Focus sulla Corte Costituzionale

Transcript

Focus sulla Corte Costituzionale
 LEZIONE DI PENALE
FOCUS SULLA CORTE COSTITUZIONALE
a cura di Massimiliano Di Pirro
1. Sono ammissibili sentenze di incostituzionalità in malam partem? Il caso delle Camicie
verdi. La Corte costituzionale, con la sentenza 5/2014, si è pronunciata sull’ammissibilità di
pronunce di incostituzionalità in malam partem, che comportano, cioè, a seguito della
dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma, la reviviscenza della fattispecie
incriminatrice abrogata dalla norma dichiarata incostituzionale.
La vicenda riguardava la norma “salva-Lega” (art. 2268, co. 1, n. 297, D.Lgs. 66/2010), che
aveva abrogato la fattispecie incriminatrice delle associazioni di carattere militare (tipizzata nel
D.Lg. 43/1948) provocando effetti retroattivi di abolito criminis di cui avrebbero dovuto
beneficiare alcuni esponenti della Lega imputati a tale titolo per la costituzione di gruppi
associativi di tipo paramilitare (la Guardia nazionale padana - le c.d. Camicie verdi - e la Polisia
Veneta).
1.1. L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale. L’inammissibilità del sindacato sulle
norme penali più favorevoli è stata, in passato, argomentata considerando che una questione
finalizzata a una pronuncia in malam partem sarebbe priva di rilevanza, dato il principio di
irretroattività delle norme penali sfavorevoli. Infatti, si è affermato, «i principi generali vigenti in
tema di non retroattività delle sanzioni penali più sfavorevoli al reo, desumibili dagli artt. 25, co.
2, Cost. e 2 c.p. impedirebbero in ogni caso che un’eventuale sentenza, anche se di accoglimento,
possa produrre un effetto pregiudizievole per l’imputato nel processo penale pendente innanzi al
giudice a quo» (Corte cost. 85/1976).
Successivamente, però, la Corte ha riconosciuto che la retroattività della legge più favorevole
non esclude l’assoggettamento di tutte le norme allo scrutinio di legittimità costituzionale:
“altro … è la garanzia che i principi del diritto penale-costituzionale possono offrire agli
imputati, circoscrivendo l’efficacia spettante alle dichiarazioni d’illegittimità delle norme penali
di favore, altro è il sindacato cui le norme stesse devono pur sempre sottostare, a pena di istituire
zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all’interno delle quali la legislazione
ordinaria diverrebbe incontrollabile” (Corte cost. 28/2010).
Il mutato orientamento non ha comportato automaticamente l’ammissibilità delle questioni
relative alle norme penali più favorevoli, perché si è ritenuto che a una pronuncia della Corte
in malam partem è comunque di ostacolo il principio sancito dall’art. 25, co. 2, Cost., il
quale «demanda in via esclusiva al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle
sanzioni loro applicabili, impedendo alla Corte di creare nuove fattispecie criminose o estendere
quelle esistenti a casi non previsti, ovvero anche di incidere in peius sulla risposta punitiva o su
aspetti comunque inerenti alla punibilità (Corte cost. 285/2012).
Non sono però mancati casi in cui la Corte ha ritenuto che l’ammissibilità di questioni di
legittimità costituzionale in malam partem non trovasse ostacolo nel principio dell’art. 25,
co. 2, Cost. Particolarmente significativa in questo senso è la sentenza n. 394/2006, che ha
riconosciuto la sindacabilità delle c.d. norme penali di favore, ossia delle norme che
stabiliscono, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di
quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni.
Un’altra decisione significativa è la n. 28/2010, con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale di un decreto legislativo che, in contrasto con una direttiva comunitaria, aveva
escluso la punibilità di un fatto precedentemente (e successivamente alla dichiarazione di
incostituzionalità) previsto come reato. Secondo questa decisione, infatti, «se si stabilisse che il
possibile effetto in malam partem della sentenza di questa Corte inibisce la verifica di
conformità delle norme legislative interne rispetto alle norme comunitarie – che sono cogenti e
sovraordinate alle leggi ordinarie nell’ordinamento italiano per il tramite degli artt. 11 e 117
Cost. – non si arriverebbe soltanto alla conclusione del carattere non autoapplicativo delle
direttive comunitarie … ma si toglierebbe a queste ultime ogni efficacia vincolante per il
legislatore italiano».
