtà e
alla riflessione scientifica, permetta una potentissima forma di conoscenza, comprensione,
previsione e manipolazione della realtà fisica. Tutto questo, di nuovo, sottolinea quella
corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura.
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Si cita molto spesso, da questo punto di vista, un articolo del 1960 del fisico Eugene Wigner dal titolo “The
Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the Natural Sciences” (L'Irragionevole Efficacia della Matematica nelle
Scienze Naturali), v. [Wi]. Su temi simili, e a mio parere con maggiore profondità, si era già espresso Einstein nel 1921
col saggio “Geometria ed esperienza”, v. [E].
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Vorrei tornare sull’osservazione che l’uso dell’astrazione è una forma di conoscenza della realtà che
pratichiamo in ogni disciplina. Notiamo che di per sé le categorie storiche, o politiche, o letterarie,
che usiamo in queste discipline non sono “meno astratte” delle categorie matematiche, sono
piuttosto tipi diversi di astrazione. Non ha senso quindi giustificare la propria freddezza nei
confronti della matematica “perché è astratta”: utilizziamo continuamente astrazioni nella nostra
conoscenza della realtà. Comprendere meglio certi concetti astratti e le loro relazioni è conoscenza,
non meno che conoscere le viti e i bulloni. Si dice allora: sì, ma l’astrazione di certi concetti storici,
politici, ecc., serve a capire la realtà, c’entra con la realtà di tutti i giorni. E l’astrazione matematica
no? E’ la base di infinite applicazioni scientifiche e tecniche senza le quali non useremmo il
cellulare, non ascolteremmo musica, non manderemmo una e-mail, non ci sposteremmo se non a
piedi. E sta alla base di tanti aspetti della nostra percezione della realtà (spazio, tempo, relazioni…).
Tornando alla matematica, vorrei sottolineare qualche ulteriore “punto di forza” dell’astrazione.
Abbiamo detto che l’astrazione è la ricerca di ciò che c’è di fondamentalmente comune in tante
situazioni apparentemente molto diverse tra loro. Questo fa sì che in matematica bisogna stare
molto attenti a dire che una cosa non c’entra con un’altra. Proprio la sua natura astratta fa sì che,
chi vede più lontano, possa cogliere sempre nuovi e inaspettati nessi tra concetti che sembravano
lontani tra loro. (I grandi matematici solitamente non sono “specialisti” di un solo campo). Ma
questo aspetto che riguarda la matematica come teoria, si ritrova anche nelle applicazioni fisiche
della matematica.
Ad esempio: la stessa equazione differenziale (equazione di Laplace) può descrivere il potenziale del campo
gravitazionale, quello del campo elettrostatico, la temperatura di un corpo in equilibrio termico, la configurazione di
equilibrio di una membrana elastica fissata al contorno.
Fenomeni diversi, retti dalla stessa matematica. Quindi, ogni nuovo teorema astratto che viene
stabilito ha qualcosa da dire su fenomeni diversi; e viceversa, l’intuizione fisica può suggerire in un
ambito specifico la validità di una proprietà che, se dimostrata, ha conseguenze anche in campi
diversi.
“I matematici non studiano oggetti, ma relazioni tra oggetti. Così essi sono liberi di
sostituire alcuni oggetti con altri, fintanto che le loro relazioni non cambiano. Il contenuto
per loro è irrilevante: essi sono interessati solo alla forma”.
Henry Poincaré (1854-1912)
Inoltre, la storia della matematica documenta continuamente questo paradosso: nessun risultato è
troppo astratto, nessuna generalizzazione troppo ardita per poter essere utile, oggi o domani, a
qualcosa di concreto.
Ad esempio: quando Riemann, nell’800, generalizzando le idee geometriche del suo maestro Gauss, ebbe l’idea degli
spazi curvi di dimensione n qualsiasi, nessuno poteva prevedere che 60 anni dopo Einstein avrebbe usato quella teoria
per descrivere la geometria dello spaziotempo nel nostro universo. Quando Euclide, Fermat, Eulero, a distanza di secoli,
si interrogavano sulle proprietà dei numeri primi, pensavano di coltivare una conoscenza pura, che probabilmente mai
sarebbe “servita”, eppure oggi utilizziamo i loro teoremi per costruire gli algoritmi su cui si basa la crittografia che
protegge le transazioni online.
Quindi questa possibilità di trovare, attraverso l’astrazione, dei nessi tra realtà e concetti lontani tra
loro, è anche meravigliosamente aperta sul futuro imprevedibile, non è mai la sola descrizione di
ciò che c’è già.
In sintesi: nell’astratto, tutto può centrare con tutto (la possibilità di trovare nessi è sconfinata); una
sola matematica astratta può descrivere tanti concreti diversi (oggetti o fenomeni fisici); una
matematica astratta di oggi può spiegare un concreto di domani.
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Parte 3. Ragionamento matematico e linguaggio
Logica e linguaggio
Abbiamo fatto un discorso sulla natura del metodo matematico anzitutto per iniziare a collocare il
ragionamento matematico nel contesto più ampio della ragione, per dare qualche spunto per
comprendere il ruolo della matematica nel complesso della conoscenza e il rapporto con altre forme
di conoscenza e di ragionamento. Proseguendo su questo spunto arriviamo ad un’osservazione che
introduce un altro tema.
“La matematica come scienza iniziò quando qualcuno, probabilmente un Greco, dimostrò
proposizioni riguardanti “qualsiasi” cosa o riguardanti “almeno una” cosa, senza specificare
oggetti particolari”.
Alfred Whitehead (1861-1947)
Il fatto che la matematica si occupi principalmente di insiemi di oggetti anziché di oggetti singoli,
introduce immediatamente una specificità del ragionamento matematico rispetto al ragionamento
comune. Nel linguaggio comune è normale fare affermazioni attorno a oggetti singoli, ad esempio
quella finestra. Posso dire che quella finestra è aperta o è chiusa. Ma se io chiedo: le finestre di
questa stanza sono aperte o chiuse? Le risposte possibili non sono più solo due: “Tutte le finestre
sono aperte”; “Almeno una finestra è aperta”; “Nessuna finestra è aperta”. Questa è la situazione
più comune nel ragionamento matematico: “Per ogni x vale la proprietà p(x)”; “Esiste almeno un x
per cui vale la proprietà p(x)”; “Per ogni x non vale la proprietà p(x)”. Non che queste cose non
possano entrare anche nei ragionamenti della vita quotidiana, ma in matematica occorrono molto
più di frequente. Usiamo continuamente i quantificatori “esiste”, “per ogni”, e questa è una
difficoltà specifica del ragionamento matematico. Detto con linguaggio logico: nei ragionamenti
quotidiani, utilizziamo spesso quelle che la logica chiama “proposizioni atomiche” come “questa
finestra è aperta”. In matematica se ne usano poche (un esempio è: “il numero 5 è dispari”: non
diciamo spesso frasi così semplici); le proposizioni matematiche sono ottenute normalmente
utilizzando proprietà che contengono variabili: la proposizione “Tutte le finestre di questa stanza
sono aperte” ha la struttura logica “Per ogni finestra x di questa stanza, x è aperta”, cioè “per ogni x
nell’insieme S, vale la proprietà p(x)”.
Siamo così arrivati al concetto di variabile, la vera regina della logica matematica.
“La variabile è forse tra tutte le nozioni matematiche la più tipica; ed è anche certamente una
delle più difficili da capire. (...) Inoltre, è il mezzo per stabilire teoremi generali (...)
L'Aritmetica Elementare, così come la si insegna ai bambini, è caratterizzata dal fatto che i
numeri che compaiono in essa sono delle costanti; il risultato della somma che fa uno
scolaro è ottenibile senza proposizioni che riguardino qualsiasi numero. Ma il fatto che le
cose stiano così può venire dimostrato soltanto con l'aiuto di proposizioni su qualsiasi
numero, e così si passa dall'aritmetica dello scolaro all'aritmetica che usa lettere al posto dei
numeri e dimostra teoremi generali. (...) Ora noi dimostriamo teoremi che riguardano n, e
non 3 o 4 o qualsiasi altro particolare numero. (...) Originariamente, senza dubbio, la
variabile era concepita dinamicamente, come qualcosa che varia con lo scorrere del tempo,
o, come si dice, come qualcosa che successivamente assume tutti i valori di una certa classe.
