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Sperduta nel mare di Bering
Reportage dall’Arcipelago delle Pribilof: fa parte del Parco nazionale d’Alaska ed è
il rifugio di rare specie animali. Vi viene praticata la celebre pesca dei granchi, il
lavoro più pericoloso d’America
/ 12.12.2016
di Daisy Gilardini
Nel mezzo del mare di Bering, a circa 500 Km a ovest della costa dell’Alaska e a circa 800 chilometri
dalla costa siberiana si trovano le isole Pribilof. Il piccolo arcipelago di origine vulcanica è composto
da due isole principali, St. Paul, la più grande con una superficie di 104 km quadrati, St. George con
91 km quadrati e due isolotti disabitati Otter e Walrus.
Le isole formate da basalto sono prive di alberi ma presentano una vegetazione folta e rigogliosa. Il
clima, che è influenzato delle fredde acque del mare di Bering, è considerato artico, con tassi di
umidità attorno all’80 per cento, e venti che soffiano costantemente ad una media di 25/30 km/h.
Con una copertura nuvolosa pari al 95 per cento e nebbia persistente durante l’estate, il sole qui è
un ospite raro, tanto che alcuni fiori a volte non riescono neppure a sbocciare.
Le circa 600 anime che abitano le Pribilof (500 a St. Paul e 100 a St. George), sono principalmente
nativi delle Isole Aleutine che nel 18mo secolo furono forzati dai Russi a trasferirsi sulle isole come
schiavi al loro servizio per la caccia alle foche e la lavorazione delle pellicce.
Tra il 1786 e il 1867 avvenne lo sterminio di circa 2,5 milioni di foche da pelliccia che causò un duro
colpo per la specie. Nonostante le restrizioni di caccia introdotte dai russi nel 1834 e il passaggio del
territorio dell’Alaska dalla Russia agli Stati Uniti nel 1867, seguita dal divieto di caccia in mare
aperto, i numeri delle foche da pelliccia alle Pribilof, che una volta erano nell’ordine dei milioni,
scesero al minimo storico di 216’000 individui nel 1912.
Con l’inclusione dell’arcipelago nell’«Alaska Maritime National Wildlife Refuge» nel 1984, a tutt’oggi
solo la caccia di sussistenza ai nativi è permessa e la popolazione di foche è risalita a circa 800’000
esemplari.
Poco è cambiato dalla mia prima visita a St. Paul circa venti anni or sono. Il villaggio dominato dalla
chiesa Ortossa costruita nel 1907, è costituito da tante piccole case monofamigliari, un piccolo
negozio di generi alimentari, una scuola, il centro medico e la locale industria del pesce. Il vecchio
Kind Eider Hotel dove avevo alloggiato nel lontano 1996, è stato chiuso nel 2006 e rimpiazzato da un
dormitorio all’aeroporto. Non esistono bar e/o ristoranti e per i pasti devo andare al refettorio
dell’industria del pesce, semplice, pulito e culturalmente molto interessante!
L’economia e la vita qui oggi sono dettati dai ritmi del mare. Un mare ancora molto generoso in
halibut e granchio (Alaskan King Crab), anche se molto pericoloso. Di fatto le statistiche dell’ufficio
del lavoro statunitense dimostrano che la pesca al granchio in Alaska è uno dei mestieri più
pericolosi negli Stati Uniti, con in media una fatalità alla settimana durante l’alta stagione dovuta ad
annegamento e/o ipotermia.
Molti di voi ricorderanno la serie televisiva Deadliest Catch di Discovery Channel lanciata nel 2005,
che illustrava il pericoloso lavoro di questi pescatori in balia di mari tempestosi e temperature
glaciali.
Durante l’ora di pranzo sono interrotta: un peschereccio ha fatto la sua entrata in porto con 40
tonnellate di halibut fresco e vengo gentilmente invitata a fare una visita all’impianto. L’addetto alla
sicurezza mi accompagna spiegandomi tutti i processi della lavorazione, dalla pulizia, al taglio fino al
congelamento e allo stoccaggio del prodotto finito. Durante i mesi estivi l’impianto lavora a tempo
ridotto poiché la stagione del granchio comincia solo in autunno. Posso solo immaginare il frastuono
e la confusione che regna nello stabilimento al momento dell’arrivo dei pescherecci. Mi viene
spiegato che il granchio deve essere lavorato ancora vivo altrimenti produce delle tossine che
possono mandare in rovina un intero pescato con delle perdite finanziare esorbitanti.
