Elena Trabaudi - Carla Muschio

Transcript

Elena Trabaudi - Carla Muschio
Elena Trabaudi
ISABELLA
LA SPOSA DEL CONTE
Capitolo 1
e i conoscenti della ricca famiglia milanese dei Valleolona fossero stati invitati alle nozze della loro primogenita Isabella con il
conte Fedor Koshkin avrebbero certamente avuto molto da raccontare perlomeno fino all’apertura della Scala in autunno ma,
proprio per questo, si scelse di tenere la cerimonia in forma molto
intima e in una data insolita, il primo di agosto, quando tutti i milanesi erano
in villeggiatura. Anche il luogo della festa di nozze era insolito: la piccola
chiesa di Santa Caterina nel paese della campagna novarese dove Arturo e
Marina Valleolona avevano dimora estiva.
Lo sposo, il giovane conte, aveva per unica ricchezza l’eleganza dei modi e
una vasta cultura che gli derivavano dall’essere cresciuto negli agi in una vasta
tenuta della campagna russa vicino a Samara. Le sostanze della sua famiglia
erano state spazzate via dalla Rivoluzione Russa dell’ottobre precedente, il
1917. Del resto Fedja o, all’italiana, Fedro, così si faceva chiamare, era
diventato povero già prima, quando aveva scelto di non far ritorno in patria
allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, per evitare di essere chiamato alle
armi. Per vivere era diventato maggiordomo della famiglia Portolenghi, a
Milano, e ora lasciava questo incarico per iniziare una nuova vita con la sua
Isabella.
Anche la diciottenne Isabella era ricca di nascita e anch’ella, da quel
giorno, era priva di sostanze, perché i genitori avevano acconsentito al suo
matrimonio con l’affascinante giovane russo solo a condizione che rinunciasse
alla dote.
Come sarebbero vissuti questi poveri innamorati? Vi si sarebbe pensato
S
1
l’indomani. Quel giorno era tutto dedicato alla gioia delle nozze.
Partecipavano alla cerimonia, oltre ai genitori di Isabella e alla sorella
Carlotta, pochi parenti: la nonna paterna e il padre della signora Marina, più
le zie Fosca e Olga, che non si poteva trascurare di invitare perché si sarebbero
offese. Alle zie non pareva vero di essere quasi le uniche del parentado ad
essere presenti alle nozze, quindi le uniche in grado di spettegolare per tutta
l’estate su come si erano svolte.
Anche da parte di Fedja era saltata fuori una parente, la sua zia Anastasija,
che era giusto emigrata dalla Russia in quella primavera post-rivoluzionaria,
quando ancora era facile farlo, stabilendosi a Parigi, dove la colonia dei nobili russi cresceva di giorno in giorno man mano che la situazione politica in
Russa andava inasprendosi.
La zia Anastasija era anticonformista come il nipote: giunse alle nozze
con indosso un antiquato vestito di seta pesante, al braccio un ombrellino
parasole dello stesso tessuto e in tasca un anellino di oro e zaffiro che era
stato della nonna Koshkin, “perché le ragazze giovani devono avere bei gioielli
senza aspettare che muoiano i vecchi”, come spiegò a Isabella nel fargliene
dono.
Luigi, il tuttofare dei Valleolona, tutto vestito a nuovo, ebbe l’onore di
accompagnare Isabella e la sua famiglia in carrozza fino alla soglia della
chiesa. Anche se la casa era vicina alla chiesa, non si poteva andare a piedi
per non sciupare l’abito e affinché pochi potessero vedere la sposa prima
dello sposo, che l’attendeva davanti all’altare. Gli invitati erano pochi, ma la
chiesa di Santa Caterina era piena perché i paesani conoscevano i Valleolona
da sempre e nessuno voleva mancare alle nozze.
Isabella era in bianco, con un abito di taglio semplice semplice, ma cucito
con la seta più bella delle seterie Valleolona, un broccato a piccoli motivi di
foglie. In capo aveva la tradizionale coroncina di fiori d’arancio a fermarle i
capelli. Il velo era ampio e morbido, così sottile che si agitava a ogni mossa
del corpo di Isabella, quel giorno più graziosa che mai. Fedro, “il giovane
conte Koshkin”, come lo definivano i Valleolona parlando di lui ad altri,
era al colmo della felicità. Si era alzato presto quella mattina per arrivare
lì da Milano, eppure non sentiva né sonno né fatica. Lo accompagnava,
avevamo dimenticato di citarli, tutta la famiglia dei suoi datori di lavoro, i
2
Portolenghi, che avevano rimandato la partenza per le vacanze pur di assistere
alle nozze. Oltre ai genitori c’erano le figlie, Ludovica e Bianca, le migliori
amiche rispettivamente di Isabella e della sorella Carlotta.
Dopo la cerimonia e dopo che la sposa ebbe baciato tutti, ma proprio
tutti quelli che vollero esser baciati (perché un bacio di sposa porta sempre
fortuna) si fece festa al fresco nel cortile di casa Valleolona.
“Non so cosa avremmo fatto in caso di pioggia - confidò Marina a un’amica
nel raccontarle della festa - perché tutta l’organizzazione era basata sul bel
tempo. Rosina ha fatto i suoi soliti miracoli, gli arrosti in particolare erano
un bijou. Non ti sto a dire della torta, ma quella l’avevamo fatta preparare
a Milano da un pasticciere. Un incanto.”
E così, vedete, i Valleolona avevano digerito il matrimonio di Isabella e
ne parlavano addirittura con fierezza. Il genero aveva forse una situazione
economica inferiore alla loro, ma “non capita tutti i giorni di veder diventare
una figlia contessa”, come diceva Marina alle sue amiche per far accettare
anche a loro il matrimonio.
Gli sposi avevano scelto Nizza come meta del loro viaggio di nozze e non
c’è neanche bisogno di dire che si fermarono all’Hotel Beau Rivage, dove
era iniziata la vita milanese di Fedja perché lì aveva incontrato la famiglia
Portolenghi. E’ altrettanto superfluo dire che fu la vacanza più bella, più
spensierata, più matta della loro vita.
La zia Anastasija, salutando Fedja dopo la festa di nozze, gli mise in
mano una busta, raccomandandogli di aspettare l’indomani per aprirla.
3
Capitolo 2
on si può descrivere con quanta ansia gli sposi dovettero aspettare l’indomani. Va bene che per due innamorati
finalmente soli il tempo passa veloce, ma l’idea di quel punto interrogativo li teneva in leggera agitazione. Inoltre non
potevano scambiarsi troppe effusioni in treno: i posti che il
padre di Isabella aveva prenotato erano di prima classe, ma gli sposi dovettero
condividere lo scompartimento con un distinto signore con baffi e panciotto
e con una giovane mamma con due gemelli sui quattro anni.
La signora leggeva Le rouge et le noir di Stendhal, tenendo però sempre
d’occhio i bambini, due maschietti vispi che starnazzavano come fanno i
paperini in un lago, quando si allontanano dalla riva e provano a raggiungere
da soli il largo.
Giunsero alla stazione di Nizza e da lì in carrozza arrivarono presto al
“Beau Rivage”. Ebbero dal concierge la chiave della camera e lì si amarono
con la fede al dito: era da quel giorno di gennaio dell’anno prima, nel fienile
della casa Valleolona, che aspettavano questo momento. Prima di cena stavano passeggiando a braccetto sulla Promenade des Anglais e il sole aveva
smesso di picchiare forte, quando si decisero ad aprire la famosa busta con
l’indicazione: A mio nipote Fedor, a sua moglie Isabella.
All’interno c’era una pagina scritta in francese dalla zia Anastasia, in cui
gli rivelava che suo fratello, cioè il padre di Fedja, possedeva una fortuna in
titoli nella sede centrale della Banque de France, depositata a Parigi prima
che gli eventi della rivoluzione precipitassero. Solo la zia Anastasia ne era al
corrente, a parte i famigliari in senso stretto.
N
4
Il conte Koshkin non ne aveva parlato al figlio per vari motivi. Innanzitutto per la formazione del giovane: infatti sapere di avere un patrimonio
alle spalle spinge a rilassarsi e impedisce di trovare una vera collocazione
lavorativa. Inoltre il signor Porfirio voleva che la ragazza amata da Fedro lo
scegliesse come sposo non per la ricchezza, ma semmai per l’alto lignaggio,
oltre che per amore, naturalmente.
