posTfAzione di Stefano Micossi

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Pietro Marzotto e Umberto Agnelli, a lungo numi tutelari dell’Assonime, la consideravano il luogo in cui si potesse aspirare a formulare strategie per l’economia italiana. Nel 1999 mi chiesero di
diventarne direttore generale, con l’attivo sostegno di Innocenzo
Cipolletta, con il quale avevo collaborato in Confindustria nei
primi anni Novanta. Lasciavo la direzione generale dell’industria
della Commissione europea, dove avevo rafforzato la mia passione europea con la conoscenza dei meccanismi procedurali e del
merito delle politiche comuni.
Quell’esperienza era conclusa, per contrasti insanabili con il
commissario responsabile. Il mio ultimo atto fu, nei primi giorni
di dicembre del 1998, una testimonianza presso la Commissione di controllo sul bilancio comunitario del Parlamento europeo
nella quale descrivevo il ruolo abnorme assunto dai gabinetti dei
commissari nella destinazione delle risorse e nelle nomine del personale. Non combattevo la prerogativa della politica di indicare
gli orientamenti, ma la degenerazione di quel potere per interessi
impropri: un tema sul quale sono ritornato più tardi con riguardo all’Italia. Alcune delle proposte formulate in quell’audizione
furono fatte proprie dalla Commissione Prodi, dopo la poco onorevole caduta della Commissione Santer.
Avendo sempre lavorato in istituzioni, pubbliche e private, mi
chiedevo se non fosse il tempo di trovare un impiego più businessoriented, magari, come molti colleghi usciti dalla Commissione,
negli affari istituzionali di una grande impresa; ma non ero certo
di poter fare il lobbista, perché l’impronta originaria dell’esperienza formativa in Banca d’Italia (tra il 1973 e il 1988) mi rendeva
ardua una logica di pura difesa d’interessi privati – pur pienamente legittimi – senza riguardo per gli effetti sugli incentivi istituzionali. La proposta di venire in Assonime, che non conoscevo
per niente, risolveva il problema. Mi fu spiegato che si trattava
di un’associazione d’imprese tesa per tradizione e per struttura
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a guardare all’interesse generale delle associate, identificato nella
costruzione di buone istituzioni per il mercato, cioè un ambiente
favorevole all’attività dell’impresa.
Il primo presidio di questa impostazione è costituito dalla sua
base associativa: la presenza contemporanea delle maggiori imprese di tutti i settori di attività – la manifattura, i servizi finanziari, le utilities e gli altri servizi privati – necessariamente conduce
all’enfasi prevalente sulle buone regole, invece che sulla tutela
d’interessi settoriali. Il secondo presidio, non meno importante,
deriva dalla qualità e indipendenza della struttura nella formulazione delle proposte normative e delle interpretazioni, talora
accolte dalle pubbliche amministrazioni e dai tribunali come documenti pro veritate.
L’Assonime che trovai somigliava più a un ufficio pubblico
che a un’organizzazione privata, con molto personale d’ordine e
pochi ricercatori, un solo accesso a Internet gelosamente custodito sotto chiave, tende polverose e stanze vetuste ancora adornate
delle boiseries degli anni Cinquanta. Il bilancio mostrava entrate
per nove miliardi di vecchie lire e uscite per tredici; da qualche
anno il saldo era ripianato liquidando gli immobili di proprietà,
che si stavano esaurendo.
Da oltre un decennio era stato chiuso l’ufficio statistico – per
mancanza di risorse, ma anche perché l’attività appariva meno
rilevante – il quale per quasi ottant’anni aveva raccolto con interviste dirette, rielaborato e pubblicato dati sui bilanci e le attività
delle società italiane di capitali. L’archivio statistico era stato ceduto alla Centrale dei bilanci, società di gestione dati delle principali banche, nell’attesa che essa potesse valorizzarlo. Invece, finì
in uno scantinato, dal quale lo abbiamo ripescato quest’anno; un
progetto di valorizzazione è stato predisposto da Fulvio Coltorti
di Mediobanca, e stiamo cercando le risorse per realizzarlo.
Poco dopo il mio arrivo, una commissione governativa per le
restituzioni agli ebrei, presieduta da Tina Anselmi, chiese di accedere ai nostri archivi in cerca di evidenza. Trovammo che negli anni
della Repubblica di Salò Assonime aveva preso tempo, ingaggiando con l’amministrazione dotte disquisizioni sull’esatta definizione
dei destinatari del provvedimento che vietava la distribuzione dei
dividendi agli ebrei, mentre al contempo raccomandava alle asso-
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ciate di non distribuire dividendi. Ma la documentazione d’archivio
per quegli anni, come per quelli successivi, apparve in larga parte
mancante. Si favoleggiava di un allagamento che l’avrebbe distrutta
negli scantinati del palazzo delle Assicurazioni Generali – in piazza
Venezia a Roma, dove l’Associazione ha sede fin dai suoi primi
anni – anche se dell’allagamento non vi era riscontro. È plausibile
che il desiderio di riservatezza dei miei predecessori, fattosi particolarmente acuto nei tormentati anni Settanta del secolo scorso,
possa aver indotto a occultare o distruggere la documentazione più
delicata sui rapporti con le associate.