Non sarà mai troppo presto per liquidare questo punto di vista. Se si dimostra un teorema per
n, non si può supporre che n sia una sorta di Proteo Aritmetico, che vale 1 la domenica, 2 il
lunedì, e così via. E neppure si può supporre che n assuma simultaneamente tutti i suoi
valori. Se n sta per intero, non possiamo dire che n è 1, e neppure che è 2, e neppure che è
qualsiasi altro numero particolare. In effetti, n denota semplicemente qualsiasi numero, e
questo è qualche cosa di ben distinto da ciascuno e da tutti i numeri. Non è vero che 1 sia
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qualsiasi numero, nonostante sia vero che ciò che vale per qualsiasi numero vale anche per
1. La variabile, in breve, richiede la nozione indefinibile di qualsiasi ...”
B. Russell, v. [Ru], p.114.
Ho detto che la centralità della logica predicativa è una difficoltà (e non solo una caratteristica) del
ragionamento matematico, sia perché è chiaro che ci risulta più difficile qualcosa a cui siamo meno
abituati dalla vita di tutti i giorni, sia perché la logica predicativa è intrinsecamente più sottile della
logica proposizionale. Questo è espresso molto chiaramente nella terminologia che usa Hermann
Weyl nell’indicare queste due logiche, quando scrive:
“Quella parte della logica che opera esclusivamente con i connettivi logici “non”, “e”, “o”
sarà chiamata logica finita, contrapposto a logica transfinita, che in aggiunta usa gli
operatori “esiste” e “per ogni”. La ragione di questa distinzione è la seguente. Supponiamo
che io abbia davanti a me diversi gessetti; allora l’affermazione “tutti questi gessetti sono
bianchi” è solo un’abbreviazione di “questo gesso è bianco & quel gesso è bianco &…” (…)
Ma solo per un insieme finito, i cui elementi si possono mostrare uno per uno, tale
interpretazione è possibile. Nel caso di insiemi infiniti, il significato di “tutti” e “qualcuno”
coinvolge un problema profondo che tocca il nocciolo della matematica, il segreto
dell’infinito”.
Hermann Weyl, v. [We], p.14.
Si capisce meglio ora il senso della definizione sintetica data da Weyl della matematica come
scienza dell’infinito, già ricordata. Si può dire che l’infinito entra costitutivamente nella matematica,
prima ancora che con il riconoscimento esplicito e consapevole dell’importanza, nella pratica
matematica, dei procedimenti infiniti o degli insiemi infiniti, attraverso l’infinito della generalità,
l’infinito del “per ogni”.
Così come parlare di che cos’è la matematica ci ha portato immediatamente a parlare del
ragionamento matematico, abbiamo visto che parlare di ragionamento matematico ci conduce
inesorabilmente a parlare del linguaggio logico-matematico: proposizioni, proprietà, variabili,
quantificatori.
“La logica è l'igiene che il matematico usa per far sì che le sue idee restino sane e robuste”.
Hermann Weyl, su “The American Mathematical Monthly”, November, 1992.
Si capisce dal discorso precedente come il ragionamento matematico richieda un’attenzione logica
al linguaggio. Utilizzare correttamente i quantificatori, non lasciarli impliciti (magari nell’articolo
indeterminativo “un”) usare in modo non ambiguo la “o” (esclusiva o non esclusiva?), costruire in
modo corretto la negazione di una proposizione, comprendere cosa afferma una implicazione e che
cosa esattamente è incompatibile con essa, ecc., sono elementi necessari al ragionamento
matematico. Non sono preliminari, da trattare in qualche lezione introduttiva, nelle prime pagine dei
libri di testo, solo perché si usa far così, sono la stoffa di ogni ragionamento matematico. (A questo
è dedicata la prima parte del libro [BT]).
Ma diciamo qualcosa di più: il ragionamento matematico non solo richiede un’attenzione logica al
linguaggio; il ragionamento matematico si nutre di un amore per il linguaggio. Senza amore per il
linguaggio, la matematica resterà sempre un’estranea. Questo approfondisce la frase di Weyl sulla
logica come igiene mentale. Un certo uso delle parole non nasce dalla paura dell’errore (cioè dalla
paura della “malattia”) ma dall’amore per il linguaggio, cioè per la verità, per la conoscenza, e per
la comunicazione con altri esseri umani. (Dobbiamo ripetere ai ragazzi che il linguaggio e la
scrittura ci sono dati per comunicare con altre persone, non con se stessi! Quanti ragazzi
giustificano il proprio scrivere male dicendo “ma tanto io capisco”, o il proprio parlare male
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dicendo “l’importante è capirsi”, il che è proprio ciò che non accade). Apprezzare (e far apprezzare)
le differenze specifiche del linguaggio matematico rispetto ad altri linguaggi disciplinari è
importante per accettare (e far accettare) certe sottolineature e attenzioni non come una
“deformazione mentale” ma come un giusto adeguamento del metodo all’oggetto di studio.
Apprezzare un sapere come quello matematico, che attraversa il tempo e lo spazio, con una
tradizione vivente che prosegue da 2500 anni in tutto il mondo, non è possibile senza un interesse
alla comunicazione tra le persone, una cura per il linguaggio scritto e parlato come condizione
necessaria per la comunicazione tra le persone.
Il linguaggio matematico e i linguaggi matematici specifici
Ma il linguaggio in matematica non è solo un certo uso della logica. C’è un altro aspetto del
linguaggio, direttamente legato ai contenuti matematici. Si può dire anzi che l’insegnamento della
matematica a scuola, dalle elementari alle superiori, consista in misura importante
nell’insegnamento di certi linguaggi specifici della matematica:
• la scrittura dei numeri;
• il linguaggio dell’algebra, o del “calcolo letterale”;
• la geometria analitica;
• il linguaggio degli insiemi e le funzioni
sono esempi di linguaggi matematici specifici che costituiscono una parte importante
dell’insegnamento della matematica a scuola. Per diverse volte nell’arco dell’età scolastica,
l’allievo è introdotto ad un nuovo linguaggio, con cui affronterà un nuovo contesto. In ciascuno di
questi nuovi contesti molto spesso non si arriva lontano: grandi teorie, grandi teoremi, non se ne
vedono spesso a scuola, se si toglie la geometria euclidea e un po’ di analisi matematica alla fine dei
licei. Questo è uno dei motivi per cui la matematica della scuola viene spesso associata al fare
esercizi, agli aspetti procedurali, di tecniche, formule ecc., più che all’aspetto di teoria ipotetico
deduttiva fatta di definizioni, teoremi, dimostrazioni. Certamente un maggior peso, nella
matematica scolastica, dell’aspetto ipotetico deduttivo (definizioni, teoremi, dimostrazioni) non
potrebbe che giovare sia all’educazione del ragionamento nei ragazzi, sia alla reputazione della
matematica tra di loro, o almeno tra i più intellettualmente vivaci di loro. Ma occorre anche capire e
valorizzare fino in fondo il ruolo dei vari linguaggi matematici specifici che sono insegnati a scuola,
per apprezzare il fatto che insegnare e imparare questi linguaggi è molto di più che un
addestramento tecnico.
[Per approfondire questi 4 esempi notevoli di linguaggi matematici rimando al mio articolo [B1], “I
linguaggi matematici”, che lascio come riferimento. Qui ne ho riportato alcune conclusioni].
Prendiamo ad esempio il linguaggio algebrico, del calcolo letterale: il concetto di incognita, l’idea
di formalizzare un problema mediante un’equazione, la scrittura simbolica e il “calcolo letterale”…
Se riflettiamo su queste idee, magari avendo anche un’idea della fatica con cui storicamente sono
emerse nell’arco di secoli (la storia della matematica non è un optional per pochi curiosi: un minimo
di storia delle idee dovrebbe essere conosciuta almeno da chi insegna la matematica, se vogliamo
avere consapevolezza dell’originalità di certe idee e delle difficoltà con cui vi si è arrivati), vediamo
che il linguaggio matematico non è semplicemente un modo per comunicare certe idee, ma è esso
stesso il luogo in cui risiedono certe idee. Il linguaggio incorpora in sé progressi, idee, giudizi,
astrazioni frutto di una lunga storia. Per questo quando ragioniamo usando un certo linguaggio, certi
problemi (non tutti!) appaiono banali, mostrano da sé la strada per la propria soluzione. Questo
succede ad esempio quando certi problemi formulati nel linguaggio quotidiano vengono
formalizzati con una semplice equazione di primo grado. In realtà il problema non può essere
considerato banale di per sé; piuttosto, si può dire che in quel caso il linguaggio si sia fatto carico
della maggior parte del lavoro necessario a risolvere il problema. Dire questo non è come dire che
la fatica l’ha fatta la lavagna, o la penna: “il linguaggio” non è qualcosa di impersonale, è uno dei
frutti di 2500 anni di storia e di tradizione matematica. Quindi non è qualcosa che ci è dato “gratis”
(e quindi su cui possiamo non soffermarci più di tanto). Il linguaggio ricapitola i progressi
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concettuali di tutta una storia, e ci vedere le cose dalle spalle dei giganti. Ma se è stato faticoso
arrivarci per l’umanità, se è stata una conquista di secoli, sarà faticoso anche oggi per chi lo
incontra per la prima volta, e questo dice della pazienza e accortezza che occorre avere
nell’insegnare queste cose, e anche della grande dignità che queste cose hanno. Altro che “banale
equazione di primo grado”!