E fu così che da un giorno all’altro, dopo essere stati diseredati dai genitori
dell’uno, trovarono un’eredità inattesa dai genitori dell’altro.
Decisero quindi di sfruttare al massimo la loro situazione di piccioncini
in luna di miele, facendo tutto quello che gli saltava in mente: non solo
andavano allo stabilimento dell’hotel a fare i bagni e a prendere il sole, ma
fecero belle escursioni ai rochers rouges al tramonto, quando gli scogli scuri
fanno da contrasto al rosso del cielo; comprarono profumi alla lavanda a
Grasse da un maitre parfumeur. Andarono a Cannes, dove fecero perfino un
salto al casinò e un’altra volta si spinsero fino a Cap d’Antibes e Juan les
Pins, dove i pini marittimi sul promontorio creavano un’ombra dolce sotto
cui ripararsi dal sole d’agosto. E tutto sempre era bello ai loro occhi avidi di
vita.
5
Capitolo 3
el frattempo Ludovica era andata al Lido di Venezia, al
Des Bains, con i genitori. Lì aveva modo di sfoggiare i suoi
vestiti nuovi, eleganti ma con un tocco d’audacia qua e là,
nell’accostamento dei colori o in una scollatura un po’ osée,
o anche solo nella lunghezza nuova che lasciava scoperta la
caviglia. La storia con G. sembrava a un punto morto: in realtà lui - che pur
condivideva con Ludovica l’abitudine a stare nel bel mondo e ad appropriarsi
delle caratteristiche di esso - si era stancato di quella ragazza troppo brillante,
troppo sicura di sé, e si era orientato su una fanciulla della sua scuola, molto
bellina ma semplice, con una lunga coda di cavallo bionda e gli occhi scuri.
Per ora era andato a trovarla qualche volta a casa, con la scusa di confrontare
una versione di greco o il risultato di un’equazione, ma tutti avevano capito
che si trattava d’altro.
Ludovica dal canto suo si era già stancata della conquista e non vedeva
l’ora di dirigere la propria attenzione verso un altro ragazzo. E perché non
Raffaele, che si era permesso di mettersi con una più giovane di lei, una
bambina tutta fiocchi e nastri? Così lei vedeva Carlotta: ora che l’amica
Isabella si era sposata, incominciava a nascere in lei un po’ d’invidia e con
questa l’asprezza nel giudizio. Quindi è chiaro che al Lido Ludovica era
andata con l’intenzione, neanche troppo nascosta, di esibirsi e di piacere.
La cosa non fu difficile, perché ogni sera c’era il ritrovo nei saloni dell’hotel: un pianista suonava e i camerieri si aggiravano felpati con i loro
vassoi pieni di dolcetti e di rosolio e tutt’intorno si formavano capannelli, si
sentiva un chiacchiericcio indistinto uscire dalle sale. Qualcuno si appartava
N
6
nei salottini attigui per fumare un sigaro o per conferire in privato con una
signorina accaldata ed elegante. Alcuni parlavano talvolta di bollettini di
guerra, ma venivano presto tacitati dal desiderio collettivo di leggerezza.
C’era fra gli ospiti un artista spagnolo, un pittore, nobile di nascita ma
apparentemente incurante del proprio patrimonio, che vestiva in modo un po’
eccentrico ed era diverso da tutti gli altri agli occhi di Ludovica. Il fatto è che
aveva un viso meraviglioso, capelli un po’ lunghi e ondulati, era piuttosto alto
e soprattutto aveva quello sguardo magnetico che fa innamorare le ragazze.
Ben presto la ragazza tanto sicura di sé, ciarliera e a proprio agio in società, si trovò a impappinarsi appena lo vedeva, a dedicargli lunghi eloquenti
sguardi di cui lui fingeva di non accorgersi, in una parola si scoprì cotta di
Miguel Hormachevarria. Una sera Ludovica pensò che doveva vincersi, si
avvicinò e con fare noncurante, ma con il cuore che le batteva nella gola,
chiese:
“Potrei vedere i suoi quadri uno di questi giorni? Sa, m’interesso molto
di pittura (ma quando mai!) e vorrei farmi un’idea dei suoi soggetti.”
“Sarò incantato di mostrarglieli quando vorrà. Va bene domani pomeriggio verso le cinque?”
7
Capitolo 4
icevuto l’appuntamento, Ludovica non ebbe altro pensiero
che di scegliere la mise per l’indomani. Senza che lei lo volesse, le vorticavano davanti agli occhi della mente gonne,
corsetti, scarpine e borse in una danza che non si placava
e che non lasciava spazio ad altri pensieri. Solitamente lei
era l’ultima della famiglia a voler andare a letto, ma quella sera si dichiarò “affaticata dai bagni di sole” e si ritirò in camera prima di ogni altro.
Aperto l’armadio, fece passare uno a uno i suoi vestiti, quasi avesse scordato
le loro fogge, per scegliere “il colore giusto” con cui presentarsi l’indomani
all’attraente pittore. Li buttava sul letto, combinava una gonna con una camicetta, tornava a rivolgersi all’armadio e riprendeva il gioco combinatorio
senza mai raggiungere una soluzione del tutto soddisfacente.
Ludovica avrebbe sorriso come a uno scherzo se le avessero detto che su
un’altra costa dello stesso mare, a Nizza, la sua amica Isabella stava facendo
proprio in quel momento la stessa ricerca affannosa nel proprio guardaroba.
Eppure era così.
Fedja (Isabella lo chiamava così, con il suo nome vero, quello con cui lui
definiva se stesso) aveva telegrafato alla zia Anastasija per concordare un
incontro e l’indomani sarebbero partiti in treno alla volta di Parigi. Questo
viaggio nel viaggio era di estrema importanza per i due sposi per più di un
motivo. Per cominciare avrebbe permesso al giovane conte di conoscere i
dettagli della sua situazione finanziaria che, da cupa che era, si era fatta improvvisamente rosea grazie alla lettera della zia e gli aveva acceso la fantasia
con mille progetti. Isabella, che con giovanile nobiltà d’animo non voleva
R
8
pensare a quello che lei chiamava “il lato prosaico della vita”, pure in qualche angolo della mente ci pensava. Ora voleva fare una buona impressione a
quella zia cui si doveva, forse, un brusco cambiamento della sua sorte, anche
se Isabella non ci credeva ancora del tutto. Inoltre, era una parente di sangue
del suo Fedja e lei era fermamente intenzionata a volergli bene. E che altro
poteva fare per compiacerla, se non scegliere il vestito più adatto con cui
presentarsi?
Così, rigirando su un dito la fede e su un altro l’anellino d’oro e zaffiro
che da una settimana abbellivano la sua piccola mano, guardava l’armadio
aperto.
Dopo tanti ripensamenti scelse un abito giallo paglierino decorato con
vezzosi fiocchetti di pizzo. Sopra avrebbe indossato una giacchetta bianca,
perché “Parigi non è la Costa Azzurra, può fare freddo anche in agosto”,
aveva detto il suo maritino.
Erano in luna di miele da una settimana e all’apparenza erano spensierati
come due fanciulli. Belli, giovani, felici, discutevano ogni giorno su come
trascorrere il tempo. Visitavano, come usava, gli studi dei pittori, che in
città erano numerosi, ma guardavano le opere senza comperare nulla, per
carità. Va bene che forse li aspettava un’eredità da favola, ma per il momento
avevano solo il denaro sufficiente per vivere, seppure con agio, quel mese,
denaro offerto da papà Valleolona.
“E questi sono gli ultimi soldi che avrai da me, figlia mia” aveva detto il
signor Arturo nel consegnare a Isabella la busta il giorno delle nozze.
Né Fedja né Isabella, giovanissima sposa, aveva osato aprire la conversazione sul futuro in quei giorni, ma il pensiero del domani tornava continuamente ad affacciarsi nelle loro menti. Per questo avevano organizzato il
viaggio a Parigi, così da avere almeno un dato certo, e tanto importante, su
cui basare sogni e progetti.