La struttura manteneva competenze significative nel campo fiscale, dove la sua tradizione era pienamente preservata e si affollava il numero più largo di funzionari, ancora diviso tra le imposte
indirette, guidate da Luigi Cecamore, e quelle dirette, guidate da
Giuseppe De Angelis; c’era anche un piccolo ma espressivo nucleo pensante in campo societario, affaccendato a gestire gli effetti
dell’introduzione del testo unico della finanza (Tuf, ovvero il d.lgs.
58 del 1998) e a convincere una giunta (come allora si chiamava il
consiglio direttivo) ancora riluttante sui meriti dell’autodisciplina.
Presi servizio il 1° aprile del 1999, sotto la presidenza di Umberto Zanni, stimato dirigente del mondo assicurativo, già amministratore e poi presidente della Ras. La giunta era convocata per
il 21 dello stesso mese e attendeva dal nuovo direttore generale un
piano di riorganizzazione e rilancio. Le mie proposte, contenute
in un documento di poche pagine preparato con Massimo Muzzin, allora direttore amministrativo, comprendevano l’aumento
dei contributi, fermi da un decennio, nella misura del 50 per cento, e iniziative di rilancio dell’attività di servizio alle associate,
allora quasi inesistenti, tra l’altro attraverso la creazione di un
sito Internet capace di informare in tempo reale le associate sui
provvedimenti di interesse. La tenacia e la duttilità di Muzzin mi
aiutarono a realizzare nel giro di pochi anni un mutamento radicale della composizione del personale, che arricchimmo di giovani funzionarie e funzionari provenienti dalle migliori scuole. La
modernizzazione della struttura è stata completata da Gianfranco
Talarico, che ne prese il posto nel 2006.
Cambiammo anche gli arredi, seguendo il progetto dell’architetto Roberto Liorni: i legni chiari, le postazioni di lavoro a isola
che incoraggiavano i funzionari a lavorare insieme, invece dei tra-
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mezzi che li isolavano, la cablatura completa degli uffici per dare
a tutti libero accesso alle informazioni e al web, costituirono il
segno materiale della nuova organizzazione.
Nella nostra attività abbiamo potuto contare sul costante incoraggiamento dei presidenti che si sono succeduti alla guida
dell’Associazione: dopo Zanni, Vittorio Merloni, che attrasse
molte imprese di qualità, ci insegnò una mentalità di servizio e
volle un termine quadriennale alla carica di presidente (prima
a tempo indeterminato); Vittorio Mincato, che modernizzò lo
Statuto e rafforzò la contabilità e il controllo di gestione; Luigi
Abete, arrivato solo da un anno mentre scrivo, che ha rilanciato
l’ambizione di offrire in Assonime il punto di riferimento e raccordo degli interessi comuni di tutte le imprese. Tutti i presidenti
hanno difeso fermamente la qualità e l’indipendenza di giudizio
dell’Associazione da ogni pressione esterna.
L’aumento dei contributi condusse a un calo del numero delle
associate di circa un terzo, al di sotto delle seicento unità: uscirono
in larga parte imprese piccolissime o strutture di consulenza in
forma societaria. L’obiettivo di colmare il disavanzo fu centrato.
Negli undici anni trascorsi da allora, il bilancio è stato normalmente in attivo; il patrimonio si è rafforzato. Tuttavia, pur con
molti nuovi ingressi d’imprese importanti, la base associativa ha
continuato lentamente a restringersi, anche a causa degli intensi
processi di ristrutturazione e aggregazione in atto nell’economia.
Sempre più Assonime si è caratterizzata come associazione d’imprese di qualità di medie e grandi dimensioni.
Creammo anche una struttura, Assonime Servizi, incaricata di
valorizzare i prodotti Assonime nei confronti di platee diverse
dalle associate; affidata prima a Stefania Graziosi, poi a Chiara
Petruzzelli, essa ha operato con successo, sviluppando la distribuzione on line dei nostri prodotti e la platea degli utenti. Oggi il
suo bilancio cresce verso il milione di euro; al suo interno abbiamo concentrato le attività d’informazione e assistenza al sistema
Confindustria e un numero crescente di rapporti di abbonamento
con professionisti e associazioni professionali.
È distribuita da Assonime Servizi, ormai nella sola versione
elettronica, anche la rifondata rivista «Giurisprudenza delle imposte» che, sotto la direzione congiunta di Adriano di Pietro e
Claudio Berliri, ha ritrovato consistenza e prestigio e viene rego-
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larmente consultata da oltre 2500 utenti. È continuato, seppure in
misura ridotta, anche il sostegno alla «Rivista delle società»; molto
prima del mio arrivo si era staccata da Assonime, mantenendo
grande prestigio sotto la guida di Ariberto Mignoli, Guido Rossi
e, infine, Piergaetano Marchetti.