Il vizio del decreto legislativo traeva origine dalla mancanza di delega, cioè dalla carenza di
potere del Governo che aveva adottato il decreto legislativo impugnato.
Il difetto di delega comporta un esercizio illegittimo, da parte del Governo, della funzione
legislativa. L’abrogazione della fattispecie criminosa mediante un decreto legislativo adottato in
carenza o in eccesso di delega si pone, infatti, in contrasto con l’art. 25, co. 2, Cost., che affida in
via esclusiva al Parlamento, in quanto rappresentativo dell’intera collettività nazionale, la scelta
dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, precludendo al Governo scelte di
politica criminale autonome o contrastanti con quelle del legislatore delegante.
La verifica sull’esercizio da parte del Governo della funzione legislativa delegata è, allora,
strumento di garanzia del rispetto del principio della riserva di legge in materia penale sancito
dall’art. 25 Cost. e non può essere limitata in considerazione degli eventuali effetti che una
sentenza di accoglimento potrebbe produrre. Si rischierebbe altrimenti di creare zone franche
dell’ordinamento, sottratte al controllo di costituzionalità, entro le quali sarebbe di fatto
consentito al Governo effettuare scelte politico-criminali che la Costituzione riserva al
Parlamento.
La riserva di legge in materia penale risulterebbe violata da una norma che incida sul trattamento
penale di alcun fatti contenuta in un decreto legislativo assunto in violazione dell’art. 76 Cost.
Legiferando in materia penale in assenza o fuori dai limiti di una valida legge di delega, infatti, il
Governo assumerebbe scelte di politica criminale autonome e contrastanti con quelle del
parlamento delegante, al quale tali scelte sono riservate in via esclusiva in forza del principio
consacrato dall’art. 25, co. 2, Cost.
Occorre quindi distinguere tra:
- controllo di legittimità costituzionale, che non può soffrire limitazioni;
- effetti delle sentenze di accoglimento nel processo in corso, che devono essere valutati dal
giudice rimettente secondo i principi generali che reggono la successione nel tempo delle leggi
penali.
Compete, dunque, ai giudici rimettenti valutare le conseguenze applicative che potranno derivare
da un’eventuale pronuncia di accoglimento, mentre deve escludersi che in astratto vi siano
ostacoli all’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale.
1.2. La sentenza n. 5/2014 della Corte costituzionale. Con specifico riferimento alla questione
di legittimità costituzionale dell’art. 2268, co. 1, n. 297, D.Lgs. 66/2010 (Codice
dell’ordinamento militare) che ha abrogato il D.Lgs. 43/1948 sul divieto delle associazioni di
carattere militare, la Corte costituzionale n. 5/2014 ha dichiarato tale questione fondata.
Il D.Lgs. 66/2010 è stato adottato sulla base della L. 246/2005, che non attribuiva al Governo il
potere di abrogare il D.Lgs. 43/1948. Infatti, l’art. 14 della legge aveva delegato il Governo a
individuare le disposizioni da mantenere in vigore che non avessero subito un’abrogazione tacita
o implicita e non avessero esaurito la loro funzione, o fossero prive di effettivo contenuto
normativo, o fossero comunque obsolete.
Non può ritenersi, afferma la Corte costituzionale, che il D.Lgs. 43/1948 fosse privo di un
effettivo contenuto normativo od obsoleto, poiché tale decreto è coevo alla Costituzione e
costituisce l’immediata attuazione dell’art. 18, co. 2, Cost. L’atto normativo in questione, in
coerenza con la previsione della Carta costituzionale, si prefigge di impedire attività idonee a
influenzare e pregiudicare la formazione democratica delle convinzioni politiche dei cittadini,
anche se non riconducibili a violazioni delle comuni norme penali, il che implica la sussistenza
di un effettivo contenuto normativo di rilevanza costituzionale e fa escludere l’obsolescenza
della disciplina. Del resto la perdurante attualità del decreto legislativo n. 43 del 1948 è
confermata, se ce ne fosse bisogno, dalla sua reintroduzione ad opera del D.Lgs. 20/2012.
Il preambolo del D.Lgs. 66/2010 indica, tra le fonti della delega, anche il comma 15 della L.
246/2005, il quale stabilisce che «i decreti legislativi di cui al comma 14 provvedono altresì alla
semplificazione o al riassetto della materia che ne è oggetto».
Neppure questa disposizione, però, avrebbe potuto giustificare l’abrogazione del D.Lgs. 43/1948.