Concretamente, sottolineare l’aspetto di novità che il linguaggio introduce significa anche dedicare
esplicitamente del tempo e spazio alla discussione di questi aspetti. Quanti studenti, tra coloro che
hanno imparato a risolvere un’equazione di primo grado, saprebbero spiegare in modo
soddisfacente cosa vuol dire “incognita”? O cosa vuol dire “risolvere un’equazione”?
Un altro esempio efficace si può fare riguardo al linguaggio della logica. Se vogliamo dimostrare
che la somma di due numeri pari è pari, noi oggi diciamo:
“Siano 2n, 2m, due generici numeri pari; allora 2n+2m=2(n+m) che è pari, perciò la somma di due
numeri pari è pari”.
Un ragazzino di terza media è in grado di capire il passaggio 2n+2m=2(n+m); più difficilmente,
però, capisce perché quel semplice passaggio costituisca una dimostrazione del teorema che
abbiamo citato. La parte più delicata della dimostrazione, infatti, non è il calcolo, ma la generalità
del suo significato. Nella frase “sia 2n il generico numero pari” è implicita la fatica di secoli con cui
si è arrivati all’algebra simbolica e l’idea logica di dimostrare che una proprietà vale per tutti gli
elementi di un certo insieme dimostrando che vale per il generico elemento dell'insieme. Nei libri di
testo di matematica universitaria si scrive spesso, frettolosamente, nella prima pagina di
“preliminari”, che “il simbolo si legge per tutti, per qualsiasi”, senza segnalare la profondità di
pensiero insita nell'identificare queste due diverse espressioni.
Un altro aspetto importante è che un buon linguaggio apre nuovi orizzonti, rende naturale o per lo
meno possibile porsi determinate domande che prima non erano neppure formulabili, indagare
oggetti che prima non erano neppure definibili. Ad esempio, il linguaggio della geometria analitica
rende possibile descrivere, e quindi indagare, curve che senza di esso non potevano essere neppure
definite.
Perciò la scoperta e l'invenzione delle idee matematiche sono inseparabili dalla creazione e dall'uso
del linguaggio matematico.
Questo rapporto tra linguaggio ed idee matematiche è certamente un motivo importante delle
difficoltà che si incontrano nello studiare e nell'insegnare la matematica: una delle cose più faticose
da acquisire per uno studente è un linguaggio corretto, e d'altro canto dovrebbe essere chiaro dal
discorso precedente quanto questo sia importante. I motivi di questa fatica sono vari:
•
•
•
Il motivo più ovvio è proprio il fatto che apprendere un linguaggio significa in realtà
apprendere un insieme di idee non banali, che hanno richiesto tempo per maturare nella
storia; perché dovrebbero poter maturare istantaneamente nella persona? Di questo occorre
semplicemente essere consapevoli.
Esiste anche una certa resistenza tipica da parte dello studente a voler imparare il
linguaggio, dovuta al pregiudizio diffuso secondo cui linguaggio e contenuto sono pensati
come aspetti nettamente separati. “Io voglio capire le idee, in soldoni; farei a meno di usare
questo linguaggio se il professore non fosse così pedante”. Così facendo non si capisce che
senza impadronirsi del linguaggio, sono proprio le idee che non si riescono a capire. E si
perde il vantaggio di tutto il progresso e il pensiero che in quel linguaggio sono ricapitolati.
In terzo luogo, insegnare il linguaggio implica da parte del docente uno sforzo didattico non
indifferente. Il linguaggio, infatti, è per il docente come un abito che indossa senza più
neanche accorgersene; il docente mette a tema e sviscera esplicitamente certi contenuti, e
molto più implicitamente comunica un certo linguaggio. Mettere a tema e sviscerare
esplicitamente il linguaggio che si sta usando è un'operazione didattica delicata, che richiede
nel docente uno sforzo di introspezione e di immedesimazione nell'ascoltatore (“qual è la
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•
difficoltà che questi studenti stanno incontrando, o che io ho incontrato, nel recepire questo
termine?”).
Infine (quest’osservazione forse vale più per l’università che per la scuola), l'economia
dell'esposizione, sia parlata che scritta (lezioni o libri di testo) inevitabilmente spinge a
scivolare rapidamente, ad esempio, sulle dimostrazioni più semplici, sulle implicazioni “di
routine” che, se da una parte non sono certo quelle da cui si colgono le idee profonde di una
disciplina, d'altro canto sono proprio la palestra migliore per impararne il linguaggio in
quanto, come abbiamo segnalato, sono proprio quelle dimostrazioni in cui quasi tutto il
lavoro è svolto dal linguaggio stesso. Studiare queste semplici dimostrazioni
ripercorrendone la logica per cogliere la potenza del linguaggio in azione è un esercizio
prezioso che lo studente dovrebbe fare. E senza l'attivo coinvolgimento del ragionamento da
parte dallo studente, soffermarsi su queste cose da parte del docente non produce alcun
frutto.
Ragionamento matematico e pensiero non verbale
“C’è chi sostiene che, nel rapporto genetico tra pensiero e linguaggio, non sia possibile che
si dia pensiero senza parole, pensiero per così dire non verbalizzato. Sostanzialmente si
identificano ragione e linguaggio, come si può intuire ad esempio nella coincidenza di uso
della parola greca logos che denota sia il linguaggio sia il pensiero. La posizione
contrapposta è quella di coloro che non sono convinti dell’identità di pensiero e parola. Essi
sostengono che il pensiero può essere accompagnato da rappresentazioni concrete diverse
dalle parole, come immagini o musica”.
R. Manara, v. [M], p. 102.
(Su questo tema si veda anche J. Hadamard, La psicologia dell’invenzione in campo matematico,
Raffaello Cortina Editore, 1993; Cap.6).
Il nostro pensiero è solo “pensare parole”? Certamente no, anche se non è facile fare un inventario
completo dei tipi di pensiero non verbali che possiamo avere (immagini o suoni, sentimenti…; e
poi? Cos’altro c’è?). Se circoscriviamo il discorso dal pensiero in generale al ragionamento
matematico, molto più particolare, cosa rimane del pensiero non verbale? Sicuramente il pensare
immagini visive. Non so se qualcosa e cos’altro rimanga, mi limiterò a considerare, come categoria
fondamentale di pensiero non verbale che è importante nel ragionamento matematico, il pensare
delle immagini.
Faccio alcune osservazioni che vanno in due direzioni complementari e, in un certo senso,
antagoniste.
1. L’importanza del pensare immagini nel ragionamento matematico (e quindi l’importanza
dell’educare a pensare immagini, farsi rappresentazioni visive e utilizzarle).
2. L’importanza del saper tradurre interamente un ragionamento matematico in una forma
verbale adeguata (e quindi l’importanza dell’educare alla corretta verbalizzazione dei
ragionamenti).
1. Che il pensare immagini sia importante nel ragionamento matematico si capisce facilmente. Se
stiamo facendo della geometria, la visualizzazione, l’immaginazione adeguata delle figure è
ovviamente fondamentale. Il concetto di corrispondenza biunivoca, che non solo è alla base del
concetto di numero, ma che entra in tante questioni di conteggio, in tanti ragionamenti su insiemi o
su calcoli combinatori, ha un suo forte supporto visivo: io mi immagino degli oggetti disposti nello
spazio in modo da corrispondersi biunivocamente, come coltelli e forchette su una tavola
apparecchiata. Se parliamo di funzioni, immaginare o vedere il grafico è importante. In certe
questione le immagini visive adeguate non sono solo statiche ma dinamiche: dobbiamo immaginarci
“un film” e non solo un fotogramma singolo, per ragionare sul concetto di limite o su certi
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procedimenti infiniti; l’idea di procedimento iterativo, fondamentale ad esempio nell’analisi
matematica di quinta liceo, è associata più a un film che a un’immagine statica. Se, all’altro estremo
del percorso scolastico, scuole elementari e medie, parliamo di problemi formulati col linguaggio
quotidiano e che lo studente deve formalizzare, l’immaginazione della realtà descritta dal testo del
problema è ovviamente fondamentale. In tutti questi esempi, il ruolo dell’insegnante è sollecitare
nell’allievo l’immaginazione visiva, che è necessaria al ragionamento, e sollecitare l’effettivo
utilizzo di tale rappresentazione mentale, nello scegliere i passi del ragionamento. Quante volte
abbiamo l’impressione che lo studente non “veda” nulla quando legge un certo testo, o peggio, non
cerchi di vedere, non avverta il desiderio di visualizzare, di farsi una rappresentazione concreta di
ciò che ha letto. Altre volte sembra che uno studente disegni una figura “per dovere”, perché gli
hanno insegnato a farlo, ma poi il pensiero procede indipendente, senza giovarsi in modo effettivo
della figura. Questo fatto può essere legato all’interesse o disinteresse che lo studente ha per la
matematica in generale, o per il mettersi a ragionare su quel problema in quel momento; può essere
legato al pregiudizio che la matematica non c’entra con la realtà; può essere una forma di
atteggiamento passivo in generale nel rapporto con la realtà; può dipendere dal non aver mai fatto
esperienza consapevole in prima persona dell’utilità di tale rappresentazione.