Per partecipare più efficacemente ai processi nazionali e internazionali di redazione degli standard contabili, su suggerimento
di Pellegrino Capaldo promuovemmo il nuovo Organismo italiano di contabilità (Oic), nel quale confluirono, insieme ai commercialisti e ai revisori, gli utilizzatori dei bilanci, rappresentati dalle
principali associazioni d’impresa, degli analisti e degli intermediari finanziari. Lo statuto dell’Oic, redatto da Sabino Cassese,
garantì l’equilibrata rappresentanza dei diversi interessi e insieme
la trasparenza e la qualità degli standard, creando le condizioni
per il pubblico riconoscimento. A metà del decennio scorso un
regolamento europeo rese obbligatoria l’adozione degli standard
Ias per i bilanci consolidati delle società quotate. L’Italia volle andare oltre, senza ben valutare le conseguenze, ed estese l’obbligo
anche ai bilanci civilistici; le accresciute esigenze interpretative
rafforzarono considerevolmente il ruolo dell’Oic.
In seguito, un nuovo meccanismo di finanziamento proposto
da Assonime ne ha posto gli oneri a carico delle imprese, con un
contributo legato al deposito annuale dei bilanci presso il registro
delle imprese, rendendo disponibili le risorse necessarie non solo
per lo svolgimento in Italia dei compiti istituzionali, ma per la
piena partecipazione dell’Oic al finanziamento e alla gestione dei
meccanismi internazionali di standardizzazione, a Londra (Iasb)
e a Bruxelles (Efrag). Sotto la guida di Massimo Tezzon l’Oic ha
ormai superato l’adolescenza, diventando il centro di riferimento
per l’attività di standardizzazione contabile e i problemi di coordinamento con la legislazione civilistica e fiscale. Assonime partecipa alla vita dell’Oic quale membro dell’assemblea dei fondatori
e assiduo interlocutore dei suoi organismi tecnici.
In occasione della privatizzazione di Borsa Italiana, le autorità
di vigilanza vollero tra gli azionisti anche le società emittenti di
azioni. Già prima del mio arrivo, Assonime aveva promosso la
creazione della società Emittenti Titoli, nel cui azionariato entrarono, in proporzione alla capitalizzazione di borsa, le principali
società quotate italiane. Emittenti Titoli acquistò azioni di Borsa
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Italiana (cedute dal San Paolo-Imi) per circa 4 milioni di euro,
poco più del 6 per cento del capitale; quando Borsa Italiana fu
ceduta al London Stock Exchange, nel 2007, Emittenti divenne
azionista di questo gruppo, con una partecipazione dell’1,6 per
cento (oggi del valore di circa 35 milioni di euro). Emittenti Titoli – oggi presieduta da Piero Gnudi e di cui il direttore generale
di Assonime è vicepresidente – è diventato il forum delle società
quotate per l’analisi dei problemi della quotazione e degli effetti
sulle imprese del processo di consolidamento globale delle borse
azionarie. In queste materie è stato prezioso il contributo costante
di Massimo Belcredi e Valter Lazzari. Gli emittenti italiani partecipano anche a European Issuers, l’Associazione europea degli
emittenti di azioni che Assonime ha contribuito a fondare e che
oggi è riconosciuto interlocutore delle istituzioni europee sui temi
della finanza d’impresa.
Gradualmente, ho riordinato la struttura di Assonime in cinque aree tematiche. Chiamai Ivan Vacca alla direzione delle imposte dirette, dopo le dimissioni di De Angelis; Ginevra Bruzzone
dall’Autorità garante della concorrenza a dirigere la nuova area
Concorrenza e mercati, creata con l’incoraggiamento di Silvio Salteri di Mediobanca, per molti anni membro assiduo del consiglio
direttivo. Dopo l’uscita di Francesco Chiappetta, responsabile nei
miei primi anni del diritto societario, creammo due nuove aree:
una per il mercato dei capitali e le società quotate, affidata a Carmine Di Noia, proveniente dalla Consob, e collocata negli uffici
milanesi – spostati dalla storica sede di via Passione in via Santa
Maria Segreta, proprio di fianco alla borsa; l’altra per il diritto
societario strictu sensu, affidata a Margherita Bianchini, proveniente dal mondo della consulenza e alla ricerca di una prospettiva più istituzionale. Paola Parascandolo, economista, assunse la
responsabilità di un nuovo nucleo di analisi incaricato di valutare
l’impatto sull’economia dei provvedimenti normativi.
Luigi Cecamore fu confermato condirettore dell’Associazione
e in quel ruolo ha continuato a servirla con straordinaria dedizione e competenza fino alla scomparsa, nel luglio del 2008, dopo
quarantatré anni di servizio ininterrotto. Contribuì più di ogni
altro al disegno dell’Iva nel nostro paese; ne vide la crisi, negli anni
recenti aveva iniziato con noi a riflettere sull’evoluzione ulteriore
del tributo in un contesto economico in rapido cambiamento. Era
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un uomo di altri tempi per virtù e dedizione, assecondò con leale
sostegno e preziosi consigli la mia azione di trasformazione. In seguito, la posizione di condirettore è stata assunta da Ivan Vacca, le
due direzioni delle imposte sono state unificate sotto la sua guida.
Aprii anche un piccolo presidio a Bruxelles, oggi affidato ad
Alessandra Casale e ospitato negli uffici congiunti in rue Belliard
con European Issuers e Afep, l’organizzazione consorella francese.
