Bartocci Wiles
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Bartocci Wiles
Intervista a Andrew Wiles di Claudio Bartocci Immagine da http://www.cs.princeton.edu/~dpd/DeanOfFaculty/Depts.html 15 ottobre 2004 La grande passione di Pierre de Fermat - nato nel 1601 in una cittadina della Linguadoca non lontano da Tolosa, di professione magistrato, stimato uomo politico – era la matematica. Spesso lo si descrive come un brillante dilettante, ma in realtà fu un matematico provetto, che eccelleva in tutti i campi della disciplina ed era in grado di tenere testa ai più eminenti scienziati dell’epoca, Cartesio compreso. Nelle sue Osservazioni su Diofanto – semplici appunti presi durante la lettura dell’Arithmetica del grande matematico di Alessandria – Fermat asserì che non è possibile «scomporre un cubo in due cubi, o un biquadrato in due biquadrati, né in genere dividere alcuna potenza di grado superiore al secondo in due altri potenze dello stesso grado», aggiungendo di avere anche «scoperto una mirabile dimostrazione» di questo fatto, che poteva però esse contenuta nella ristrettezza del margine. E’ questo il problema di teoria dei numeri – noto come ultimo teorema di Fermat - che il «tolosano» ha lasciato in eredità ai matematici dei secoli successivi. Un problema che ha resistito a tutti i tentativi di dimostrazione fino al 1995, quando Andrew Wiles riuscì finalmente a provarlo usando tutto un complesso arsenale di tecniche e di idee sviluppate, nel Novecento, da matematici quali André Weil, Shimura, Taniyama, Faltings, Ribet. Abbiamo rivolto ad Andrew Wiles alcune domande sullo stato attuale della matematica e sul mestiere del matematico. C.B. Secondo una tradizione riportata da Proclo, Euclide rispose a Tolomeo I Soter che «non c’è nessuna via regia alla geometria». In altre parole, la matematica è intrinsicamente difficile, non esiste nessuna scorciatoia per apprenderla o per praticarla. E’ d’accordo? A.W. Sì. Aggiungerei che ciascuno di questi due aspetti - apprendere la matematica e crearla - richiede un suo addestramento specifico. Alcune persone sono più dotate di talento di altre, ma nessuno riesce senza fatica. C.B. Quando ha deciso di diventare un matematico è stato attratto da questa disciplina per il fatto che essa rappresenta una sfida proprio per la sua difficoltà oppure per altri motivi? A.W. Sono stato affascinato dalla matematica fin da quando ero molto giovane. Non credo di aver subito realizzato quanto fosse difficile! Per un bambino, un problema che per essere risolto richiede mezz’ora è già difficilissimo e uno che non si riesce a fare prima l’insegnante lo spieghi è pressocché impossibile. Soltanto più avanti si arriva a capire che vi sono problemi che nessuno sa risolvere. Sapevo fin da bambino dell’esistenza dell’ultimo teorema di Fermat ma non avevo idea di quanti problemi non risolti vi fossero nel mondo della matematica. C.B. Oggi è impossibile anche per il matematico più dotato abbracciare la totalità del sapere matematico. Le aree di ricerca sono così numerose, le specializzazioni così ristrette, che la matematica sembra spezzettata in tanti frammenti. Ritiene che abbia ancora senso considerare la matematica come un tutto unico? A.W. Vi sono matematici che padroneggiano molta matematica. Ma è difficile lavorare intensamente su un problema arduo in una certa area della matematica e nel contempo tenere dietro a ciò che accade nelle altre aree di ricerca. Ritengo che abbia ancora un senso considerare la matematica come una disciplina unica fintanto che l’insieme comune di conoscenze di base di cui siamo in possesso ci permette, in un periodo di tempo ragionevole, di approfondire qualsiasi specifica teoria matematica,, quando se ne presenta l’occasione o la necessità. Il modo di pensare di un matematico è ancora lo stesso in tutti i settori della nostra disciplina. C.B. Quali sono le sfide più importanti per la matematica di oggi? A.W. Come teorico dei numeri, credo che ciò che fa progredire il mio campo di ricerca sia soprattutto il desiderio di risolvere problemi specifici. Nel 2000 il Clay Mathematics Institute ha proposto un elenco di sette problemi matematici che rappresentano alcune delle sfide più rilevanti che la scienza del XX secolo ci ha lasciato in eredità. Per me i vecchi problemi vecchi rimangono quelli più stimolanti. I tre che mi sembrano più importanti sono l’ipotesi di Riemann, la congettura di Poincaré e il problema N-NP. Altri