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DACIA MARAINI
Dacia Maraini è oggi una tra le più conosciute scrittrici italiane
e la più tradotta nel mondo. La sua fama è dovuta anche al suo
grande talento come critico, poetessa e drammaturgo. E'
vincitrice di numerosi premi letterari, fra cui il premio
Campiello e il premio Strega.
Dacia Maraini è nata a Fiesole (Firenze). La madre, Topazia, era
pittrice e apparteneva ad un'antica famiglia siciliana, gli Alliata
di Salaparuta. Il padre, Fosco Maraini, per metà inglese e per
metà fiorentino, era un noto etnologo, autore di diversi libri sul
Tibet e sul Giappone.
Dacia trascorse la sua infanzia in Giappone dove la sua famiglia
si stabilì dal 1939 al 1946. Lì, dal 1943 al 1946, tutta la famiglia fu internata in un campo di
concentramento giapponese, per aver rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò. Al ritorno in Italia
la famiglia si trasferì in Sicilia presso i nonni materni, nella Villa Valguarnera di Bagheria, dove le
tre figlie cominciano gli studi. La povertà fu una costante di quegli anni di difficile adattamento al
nuovo ambiente.
A 18 anni Dacia raggiunse il padre a Roma, incontrando ben presto Alberto Moravia che fu a lungo
anche compagno della sua vita. A Roma riscosse il suo primo successo con il romanzo La vacanza
(1962). Seguirono L'età del malessere (1963), A memoria (1967), Memorie di una ladra (1972),
Donna in guerra (1975), Il treno per Helsinki (1984), Isolina (1985, Premio Fregene 1985), La
lunga vita di Marianna Ucrìa (1990, Premio Campiello; Libro dell'Anno 1990), Bagheria (1993),
Voci (1994), Un clandestino a bordo (1996), Dolce per sé (1997) e la raccolta di racconti Buio
(1999) che ha vinto il Premio Strega. Nel 2001 ha pubblicato La nave per Kobe, in cui rievoca
l'esperienza infantile della prigionia in Giappone. Nel 2004 pubblica Colomba e nel 2008 Il treno
dell'ultima notte.
Oltre ad essere l'autrice di molti romanzi di successo, tradotti in molte lingue, Dacia Maraini ha
pubblicato anche racconti per bambini, poesie e soprattutto è autrice di più di 60 testi teatrali, tra
cui Maria Stuarda, Il manifesto dal carcere, Il dialogo della prostituta con il suo cliente,
rappresentati in Italia e all'estero.
Dacia Maraini si è dedicata e continua a dedicarsi con passione, nella sua vita professionale e
privata, a problemi sociali e politici come l'immigrazione e la condizione femminile, schierandosi
sempre generosamente dalla parte dei più deboli.
BERAH di Kibawa
C'era una volta una bambina che si chiamava Berah. Viveva a Kibawa, un villaggio senza acqua né luce
che si trova sull'altipiano della Tanzania, a un'ora di viaggio dalla nuova capitale, Dodoma.
La famiglia di Berah è composta da un uomo sui cinquant'anni, il padre, dalle sue tre mogli che lavorano i
campi per lui e da tredici figli. All'uomo tocca la semina del miglio, spetta la decisione di quando
comprare il sale e il sapone al mercato della domenica, compete il controllo del buon andamento della
comunità, nonché la responsabilità del comportamento delle mogli e dei figli. Alle donne appartiene
invece il lavoro dei campi, il trasporto della legna e dell'acqua, la raccolta del miglio, la fabbricazione
della birra, la battitura dell'ignam che si esegue in comune, cantando, in mezzo all'aia su cui razzolano le
galline, la preparazione del cibo e la vendita dei prodotti al mercato.
La madre di Berah è giovane, ma già sciupata dalle tante gravidanze e allattamenti. Anche in questo
momento tiene un bambino al seno, mentre cucina all'aperto su un fuoco acceso fra sassi ammucchiati. In
Africa le donne tengono i figli al seno anche fino a tre anni, perché hanno paura di dare loro da bere
l'acqua che quasi sempre è inquinata. Il passaggio dal latte all'acqua è il momento più drammatico per un
piccolo africano. Ed è proprio durante questo passaggio che tanti bambini muoiono.
Ma nonostante queste minacce e questi pericoli, Berah non ha mai sentito la giovane madre lamentarsi o
mostrare una faccia lunga e immusonita. Al contrario Ama è allegra e pronta al riso. Ride della pentola
che si rovescia sul fuoco, anche se oggettivamente si tratta di un dramma perché l'acqua bisogna andarla
a prendere a due chilometri di distanza. Ride perché la pecora legata al paletto vicino casa sta cercando
di dare delle testate ad un bambino che cammina a quattro zampe, prendendolo per un agnellino.