La nostra presenza a Bruxelles si è fatta più penetrante e continua,
in particolare sui temi della concorrenza e dei mercati finanziari,
ma anche delle istituzioni europee. A metà del decennio scorso fui
cooptato nel consiglio di amministrazione del Ceps, Centre for European Policy Studies, un think tank attivo a Bruxelles con il quale
abbiamo sviluppato molti studi e iniziative sulle politiche europee.
Oggi l’Assonime conta cinquantaquattro collaboratori. Nei
suoi campi di attività, le posizioni e i documenti dell’Associazione
costituiscono un punto di riferimento per le imprese, le istituzioni
e l’accademia.
L’imposizione dei redditi d’impresa è stata investita negli ultimi quindici anni da una turbolenza senza precedenti, con il rapido
succedersi dell’introduzione di un nuovo tributo, l’Irap, e di due
riforme dell’Irpeg di segno radicalmente opposto, alla fine degli
anni Novanta del secolo scorso e nel primo decennio di questo
secolo. L’Irap, imposta regionale sulle attività produttive, sostituì
i contributi sanitari, l’Ilor e vari altri tributi minori, in larga parte
non deducibili; determinò un ampliamento della base imponibile,
in particolare con l’inclusione dei redditi professionali, e un forte risparmio per le società di capitali rispetto ai tributi sostituiti.
Tuttavia, colpendo il valore della produzione e non essendo deducibile dall’Irpeg, di fatto assumeva la natura di un’imposta sui
volumi di attività, comunque dovuta anche in assenza di utili. Ciò
la rese molto impopolare, in particolare tra le imprese di piccola
e piccolissima dimensione, e condusse la Confindustria a chiederne ripetutamente l’abolizione; lo stato del bilancio pubblico però
non lo consentiva, anche per il forte aumento della spesa pubblica
già dalla fine degli anni Novanta. L’Assonime ha continuato a
sostenere le ragioni del tributo, ritenendo che, prima di abolirlo,
occorra indicare alternative migliori per le imprese.
Nella seconda metà degli anni Novanta, l’allora ministro delle
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Finanze Vincenzo Visco aveva perfezionato la disciplina d’integrazione dell’imposizione dell’utile societario con quella personale dei soci percettori di dividendi: questa disciplina, introdotta
nel 1977, si fondava sul principio di far concorrere integralmente
il dividendo alla formazione del reddito imponibile del socio, restituendogli le imposte pagate dalla società al momento della produzione dell’utile attraverso l’attribuzione di un corrispondente
credito d’imposta. Quella riforma ha avuto il pregio di restituire
al sistema maggiore razionalità, calibrando il credito sulle imposte
effettivamente pagate dalla società, ma si prestava ad abusi che
minavano il gettito dell’imposta. Inoltre, il credito d’imposta si
fermava ai confini nazionali e, dunque, era incompatibile con la
crescente internazionalizzazione dei possessi azionari e le regole
comunitarie. Era stata anche introdotta la c.d. Dit, un sistema di
calcolo dell’imposta sulle imprese che faceva scendere l’aliquota
marginale, e tendenzialmente quella media, al crescere dell’investimento e della patrimonializzazione.
Con il nuovo decennio, l’impostazione mutò radicalmente. Il
nuovo ministro Giulio Tremonti scelse un diverso sistema d’integrazione tra reddito societario e reddito dei soci, omogeneo
per gli utili di fonte nazionale ed estera, dunque più conforme
alle prescrizioni comunitarie. La doppia imposizione economica
dell’utile societario fu trattata tassando l’utile in capo alla società
e accordando regimi di parziale esenzione ai soci percettori del dividendo. Tale regime trovò il proprio completamento sistematico
nell’esenzione anche delle plusvalenze dalla cessione di partecipazioni sociali (e nella conseguente indeducibilità delle eventuali
minusvalenze). L’abrogazione del credito d’imposta comportò
l’abbandono dei meccanismi di consolidamento implicito dei
redditi e delle perdite fra società socie e società partecipate. In
loro vece furono introdotti regimi di consolidamento (consolidato
nazionale, consolidato transnazionale e trasparenza fiscale) più in
linea con gli istituti degli altri paesi europei. Venne anche previsto
un tetto alla deduzione degli interessi passivi dal reddito d’impresa, pensato con il lodevole obiettivo di ridurre il vantaggio fiscale
dell’indebitamento, ma fonte in seguito di molteplici e complicati
aggiustamenti. La Dit fu abolita e al suo posto fu introdotta la
c.d. Tremonti, un meccanismo di deduzione diretta dalla base
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imponibile di una quota degli investimenti, divenuto popolare tra
le imprese.
Il nuovo sistema era in linea con l’evoluzione in altri paesi europei, ma in seguito fu ripetutamente modificato per esigenze di
gettito, rendendone opaca e complessa l’applicazione. Nel frattempo, la legislazione di contrasto ai paradisi fiscali (Cfc) accentuava il sindacato diretto e preventivo dell’amministrazione sulla
natura delle operazioni all’estero delle imprese italiane. Infine,
l’applicazione poco meditata degli standard contabili internazionali anche sui bilanci d’esercizio, dunque con rilevanza civile e
fiscale, ha generato un autentico sconvolgimento di molti istituti.
L’opera di chiarificazione e riparazione ancora continua, con l’intensa collaborazione dei nostri esperti.