Un’osservazione importante, suggerita da Raviel Netz in [NN]: le immagini utili al ragionamento
matematico sono immagini di tipo schematico, non pittorico; sono immagini che evidenziano certi
aspetti importanti, mettendone altri tra parentesi. Si capisce bene questo, per contrasto, vedendo
certe rappresentazioni “pittoriche” che a volte i bambini delle elementari fanno della situazione
descritta in un problema: disegni che una volta fatti talvolta aiutano poco, perché contengano troppa
informazione, espressa in modo troppo poco schematico.
Nella capacità di formarsi nella mente (o sulla carta) un’immagine che aiuti il ragionamento c’è un
aspetto a mio parere misterioso, che sembra aprire un circolo vizioso: mi faccio un’immagine per
aiutare il ragionamento, quindi potrei non aver ancora chiaro qual è “il punto della questione”: ma
per farmi un’immagine utile devo pensare un’immagine che esprima già l’essenziale e non il resto.
Il farsi delle buone immagini mentali si basa quindi a volte sul “presentimento” di quali siano gli
aspetti essenziali, un presentimento che a sua volta si basa sull’esperienza e l’educazione
precedente, e che naturalmente si può cercare di educare. In questa direzione va il giusto
suggerimento che tradizionalmente si dà nei problemi di geometria: “se il problema parla di un
triangolo qualsiasi, disegnate un triangolo scaleno”, cioè non aggiungete un’informazione non
presente nel testo, che poi vi fuorvierà. All’estremo di questa “disciplina” troviamo un aneddoto su
Archimede (riportato in [NN]): ci è arrivato un diagramma, che si ritiene essere la copia fedele di un
disegno fatto da Archimede in persona, dove, in un contesto in cui si sta ragionando su poligoni
inscritti in una circonferenza, i lati di un poligono vengono rappresentati con degli archi di curva
anziché con dei segmenti: il grande Archimede non voleva ingannare se stesso con un disegno
troppo “pittoricamente esatto”, che suggerendo come ovvie certe proprietà facesse allentare in lui
l’esigenza di rigore deduttivo. Non è così “perché si vede”, è così “perché l’ho dimostrato”! Qui
siamo forse all’eccesso, ma dato il personaggio si capisce…
Il “pensare immagini” in un ragionamento matematico può anche essere qualcosa di diverso e di
molto più astratto che pensare oggetti reali nello spazio. Possiamo pensare simboli, formule,
equazioni. Questo non è affatto lo stesso che pensare parole. Quando due matematici parlano tra
loro, dopo al massimo qualche minuto cominciano a scrivere qualcosa, sulla carta o sulla lavagna.
Quando un matematico spiega della matematica in pubblico, di solito scrive, proietta slides, e
magari pure gesticola con le mani.
Quando nella ricerca riflettiamo su un problema teniamo spesso lo sguardo fisso su un foglio o una
lavagna su cui sono scritte formule, simboli, equazioni. Non sempre stiamo leggendo dei passaggi
già fatti, a volte stiamo solo tenendo lo sguardo fisso sull’oggetto su cui vogliamo riflettere, e
guardare un’equazione o dei simboli matematici scritti ci aiuta. Non è solo un aiuto della mente a
restare concentrata (come se guardando la formula questa ci dicesse “pensa a me, non distrarti”); è
una forma di sintesi del pensiero. Un ragionamento deduttivo è una lunga catena analitica fatta di
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tanti piccoli passi, che noi abbiamo bisogno di tanto in tanto di abbracciare sinteticamente; un
oggetto matematico può essere definito da una lunga definizione fatta di tante proprietà, e noi
abbiamo bisogno di tanto in tanto di pensarlo sinteticamente, con un solo atto del pensiero. Il
simbolo, la formula scritta, aiuta la mente a questo pensiero sintetico:
“Ai simboli è da richiedere che essi si prestino alla ricerca; ciò succede principalmente
quando essi esprimono in modo conciso e quasi dipingono l'intima natura della cosa, perché
allora essi risparmiano mirabilmente lo sforzo di pensiero”.
(Leibniz, in una lettera a Tschirnhaus del 1678)
Questo tipo di sintesi in matematica è il punto di arrivo di tante analisi, non è un punto di partenza.
Non ci sono scorciatoie, sintesi preliminari, bigini o schemi riassuntivi che sostituiscano il faticoso
andare attraverso ogni passaggio e ogni dettaglio. Ma alla fine del cammino, posso cercare di farmi
una mia immagine mentale sintetica.
2. E veniamo all’altra faccia della medaglia. Qualunque sia il percorso mentale che seguiamo nel
fare una ragionamento matematico, comunque varia sia la ricchezza di pensiero non verbale che ci
ha aiutato e guidato, viene il momento in cui il nostro ragionamento dev’essere completamente
verbalizzato. Non si sfugge a questa richiesta inesorabile. Un ragionamento matematico è definitivo,
conclusivo solo quando è completamente verbalizzato. Qui per “verbalizzato” non intendo
“espresso usando solo parole italiane, senza simboli o formule”; formule e simboli sono parte
integrante del discorso matematico; intendo piuttosto dire “espresso in modo sintatticamente
compiuto”, attraverso parole e formule, che non lasciano più spazio a interpretazioni o sottointesi
importanti. Perciò la valorizzazione delle immagini non verbali nel ragionamento, l’educazione e la
sollecitazione a usare una rappresentazione visiva della realtà, non deve comportare alcun
cedimento sulla richiesta di una corretta verbalizzazione. Troppo spesso gli studenti si esprimono
con frasi sconnesse, brandelli di discorso privi di correttezza sintattica, soggetti pericolosamente
sottointesi e molto presto fraintesi. In università è difficile ottenere che uno studente sappia scrivere
bene, ad esempio, una dimostrazione che ha studiato. Si va dall’eccesso del “letterato”, che scrive
un testo fitto di parole, ben leggibile e scorrevole in italiano ma inevitabilmente vago nel contenuto
matematico, a causa della totale assenza di formule, all’eccesso dello “stenografo”, che scrive una
sequenza di formule senza alcuna frase italiana, senza neanche un “Supponiamo che…”, “Vogliamo
allora dimostrare che…”, “Di conseguenza…”, ecc., cioè senza esplicitare la struttura logica del
discorso. Mi sembra che la riflessione sul ragionamento matematico, anche se tiene conto del
pensiero non verbale, non faccia che ritornare ancora e ancora alla sottolineatura dell’importanza
del linguaggio. Se l’oggetto del ragionamento ci interessa, se ci interessa arrivare alla verità attorno
a questo, non possiamo che avere amore per il linguaggio.
Nell’insegnamento, questo aspetto può essere curato sia nella discussione orale che nello scritto.
Occorre far emergere la debolezza di comprensione del problema che consegue ad una
verbalizzazione errata, ma soprattutto ad una verbalizzazione povera, imprecisa, e valorizzare al
contrario quanto una buona formulazione verbale dei problemi spesso suggerisca la strada da
seguire.
“L’importanza della dimensione linguistica per la ragione è, dunque, estremamente
rilevante. Per curarla l’insegnante dovrebbe rispettare il principio dell’adeguatezza
categoriale. Infatti spesso il problema non è che un giudizio sia falso in quanto contraddice
la realtà in modo diretto, affermando l’opposto; ma è falso perché la categorialità che usa è
così povera che tradisce l’esperienza. Pertanto la cura della categorialità, la specificità del
termine, l’aderenza all’esperienza, cioè l’aderenza della parola all’esperienza, sono
assolutamente fondamentali. L’inadeguatezza categoriale ci allontana di più dalla realtà
della stessa falsità, perché, in fondo, se nego (capovolgo) il falso ottengo il vero, ma se uso
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un concetto inadeguato, il rapporto con la realtà mi sfugge: citius emergit veritas ex errore
quam ex confusione4”.
E. Rigotti, v. [Ri], p.116. La citazione latina è di F. Bacone, Novum Organum.
Parte 4. Momenti del ragionamento matematico
Vediamo ora più da vicino il ruolo che hanno certi elementi specifici del discorso matematico, che
possiamo vedere come momenti diversi del ragionamento matematico, o come i diversi tipi di testo
che troviamo in matematica. Mi soffermerò su 4 aspetti:
• la definizione;
• il teorema e la dimostrazione;
• l’esempio e il contresempio;
• il problema e l’esercizio.
Trasversalmente rispetto a questi aspetti, parlerò anche del ruolo della motivazione
nell’insegnamento e apprendimento della matematica, e del rapporto con la realtà nel
ragionamento matematico.