La delega del comma 15, infatti, era diretta alla semplificazione e al riassetto normativo delle
disposizioni legislative e non alla loro abrogazione.
Una terza delega è contenuta nell’art. 14 L. 246/2005, il quale stabilisce che «il Governo è altresì
delegato ad adottare ... uno o più decreti legislativi recanti l’abrogazione espressa ... di
disposizioni legislative statali ricadenti tra quelle di cui alle lett. a) e b) del comma 14».
Neppure questa disposizione di delega però, pur prevedendo espressamente un potere abrogativo,
può giustificare l’abrogazione del D.Lgs. 43/1948, perché dà mandato al Governo di abrogare
«le disposizioni legislative statali ricadenti fra quelle di cui alle lett. a) e b) del comma 14», vale
a dire quelle «oggetto di abrogazione tacita o implicita» e quelle che «abbiano esaurito la loro
funzione o siano prive di effettivo contenuto normativo o siano comunque obsolete», e in queste
categorie, come si è già visto, non può rientrare il decreto legislativo che vieta le associazioni di
carattere militare per scopi politici.
Alla luce delle considerazioni svolte, Corte cost. 5/2014 ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 2268 D.Lgs. 66/2010 nella parte in cui ha abrogato il D.Lgs. 43/1948.
La sentenza n. 5/2014 ha comportato la reviviscenza del reato di associazione paramilitare,
poiché la dichiarazione di incostituzionalità ha colpito disposizioni normative abrogatrici il cui
annullamento comporta il ripristino delle norme illegittimamente abrogate.
2. Le novità in materia di stupefacenti dopo Corte cost. 32/2014 e il D.L. 36/2014. Con la
sentenza 32/2014, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità degli artt. 4bis e 4vicies ter
D.L. 272/2005 (decreto Olimpiadi di Torino) - poi convertito dalla L. 49/2006 (legge FiniGiovanardi) - per difetto di omogeneità, e quindi di nesso funzionale, tra le disposizioni
originarie del decreto-legge e quelle introdotte nella legge di conversione.
Tali disposizioni modificavano l’art. 73 del testo unico sugli stupefacenti (art. 4 bis) e numerose
altre disposizioni dello stesso TU (art. 4 vicies ter). In particolare:
- l’art. 4 bis, modificando l’art. 73 d.P.R. 309/1990, aveva unificato il trattamento sanzionatorio
previsto per le violazioni concernenti tutte le sostanze stupefacenti, trattamento che in
precedenza era differenziato a seconda che i reati avessero per oggetto le sostanze stupefacenti o
psicotrope incluse nelle tabelle II e IV (“droghe leggere”) o quelle incluse nelle tabelle I e III
(“droghe pesanti”). Per effetto di tali modifiche le sanzioni per i reati riguardanti le cosiddette
“droghe leggere” e, in particolare, i derivati dalla cannabis, precedentemente stabilite
nell’intervallo edittale della pena della reclusione da 2 a 6 anni e della multa da 5.164 a 77.468
euro, sono state elevate, prevedendosi la pena della reclusione da 6 a 20 anni e della multa da
26.000 a 260.000 euro;
-l’art. 4 vicies ter ha parallelamente modificato il precedente sistema tabellare stabilito dagli
articoli 13 e 14 del TU, includendo nella nuova tabella I gli stupefacenti che prima erano distinti
in differenti gruppi.
La dichiarazione di illegittimità costituzionale degli articoli 4 bis e 4 vicies ter comporta - per
espressa affermazione della Consulta – la reviviscenza delle disposizioni del testo unico
stupefacenti, in vigore prima dell’entrata in vigore della L. 49/2006 (legge IervolinoVassalli).
L’efficacia delle disposizioni previgenti determina un abbassamento delle pene per le
violazioni relative alle c.d. droghe leggere (punite con la pena della reclusione da due a sei anni
e della multa, anziché con la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa) e un parallelo
aumento delle pene previste per le violazioni relative alla c.d. droghe pesanti (punite con la
pena della reclusione da otto a venti anni, anziché con quella da sei a venti anni).