L’incertezza è stata accresciuta dal ripetersi di provvedimenti
emergenziali che hanno colpito in maniera selettiva imprese di
singoli settori – le banche, le assicurazioni, le imprese petrolifere,
certe aziende di servizio: un’operazione che serve a ridurre i costi
politici immediati dell’aumento del prelievo, ma che distorce il
sistema e lo rende opaco. Molti provvedimenti emergenziali sono
stati resi applicabili dal periodo d’imposta in corso, dunque con
effetti retroattivi.
Soprattutto, la disciplina anti-elusiva, anche per effetto d’interpretazioni giurisprudenziali centrate sulla nozione di abuso del
diritto, ha ampliato la discrezionalità dell’amministrazione nel disconoscere ex post gli effetti giuridici e fiscali degli atti di gestione
dell’impresa e, in particolare, delle operazioni di ristrutturazione
aziendale, rendendo generalmente incerto il carico fiscale.
Nei fatti, non solo il nostro sistema appare ormai caratterizzato
da endemica instabilità, ma genera tra imprese e investitori veri e
propri timori di «confisca», per l’imprevedibilità delle pretese fiscali. Assonime ha denunciato questa involuzione del sistema, ma
non ha potuto impedirla, in un quadro di continuo deterioramento delle finanze pubbliche. I danni per l’investimento e l’attività
economica sono probabilmente ingenti. Il ritorno a un sistema più
semplice e prevedibile non appare procrastinabile.
Pur in tale sfavorevole contesto, non abbiamo cessato di riflettere sugli assetti desiderabili del sistema fiscale. Aspetti costanti
di questa riflessione sono stati la proposta di accrescere il peso
relativo dell’imposizione indiretta, che appare basso nel confron-
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to internazionale, rispetto a quella diretta; quella di uniformare la
tassazione dei frutti delle attività patrimoniali, inclusi gli investimenti finanziari e le locazioni, con aliquota secca (intorno al 20
per cento); quella di rendere permanente il trattamento fiscale
di favore per la parte di salario distribuita a livello aziendale in
contropartita di miglioramenti di produttività.
Un tema importante nel disegno del sistema fiscale resta quello
dell’internazionalizzazione delle nostre imprese e del sostegno alla
loro competitività: da qui la particolare attenzione alla disciplina
delle operazioni cross border e, in generale, all’introduzione di norme che garantiscano, alle imprese italiane che investono all’estero,
condizioni di trattamento simili a quelle previste dagli Stati partner.
La finalità istituzionale della promozione della concorrenza
e di buone istituzioni per il mercato ha trovato attuazione nella
nostra intensa partecipazione alle consultazioni per i nuovi regolamenti europei sui procedimenti antitrust (1/2003) e il controllo
delle concentrazioni (139/2004) e, in seguito, alla loro applicazione nel nostro ordinamento; abbiamo costantemente richiamato l’esigenza di rafforzare l’analisi economica dei mercati e dei
comportamenti degli operatori rispetto alla valutazione legalistica. Ci siamo occupati analogamente di poteri, procedure e garanzie nella nuova disciplina delle pratiche commerciali scorrette,
introdotta con la trasposizione della direttiva europea 2005/29.
Abbiamo partecipato attivamente alla discussione in Europa sulla
nuova direttiva sui servizi (2006/123) e poi alla sua trasposizione
in Italia: essa dà attuazione ai principi generali di libertà di stabilimento e prestazione dei servizi – con enormi benefici potenziali
sull’intero comparto, che costituisce tuttora un enorme serbatoio
di arretratezza nell’economia italiana, proprio per questo anche
di potenziale sviluppo. Ci siamo battuti a viso aperto contro i tentativi ripetuti degli ordini professionali di introdurre restrizioni e
riserve di attività nell’esercizio delle professioni c.d. liberali.
Abbiamo ripreso l’analisi dei problemi della proprietà intellettuale e industriale, campo tradizionale d’interesse dell’Associazione, trascurato da decenni. Abbiamo contribuito a promuovere la
legge annuale di semplificazione, uno strumento potenzialmente
poderoso per l’eliminazione dei troppi vincoli all’attività economica che i governi non hanno saputo sfruttare. Abbiamo invocato
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la figura del giudice specializzato per l’applicazione del diritto e
della regolamentazione commerciale, con qualche limitato successo, sempre trovando l’opposizione di parti importanti della
magistratura, più attente a difendere lo status quo che il buon
funzionamento del sistema.
Due materie hanno assunto speciale preminenza nel corso del
decennio: le autorità indipendenti, che dovevano consolidare le
regole europee di mercato nel nostro paese, e la gestione vieppiù
distorta del settore pubblico.
Sul primo tema, inizialmente ponemmo l’enfasi sulle procedure decisionali, sia nei procedimenti individuali, dove abbiamo
ottenuto progressi rilevanti nell’affermazione dei diritti di difesa;
sia nell’emanazione degli atti generali tipici dell’attività di regolazione, dove abbiamo contribuito a consolidare la cultura della
consultazione preventiva dei soggetti regolati e, forse con minor
successo, della proporzionalità della regolazione.