La definizione
La definizione anzitutto è un punto di partenza, a cui ritornare continuamente per chiarire il senso
delle proprie affermazioni. Quante volte accade che, dopo tanti esercizi sugli integrali, lo studente
dimentichi cos’è un integrale. Saper operare su certi oggetti viene visto come un’attività slegata
dall’aver coscienza di cosa sono quegli oggetti. Invece la definizione è, in un contesto fissato, il
punto di partenza a cui occorre ricondursi continuamente.
Talvolta invece si crede di sapere già di cosa si sta parlando perché un termine matematico è anche
un termine di uso comune, o perché è un termine matematico che si è già trovato in altri contesti più
semplici.
Ad esempio: cos’è la retta tangente? Cos’è l’area? Occorre capire la necessità di fissare un punto di
partenza univoco in un dato contesto, disponibili poi a cambiarlo in un contesto diverso. L’esempio
della retta tangente è paradigmatico: in terza media si parla di tangente alla circonferenza
(geometria sintetica), in terza liceo di tangente a una parabola, (geometria analitica), in quinta liceo
di tangente al grafico di una funzione (analisi matematica): in contesti diversi, la stessa parola è
usata con significati di generalità molto diversa. Ogni volta che si fa un nuovo passo occorre
confrontarsi esplicitamente con i passi precedenti, chiarendo che si sta dando una definizione nuova
(perché riferita ad un contesto più generale), in modo che non resti l’impressione che invece si sta
facendo un’affermazione ingiustificata attorno a un oggetto già conosciuto. Discorsi analoghi
valgono per l’area, introdotta prima per il rettangolo, poi per poligoni, poi per il cerchio, poi per
figure curvilinee più generali. Non è la stessa area quella di cui si parla in tutti questi contesti! O
meglio: c’è un’idea di fondo, informale, all’origine di queste varie definizioni di area, o di retta
tangente, e dà una certa unità a queste definizioni, ma quest’idea nella storia e nei contesti diversi si
precisa sempre più, in modi diversi. E’ importante sottolineare questi due aspetti complementari. Da
una parte l’idea di fondo comune, per non cadere nel puro formalismo (“se la definizione è diversa,
l’oggetto è diverso”); d’altro canto il progresso, l’approfondimento reale di comprensione che si ha
nel passare da un contesto ad uno più generale, approfondimento che per esprimersi ha bisogno di
andare oltre l’idea intuitiva, e precisarsi anche in modo formale. In ogni caso, in un contesto fissato,
noi dobbiamo trattare un concetto importante come quello di tangente, o area, a partire da una
definizione ben chiara.
Un altro esempio per sottolineare un altro aspetto di questo: la definizione di potenza. Un matematico sa che le potenze
a esponente naturale, intero, razionale, reale, sono cose diverse. Ma per uno studente non è ovvio che la stessa parola
(“potenza”) in matematica possa avere definizioni diverse in contesti diversi. Quando per la prima volta si definisce la
potenza a esponente negativo, o frazionario, deve essere chiaro che si sta dando una nuova definizione, non solo che “si
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“La verità emerge più presto dall’errore che dalla confusione”
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sta dicendo una cosa nuova” (fino ad oggi non sapevate come si fa “due alla meno tre”, adesso ve lo spiego): è una
definizione diversa, data in un certo modo per un certo motivo (conservare le stesse proprietà formali delle potenze), che
però non ne costituisce una dimostrazione. Il fatto di usare lo stesso nome è dovuto al fatto che si sta generalizzando un
concetto già noto, e il senso in cui il nuovo concetto generalizza il vecchio è proprio la permanenza delle proprietà
formali, non la somiglianza della definizione (che in questo caso non c’è). Varrebbe la pena di soffermarsi un po’ su
questi aspetti, di abituare gli studenti all’attenzione a precisare il contesto delle proprie affermazioni, anche a costo di
appesantire un po’ il linguaggio spendendo qualche parola in più (es. “potenza a esponente naturale” anziché
“potenza”).
Ma la definizione è anche un punto di arrivo, che circoscrive un punto di interesse. Nel discorso di
avvicinamento ad un nuovo argomento, l’indagine preliminare (o a volte una lunga ricerca)
individua gli aspetti importanti da sottolineare, che vengono definitivamente “incorniciati”: si arriva
a dare una definizione.
Ad esempio: credo che normalmente, nell’insegnamento, la definizione di funzione continua, o di derivata come
velocità istantanea, siano date come punto di arrivo di un certo discorso introduttivo in cui si cerca di far emergere
gradualmente il nocciolo di un certo concetto, che a sua volta nasce per rispondere a un certo problema (“come
potremmo tradurre il fatto che una certa grandezza variabile nel tempo, varia in modo continuo, graduale, senza salti?”
Cercando di rispondere si definisce il concetto di funzione continua).
In un certo senso, ogni definizione dovrebbe essere data a questo modo, come un punto d’arrivo. La
definizione non risponde all’esigenza di classificare tutto l’esistente, come un botanico fa con i
fiori o un entomologo con le specie di insetti. La definizione matematica, piuttosto, circoscrive, nel
grande mare dell’esistente, un punto di interesse. Su questo credo dobbiamo farci l’esame di
coscienza. Quando introduciamo i termini “equazione intera, equazione fratta, equazione razionale,
equazione irrazionale”, stiamo segnalando un punto di interesse o stiamo classificando tutto
l’esistente per il solo fatto che esiste? E quando insegniamo che i punti di discontinuità di una
funzione possono essere di 3 tipi? Il punto non è se, in senso assoluto, una certa nozione serve a
qualcosa. Probabilmente tutte le nozioni esistenti, in senso assoluto, servono a qualcosa. Il punto è
se nel discorso che io insegnante sto facendo, per quello che ho detto e per quello che ho intenzione
di dire nel seguito, questa definizione è motivata; se circoscrive un punto di interesse, un
“personaggio” che è bene distinguere dallo “sfondo”. Se specifica un concetto con il livello di
dettaglio effettivamente richiesto dal seguito del discorso.
Esempio. A un certo punto del mio insegnamento universitario, dopo circa 10 anni di insegnamento, mi sono convinto
che agli studenti di ingegneria il concetto di “punto di accumulazione” non serve. Se tutte le funzioni che concretamente
questi studenti incontreranno sono definite su un intervallo o sull’unione di un po’ di intervalli, è perfettamente inutile
introdurre il concetto sofisticato di “punto di accumulazione”; per definire il concetto di limite può bastare considerare
funzioni definite in un intervallo privato di un punto. Nel 2000 abbiamo scritto il libro di testo di analisi senza
introdurre i punti d’accumulazione, da 10 anni insegno l’analisi senza i punti di accumulazione, e i miei studenti non
hanno subito traumi da questa privazione. Ora, se uno studente di ingegneria può vivere bene senza sapere cos’è un
punto di accumulazione, non riesco a credere che uno studente del liceo non ne possa fare a meno. Perché a scuola si
continuano a insegnare? Siamo onesti! Perché si è sempre fatto così.
Ci sono cose che a scuola si continuano ad insegnare solo perché si è sempre fatto così. E’ vero che
un insegnante si trova talvolta tra l’incudine e il martello: da una parte la propria coscienza, la
propria sensibilità ed esperienza didattica; dall’altra le indicazioni ministeriali, il programma da
svolgere, l’esame di stato con il tema deciso a Roma da uno sconosciuto. E bisogna venire a
qualche compromesso. Ma io credo che nello scrivere un libro di testo, nel pianificare un corso, o
semplicemente nel preparare la scaletta di una lezione, è vero che spesso ho “un programma da
svolgere”, ma non posso nascondermi dietro questo per rinunciare ad appropriarmi delle scelte e dei
motivi delle scelte che faccio nel decidere di cosa parlerò. Non posso introdurre un concetto solo
perché “si è sempre fatto così”. Devo sapere perché lo faccio.
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“Oggetto di insegnamento per noi non sono le materie, ma gli aspetti reali che le materie si
propongono di trattare. Questa è una sfida fondamentale per i docenti, in quanto diventa il
criterio di verità della materia stessa. Noi non siamo ruote di trasmissione di un sapere
elaborato altrove che ormai è stato depurato del suo rapporto con la realtà, ma mediatori del
rapporto con il sapere che impartiamo personalmente, direttamente, in funzione di un
incontro con la realtà”.
E. Rigotti, v. [Ri], p. 19
La definizione come attribuzione di valore e atto creativo
“Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del
cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo
l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome”.
Gen, 2, 19
“Dare il nome alle cose” è partecipare all’opera della Creazione, completarla, perché dare il nome
alle cose è l’inizio della conoscenza, dell’attribuzione di interesse, di significato, di valore, alla
realtà, a una realtà specifica nella sua individualità, è l’inizio del rapporto e dell’affezione a una
realtà. (Come quando due sposi scelgono il nome che daranno al figlio che sta per nascere). Nel
lavoro di ricerca matematica è particolarmente suggestivo il momento in cui si decide di introdurre
una nuova definizione. C’è sempre un pizzico di questo senso di “creazione”, di “partecipazione ad
una grande opera”.