9
Capitolo 5
l giorno dei due appuntamenti importanti, quello di Ludovica con
Miguel Hormachevarria e dei giovani sposi con la zia Anastasija, fu
soleggiato e senza ombre sia a Parigi che a Venezia, seppure con
temperature diverse. Si sa, così è l’estate.
Ludovica, stringendo nella mano il cordino di una vezzosa borsetta in seta
rosa appesa al suo polso sinistro, sollevò l’altra mano per bussare. La porta
era già socchiusa, per via del caldo. Immediatamente apparve una mano
(“elegante come deve essere la mano di un artista” pensò subito Ludovica)
che scostò la porta e rivelò la figura intera di Miguel. L’artista si inchinò e,
limitandosi a sorridere senza dir nulla, fece strada alla signorina verso una
sedia, facendole cenno di accomodarsi. Lui le si sedette accanto, la guardò
per un lungo minuto, ricambiato dallo sguardo di lei, e infine parlò.
“Ecco, questo è il mio antro sordido. Anzi, stia attenta a non macchiarsi
il vestito. Qui c’è colore dappertutto”
“Beh, se non c’è colore da un pittore. . . ” fu ciò che Ludovica riuscì a
dire, vincendo la stretta in gola che le rendeva difficile parlare.
Miguel sorrise ancora una volta, allargando le braccia. Poi si alzò e andò
a tirare la tenda di tulle davanti alla finestra, frenando così la violenza della
luce solare diretta che accendeva la stanza. Si volse verso Ludovica e le chiese:
“Allora, davvero vuole vedere i miei quadri, signorina?”
“Certo, - fu la pronta risposta - sono qui per questo. . . in fondo.”
“Bene, ma si prepari a qualche sorpresa. Non dica nulla finché non li avrò
messi in fila tutti.”
Ludovica, incuriosita, approfittò del fatto che Miguel le voltasse la schiena
I
10
per sollevarsi leggermente sulla sedia e aggiustare le pieghe della gonna che,
cadute sghembe, l’avevano infastidita, poi si mise a scrutare i quadri che via
via comparivano. Erano tele di grandezza diversa, una più alta di Miguel
e altre molto più piccole. Sul principio le parvero inizi di opere più che
tele finite, perché le vedeva tutte di un colore, diverso in ciascuna: rosso,
cobalto, rosa, verde salvia, celeste. Stava già per chiedere spiegazioni quando
ricordò che doveva aspettare la fine dell’esposizione. E infatti avrebbe parlato
troppo presto, perché guardando meglio vide che ciascun quadro conteneva
un riquadro, grande circa come il palmo della sua mano, di colore diverso.
Si alzò per vedere meglio mentre Miguel finiva di disporre le opere. Da
vicino, osservò che quei riquadri contenevano miniature dipinte con pennelli
finissimi, di soggetto diverso: un paesaggio, volti, pieghe di abiti, macchie
come di foglie toccate irregolarmente dal sole. Era perplessa. Non avrebbe
saputo come commentare.
Per fortuna fu Miguel a prendere la parola, anticipandola. “Chissà cosa
starà pensando di me, signorina. Vede, io cerco di fare un’arte nuova.”
“Ma si capisce. E mi spieghi, come. . . ”
Partì così una conversazione lunga e viva in cui Miguel spiegò quali fossero le sue posizioni in pittura, le sue simpatie, le aspirazioni, e Ludovica si
appassionò al mondo nuovo che le parole del pittore aprivano. Quando le
sovvenne di guardare l’orologio scoprì che erano già le sette e doveva tornare
in albergo.
“Ma come, deve già andare? - disse Miguel. - E non abbiamo detto una
parola su di noi.”
“Beh, lei sì, veramente” obiettò Ludovica.
“Sì, ma io voglio sapere tutto di lei. Tornerà domani alla stessa ora?”
Ludovica promise di sì.
Miguel Hormachevarria le tese la mano per salutarla e lei la raccolse,
ricevendo una stretta forte che, se fosse stata solo di poco più intensa, e
avrebbe fatto male.
11
Capitolo 6
vevano chiesto alla reception di essere svegliati presto per
farsi accompagnare alla stazione in carrozza. Il treno per Parigi partì alle otto in punto, con il suo sferragliare allegro. I
viaggiatori nei loro vestiti leggeri partecipavano al rito dell’estate: salivano sorridenti, i signori aiutavano leggiadramente
le signore issandole sul predellino o reggendo loro la falda dell’abito rigorosamente bianco. Poi era uno sventolio di cappelli, un garrire di foulards,
per salutare parenti cari o nuove conoscenze fatte durante i giorni appena
trascorsi.
Fedja e Isabella invece erano tutti presi dalla prossima tappa del viaggio e
quasi non si accorsero di quanto fosse struggente il cielo terso, il mare piatto
nell’incanto del primo mattino. Avevano fatto prenotare un albergo a Parigi
in rue de Saint Quentin, una stradina fra la Gare de l’Est e la Gare du Nord:
lo sposo c’era stato da ragazzo, quando ancora girava per l’Europa nel viaggio
di iniziazione alla vita adulta che suo padre gli aveva concesso prima degli
impegni adulti. Allora non sapeva, suo padre, come si sarebbero evolute
le cose in Europa; la guerra sembrava lontana, solo un’ipotesi possibile ma
niente di più. E invece sui campi di battaglia c’erano già stati milioni di
morti in quattro anni di guerra.
Ad ogni modo, quando finalmente i due sposi arrivarono, Parigi apparve
subito in tutto il suo splendore notturno. L’hotel era così vicino che decisero
di fare due passi a piedi invece di prendere la carrozza, premurandosi solo
di affidare ai facchini il bagaglio. E così, sottobraccio al marito, Isabella
rivide con occhi scintillanti la città che aveva visitato l’inverno precedente
A
12
con tutt’altro spirito, insieme alla sua famiglia. Ora era grande, era una
signora, e il suo Fedro l’indomani l’avrebbe accompagnata al Lido, glielo
aveva promesso.
Prima però bisognava pensare alle cose importanti, per cui la mattina
dopo, freschi e riposati, andarono subito a trovare la zia Anastasija. Questa
abitava in un appartamentino ben curato, con le finestre affacciate sul Bois de
Boulogne, e vi regnavano due gatti: uno rosso con il campanellino al collo e
uno più piccolo, grigio a pelo lungo. Si vedeva nell’arredamento un’impronta
molto personale: c’erano sparsi dappertutto piccoli tavolini coperti di drappi,
e poi divanetti, cuscini e soprammobili. E una collezione di teiere e bricchi e
samovar.
Isabella fece un inchino, ma la zia subito l’abbracciò leggera e le disse
di accomodarsi. Il nipote, dopo averle dato due baci, si sedette vicino a
lei. Presto entrarono in argomento: la zia disse subito che aveva fissato un
appuntamento con il direttore della filiale della Banque de France, in modo
che i beneficiari del lascito potessero sapere direttamente tutto quello che li
riguardava.
Prima però raccontò nei dettagli quello che suo fratello le aveva detto di
tacere finché Fedja non si fosse sposato o non avesse iniziato una carriera.
“A questo punto non c’è più necessità di tenere segreta la cosa, per fortuna”,
disse, accarezzando il micione che le si era acciambellato in grembo.
13
Capitolo 7
l giorno dopo Ludovica tornò all’atelier del pittore. Questa volta si
accorse di non provare più l’irrequietezza abituale e notò addirittura
che l’ansia aveva lasciato posto al desiderio di aprirsi, di esprimere
se stessa e le proprie aspirazioni. Bene, pensò divertita. E ora a noi
due, Miguel.
Fu così che la fanciulla si accomodò sulla sedia, mentre il giovane le si
sedette accanto su uno sgabello, le prese le mani e le disse: “Ora raccontatemi
di voi. Non dirò più una parola sui miei quadri finché non mi avrete detto
qualcosa della vostra vita e dei vostri sogni.”
“I sogni! Ogni giorno sogno paesi incantati, luoghi del mito popolati di
piante rampicanti e di animali esotici dai colori brillanti, ma poi. . . ”
“Intanto prendo nota che avete parlato di colori, il che già ci avvicina.