In seguito abbiamo alzato il tiro, provando a fare ordine in un
sistema cresciuto a strati, con regole diverse per le diverse autorità, che stava perdendo coerenza: un disegno di legge organico di
nostra ispirazione arrivò alle soglie del Consiglio dei ministri subito dopo la metà del decennio, ma poi fu abbandonato. Cercavamo
di chiarire l’indipendenza delle autorità dal potere esecutivo e i
contrappesi necessari di controllo da parte del Parlamento, che
volevamo rafforzare. Vedevamo nei criteri personali di eleggibilità e nelle procedure di nomina dei presidenti e dei membri delle
autorità la prima garanzia della loro indipendenza; invece la politica ha travolto ogni diga, usando quei posti come una prebenda
per persone prive delle necessarie competenze, talora nominando
tra i commissari manutengoli di specifici interessi. Così, il sistema
appare fortemente indebolito; alle ferite all’indipendenza si è aggiunta l’incertezza dei finanziamenti.
Quanto al settore pubblico, il decennio è stato segnato dall’arresto delle liberalizzazioni, l’esplosione a livello locale delle società pubbliche create per fornire posti e prebende fuori dai controlli
di contabilità pubblica, la diffusione a macchia d’olio del c.d. spoil
system, che ha compromesso la terzietà delle amministrazioni e
favorito la corruzione.
Tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007 pubblicai su «La Voce»
e «La Stampa» un decalogo d’interventi «per bonificare i rapporti
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tra politica e affari». L’idea di fondo era che il cattivo andamento
dell’economia non poteva essere rimediato dalla politica industriale o da altri sostegni al settore privato, ma che occorresse
porre al centro la questione del degrado delle amministrazioni
pubbliche, legato a sua volta alla dilatazione patologica dell’ingerenza della politica nelle gestioni. Che dunque la politica avrebbe
dovuto fare un passo indietro, adottando regole rigorose di trasparenza, merito e competenza per le scelte del personale, e rispettando le regole europee per le forniture e gli appalti pubblici,
che invece continuiamo a disattendere. Richiamavo l’importanza
di ristabilire il vincolo di bilancio sulle amministrazioni decentrate; invece, i vari governi continuano a ripianare a piè di lista gli
sfondamenti delle amministrazioni amiche, incoraggiando nuove
spese senza copertura e togliendo credibilità agli annunci di rigore
dal federalismo. Suggerivo che l’erogazione dei fondi a università
e ospedali potrebbe esser legata molto di più alle scelte di studenti
e pazienti, attraverso meccanismi ormai ben sperimentati in molti
paesi, lasciando che le cattive università e i cattivi ospedali perdano i fondi, fino a dover chiudere se non rimediano.
Due successivi rapporti sul federalismo hanno esaminato vari
aspetti istituzionali di questa importante riforma dello Stato, in
particolare una migliore delimitazione delle competenze nel Titolo V della Costituzione e i pericoli di un federalismo multicentrico
nel quale comuni, province e regioni acquistano ciascuno autonomi poteri di entrata.
Sulla gestione delle imprese pubbliche nel 2008 Assonime ha
pubblicato un rapporto sui principi di corretta gestione delle imprese di proprietà pubblica, invocando una chiara distinzione tra
quelle che sono solo appendici dell’amministrazione, che dovrebbero esser ricondotte nel suo alveo e assoggettate ai relativi controlli; e quelle che stanno sul mercato, che dovrebbero poter operare in
condizioni di parità con le imprese private, limitando l’intervento
dell’azionista agli atti di indirizzo e di controllo previsti dal Codice
civile ed eliminando ogni altra interferenza nelle gestioni.
Alla fine del secolo scorso l’approvazione del Tuf portò a compimento un lungo processo di modernizzazione dei mercati finanziari, mettendo ordine nella disciplina e riformulandone varie
parti con regole più orientate al mercato e di facile applicazione.
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Importanti furono le scelte a favore della contendibilità del controllo, della tutela degli azionisti di minoranza, dell’autodisciplina.
La redazione di un codice d’autodisciplina fu il primo dossier importante sul mio tavolo in materia di governo societario.
Fu costituito un comitato per la corporate governance, abilmente
guidato da Stefano Preda, allora presidente di Borsa Italiana; il
Codice vide la luce in poco meno di un anno, grazie a delicati
compromessi in materia di ruolo e composizione dei consigli di
amministrazione, amministratori indipendenti, nomina e remunerazione degli amministratori, conflitti di interesse, meccanismi
di controllo interno, informazione societaria. Fu poi rivisto due
volte e ha nel complesso ben funzionato, come mostra l’indagine
annuale sulla sua applicazione che avviammo subito dopo con
l’aiuto di Massimo Belcredi. L’impostazione del Codice fu ripresa
in molti aspetti nella successiva riforma del diritto societario, nel
2003. Tuttavia, la sua reputazione è rimasta controversa, perché
si sono imputati al Codice – in effetti alla mancata vigilanza degli
amministratori indipendenti – alcuni casi clamorosi di malagestione e truffa in danno dei risparmiatori. Quel che certamente è
mancato è stata la disciplina di mercato in casi evidenti in cui le
regole di autodisciplina venivano violate, per la debole vigilanza
di stampa e analisti. Per rimediare, Assonime ha ripetutamente
proposto di istituire un meccanismo di sanzione reputazionale
presso Borsa Italiana, ma questa si sottrasse, forse a causa del
conflitto d’interesse latente tra la funzione (pubblica) del listing e
quella (for profit) di aumentare le società quotate.