Il teorema e la dimostrazione
Il teorema è il punto di maturità della matematica, il “prodotto finito” del lavoro di ricerca, il punto
di sintesi di una conoscenza matematica. Nelle scuole superiori, il teorema dovrebbe avere un posto
importante nell’insegnamento della matematica. La dimostrazione è il metodo specifico con cui la
matematica stabilisce la verità delle proprie affermazioni, quindi è qualcosa che sta al cuore della
matematica. Per questo motivo non è pensabile insegnare la matematica nelle scuole superiori senza
fare dimostrazioni, o facendone in modo episodico, occasionale. Significherebbe che non stiamo
cercando di insegnare la matematica, ma al più stiamo addestrando all’uso di alcune procedure.
Ma qual è il valore della dimostrazione? La dimostrazione è la spiegazione di un perché. La
dimostrazione di un teorema è sempre, in qualche senso, un chiedersi perché sono vere quelle cose
che sappiamo essere vere. Quindi la dimostrazione, che è il metodo specifico con cui la matematica
stabilisce certe verità, certe relazioni necessarie, ha un interesse ulteriore, dà un valore aggiunto,
non è solo una sorta di “certificato di autenticità” che si chiude in un cassetto. Le relazioni esistenti
tra oggetti ci spiegano il perché di certe verità. Mi piace anche dirlo così: il matematico non è uno
scettico, che ha bisogno di dimostrare anche le cose più evidenti per poterci credere. Piuttosto, è una
persona che non si accontenta di “registrare” che certe cose stanno in un certo modo, ma vuole
capirne il perché profondo. In particolare, vuole svelare se e in che senso le cose stanno così
“perché non potrebbe essere diversamente”. Lo studio della matematica, o la ricerca matematica,
sono percorse dal desiderio di “svelare la trama del disegno”, cogliere i nessi tra le cose. Prendiamo
Pitagora che dimostra il suo teorema. Lui sapeva già che il suo teorema era vero (i Babilonesi lo
sapevano da 1300 anni). Ma Pitagora non si accontenta di sapere che è vero, vuole sapere perché.
Questo ci suggerisce un altro motivo forte per cui non si insegna la matematica se non si insegnano
dimostrazioni: eliminare le dimostrazioni elimina la risposta alla domanda del perché, e col tempo
inaridisce negli studenti la domanda.
Questo ha qualcosa da dire anche sul modo di pianificare l’insegnamento, a scuola come in
università. Più geometria euclidea o più probabilità e statistica? Ci può essere la tentazione di
pensare che una dose massiccia di informazioni aggiornate sia la ricetta per una sicura ed efficace
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capacità di manipolare la realtà. La matematica ci ricorda però che la vera capacità di rapporto col
reale nasce dalla comprensione profonda, che ha bisogno dei perché, e la costruzione dei perché
(ricerca) o ricostruzione dei perché (studio), il tessere o ritessere i fili dei nessi tra le cose richiede
tempo, fatica e umiltà. Non si presta a percorsi espressi per risultati immediati.
Sapere come funziona la macchina
C’è una terza motivazione allo studio delle dimostrazioni, che si spiega con questa analogia. Per
usare il computer non c’è bisogno di sapere molto bene come funziona… o meglio: non c’è bisogno
finché il computer funziona bene. Appena qualcosa comincia ad andare storto, o hai un’idea di
come funziona, o non sai intervenire. Per applicare un teorema non c’è bisogno di aver studiato la
sua dimostrazione. Ma appena il teorema così com’è non basta, appena ti trovi in una situazione in
cui una delle ipotesi non vale, o sai smontare la macchina e rimontarla in modo un po’ diverso, o
conosci la dimostrazione del teorema e sai chiederti se si può adattare anche al caso che ti interessa,
oppure sei disarmato. Può sembrare una motivazione molto raffinata, questa, poco in linea con il
livello medio richiesto a scuola, ma se si lavora in modo un po’ creativo questo aspetto si può fare
emergere anche in contesti abbastanza semplici.
Un esempio spicciolo: calcolo combinatorio e probabilità elementare. E’ facile costruire esempi semplici di calcolo
delle probabilità legati a giochi con le carte, che non si lasciano analizzare unicamente in termini di permutazioni,
combinazioni, disposizioni (di cui, tipicamente, si insegnano le “formule di calcolo”), ma piuttosto in termini di quei
ragionamenti ancora più elementari che entrano nella dimostrazione di queste formule (tipicamente, il principio del
prodotto delle possibilità, in una sequenza di scelte successive). Se si sono studiate le dimostrazioni con l’attitudine a
“smontare la macchina e rimontarla”, questi problemi sono trattabili, e anzi divertenti. Se si sono imparate le formule a
scatola chiusa rimangono intrattabili.
Nel libro [BT] una porzione importante è dedicata a come si studia una dimostrazione. C’è una
relazione tra tecniche dimostrative e tipi di linguaggi. In certi argomenti ricorrono tecniche
dimostrative specifiche. (Trigonometria, geometria analitica, limiti,…). Riflettere su ciò che c’è di
ricorrente in una tecnica porta ad apprezzare la potenza del linguaggio matematico. Quanti problemi
diventano banali una volta ben formalizzati. Dunque la formalizzazione è parte del ragionamento
matematico. Il ragionamento matematico non si può insegnare e imparare in astratto, come se fosse
un unico meta-metodo generale; esistono sì degli elementi generali, ma poi esistono tanti metodi
particolari, legati ai linguaggi specifici. Studiando le dimostrazioni si approfondiscono questi
metodi, linguaggi, ragionamenti specifici.
“Un'idea che può essere usata una sola volta è un trucco. Se la potete usare più di una volta,
diventa un metodo”.
George Pólya e Gabor Szegö, Problems and theorems in Analysis.
Quanto dimostrare? Cos’è il rigore?
Naturalmente a scuola non è possibile “dimostrare tutto” in matematica, per ragioni sia di tempo
che di difficoltà. Venire a “compromessi ragionevoli” richiede però qualche criterio ragionevole.
Quali sono i valori in gioco?
1. Comunicare il metodo proprio della matematica, il suo rigore, il concetto di dimostrazione;
2. comunicare cos’è una teoria matematica, una costruzione ordinata e sequenziale;
3. mostrare certe dimostrazioni esemplari, che contengono idee importanti, significative a
prescindere dal fatto che quel teorema sia collocato in un quadro più ampio.
Le prime due esigenze di per sé vanno nella direzione di dimostrare “il più possibile”, la terza non
necessariamente. Ad ogni modo, secondo me essere rigorosi non significa dimostrare ogni
affermazione che si fa; significa piuttosto non barare.
E’ importante anzitutto che sia sempre chiara nell’insegnamento la distinzione tra definizione e
teorema, cioè che sia chiaro lo status logico di ogni affermazione che si fa. Se dico: “due rette
complanari che non si incontrano mai sono parallele” sto dando una definizione; sarebbe meglio
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dire “si dicono parallele” anziché “sono parallele”; ma se dico, “in un piano, due rette
perpendicolari a una terza sono parallele tra loro”, si suppone che io sappia già cosa vuol dire “rette
parallele” e “rette perpendicolari”, e sto affermando una certa verità attorno a concetti già noti.
Questo è un teorema. Può darsi che decida di non dimostrarlo, ma devo almeno chiarire che è un
teorema, quindi che andrebbe dimostrato e che è possibile dimostrarlo, anche se noi scegliamo di
non dimostrarlo in classe, ad es. per mancanza di tempo. Un difetto perfino di certi libri di testo è di
non chiarire sempre in modo netto lo status logico delle proprie affermazioni. Reciprocamente, un
errore comune negli studenti è che alla richiesta di dire cos’è un certo oggetto (cioè di definirlo)
rispondono dicendo una qualsiasi cosa vera (nella migliore delle ipotesi!) attorno a questo oggetto.
Non ogni affermazione vera fatta attorno alle rette parallele è la definizione di rette parallele. La
confusione di certi studenti attorno allo status logico delle affermazioni che hanno imparato a
ripetere fa perdere loro completamente il filo, il senso del disegno complessivo che c’è in una teoria
o in un discorso matematico. Tutto si frammenta, non c’è visione d’insieme (“teoria”) né sintesi.
“Non barare” può voler dire varie cose: si può scegliere di enunciare un teorema nella sua forma
precisa, e poi dimostrarlo sotto qualche ipotesi aggiuntiva, segnalando questo fatto; si può scegliere
di dimostrare un teorema, fatto salvo un certo passaggio che è facile da credere ma laborioso da
dimostrare, segnalando questo fatto; si può enunciare una lista di proprietà e dimostrarne solo
qualcuna, segnalando questo fatto. “Barare” significa invece tacere la nostra “semplificazione”
sperando che nessuno se ne accorga, e questa è una brutta scuola.