Ma continuate, vi prego: e la notte, la notte che cosa sognate?”
Ludovica pensò che era venuto il momento di lasciarsi andare. Se no, poi,
non si sarebbe mai potuta perdonare l’occasione perduta. “Di notte sogno
un cavaliere invincibile che mi sollevi dalla mediocrità e che mi faccia visitare
i luoghi meravigliosi che immagino di giorno!”
“E a Milano non conoscete cavalieri invincibili?”
Lei per tutta risposta accennò a un sorriso, pensando che conosceva tanti
giovani, ma nessuno adatto a quel titolo. Mentre lui, Miguel, pareva proprio
il tipo adatto.
Poi lui le raccontò la propria storia: narrò della nascita altolocata e poi
del suo vagare per l’Europa dopo i rovesci del destino che in un sol colpo
gli avevano tolto agi e ricchezze. Le sembrò buffo che anche il suo pittore
I
14
avesse avuto un destino simile a quello di Fedor, il marito di Isabella. Ma
come per il conte russo, anche per Miguel Hormachevarria le cose si erano
poi sistemate. Infatti quei suoi strani dipinti incominciavano a piacere; e a
Venezia alcuni aristocratici e molti nuovi ricchi ne mettevano volentieri uno
in casa, anche per dimostrare di essere à la page.
“Ma torniamo a voi. Quanto tempo ancora resterete in laguna? E che
cosa farete al vostro ritorno nella città industriale?” disse Miguel, calcando
la voce su quell’aggettivo.
“Lo so, voi apprezzate di più i colori ora dolci ora cupi di queste isole,
il tremolio del mare in bonaccia, le scie delle gondole e il palpitare della
brezza. Ma io sto bene a Milano: è la mia città. Ci sono nata, la conosco e la
amo.” Questa difesa appassionata della metropoli stupì Ludovica stessa: non
avrebbe pensato di essere così milanese finché non aveva visto quella nota di
disprezzo sul viso del pittore.
Ma l’imbarazzo causato dalla sua uscita così decisa fu presto superato.
Parlarono d’altro e dimenticarono la diversità di opinioni.
Dopo che si furono separati nuovamente, Ludovica incominciò a rimproverarsi per quelle frasi troppo nette, che avevano messo a disagio l’interlocutore.
Ma - si diceva d’altro canto - come si può costruire un’unione su qualcosa di
non detto? Questo sì che avrebbe causato complicazioni in seguito. . . Ma poi
ricominciava a dispiacersi per la veemenza dimostrata, proprio lei che si era
lamentata a volte della modernità eccessiva della sua città, del secolo della
velocità e dello sferragliare dei tram!
Tornò in albergo rattristata e si ritirò in camera senza neppure salutare i
genitori.
15
Capitolo 8
e giornate a Parigi si erano fatte più fresche: l’estate vera
e propria era già passata, anche se il cielo rimaneva sereno e
lucido e le nuvole, anche quando si affacciavano, erano alte e
non davano quel senso di schiacciamento e di oppressione che
prende talvolta quando il tempo diventa brutto. Sui vestiti
leggeri, di lino e di cotone, di Isabella, aveva incominciato a fare la sua
comparsa qualche grazioso giacchino scuro di lana bouclée.
Il lascito del conte Koshkin per Fedor era di entità notevole e gli sposini in
luna di miele avevano finito per decidere di stabilirsi, almeno per il momento,
a Parigi. A Isabella dispiaceva molto andare a vivere lontano dai genitori
e da Carlotta, ma la soluzione pareva essere la migliore. Fedor non poteva
certo tornare a lavorare dai Portolenghi: questi si erano dimostrati di una
gentilezza e un’apertura mentale squisita, ma adesso il giovane conte aveva
fatto il grande salto prendendo moglie e voleva quindi affrancarsi da quella
posizione pur sempre subordinata. Le sue sostanze ora glielo permettevano!
Avrebbero ritirato ogni mese direttamente dalla banca quello che spettava
loro.
E così si erano messi a cercare casa con l’aiuto della zia, che si stava
dimostrando veramente cara ed efficiente. Ormai anche Isabella parlava con
una certa disinvoltura il francese, mentre Fedor lo parlava bene anche prima,
a differenza dell’italiano che gli era sempre stato un po’ ostico. Incominciarono così a parlare francese anche fra di loro e Isabella sorrideva nel pensare
a come si sarebbero stupiti i suoi familiari nel vederla già mezza parisienne.
Già, i suoi familiari. . . Ancora non aveva dato loro la notizia. Allora scelse
L
16
una bella cartolina con l’immagine color seppia di Notre-Dame e scrisse alla
sorella:
Cara Carlotta, noi bene. Spero che anche tu sia allegra e che ti prepari
al nuovo anno scolastico con serenità. Non mangiare troppi frutti di bosco in
campagna. Ti abbraccio, tua aff.ma sorella Isabella.
P.S. Forse vivremo un po’ a Parigi. Incomincia a preparare mamma e
papà.
Poi la mise in una busta, la imbucò e cercò di non pensarci più.
Ad ogni modo era chiaro che sarebbero ritornati a Milano per qualche
giorno, per accordarsi sulla spedizione dei bauli contenenti i vestiti e tutti i
regali di nozze. Poi a Parigi avrebbero dovuto comperare mobili e tappeti,
tendaggi, argenteria, insomma tutto il necessario per una vita agiata quale
era loro stata concessa dal destino.
Isabella sperava solo che nessuna nube venisse a oscurare la loro piena
felicità; le sembrava che tutto fosse troppo perfetto per durare e qualche
volta la prendeva uno strano sconforto che non si confaceva al suo carattere
sereno.
Fedor dal canto suo non si arrovellava: era in una situazione meravigliosa,
aveva tutto quello che desiderava e non pensava al futuro con apprensione.
La ciliegina sulla torta sarebbe stato l’arrivo di un figlio. “Ma non adesso”,
diceva, “è troppo presto. Prima dobbiamo sistemarci in una casa nostra. . . ”
E Isabella annuiva. Ma in cuor suo aveva paura di diventare definitivamente grande, addirittura mamma! Si era sposata con amore e allegria, ma
forse non era ancora matura per il passo successivo: avere un figlio.
17
Capitolo 9
estate era finita e la laguna pareva improvvisamente intristire i pochi villeggianti che ancora rimanevano al Des Bains:
l’aria grigia e umida invitava a richiudere le sedie a sdraio e
a ritirarsi nei saloni, dove le giornate passavano svogliate, fra
un tè, una lettura e qualche conversazione mondana.
I genitori di Ludovica decisero quindi di ritornare a Milano e lei non se ne
dispiacque, tanto ormai Miguel era partito per un’altra delle sue avventure.
Suo cugino Matéo di Nizza l’aveva invitato a stabilirsi da lui, in attesa di
trovare un atélier idoneo. L’aveva convinto dicendogli che tutto il bel mondo
passava per la Costa Azzurra e che lì si sarebbe potuto dedicare liberamente
alla sua pittura; inoltre Matéo poteva metterlo in contatto con ambienti
dell’avanguardia, cosa che eccitava Miguel oltre ogni dire. Finalmente stimoli
nuovi, un mondo internazionale con cui confrontarsi!
Nei bei giorni d’estate aveva iniziato e poi quasi portato a termine il
ritratto di Ludovica: era un po’ cubista, un po’ espressionista e perfino con
una vena liberty molto nuova e originale. Il padre ne era rimasto sconvolto,
ma non l’aveva fatto capire alla figlia, che pareva invece entusiasta del lavoro;
aveva pagato - caro - il quadro ancora prima di entrarne in possesso, cercando
così di allontanarlo dal pensiero. Però mancava ancora qualche ritocco e così
Miguel finì per partire per la nuova destinazione con il quadro, riservandosi
di spedirlo una volta terminato.
A Ludovica però venne un’idea geniale: e se avesse incaricato l’amica Isabella di ritirarlo? In fondo lei e Fedor dovevano tornare a Milano a prendere
i bagagli e quindi sia all’andata che al ritorno si sarebbero fermati a Nizza.
L’
18
Sapeva com’erano affezionati a quella città, che per loro aveva significato
il raggiungimento della libertà di stare insieme e di amarsi senza più alcun
ostacolo.