Il crollo dei mercati azionari, all’inizio dello scorso decennio, espose grossolane falsità nei bilanci, in particolare nel caso
della Parmalat, ma anche comportamenti discutibili delle reti di
distribuzione degli strumenti finanziari ai risparmiatori. Inoltre,
i controlli della Consob non avevano brillato per incisività ed efficacia. Nel 2003 Assonime pubblicò un Rapporto sul risparmio
nel quale la diagnosi dei fallimenti del mercato non risparmiava
le imprese, ma si rilevava l’esigenza di rafforzare i presidi contro
i conflitti d’interesse negli intermediari polifunzionali, stabilendo
forti principi di duty of care nel collocamento di strumenti finanziari tra i risparmiatori. Quell’impostazione non fu accolta allora,
ma trovò poi pieno riconoscimento nella direttiva Mifid alla fine
del decennio.
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La riforma societaria del 2003 – abilmente condotta in porto
da Michele Vietti, allora sottosegretario alla Giustizia – confermò
l’impostazione del Codice, sancendo il ruolo centrale del consiglio di amministrazione nella definizione delle linee strategiche
aziendali e nel controllo degli amministratori delegati, e ampliando l’autonomia statutaria. Accanto al modello tradizionale di governo societario con il collegio sindacale, furono introdotti due
nuovi modelli: uno simile al modello anglosassone, nel quale il
collegio sindacale era sostituito dal comitato audit (modello monistico), l’altro che replicava il modello dualistico di derivazione
germanica, affidando il controllo a un consiglio di sorveglianza.
Un vizio di fondo rese i nuovi modelli disfunzionali fin dall’origine: gli organi di sorveglianza e controllo dei nuovi modelli furono
disegnati con riferimento al collegio sindacale, con effetti deleteri
che hanno poi richiesto continui aggiustamenti e hanno impedito ai nuovi modelli di assumere veramente una configurazione
autonoma. Il modello dualistico è divenuto il veicolo di elezione
per sistemi di governance piuttosto barocchi, in particolare nel
sistema bancario. Il modello monistico non è stato utilizzato.
La legge sul risparmio (262/2005), dopo gli scandali finanziari, segnò una svolta rispetto all’impostazione precedente, con la
riduzione degli spazi di autonomia statutaria e il rafforzamento
dei meccanismi interni ed esterni di controllo pubblicistico. Nascono così due nuove figure di garanzia, il preposto ai controlli
contabili (mutuato dalla nuova legislazione americana SarbanesOxley) e gli amministratori di minoranza, che duplicano e in parte contraddicono i compiti dell’amministratore delegato e degli
amministratori indipendenti. Assonime ha obiettato a entrambi
gli istituti, pur aiutando a disegnarli in maniera meno perniciosa.
I controlli furono rafforzati anche attraverso il collegio sindacale,
assegnandone la presidenza al membro di minoranza e attribuendo alla Consob un ruolo attivo nella definizione delle modalità di
nomina dei sindaci e dei limiti al cumulo degli incarichi.
Un risultato positivo della nostra azione fu la riforma delle
procedure concorsuali, di nuovo realizzata grazie all’azione intelligente ed efficace di Michele Vietti, tra le resistenze di parti importanti della magistratura e delle professioni. Vittorio Mincato e
Maurizio Sella negoziarono abilmente il compromesso finale. La
novità centrale è il rilievo all’esigenza di proteggere la continuità
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dell’impresa, fermando le pretese dei creditori e introducendo
vari istituti tesi a favorire le soluzioni concordate, snellire le procedure, abbatterne i costi. La riforma è incompleta: parti importanti
degli istituti sulla crisi dell’impresa devono essere ancora aggiornati, in particolare con norme penali coerenti con la nuova impostazione delle procedure e un ripensamento organico dell’istituto
dell’amministrazione straordinaria.
Un tema costante alla nostra attenzione è stato la contendibilità del controllo delle imprese quotate. Da un lato, abbiamo
promosso l’adozione della variante più aperta tra quelle consentite dalla direttiva europea sulle offerte pubbliche di acquisto –
trovando spesso la Consob schierata su posizioni più difensive.
Dall’altro, abbiamo contrastato la visione di coloro che ritengono
opportuno cambiare la governance per forzare il mutamento del
controllo: ad esempio, dopo la metà del decennio scorso un disegno di legge d’iniziativa parlamentare voleva limitare il diritto
di voto nelle catene societarie di controllo all’effettivo possesso
azionario dell’azionista di controllo «a monte» nella società operativa «a valle», demoltiplicando i possessi intermedi. Si trova qui
il riflesso di una tesi, a lungo coltivata negli ambienti intellettuali
vicini alla Banca d’Italia, secondo cui l’Italia ha più buone imprese
che buoni imprenditori; perciò, si potrebbe migliorare l’economia
cambiando gli imprenditori – a discrezione di un illuminato pubblico decisore.