Sul punto la Corte costituzionale ha affermato che «quanto agli effetti sui singoli imputati, è
compito del giudice, quale interprete delle leggi, impedire che la dichiarazione di illegittimità
costituzionale vada a detrimento della loro posizione giuridica, tenendo conto dei principi in
materia di successione di leggi penali nel tempo ex art. 2 c.p., che implica l’applicazione della
norma penale più favorevole al reo». La reviviscenza delle disposizioni anteriori alla legge
49/2006 può comportare l’inapplicabilità di norme successive a quelle impugnate. Le norme
successive, infatti, rinviando a disposizioni caducate, verrebbero private del loro oggetto. Anche
in questo caso, la Consulta rimette la questione alla valutazione del giudice.
Il D.L. 36/2014 si è reso necessario dopo la pronuncia della Corte costituzionale.
La cancellazione delle norme impugnate, infatti, ha comportato il ripristino della disciplina
contenuta nel Testo unico sugli stupefacenti nella versione precedente al 2006, con effetti
rilevanti dal punto di vista penale e amministrativo. La pronuncia di incostituzionalità ha
investito infatti anche la classificazione delle sostanze stupefacenti operata dal Ministero della
salute: all’indomani della sentenza 32/2014, a fronte delle due tabelle disciplinate dalla L.
49/2006, sono tornate in vigore le sei tabelle previste prima della riforma del 2006, nelle quali
non sono ovviamente comprese le sostanze stupefacenti di ultima generazione inserite nelle
tabelle dal 2006 al 2013.
Perciò i primi due articoli del D.L. 36/2014 rimodellano le tabelle delle sostanze stupefacenti e
psicotrope ridistribuendo al loro interno le sostanze in modo da renderle coerenti con il regime
sanzionatorio antecedente alla legge Fini-Giovanardi e ricomprendono nelle tabelle le circa 500
sostanze classificate a decorrere dal 2006.
2.1. Quali sono gli effetti della sentenza della Corte costituzionale sul reato di produzione,
traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti ex art. 73 d.P.R. 309/1990? La Corte
costituzionale, nella sentenza n. 34/2014, ha affermato che “rientra nei compiti del giudice
individuare quali norme, successive a quelle impugnate, non siano più applicabili perché
divenute prive del loro oggetto (in quanto rinviano a disposizioni caducate) e quali, invece,
devono continuare ad avere applicazione in quanto non presuppongono la vigenza degli artt. 4
bis e 4 vicies ter, oggetto della presente decisione”.
Focalizzando l’attenzione sull’art. 73 d.P.R. 309/1990, il problema riguarda il comma 5, relativo
ai fatti di lieve entità, modificato dal D.L. 146/2013, conv. in L. 94/2013 e il co. 5 ter, introdotto
con il D.L. 78/2013, conv. in L. 10/2014.
Con riferimento all’art. 73, co. 5, nella formulazione modificata dal D.L. 146/2013, deve
ritenersi che tale disposizione sia ancora vigente, poiché secondo la Corte costituzionale le
norme successive alla Fini-Giovanardi destinate a cadere per effetto della dichiarazione di
illegittimità sono solo quelle che sono “divenute prive del loro oggetto in quanto rinviano a
disposizioni caducate”. Il comma 5 co. 5 non risulta privato del proprio oggetto dalla
caducazione degli altri commi dell’articolo, poiché per effetto della riviviscenza della previgente
disciplina continuano a essere puniti, anche se con un trattamento sanzionatorio diverso, gli
stessi fatti ai quali fa riferimento il comma 5.
L’altra norma sulla cui sopravvivenza occorre interrogarsi è il comma 5 ter dell’art. 73,
introdotto dal D.L. 78/2013, conv. in L. 94/2013. Tale disposizione estende l’ambito applicativo
della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, già previsto dal co. 5 bis per il
tossicodipendente che abbia commesso uno dei fatti di cui all’art. 73 co. 5, a reati diversi
commessi in relazione alla condizione di tossicodipendenza e purché la pena detentiva applicata
sia inferiore a un anno.
A seguito della caducazione del co. 5 bis dell’art. 73, inserito dall’art. 4 bis dichiarato
incostituzionale, deve ritenersi che anche il comma 5 ter sia venuto meno, poiché quest’ultima
disposizione si richiama espressamente al comma 5 bis (“La disposizione di cui al comma 5 bis
si applica anche nell’ipotesi di.....”) ed emerge, pertanto, uno stretto rapporto di dipendenza tra le
due norme: il comma 5 ter è stato privato del suo oggetto a seguito dell’abrogazione del comma
5 bis cui esso si riferisce.
Per ulteriori questioni vedere il pdf allegato