Berah sa che la madre preferirebbe che lei rimanesse a casa a preparare la birra di miglio e a battere
l'ignam anziché andare a scuola, ma sa anche che ammira la sua cocciutaggine e la sua determinazione ad
imparare. Ogni mattina Berah si alza alle quattro, va a dare un bacio alla madre che si è appena svegliata
e sta preparando il fuoco e quindi si avvia verso la scuola. Dovrà camminare per chilometri nella
semioscurità. Ma avrà il piacere di vedere spuntare il sole che illuminerà gli alberi e succhierà l'umidità
della notte dal terreno rossiccio e pieno di crepe.
Lungo il cammino incontra gli operai che stanno preparando la nuova strada per Dodoma. Quando sarà
pronta non dovrà più alzarsi alle quattro perché ci sarà un autobus che la condurrà in poco meno di
mezz'ora all'altro villaggio. Gli operai, li conosce ormai, sono lì da mesi e vanno avanti e
indietro con delle grosse macchine gialle che si chiamano Caterpillar e Mosaic. Quando
passa accanto a loro sulla stradina polverosa, li saluta con un cenno del capo e loro la
guardano camminare con un misto di orgoglio e di invidia: nessuno di loro ha avuto la
possibilità di frequentare la scuola.
Berah è puntualissima. Arriva alla scuola proprio nel momento in cui il giovane maestro
dalla piccola testa ricciuta e gli occhi grandi e affettuosi, sta aprendo le porte delle
aule. Il pavimento è di cemento, sopra si trovano ritti, allineati, una trentina di banchi
sgangherati di un vecchio legno tutto intagliato e intarsiato, con i nomi incisi sulle assi.
Una grossa lavagna è appoggiata in piedi sopra un cavalletto storto. Sulla parete si apre
una finestra che al posto dei vetri ha infissa una rete metallica, da cui entra a soffi la polvere rossa del
cortile.
Berah è molto amata dal maestrino giovane e ricciuto perché impara subito e bene, perché non passa le
mattinate a ridere o a tirare palline di carta come fanno molti altri studentelli. Quando il maestro
sciorina davanti agli occhi dilatati dei suoi alunni la carta della terra, Berah rimane esterrefatta. Non
pensava che il mondo fosse così grande. Il maestro, che si chiama Ahmed, ha anche mostrato loro delle
grandi fotografie a colori di una città lontana chiamata Roma. In questa città c'è un circo gigantesco
detto il Colosseo, dove i romani davano i cristiani in pasto ai leoni. Berah conosce i leoni, ne ha visto uno
anni fa, sfregiato, che si leccava la ferita sdraiato al sole. Ora, dice il maestro, non ci sono più leoni a
Roma. In compenso ci sono tante macchine, rosse, blu, gialle, che corrono in lungo e in largo e mandano
tante nuvolette che arrivano fino in Africa e puzzano di gas cattivo.
Il maestro Ahmed sa che Berah viene da un villaggio a cinque chilometri di distanza e quando vede la
bambina entrare nella scuola le osserva i piedi con commiserazione. Fra i calli induriti e impolverati si
vedono le croste delle ferite recenti: i sassi appuntiti, i pruni dalle punte acuminate, i pezzi di vetro
nascosti nella polvere procurano spesso dei tagli e dei graffi sulle gambe e sui piedi della bambina. Ogni
tanto una caviglia si gonfia e la fa zoppicare. Ma per fortuna Berah è robusta e dopo un poco anche il
piede ferito guarisce e lei riprende la strada con il piglio di una brava scolara. Il maestro vorrebbe
regalarle un paio di scarpe ma dove trovare i soldi? Il suo stipendio è talmente misero che non basta
neanche a pagare il cibo per sua madre e i suoi quattro fratelli che vivono nella periferia di Dodoma, in
una baracca dal tetto di bandone, senza cesso e senza acqua corrente.
Una mattina Berah trova la strada vuota. Le macchine sono ancora lì ma gli operai non le manovrano. Il
vento fa ballare le tendine che un autista nostalgico ha appeso ai finestrino della scavatrice, due grossi
avvoltoi si sono appollaiati sui seggiolini di pelle, per togliersi le pulci con calma. Berah si chiede cosa
possa essere successo. Perché gli operai hanno abbandonato il lavoro? Ma nessuno le sa dare una risposta,
neppure il maestro Ahmed, che si gratta la testa con un dito e fa una smorfia buffa. "Avranno finito i
soldi"! commenta sarcastico il padre schiacciando coi denti la pipa annerita.