La scelta di che cosa dimostrare e cosa no deve avere una certa coerenza dal punto di vista della
teoria complessiva. E’ istruttivo che lo studente almeno talvolta possa “guardare dall’alto” un
percorso logico che va dai fatti più semplici a qualche teorema significativo, avendone percorso
tutti gli anelli logici, o eventualmente tutti tranne qualcuno opportunamente scelto. Non però
avendo dimostrato qualche teorema qua e là, in modo puramente episodico. Questo fa perdere il
senso dell’insieme, e fa perdere il senso della fatica che si fa nello studiare le dimostrazioni.
Per esempio, in quinta liceo, si può andare dalla definizione di derivata a qualcuno dei teoremi “seri” di calcolo
differenziale (come la relazione tra segno della derivata e crescere della funzione) dimostrando tutto tranne il teorema di
Weierstrass sui massimi e minimi delle funzioni continue, su cui può essere onesto dire, ad es., che anche storicamente
la sua dimostrazione è arrivata mezzo secolo dopo il resto della teoria, proprio perché ha un altro ordine di grandezza di
sofisticatezza.
Quest’ultimo esempio contiene un’affermazione di valore più generale: credo che un minimo di
conoscenza della storia delle idee matematiche che si insegnano dia anche elementi e criteri in più
per scegliere a ragion veduta percorsi didattici di “ragionevole compromesso” tra il rigore e la
fattibilità didattica.
L’esempio e il contresempio
L’esempio di cui voglio parlare non è quello (pur utilissimo) che serve a illustrare come si applica
in concreto una certa procedura studiata in astratto. Questo esempio coincide con l’esercizio svolto
dall’insegnante. Qui parlo dell’esempio come esibizione, costruzione, di un oggetto, di una
situazione matematica concreta in cui una certa affermazione è vera o falsa. Il quadrato è un
esempio che mostra che esistono rettangoli che sono anche rombi. L’utilizzo di esempi (e
contresempi) per capire una definizione, cioè capire cosa una definizione prescrive e cosa proibisce,
per illustrare la necessità di un’ipotesi in un teorema, per smontare una congettura o rafforzarla, nei
momenti in cui si sta introducendo un nuovo argomento e si è in una fase esplorativa, in cui si cerca
di capire come vanno le cose, è utilissimo per vari aspetti. Costringe a fare proprie le definizioni e
gli enunciati dei teoremi, a pesare le parole una ad una, costringe a fare propri gli oggetti
matematici con cui si lavora. Inoltre dà al ragionamento matematico l’aspetto di “ricerca empirica”
che è utile a ricordarci che gli oggetti matematici, per quanto astratti, hanno una loro “esistenza
oggettiva e indipendente”, che non obbedisce al nostro capriccio, e neanche ai capricci del
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professore: un teorema non è vero “perché l’ha detto lui”, se un contresempio ne mostrasse la falsità
il teorema crollerebbe chiunque l’abbia detto.
Interesse e rapporto con la realtà
Per avvicinarci all’ultimo aspetto che vorrei trattare, quello degli esercizi e dei problemi, apriamo
ora una parentesi che ha a che fare con tutti gli aspetti toccati, e cioè quello del rapporto con la
realtà e dell’importanza dell’interesse, nello studio della matematica.
La matematica è astratta? Certo. Ma questo non è un difetto, è una delle caratteristiche che ne
costituiscono la potenza e il metodo.
C’è un’accezione negativa nell’uso corrente della parola “astratto”, come ciò che non c’entra con la
realtà. In questo senso, se non capisci la matematica dici che è astratta; se non ti interessa la
matematica, dici che è astratta. Non vedi, ma neanche cerchi, il suo rapporto con la realtà. E così ti
perdi forse il meglio, o comunque una delle cose più interessanti.
Facciamo un esempio. Ora formulerò un problema elementare sui numeri, ma volutamente lo formulo per prima cosa in
modo un po’ astratto. Ho due serie di numeri positivi, come
20, 5, 32, 12, e
4, 9, 7, 2.
Devo accoppiare ogni numero della prima riga con un numero della seconda riga, moltiplicare tra loro i due numeri di
ogni coppia così formata, e sommare. Ad esempio,
20x4+5x9+32x7+12x2.
Come devo accoppiarli per rendere massimo il risultato? Posto così il problema, di solito una persona ci deve riflettere,
non risponde subito. Adesso formulo quest’altro problema: un amico generoso mi dice: ho deciso di regalarti dei soldi;
te li darò assortiti in banconote da
50, 20, 10, 5 euro,
e ti darò 2 banconote di un tipo, 5 di un altro, 7 di un altro, 10 di un altro, scegli tu come li vuoi assortiti.
Hai dubbi? Vorrai, tanto per cominciare, 10 banconote da 50 euro, poi 7 da 20, 5 da 10 e 2 da 5. Ma così hai risolto il
problema astratto di prima: devi moltiplicare il numero più grande della prima riga col più grande della seconda, poi il
secondo più grande della prima col secondo più grande della seconda, e così via.
La morale è: se formulo il problema in un modo che ti tocca nei tuoi interessi, tu lo capisci subito, e
magari vedi anche subito la soluzione. Se il problema è formulato in modo astratto, una persona
comune fa più fatica. Ma è lo stesso problema. E in realtà, dal punto di vista del matematico, la
storiella dell’amico generoso non è che un’inutile sovrastruttura, la sostanza del problema è quella
astratta. Se racconti a un matematico un problema sotto forma di storiella, spesso per prima cosa
butta via la storiella e si concentra sul problema astratto. Questo per dire che di per sé non è la
storiella che ti aiuta, è l’interesse che hai per il problema che ti aiuta. Ai bambini si racconta la
storiella per (cercare di) interessarli, e perché si teme che potrebbero spaventarsi dell’astratto. A un
matematico l’astratto interessa, e non ha bisogno della storiella (anche se a volte la storiella può
aiutare chiunque: se la storiella è scelta bene, può essere un’analogia che aiuta a mettere in evidenza
l’aspetto rilevante, fa cogliere il nocciolo della questione, tra i tanti aspetti tra cui ci si potrebbe
perdere).
Certamente il nesso con la realtà, quando c’è, può aiutare, perché ci dà un’intuizione in più.
Succede spesso che chi studia la matematica senza passione non cerchi il nesso con la realtà
neppure quando c’è (per il pregiudizio dell’astrazione della matematica), e perda un aiuto. Al
contrario, una delle cose che mi hanno sempre affascinato nei bravi matematici è come sembrino
“vedere” concretamente anche le cose più astratte, e ne parlino come si parla di cose familiari.
Poiché capiscono, vedono, colgono i nessi nell’astratto e tra l’astratto e il concreto, così hanno più
possibilità di rapporto con quella realtà astratta, e la sentono una cosa propria.
Non bisogna perdere nessuna occasione per educare a cercare il rapporto con la realtà ogni volta che
è possibile. Il risultato è dimensionalmente corretto? Il segno è ragionevole? L’ordine di grandezza
è ragionevole? Cosa suggerisce il risultato rispetto al problema di partenza? Occorre continuamente
riprendere il filo di quello che si sta facendo: qual è il problema? Da dove siamo partiti e dove
vogliamo arrivare? Ci siamo arrivati? Cosa dice questo risultato? Come dipende il risultato da
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questo parametro? E’ sensato che se aumento questo parametro il risultato diminuisca? Cosa
succede nei casi limite? Cosa succede nel caso particolare più semplice?
In concreto, è chiaro che questo è tanto più facilitato quanto più si lavora in modo letterale piuttosto
che numerico, utilizzando parametri, indicando le dimensioni in ogni passaggio oltre che nel
risultato, ecc.
Ad esempio, se faccio calcolare il volume di un parallelepipedo di lati 2m, 3m, 5m, lo studente calcolerà 2 x 3 x 5 e poi
meccanicamente appiccicherà l’unità di misura m3, perché sa che un volume “deve venire in metri cubi”. Così non fa
realmente un calcolo dimensionale. Se dico che i lati misurano 2R, 3R, 5R, dove R è un parametro, lo studente è
“costretto” a fare un calcolo letterale e veder “nascere dal calcolo” R3. (Se poi è così sveglio da capire al volo che verrà
R3, e lo appiccica senza fare il conto, tanto meglio! Ha capito l’idea che doveva capire).
Questo ha a che fare col modo di educare al fare calcoli. Fare pochi errori dipende sì da attenzione,
metodo, uso ordinato del foglio. Ma quasi più importante che fare pochi errori è sviluppare la
capacità di accorgersi di avere sbagliato e correggersi. E questo ha molto a che fare con quante
domande ci si pongono sul risultato ottenuto, quindi con l’interesse per il risultato, e il fatto di
cercare continuamente il ritorno alla realtà.