matematici possono preferire le sfide rapppresentate dall’unificare campi di ricerca diversi e dal crearne altri del tutto nuovi. C.B. Secondo il suo modo di vedere, il maggiore impulso al progresso della matematica è dato dalla soluzione di problemi classici o dalla costruzione di teorie nuove? A.W. E’ come per l’uovo e la gallina. Le nuove teorie si usano per risolvere problemi specifici e la soluzione di vecchi problemi genera nuove teorie. In genere, la convalida di una nuova teoria deriva proprio dalla soluzione di un problema classico, che fino a quel momento aveva eluso le altre teorie. In conclusione, per me il banco di prova definitivo consiste nel risolvere i problemi classici, e da ciò proviene anche il piacere più grande. C.B. Le ci sono voluti sette anni, in completo isolamento, per dimostrare l’ultimo teorema di Fermat. Tuttavia, l’imperativo «publish or perish» (pubblica o muori) pare essere la regola della matematica di oggi, e i ricercatori sembrano spesso avere troppa fretta di inviare i loro articoli agli archivi Web. A.W. Credo la velocità con cui si pubblica in matematica sia ancora inferiore a quella tipica delle altre discipline scientifiche. C’è ancora chi si concede il tempo di lavorare per anni e anni ai problemi più difficili. Tuttavia, il prezzo psicologico da pagare può essere elevato: non si può dare prova di quanto duro sia il proprio impegno e talvolta, alla fine del lavoro, resta ben poco da mostrare. D’altra parte affrontare sempre i problemi più ragionevoli conduce in genere al risultato ovvio – si risolvono soltanto i problemi ragionevoli. Ciascun matematico dovrebbe scegliere il modo di lavorare che gli è più congeniale. C.B. In una lettera a Robert Hooke, Isaac Newton ebbe occasione di scrivere: «Se ho visto più lontano, è stando sulle spalle di giganti». Qual è la sua esperienza personale? A.W. Sono ben consapevole che per i primi trecento anni dopo la formulazione del problema nessuno avrebbe potuto dimostrare l’ultimo teorema di Fermat con il metodo che ho usato io. Si tratta di un metodo basato su una matematica troppo moderna. Anche soltanto vent’anni prima della mia dimostrazione sarebbe stato molto, molto più difficile. E’ una bella fortuna vivere al momento giusto! Ma il problema è che nessuno sa se sta vivendo o no al momento giusto. È’ possibile oggi che qualcuno riesca a dimostrare l’ipotesi di Riemann? Personalmente credo di sì, ma non ne sono certo. Così, la mia risposta è che, certamente, la soluzione del problema di Fermat si è basata sul lavoro di molti altri ricercatori, alcuni dei quali forse non erano nemmeno dei giganti. C.B. André Weil nel breve saggio Dalla metafisica alla matematica fece la seguente osservazione: «Niente è più fecondo, tutti i matematici lo sanno, di quelle vaghe analogie, quegli oscuri riflessi che rimandano da una teoria all’altra, quelle furtive carezze, quegli screzi inesplicabili: niente dà un piacere più grande al ricercatore». E’ d’accordo che l’analogia abbia un ruolo cruciale nella scoperta matematica? A.W. Sì, sono d’accordo, e specialmente per quel che riguarda la teoria dei numeri. L’intuizione geometrica cui si può ricorrere è così debole, il mondo reale così lontano, che non resta che fare appello alle analogie più impalpabili. Talvolte, quando si cerca di spiegarle a un altro matematico, quasi evaporano tanto sono tenui. C.B. Nella magggior parte delle università europee e americane il numero degli studenti in matematica (e, più in generale, nelle discipline scientifiche) è costante diminuazione. Che cosa direbbe a un giovane per convincerlo a studiare matematica? A.W. Credo che per avere un’esistenza ricca di soddisfazioni si debba fare qualcosa che ci appassiona veramente. Essere bravi in matematica certo aiuta, ma non basta. Vi deve piacere fare matematica. Dovete provare la voglia irresistibile, mentre – poniamo - state aspettando il treno, di prendere un pezzo di carta e di iniziare a lavorare al vostro ultimo problema. Soltanto se animati da una passione così forte potrete superare l’inevitabile frustazione di rimanere bloccati in una qualche parte difficile del problema. Come matematici farete parte di una comunità che esiste da migliaia di anni e potrete contribuire a un’impresa creativa che ha attraversato i secoli e accomunato civiltà diverse. Ma la vita è troppo breve per sprecarla in qualcosa di cui ci importa poco o nulla. Fate matematica solo se sentite di amarla.