Questa tesi riflette in realtà il rifiuto di guardare in faccia le
ragioni profonde del declino economico italiano: che stanno,
all’origine, nella rigidità ancora fortissima del lavoro, nelle leggi
vincolistiche e disordinate, nell’incertezza fiscale, nella mancanza di mercato. La politica industriale, popolare a sinistra come a
destra, è stato il tentativo di compensare con i sussidi pubblici gli
imprenditori disponibili a lavorare in un contesto fuori mercato. Alla lunga, i sussidi e le interferenze politiche nell’economia
hanno quasi distrutto la grande impresa in Italia, contribuendo
a far marcire l’economia e la società civile, soprattutto nel Mezzogiorno. Spinta dall’Assonime, l’industria italiana ha capito il
problema e ha incominciato a chiedere un sistema di regole nel
quale le imprese possano operare senza dover dipendere dagli
aiuti pubblici per sopravvivere.
All’inizio del decennio scorso fu introdotta nel nostro ordi-
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namento la legge sulla responsabilità penale amministrativa degli
enti per gli atti criminali dei loro amministratori (d.lgs. 231/2001).
Questa disciplina ha rivoluzionato il modo di pensare i controlli
sull’attività d’impresa introducendo l’idea di sistemi organizzativi interni di monitoraggio, che devono essere «adeguati», come
metodo di prevenzione degli illeciti. Le società che dimostrano
di aver costruito modelli organizzativi adeguati a impedire i fatti
criminali non sono punibili. La nuova legge, di derivazione internazionale e voluta in reazione all’uso fin troppo diffuso della corruzione per conquistare contratti e concessioni pubblici,
è in seguito degenerata in un contenitore omnibus utilizzato dal
Parlamento per trasferire sulle imprese l’onere del contrasto dei
comportamenti illeciti. Una complicazione addizionale, fonte di
grande incertezza, è derivata dal rifiuto dei giudici di riconoscere
validità preventiva ai modelli organizzativi aziendali. Il tema è di
grande importanza, sia sul fronte dei controlli societari sia sul
fronte delle responsabilità per l’attività d’impresa: a quasi dieci
anni dalla sua emanazione, con un quadro normativo molto cambiato, è venuto il tempo di ripensare la disciplina.
La mia passione e la mia bussola restano nella costruzione
europea: un modello straordinario d’integrazione nella diversità, partito dalla costruzione del mercato interno, ma che poi si è
sviluppato nel coordinamento delle politiche economiche, di cui
l’euro è il segno visibile; nei nuovi «pilastri» della politica estera e di sicurezza interna (quest’ultimo ora in larga parte «comunitarizzato»); nella fondazione di diritti individuali di libertà e
cittadinanza direttamente affermabili davanti alla Corte europea
di giustizia. Ho mantenuto dal 1991 l’insegnamento al Collegio
d’Europa, a Bruges, con l’intervallo degli anni alla Commissione:
la preparazione delle lezioni e il rapporto con gli studenti hanno
continuato ad alimentare di nuove idee il mio lavoro.
I nostri contributi hanno coperto largamente il novero delle
norme europee per il mercato, con un’azione costante per migliorarne il disegno e l’applicazione interna, come ho già ricordato;
sono stati intensi anche nel disegno di una fiscalità europea delle
imprese, nell’architettura regolamentare dei mercati finanziari
europei, nei dibattiti sulla riforma del bilancio europeo. Nell’ultimo biennio la nostra attenzione si è concentrata sulle cause e
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sulle risposte alla crisi finanziaria, con vari scritti (pubblicati in
lingua inglese con il Ceps) largamente riconosciuti nel dibattito
internazionale.
Nel 2002, insieme a Sabino Cassese e Giacinto della Cananea,
fondammo EuropEos – gli europei, ma anche l’alba (Eos) d’Europa – un gruppo interdisciplinare di studiosi che volevano contribuire ai lavori della Convenzione per il nuovo trattato costituzionale e che hanno continuato a riunirsi in Assonime. Un tema
centrale di EuropEos è stato quello della ripartizione dei poteri
tra le istituzioni europee e gli Stati membri e dell’applicazione
del principio di sussidiarietà: un aspetto poi decisivo nel compromesso che condusse al Trattato di Lisbona due anni fa. Le tesi
che abbiamo portato nel dibattito istituzionale sono riflesse in un
pamphlet pubblicato nel 2004 da Assonime e in un volume, che
ho curato insieme a Gian Luigi Tosato, The European Union in
the 21st Century: Perspectives from the Lisbon Treaty, pubblicato
nel 2009 dal Ceps in inglese e dal Mulino in italiano.
L’Unione europea non è uno Stato federale e l’unione politica non è all’orizzonte; ma resta una costruzione vitale, capace
di evolvere in risposta alle esigenze dei suoi Stati membri e dei
suoi cittadini. Nella costruzione di buone istituzioni per il mercato, l’integrazione in Europa resta il riferimento obbligato. Anche
oggi, in una fase di crisi acuta delle economie e delle istituzioni, i
governi cercano le soluzioni a Bruxelles: soluzioni che, ancora una
volta, non richiedono geniali intuizioni dei leader del momento,
ma uno stabile sistema di regole condivise per il governo delle
economie che sostenga il processo di integrazione, rassicuri gli
investitori e tenga la moneta e le finanze pubbliche lontane dai
giochi elettorali.
Roma, luglio 2010
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