“Tutti i tipi di difficoltà (…) si possono ricondurre a una radice profonda, vera origine di
tanti ostacoli nell’apprendimento della matematica: l’atteggiamento di distacco dal senso, di
chi si rassegna ad eseguire acriticamente operazioni ripetitive e inconsapevoli. Esso porta a
confondere la capacità intellettuale, la comprensione concettuale con l’abilità di
manipolazione: so fare, non importa il che cosa e il perché. Vorremmo che ci si convincesse
che questo atteggiamento è antitetico alla natura e allo scopo della matematica.
Nell’apprendimento matematico il vero ostacolo non è fare errori di calcolo, non è l’intoppo
operativo: ciò che veramente impedisce lo sviluppo del pensiero matematico è l’azione
inconsapevole”.
R. Manara, v. [M], p.126
Poi, per completezza, bisogna anche dire che anche se il nesso con la realtà può aiutare, a volte lo
sguardo matematico deve veramente saper spogliare il problema del suo nesso immediato con la
realtà e guardarlo più in profondità, nei suoi aspetti di struttura logica, per capirlo.
Un esempio elementare di quest’ultima affermazione, dal calcolo combinatorio. Problema: in quanti modi si possono
distribuire 20 oggetti diversi fra 3 persone? Per rispondere, il punto di vista corretto è pensare alle “disposizioni con
ripetizione di 3 oggetti in 20 posti”. Ovvero, nella formalizzazione sto identificando le “persone” del problema reale con
gli “oggetti” della teoria astratta, e gli “oggetti” del problema reale con i “posti” della teoria astratta, il che non discende
dall’immaginazione visiva, immediata, del problema empirico (secondo cui le persone sono “ferme” e io distribuisco
loro degli oggetti, quindi mi aspetterei che le persone giochino il ruolo dei “posti in cui dispongo oggetti”), ma da uno
sguardo astratto alla sua struttura logica del problema (secondo cui il fatto che una stessa persona può prendere più
oggetti, mentre ogni oggetto va ad una e una sola persona, suggerisce di dare il ruolo di “posti” agli oggetti reali, e
disporre in questi posti, con eventuale ripetizione, non le persone, che non posso ripetere, ma dei loro biglietti da visita).
Motivazione, esercizi e problemi
Questo si collega alla questione di esercizi, problemi, esempi, applicazioni. C’è un equilibrio tra
fornire motivazioni per quel che si fa ed educare una serie di capacità. Generalmente
l’insegnamento scolastico della matematica aborre i grandi discorsi introduttivi. Prima si spiega la
tecnica, si fanno tonnellate di esercizi di routine, poi caso mai si fa un cenno a che cosa possono
servire queste cose. Fino a una certa età infantile questo forse è in parte inevitabile, ma oltre non lo
si sopporta più. Uno accetta di far fatica se è motivato, se ne vede il fine. La motivazione può
consistere di tante cose: negli ultimi anni delle superiori può essere la vera e propria applicazione
della matematica alla fisica o a qualche scienza; prima può essere il voler risolvere qualche tipo di
“problema reale” proposto come significativo; o magari semplicemente il rispondere a una domanda
che nasce naturalmente da ciò che si è già studiato (la cosiddetta “esigenza di logica interna” del
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discorso matematico). Il punto è che viene il momento in cui uno deve digerire il fatto che per
raggiungere l’obiettivo interessante, affascinante, ma lontano, deve rimboccarsi le maniche e
cominciare un lavoro umile e quotidiano di preparazione. Come un ragazzo che va agli allenamenti
di calcio perché vuole arrivare a giocare in nazionale, e si trova a fare i giri di corsa e le flessioni.
La motivazione sostiene la fatica della “preparazione atletica” se è chiaro il nesso tra le due cose.
Non è anzitutto un problema di “dosi” tra esercizio tecnico, di routine, e lavoro più gratificante (“il
bastone e la carota”): è normale che l’esercizio tecnico occupi tanto tempo, se vogliamo che le
persone acquisiscano certe abilità; dev’esserci sempre però almeno sullo sfondo una motivazione
che getta una luce su questa fatica. L’esercizio tecnico fa impadronire di un linguaggio e un metodo
specifico: se si è sufficientemente valorizzato l’importanza di questi (v. la parte sul linguaggio) si
può digerire e far digerire la fatica relativa. All’inizio dello studio del calcolo letterale, o della
geometria analitica, o della trigonometria, secondo me un’introduzione come si deve andrebbe fatta
–storia, problemi, motivazioni, contrasto tra la difficoltà con cui ci si muoveva su certi problemi
prima e dopo dell’invenzione di quel linguaggio…-; non so se questo genere di introduzione sia
frequente nella scuola.
Veniamo ai problemi. Il problema per lo studente è “un esercizio difficile”; in effetti è un’altra cosa,
vuole essere un banco di prova del fatto che lo studente sappia usare ciò che conosce per strutturare
da sé il modo di affrontare una certa situazione. E’ chiaro che è in qualche modo un punto di arrivo,
la riprova del fatto che la persona ha fatto proprio il ragionamento matematico. Il problema, se è
interessante, se ha un nesso interessante con la realtà, può essere un’ulteriore motivazione (mi dà
soddisfazione aver imparato a usare certi strumenti, se questo mi mette in grado di affrontare e
risolvere questi problemi).
Si può insegnare a risolvere problemi? E’ come chiedere se si può insegnare a ragionare: non so se
si può, ma si deve. Nessun buon esito è meccanicamente garantito, ma come insegnanti abbiamo il
dovere di insegnare anche a risolvere problemi. Non credo né al fatalismo di chi pensa “i problemi,
qualcuno arriva a risolverli e qualcuno non ci arriva”, né agli ottimisti del problem solving. Non
esistono metodi generali per affrontare qualsiasi problema. L’affronto di un problema richiede un
“ragionamento aperto” che richiede sempre, quando accade, una scintilla gratuita. Ma si possono
attrezzare le persone in molti modi. (su questi aspetti v. [M], cap.VIII, “Progettare”).
Certamente nel percorso scolastico esistono tipi ricorrenti di problemi su cui si può lavorare, si può
insegnare ad affrontare un certo tipo di problema; si può obiettare che se il problema è tipizzato non
è più un problema, ma una forma di esercizio; in parte è vero, ma rimane una necessaria e utile via
di mezzo; la conoscenza di un insieme di metodi per risolvere un insieme di problemi-tipo è un
modo di attrezzarsi all’affronto di altri problemi.
(A volte si può, si potrebbe, far studiare la risoluzione di un problema significativo come si farebbe
studiare la dimostrazione di un teorema: non con la pretesa che lo studente sappia poi risolverne
autonomamente uno di pari difficoltà, ma solo perché capisca certi procedimenti esemplari).
Credo che sia importante soprattutto comunicare la consapevolezza di ciò che si è imparato: io devo
sapere quali sono gli attrezzi che ho nella mia cassetta, perché mi venga in mente quale attrezzo mi
può essere utile in questo momento. Un adulto non si capacita della difficoltà che trova un bambino
delle elementari nell’affrontare i problemi di scuola che, alla mente di un adulto, sembrano tutti
uguali tra loro; ma il punto è che a un bambino nessuno spiega che quei problemi sono tutti uguali
tra loro, perché si pensa che non abbia abbastanza capacità di astrazione per capirlo; poi il bambino
cresce, sarebbe in grado di capirlo, ma non glielo si spiega più, perché adesso si sta parlando di altre
cose, più difficili, su cui il ragazzo ha già le sue difficoltà ad impadronirsi di nuovi strumenti; di
nuovo, ogni problema gli sembra diverso dagli altri… Sarebbe utile che in certe fasi della scuola si
spendesse del tempo per rivisitare cose fatte negli anni precedenti (cose “facili”, rispetto all’età
attuale dello studente) per renderlo consapevole degli strumenti che ha acquisito, per renderlo
consapevole dei tipi di problemi che con questi strumenti ha imparato a risolvere (quali sono i tipi
di problemi che si risolvono con la moltiplicazione / la divisione? Con le proporzioni? Con le
equazioni? Con i sistemi? Con la trigonometria?). Se a certe età non si riesce ad ottenere questo
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sguardo astratto, dall’alto, ci si potrebbe almeno tornare sopra in età successive, quando quel
contenuto è visto come una cosa facile, acquisita. Consolidare la consapevolezza dei passi fatti, la
portata degli strumenti acquisiti, aiuta a far sì che siano cose acquisite per sempre, e che risultino
utili in nuove circostanze. Spesso il “problema” è difficile proprio perché richiede il concorso di
idee e strumenti appresi in tempi e contesti diversi: allo studente “non viene in mente” di usare una
certa cosa, perché “l’ha studiata troppo tempo fa”. Bisogna cercare di creare dei percorsi a doppio
senso, dallo strumento al problema e dal problema allo strumento.
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