Appena l’amica glielo propose, infatti, Isabella si dichiarò felice di accontentarla, e di accontentare così anche se stessa. Va bene che era arrivato
settembre e i colori sarebbero stati diversi da quelli che avevano accolto i
giovani sposi in piena estate: il giallo, l’arancio, il rosso. E quell’azzurro
pallido e luminoso al tempo stesso, quando il mare e il cielo si uniformavano,
scintillando. Ma l’idea le piaceva ugualmente, e a Fedor ancora di più, visto
che quell’albergo lo aveva scovato lui durante i suoi giri per l’Europa. E lì
aveva conosciuto il signor Portolenghi, che lo aveva voluto con sé a Milano;
e così alla fine aveva conosciuto sua moglie. . . Per cui tutto riportava sempre
i due innamorati a parlare di Nizza.
Una settimana dopo, si presentò nella hall un bel giovane bruno.
“Il conte e la contessa Koshkin, per favore”, disse, appoggiando per terra
accanto a sé lo spigolo della cornice di una grande tela; e allungò al portiere un
biglietto da visita con scritto Miguel Hormachevarria - pittore e ritrattista.
19
Capitolo 10
ullo scalone illuminato da splendidi lampadari apparve la giovane in un’aura di bellezza smagliante. E pensare che solo un
paio di anni prima Isabella si struggeva sentendosi goffa e inadatta a piacere ai giovanotti! Quanto aveva invidiato Ludovica per
quella sua disinvoltura e per la capacità di presentarsi ai ragazzi
sotto la luce migliore! Ora sembrava invece che i ruoli si fossero invertiti,
perché Miguel rimase abbagliato alla vista della giovane, tanto che ci mise
qualche secondo prima di riprendersi, di fare un inchino e di presentarsi alla
coppia.
A Fedor naturalmente non sfuggì l’entusiasmo con cui il pittore si presentò, baciando la mano di Isabella in un soffio. Ma decise di essere superiore
alle meschinità e di non essere - o non apparire, per lo meno - geloso. Lei dovette faticare per non essere troppo contenta di aver fatto colpo: la conquista
non era stata forse fino a poco prima la cosa più ambita per loro ragazze?
Ma ora diceva a se stessa che no, era una donna sposata e non doveva gioire
se piaceva a qualcuno.
Ma. . . Miguel era bello davvero e per un attimo, un attimo solo, tutto le
parve possibile.
A ogni modo passarono nel salone e da lì in terrazza, dove si sedettero
ordinando una bibita fresca: era pomeriggio, c’era il sole e faceva piacere
sorseggiare spremute d’arancia, pompelmo e limone di fronte al mare. Così
si attardarono a parlare di tutto, di arte come di amicizia, dei viaggi e delle
persone conosciute.
Venne l’ora di cena e Fedor lo invitò a restare con loro. Miguel guardò
S
20
Isabella e rispose: “Con molto piacere”.
La cena, a base di delicati filetti di pesce fresco al burro, piacque a tutti,
come il vino Sables d’Oc. Il dessert era un trionfo di pesche su gelato alla crema, guarnito con granella di noci: squisito. Ma più che occuparsi del menu,
i commensali parlavano e ridevano e si studiavano con fare di noncuranza.
Terminata la cena e consumato anche il liquore digestivo alle erbe, il pittore - finalmente! - si accomiatò, lasciando ai nuovi conoscenti il ritratto della
sua conquista estiva. Era fatto così: amava l’arte, era un gentleman, ma non
si era mai trovato bene nei panni dell’innamorato. Le donne gli interessavano,
altroché, ma non voleva legarsi a nessuna in particolare, preferendo invece
svolazzare dall’una all’altra senza trovarsi soffocato in un rapporto troppo
simile al fidanzamento.
Quella notte Isabella ripensò alla serata e non poté impedirsi di ripercorrere ogni sguardo, ogni brano di conversazione. Egli aveva un modo di fare
perfetto per conquistare un’anima candida; e poi era successo così anche con
Ludovica, ben più esperta di questioni sentimentali. E ora alla giovane era
chiaro che a lui di Ludovica non importava un bel niente, se si era messo a
fare il cascamorto con Isabella, oltretutto in presenza del marito di lei!
Fedor quella sera faticò non poco a prendere sonno. La sua esperienza
gli diceva che quel pittore saltato fuori da non si sa dove era potenzialmente
pericoloso: una di quelle figure che sembrano fatte apposta per creare scompiglio all’interno delle coppie. Voleva fidarsi della giovane moglie, ma vedeva
l’intruso come un possibile diavolo tentatore.
21
Capitolo 11
i pensò il destino a risolvere la situazione e a superare il turbamento di Isabella e il timore di Fedor: infatti il mattino
dopo arrivò una lettera dai Valleolona, che chiedevano agli
sposi di raggiungerli al più presto a Milano. Nella missiva,
piuttosto laconica, dicevano di dover parlare con loro di questioni urgenti; e così nel giro di un paio d’ore i due erano già pronti a lasciare
l’albergo, contenti tutto sommato dell’imprevisto che li faceva scappare a
gambe levate da una situazione ambigua.
Il cocchiere dell’hotel li accompagnò alla stazione. Durante il viaggio non
parlarono molto: Isabella leggeva Les fleurs du mal di Baudelaire, tanto per
far capire in quale stato d’animo si trovava. Il giovane conte guardava fuori
dal finestrino, con fare a metà strada fra il distaccato e l’irritato, e ogni tanto
si alzava per andare a fumare il sigaro lontano da Isabella, che ne detestava
l’odore.
All’ora di pranzo andarono nella carrozza-ristorante, dove incrociarono
un’umanità varia: signori con panciotto, giovani rampanti con damigelle dalla
faccia di bambola, signore dai cappelli con veletta. Il loro umore non variava
granché alla vista dei viaggiatori né di cibi e bevande; era chiaro che una
sottile idea di allontanamento si era infiltrata tra di loro e ne erano sgomenti.
Come tutte le coppie del mondo di tutti i tempi e di tutte le latitudini, mai
avrebbero pensato che una crisi potesse toccare loro. Gli altri sì, ma non
loro!
Quando arrivarono a casa, non trovarono nessuno ad accoglierli, tranne
il buon Luigi, che s’ingegnò come poteva a sistemare gli sposi e i bagagli
C
22
nella stanza preparata per loro; poi si precipitò a prendere Carlotta, che era
andata da Bianca a studiare.
Quando la piccola entrò in casa, una parte del gelo si sciolse. Lei si
precipitò ad abbracciare sorella e cognato, cinguettando con quel suo modo
di fare un po’ infantile che conquistava tutti. Disse che la liaison con Raffaele
per ora continuava, “fino a nuovo ordine”, annunciò. E Isabella pensò che
doveva essere proprio bello vivere con la superficialità di sua sorella!
“E voi? Chissà quante cose avete da raccontare. . . ”, disse tutta festosa.
“In realtà non molto”, le rispose Isabella tutta assorta.
Carlotta capì che c’era qualcosa che non andava, non chiese altri particolari e si lanciò a raccontare le novità. La scuola innanzitutto: c’era una
nuova compagna che veniva addirittura dalla Danimarca, per il resto aveva
apprezzato le elegie di Catullo e I Canti del Leopardi.
La conversazione andò avanti un po’ su questo tono, finché entrarono in
gran fretta, tutti accaldati, il papà e la mamma di Isabella. Ci furono nuovi
abbracci e qualche lacrima; i genitori non facevano che rammaricarsi di essere
arrivati tardi “proprio oggi”. Alla fine, tutti seduti in salotto davanti a un
buon tè con i biscotti, incominciarono i discorsi seri.
Venne fuori che, a causa dei lavori di manutenzione alla casa di campagna,
la consistenza del patrimonio di famiglia si era molto assottigliata. Avevano
dovuto affrontare il restauro del tetto, di alcuni pavimenti e del camino, poi
c’era stata la spesa per il giardiniere, visto che Luigi da solo non riusciva ad
arrivare a tutto.