Durante l’alta stagione, per far fronte alle grosse quantità di granchio, il personale triplica e i
lavoratori, per la maggior parte filippini, si sottopongono a turni di lavoro estenuanti che possono
durare fino a venti ore giornaliere, senza riposo settimanale per quattro mesi consecutivi.
Mi viene assicurato però che il benessere dei lavoratori è una priorità per l’azienda che concede
quindici minuti di pausa ogni due ore…
Anche se la storia delle Isole e la vita di questa comunità di pescatori sono affascinanti, chi mi
conosce intuirà che vi è ben altro in questo piccolo arcipelago sperduto nel mare di Bering.
In effetti, a portarmi qui non sono né i pescatori, né i granchi o l’halibut ma è l’abbondante vita
animale che colonizza queste isole: quasi un milione di foche da pelliccia, volpi artiche blu e circa
250 specie di uccelli.
Le mie giornate sono scandite dagli orari del refettorio: 7.30 colazione, 12.00 pranzo. 17.00 cena.
Ma oltre a questi appuntamenti fissi trascorro il resto del mio tempo, fino a sera inoltrata (qui c’è
luce fino alle 23.00) lungo le scogliere dell’isola a osservare gli animali.
Tra le molteplici specie presenti sugli scogli in questa stagione oltre all’uria comune, l’uria di
Bruenich, l’alca minore pappagallo, il gabbiano tridattilo, e il cormorano, i miei preferiti sono le
pulcinella di mare (dal corno e dal ciuffo).
Sono affascinata da questa specie che, a causa dei colori sgargianti del loro becco triangolare,
vengono anche chiamati i pappagalli o clown del mare.
Il loro corpo tozzo e pesante e le corte ali permettono di volare anche sott’acqua, raggiungendo
profondità fino ai 60 metri. In effetti, nutrendosi di pesce e calamari, sono degli ottimi nuotatori: le
spine che ricoprono lingua e palato permettono loro di intrappolare decine di pesciolini pescati e
riportarli al pulcino nel nido.
Pattugliando gli scogli mi rendo presto conto che fotografare questi uccelli non è cosa facile. I loro
nidi sono nascosti tra le faglie della ripida scogliera e per avere delle angolature decenti mi trovo a
dover scendere i ripidi pendii con il mio pesante equipaggiamento. Con le gambe tremolanti e il fiato
sospeso faccio finta di non avere le vertigini e mi concentro sui loro sgargianti colori.
Dai ritratti tra le rocce passo alla foto d’azione. Nonostante il loro aspetto tozzo e pesante, le
pulcinelle di mare sono uccelli velocissimi che possono raggiungere fino a 90 km/h sbattendo le ali
fino a 400 volte al minuto.
Accetto la sfida e armata di tanta pazienza e perseveranza, spingo gli ISO della mia macchina
fotografica fino a 3200 per raggiungere una velocità di scatto di 1/2500s. Cercando di inquadrare al
meglio l’uccello quando si avvicina, al momento in cui ho la messa a fuoco, scatto a raffica… 12
immagini al secondo.
Con il rumore di una mitragliatrice gli scatti si susseguono, centinaia di scatti… probabilmente
anche migliaia… tutti a vuoto… opss… l’uccello non è nell’inquadratura… opss… ecco una zampa…
grrr… ecco la coda… wow, eccone uno tutto intero… ah... troppo lontano… eccone un altro…
accipicchia questo è fuori fuoco!
Le ore letteralmente «volano» assieme ai miei «amici» pulcinella… la frustrazione comincia a salire e
un po’ demoralizzata sto per mollare la spugna…
Ma non è da me… rialzo l’obiettivo… ed ecco finalmente lo scatto pagante!