Passa una settimana e poi un'altra, non sembra che i lavori vengano ripresi. Dopo gli acquazzoni degli
ultimi giorni già l'erba comincia a crescere fra le macchine abbandonate, prima timida e poi sicura; gli
avvoltoi, in piedi sui seggiolini degli operai, la guardano passare con un misto di disgusto e di
divertimento: non le nascondono che preferirebbero vederla morta. Che carne tenera che hai Berah! le
sembra di sentire alle spalle. E il suo passo si fa più frettoloso.
Infine dopo quindici giorni di silenzio, un lunedì mattina, Berah trova i motori accesi, gli operai al loro
posto sui seggiolini macchiati di escrementi di uccello. Contenta, li saluta e loro ricambiano il segnale
levando un braccio in alto. Ma quando alle due Berah rientra verso casa, non scorge più nessuno. Quindi
non erano tornati per lavorare, ma per portare via le macchine. E la strada per la scuola quando la
finiranno?
Il sentiero davanti a lei non dà risposte. Il vento sta sollevando un mulinello di polvere bianca. Una
lucertola sta osservando appiattita una fila di termiti che si dirigono indaffarate verso la loro casa. Cosa
vorranno dirle, quel mulinello, quella lucertola e quel termitaio?
La verità verrà fuori due mesi dopo quando una mattina, uscendo per andare a scuola, Berah incontrerà
un gruppo di persone che prendono delle misure. Vorrebbe salutare: chissà che non siano lì per
ricominciare a costruire la strada per la scuola! Ma qualcosa le suggerisce che è meglio che stia in
silenzio. Quelli non sono operai ma padroni e stanno misurando la terra per altre ragioni che non
riguardano la strada.
Tornando a casa trova il padre in piedi che passeggia nervoso
masticando la pipa e soffiando nuvole di fumo azzurro. La madre la
chiama, le prende una mano e le racconta che il loro territorio, con
dentro il villaggio, è stato scelto come discarica da una grossa
industria di Dodoma. Avranno una casa nuova ma nella zona più
desertica. Tutto il villaggio sarà spostato di quindici chilometri. E la
scuola? chiede Berah. "La scuola non sarà raggiungibile finché non ci
sarà la strada", dice la madre sapendo di darle un dolore, ma poi
aggiunge, con un sorriso di incoraggiamento: "Ti comprerò dei libri,
Berah. Devi ritenerti fortunata perché tuo padre avrà uno stipendio
per aiutare a bruciare le immondizie".
Berah la guarda, desolata. Pensa che la zona desertica sarà come un
cimitero per loro. Pensa che la scuola si sarà allontanata di quindici
chilometri e lei non potrà raggiungerla a piedi. I libri, ha detto la mamma, chissà se potrà continuare a
studiare sui libri!
Proprio in quel momento vede arrivare trafelato il maestro Ahmed, con i sandali di gomma che sollevano
la polvere del viottolo, la faccia rigata di sudore. "Stanno buttando giù la scuola" grida e Berah capisce
che quello non è sudore ma pianto. Anche lei sente un pizzicore in gola. I due si abbracciano mentre il
padre Abu brontola schiacciando coi denti il cannello della pipa.
"Andiamocene, Berah"! dice il giovane maestro riccioluto. "E dove"? "In Europa". "Ma se non abbiamo un
soldo"! "Non importa. Anche se dovessimo fare a piedi tutta la strada, dobbiamo uscire da questa
pattumiera". "Io non ho neanche le scarpe" ribatte desolata Berah. Ma proprio in quel momento il padre le
fa un cenno con la testa, come a dire di avvicinarsi. "Allunga le mani". Berah ubbidisce. "Ora apri gli
occhi". Davanti a lei ecco un paio di sandali neri, pesanti. Sono ricavati delle ruote dei camion, ma sono
robusti e mandano un buon odore di gomma e di inchiostro.
Berah alza gli occhi sul maestro Ahmed e pensa che un uomo più brutto di così non l'ha mai visto,
soprattutto ora che ha la faccia contratta per il pianto. "Va bene, andiamo" dice.
Quella notte il maestro fu ospitato dai genitori di Berah. Un mese dopo partirono insieme per l'Italia, lui
con una giacchina di finta pelle dai polsini logori, lei con il suo paio di scarpe nuove. Fecero la fame.
Infine trovarono lavoro: lei come domestica e lui in un bar. Berah si comprò dei libri, riuscì a vincere una
borsa di studio e infine divenne insegnante di geografia e storia, come aveva sempre desiderato. Ogni
tanto, quando riesce a racimolare un po' di soldi va a trovare la vecchia madre in Africa. Il padre è morto
qualche anno fa di cancro. Adesso circolano più soldi nel suo villaggio, ma l'odore che si respira è mefitico
e tanti bambini nascono deformi.
In quanto al maestro Ahmed, si è sposato con una bolognese che ride sempre e ha aperto nel giardinetto
di casa un asilo per bambini disabili in cui il maestro insegna l'inglese.
Dacia Maraini
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