23
Capitolo 12
opo queste prime lamentele, incominciò a dire che i tempi erano cambiati, che la seteria di famiglia non poteva più
andare avanti per inerzia come aveva fatto fino ad allora e
necessitava di una mente giovane che riuscisse a darle una
sterzata. In pratica il signor Valleolona stava chiedendo di
poter tirare i remi in barca, disinteressarsi delle incombenze di ordine pratico
e dedicarsi alla lettura e a qualche passeggiata. Espresse anzi questo concetto in modo ancora più chiaro, nominando Fedor suo successore alla guida
dell’azienda; unica condizione era, naturalmente, che gli sposi si fermassero
a Milano e che rinunciassero al “folle sogno” di vivere a Parigi.
A Isabella andò attraverso il biscottino che stava assaporando. Suo marito
invece si mostrò subito interessato e, pur con il suo italiano stentato, ringraziò
amabilmente il suocero e si lanciò in una serie di domande piuttosto dettagliate sul lavoro che gli era stato offerto. Parlò anche della necessità di una
fase di transizione, per poter ricoprire l’incarico in modo più consapevole.
A Isabella cascò il mondo addosso. Aveva pensato, nella sua ingenuità,
che bastasse sposare la persona amata per risolvere in un colpo solo la propria
esistenza. Capì che il sogno di vivere a Parigi - loro due, soli e felici - era
tramontato: la loro vita si sarebbe svolta nell’ambiente della buona borghesia
milanese, com’era scritto nel destino di una fanciulla Valleolona.
Nel frattempo Fedor si andava entusiasmando all’idea di avere di fronte
a sé la prospettiva concreta di un lavoro, perché, sebbene nobile di nascita,
non era entusiasta come Isabella all’idea di girovagare senza scopo per mezza
Europa. Lui in fondo quell’ esperienza l’aveva già fatta prima di sposarsi!
D
24
E in un angolo della mente qualcosa gli diceva che anche per la giovane
moglie sarebbe stato meglio restare nel suo ambiente, vicina alla famiglia e
alle amicizie di sempre, piuttosto che vivere in una città straniera, oltretutto
così all’avanguardia. Aveva temuto che la bella vita le facesse venire grilli
per la testa, in poche parole temeva che l’allontanasse da lui. E forse non
aveva tutti i torti, perché Isabella, per quanto innamorata, era molto giovane
e carina e non aveva avuto altre storie, per cui poteva anche succedere che
le venisse voglia di sperimentare qualche piccola pazzia.
La giovane con una scusa prese per mano la sorella e la portò con sé
nella camera dove avevano dormito insieme fino a poco tempo prima. Con
lei si lasciò andare finalmente a un pianto dirotto, quel pianto che aveva
ricacciato in gola fino dalla partenza, poi durante quel viaggio silenzioso:
almeno adesso poteva sfogarsi! Carlotta le carezzò i capelli, la strinse in un
abbraccio, comunicandole con semplicità tutto il proprio affetto; però in cuor
suo pensò che era bene aspettare a fare progetti di fidanzamento con il suo
Raffaele. Non voleva certo trovarsi di lì a poco a piangere lacrime amare
come sua sorella. . .
Intanto l’ora di cena si avvicinava e le sorelle si misero in ordine per
raggiungere gli altri in sala.
25
Capitolo 13
er cena c’erano i tortellini in brodo, seguiti dal bollito misto.
L’atmosfera si era un po’ rasserenata: soprattutto si era allentata la tensione e quella specie di elettricità che vagava a
mezz’aria a sottolineare vaghi ostacoli e difficoltà. Il padre di
Isabella si dimostrò molto affettuoso con la figlia tornata da
lui e si prodigò in carezze, tanto che alla fine tutti erano contenti di quel
ritrovarsi.
Le ragazze decisero di andare l’indomani da Ludovica con Fedor e Raffaele: stabilirono di far venire quest’ultimo a casa e poi di farsi accompagnare
da Luigi in carrozza.
Quando arrivarono, Ludovica scese le scale altera, tanto che Isabella stentò a riconoscere in lei l’amica di tanti anni di scuola, quella con cui confidarsi,
a cui dire tutto, quella che ti è vicina nei momenti tristi. O forse aveva solo
immaginato che lei fosse tutto questo? Forse era stato solo il bisogno di avere
un’amica del cuore a farle credere di averla trovata?
A ogni modo si abbracciarono un po’ tutti e solo allora si resero conto che
mancava alla riunione una persona importante: Bianca, l’amica di Carlotta,
senza la quale il giovane conte russo e la bella studentessa milanese non si
sarebbero mai conosciuti.
Ogni unione, per quanto grande, rara, unica (agli occhi dei protagonisti),
dipende anche da una serie di coincidenze fortuite e da persone che la sorte
sceglie per far sì che proprio in quel dato momento i due s’incontrino. Nella
vita come sulla scena.
Dopo che Fedor ebbe lasciato nelle mani del maggiordomo il ritratto di
P
26
Ludovica fatto da Miguel Hormachevarria, la compagnia decise di ritrovarsi
al più presto da Bianca. Nel frattempo però venne offerto l’immancabile tè e
le chiacchiere si sparsero nell’aria tutta piena del suo aroma. Per la padrona
di casa fu inevitabile calcolare che proprio lei era rimasta al palo: la sua amica
e coetanea si era sposata e perfino la sorellina di lei si era semi-fidanzata con
un ragazzo, che oltretutto era proprio un componente della compagnia di
Ludovica!
La storia con Miguel era stata archiviata: lui non si era più fatto sentire,
dopo un primo laconico biglietto con una frase di quelle che preludono alla
fine di un amore, tipo i miei più rispettosi saluti, con l’aggiunta: La prego di
porgere i miei ossequi ai suoi ottimi genitori. La cosa le dispiaceva, ma più di
tutto era ferita nell’amor proprio. Di solito era lei a stancarsi, o al massimo
si trattava di un gioco di ruolo in cui nessuno dei protagonisti impegnava
qualcosa di sé. Invece questa volta aveva proprio fatto la figura della sciocca,
pensando che potesse nascere chissà quale grande amore con un avventuriero
del genere. . .
Quindi è chiaro il motivo per cui il quadro finì ad ammuffire in soffitta tra
i bauli di biancheria ricamata e i giocattoli del nonno. In casa non si parlò
più del pittore e un po’ per volta ne sfumò il ricordo, con grande soddisfazione del capofamiglia, che l’aveva subito inquadrato come perditempo e di
conseguenza guardato storto.
27
Capitolo 14
Portolenghi si offesero un po’ quando seppero che Fedor era rientrato a Milano da alcuni giorni e non si era ancora fatto sentire, ma
invitarono ugualmente lui e Isabella a pranzo la domenica successiva.
Lei pensò che era stufa di una vita così vuota, fatta di incontri mondani con contorno di tè, pranzi e cene: era proprio quello il mondo
da cui aveva sperato di fuggire sposandosi e andando a vivere addirittura in
un altro Paese! Suo marito al contrario gustava la nuova posizione di invitato anziché di maggiordomo nelle famiglie della buona borghesia milanese: si
dimostrava disinvolto, perfettamente a proprio agio. Anche quel suo italiano
un po’ strano aggiungeva fascino esotico a un tipo così interessante.
A tavola si parlò e si rise. Isabella si trovò a pensare che era lei l’intrusa:
Bianca era tutta felice e radiosa per quell’incontro, i genitori di lei alla fine
furono contenti di aver ritrovato Fedor, lui sprizzava allegria. Ma lei che cosa
ci faceva lì? Il suo gioco l’aveva portata troppo lontano. . .
Appena finito di mangiare, disse che aveva mal di testa e pregò il marito
di accompagnarla a casa. Quale casa, poi? Per ritrovarsi in casa dei genitori
tanto valeva non essersi sposata affatto! Di fronte alle sue insistenze, Fedor
si decise a salutare, ringraziare e andare via. In fondo aveva ragione Isabella:
quale casa? Anche a lui dispiaceva vivere dai suoceri, ma si diceva che era
una situazione transitoria, che sarebbe durata solo per il tempo necessario.
Ma capiva che si sarebbe comunque trattato di anni, prima di aver messo da
parte i soldi necessari ed essersi assestato alla guida dell’impresa di famiglia.
E per la prima volta pensò: e se Isabella nel frattempo si stancasse di me?
Il pensiero era intollerabile, per cui stabilì così sui due piedi che dovevano
I
28
avere un bambino senza più rimandare. . .
Però quella sera non poté parlarle, visto che appena arrivati a casa lei si
mise a letto e fece finta di addormentarsi subito. Ma l’indomani, di fronte al
tavolo apparecchiato per la colazione, approfittando del fatto di essere loro
due soli, lui le prese la mano e le disse: Isabella, dobbiamo avere un bambino.
Lei si girò lentamente verso di lui, lo guardò con stupore e dopo un tempo
infinito rispose solo: Sì. E si baciarono arrossendo per l’emozione.
In quell’istante entrò Luigi con passo incerto. Gli dispiaceva interrompere
quel tenero momento di intimità fra gli sposi, tuttavia doveva consegnare un
telegramma che arrivava da Parigi.
Zia Anastasjia comunicava l’improvvisa morte del padre di Fedja e la
data del funerale, senza nessuna ulteriore spiegazione. Il giovane sbiancò e
Isabella lanciò un piccolo grido; era un’ipotesi che non avevano nemmeno
preso in considerazione. Il conte Koshkin era un uomo solido, ancora in
salute; e Fedor, tutto preso dalla nuova vita, aveva rimandato il progetto di
andare in Russia a presentare la sposa in famiglia, tanto più che la situazione
obiettiva della sua patria era tale da sconsigliare un viaggio laggiù, per il
momento.
29
Capitolo 15
evo partire subito, pensò Fedor, il quale avrà avuto qualche
piccolo difetto o una certa superficialità, ma era sicuramente
molto attaccato alla famiglia d’origine. E poi i suoi genitori
e i vari fratelli e sorelle a suo tempo avevano costituito un
clan molto affiatato, in cui regnava armonia.
Come aveva potuto dimenticarli, ora che laggiù la situazione si era fatta
drammatica? Eppure lui stesso aveva visto l’inizio della rivoluzione e avrebbe
dovuto immaginare il pericolo che chiunque - e soprattutto una famiglia di
nobili origini - poteva correre nell’esaltazione generale!
Quindi guardò un attimo Isabella e corse in camera, deciso a rifare le
valigie che aveva aperto da pochi giorni. La moglie gli andò dietro a occhi
spalancati: non sapeva bene che cosa ci si aspettasse da lei, era così giovane
e non riusciva ancora a calarsi nel ruolo di signora! Notò che Fedor era
sconvolto e al tempo stesso lontano, come se la sua terra, la sua famiglia
costituissero per lui un’attrazione irresistibile. Ed era come se tutto questo
lo allontanasse da lei. . .
Fu prenotato il primo treno per Venezia; da lì avrebbe preso la coincidenza
per Trieste, nell’impero austro-ungarico. E poi chissà quale altra linea. Disse
alla moglie che non poteva portarla con sé perché era troppo pericoloso, e lei
ne fu sollevata.
Così dopo un paio d’ore Luigi lo accompagnò alla stazione insieme a
Isabella. Nell’abbracciarlo le sfuggì una lacrima, al pensiero di dover ricominciare a stare lontana da lui; ma più di tutto era seriamente preoccupata
per l’incolumità del suo sposo. Un po’ bambina lo era, ma non sprovveduta
D
30
al punto di ignorare il pericolo a cui lui andava incontro! E nella stazione
ventosa stettero vicini, quasi senza parole; solo Isabella di tanto in tanto
stringeva il nastro bianco del cappello che rischiava di volare via. Lui salì in
carrozza, ci fu il fischio e poi il lento avviarsi sferragliante del treno, finché
disparve in fondo all’orizzonte.
Allora la giovane tornò silenziosa a casa, scortata dall’affezionato tuttofare. Appena entrata si tolse cappello, guanti e soprabito, e si mise in piedi
dietro il vetro a guardare fuori: guardare senza vedere, immaginando un
viaggio pieno di imprevisti per lui e un lungo periodo di solitudine per sé.
Passarono alcuni giorni grigi, finché arrivò una lettera di Fedor dal confine
con la Russia: in essa diceva che era arrivato a un passo dalla sua terra e che
forse per un po’ non avrebbe potuto mandare notizie di sé. Per ora tutto
procedeva bene, aveva dormito lungo il tragitto ed era riuscito ad avvertire
la famiglia del proprio arrivo.
Isabella aveva ripreso l’abitudine di leggere i libri della biblioteca paterna
e al momento la interessavano i grandi romanzi dell’800. Aveva iniziato Le
rouge et le noir di Stendhal, in francese naturalmente, così poteva sognare
di essere ancora in Francia e di vivere una qualche grande avventura o storia
d’amore, eventualmente anche con un profittatore.
31
Capitolo 16
e notizie dal fronte - come diceva fra sé - tardavano ad arrivare,
per cui Isabella ricominciò a uscire: abbandonò giorno dopo
giorno l’isolamento in cui si era rifugiata, riprese a frequentare
Ludovica, si dedicò agli acquisti. I genitori non sapevano bene
come commentare la situazione, che certo si presentava ben
strana: la loro figlia, sposata ma sola, abitava di nuovo con loro e non perché
si fosse separata, ma. . . non si sa bene perché. Naturalmente tutti i loro
conoscenti acuivano questa sensazione con domande sfacciate o appena velate
di finta partecipazione, di modo che alla fine i Valleolona si sentivano irritati
e scontenti verso la figlia, rea soltanto di avere scosso la loro pacifica vita.
A maggior ragione quindi Isabella andava volentieri a trovare l’amica di
un tempo. Dopo un po’ diventò una piacevole abitudine il tè pomeridiano
con Ludovica, condito di confidenze, lacrime e sospiri. In breve, si capiva
benissimo che il tempo intercorso fra la loro adolescenza e la giovanissima
maturità aveva trasformato le due ragazze fino nel profondo.
Quasi ogni giorno ricordavano sorridendo i tempi del liceo, rammentando
aneddoti sui professori e sui compagni, ma ormai erano momenti lontani,
più in senso psicologico che puramente cronologico. Ludovica si era stancata
di inventare grandi passioni amorose, anche perché ultimamente era rimasta
scottata: usciva ancora con gli amici, ma senza essere innamorata di nessuno,
solo sperando di conoscere un giorno quello giusto che. . . E qui il pensiero
s’interrompeva, per noia o per scaramanzia. Isabella dal canto suo faceva la
figura di donna navigata: era sposata, lei, e aveva anche vissuto a Parigi.
Due cose che all’amica mancavano.
L
32
Quindi ora la situazione era diventata paritaria, anzi quasi quasi la bilancia pendeva un po’ dalla parte di Isabella, che fino a poco tempo prima aveva
fatto la parte del brutto anatroccolo in confronto a Ludovica, più elegante,
più spigliata, più di mondo.
Una cosa però Isabella non riusciva a confidare all’amica: i dubbi che le
erano venuti di recente sul proprio matrimonio, che ora giudicava precipitoso.
Era un pensiero che la disturbava notte e giorno e dal quale non riusciva a
sfuggire, ma faceva fatica ad ammettere la sconfitta con se stessa, figuriamoci con gli altri. Non poteva dirlo ai genitori che, pur con tutto l’affetto,
avrebbero fatto una tragedia, dandole di bambina viziata. Ci sarebbero stati
pianti e strilli, “l’avevamo detto, noi. . . ”, ecc. E non poteva dirlo nemmeno
a Ludovica, perché di punto in bianco avrebbe perso il prestigio personale
conquistato con il matrimonio.
Pensò che doveva convincersi che tutto andasse bene. Chissà, col tempo
le cose si sarebbero aggiustate. Le avevano sempre detto così, stuoli di zie,
di suore e di educatori. Tutto si sarebbe aggiustato, come nelle fiabe che le
piacevano tanto da bambina. Si era immedesimata troppo nella bella addormentata risvegliata dal bacio del principe, ora tutto pareva già in frantumi.
Ma no, bastava convincersi che non fosse così, per riavere la gioia e l’amore
di prima.
“Quando lui torna, dobbiamo assolutamente pensare a un bambino”, disse
convinta a se stessa quella sera.
33
Capitolo 17
ritornò in effetti Fedor, stanco e rattristato. Il rientrare in
famiglia gli aveva causato più dolore che altro, visto che il
motivo, già tragico in sé, si inseriva in una situazione sociale
critica. I rivolgimenti causati dalla Rivoluzione d’Ottobre erano in atto e la stabilità era ancora lontana; poi non era chiaro
chi avrebbe prevalso alla fine: quale corrente, quale leader. In giro si captava
la paura, oltre alla speranza.
La grande casa avita dei Koshkin era andata perduta, confiscata e assegnata ad altre famiglie. Loro avevano salvato la pelle ed erano andati ad
abitare in una cittadina a qualche chilometro dalla loro ex-tenuta, ma i pochi soldi rimasti non consentivano di vivere decentemente e così il padre di
Fedor si era ammalato di tisi e di stenti e poi era morto, gettando tutti nella disperazione. Il giovane capì che bisognava tentare di toglierli da lì, ma
come farli espatriare? Poi, chiaramente, avrebbe dovuto restituire parte del
lascito, che il padre gli aveva assegnato, in favore della mamma e dei fratelli
più piccoli. E già tremava all’idea di dover convincere Isabella a rinunciare
a un tesoro che il destino aveva fatto piovere sulla loro testa all’improvviso e
che ora altrettanto all’improvviso stava per togliere.
Il funerale era stato di una semplicità estrema: poca gente infreddolita
dietro al feretro, i parenti più stretti e qualche raro conoscente che si era
sentito di rischiare per rendere omaggio a un ex-aristocratico travolto ora
dalla sventura. Poi, appena finita la cerimonia, erano tutti rincasati e avevano incominciato a studiare un piano per raggiungere Parigi. Alcuni loro
conoscenti erano andati in Europa alle prime avvisaglie di quello che doveva
E
34
succedere in Russia, salvando così parte del patrimonio; il conte Koshkin invece si sentiva al sicuro nella sua tenuta, lontano da San Pietroburgo e dalla
storia.
Ma ora che gli avvenimenti gli avevano dato torto, Fedor decise che almeno
la mamma e i fratelli dovessero seguire gli altri fuorusciti. Promise che, al
rientro in Italia, avrebbe subito preso contatto con le famiglie russe che la
zia Anastasjia gli aveva presentato. Anzi, si sarebbe recato di persona a
Parigi per pianificare il loro arrivo. Dopo aver baciato e abbracciato tutti ma
proprio tutti, compreso il cagnolino di casa bianco e nero di taglia piccola e di
dubbia genealogia, partì con un nodo alla gola. Lo attanagliava lo sconforto
e si chiedeva se avrebbe trovato nella giovane moglie un’alleata o una nemica;
quindi il viaggio, già di per sé lungo e tortuoso, fu segnato dall’ansia.
Arrivò a Milano e fece la sua comparsa in casa Valleolona in una fredda
mattina di novembre. C’erano già le prime brinate notturne, che lasciavano
sui marciapiedi e sulle carrozze un sottile strato bianco; Fedor suonò alla
porta, qualcuno andò ad aprire e nello stesso tempo Isabella volò giù dalle
scale per abbracciarlo. Le era mancato! Adesso lo sapeva: lo amava ancora,
non solo, ma durante quel breve periodo di separazione aveva avuto paura
per lui e per il loro futuro. Quando dopo un abbraccio che durò un intero
minuto si scostò da lui per vederlo in viso, notò com’era bello ai suoi occhi
quel ragazzo pallido e teso, con pastrano e colbacco più adatti alla steppa
che a Milano.
35
Capitolo 18
giorni seguenti furono molto importanti per la giovane coppia e
servirono a porre le basi della loro vita a due. Intanto Fedor spiegò
che la fortuna, cioè il lascito, era da considerare sparita; ma su questo
punto Isabella non parve particolarmente dispiaciuta. All’inizio un
po’ aveva sognato, ma si era già accorta che al marito non piaceva
l’idea di vivere da possidente senza svolgere un lavoro vero e proprio, e ora che
il signor Valleolona gli voleva cedere la seteria, l’occupazione seria e retribuita
non sarebbe mancata.
Poi le spiegò che doveva andare quanto prima a Parigi per incontrare la
zia e per sistemare le cose in modo che i famigliari potessero emigrare là.
A Isabella passò definitivamente la voglia di vivere nella metropoli francese:
in futuro i Koshkin lì residenti sarebbero stati troppi e lei non si sentiva la
voglia di diventare una di loro. Moglie di Fedor certo, ma una contessa russa,
non esageriamo!
Da ultimo decisero di cercare seriamente una casa tutta per sé a Milano,
con la prospettiva di ingrandire presto la famiglia.
Il giovane fu preso da un’attività frenetica: la mattina andava in fabbrica,
dove cercava di impadronirsi di tutte le cognizioni necessarie per dirigerla con
abilità e oculatezza. Poi aveva stabilito una fitta corrispondenza con privati
e associazioni di Parigi, tra cui il Comitato di Amicizia Franco-Russa, oltre
naturalmente alla zia Anastasija. Isabella lo aiutava nello scrivere lettere a
questo e a quello per ottenere il sospirato passaporto per la mamma e i fratelli. Inoltre entrambi si erano messi in caccia di un appartamento, e questa
fu l’operazione più difficile. Non era semplice trovare una casetta intima ma
I
36
elegante, abbastanza centrale ma ariosa, a un piano basso e con il bagno. Ne
videro a decine, dalle parti di Brera e sui navigli, alcune belle, in zona Monforte - corso Venezia, decisamente troppo care, altre più periferiche e quindi
più economiche, che mancavano però di uno o l’altro dei requisiti richiesti.
Alla fine - si era ormai a ridosso di Natale - trovarono quella che parve loro la
soluzione migliore: un appartamento caratteristico vicino a Porta Romana,
un po’ fuori mano, che richiedeva un sostanziale restauro, ma che trovarono
troppo joli per lasciarselo sfuggire. Diciamo subito che non era a un piano
basso, ma anzi al quinto e ultimo, ma aveva una terrazza enorme, che avrebbero potuto sistemare quasi a giardino, e da questa si saliva a una torretta,
che immaginarono subito come studio o nido per loro due. Il bagno era rudimentale, le stanze non tutte grandi, gli infissi andavano rimessi a nuovo,
ma una volta rimesso a nuovo, lo sentivano, sarebbe diventato esattamente
quello che avevano sognato.
Inoltre si affacciava su una piazza verde, quindi sognarono di mandare un
giorno la balia con un loro bambino ai giardini sotto casa. Ma non corriamo
troppo: per ora non c’era né il bambino né la balia.
Per Natale avevano già firmato il contratto d’affitto e in ufficio Fedor
aveva messo un biglietto con il proprio nome fuori dalla stanza.
Subito dopo le feste andrò a Parigi a cercare casa anche per i miei, promise
a se stesso.
37
Capitolo 19
a questo momento, Isabella si gettò a corpo morto nella
sistemazione della casa, andando a visitare mobilifici insieme a Carlotta o alla mamma; e sempre voleva guardare e
analizzare in dettaglio tutti gli ambienti presentati in esposizione, come se non fossero mai abbastanza belli e personali
e intimi per il loro nido. Visitava anche negozi di tende e di passamanerie,
valutando ad esempio tutte le tonalità di giallo presenti, prima di scegliere
la stoffa per i tendaggi del salotto, o i vari tipi di gobelins e di ricoperture
per le poltrone.
Inoltre c’era da pensare alle ceramiche, all’argenteria, ai quadri e ai tappeti. Praticamente incominciò ad avere ogni giorno l’agenda piena di impegni
e di incontri: la sua mente era, come la sua giornata, piena solo dei preparativi per la casa, e il cuore era diventato asettico, come se Isabella non avesse
spazio all’interno di sé né per gli amici, né per i parenti, e neanche. . . per il
marito. Smise di nuovo di frequentare Ludovica, che invece nel frattempo
si era data di nuovo alla mondanità, frequentando una nuova compagnia di
rampolli-bene, di figli della migliore borghesia milanese, di imprenditori, di
liberi professionisti.
Si avvicinava il Natale, quando Isabella si scoprì incinta.
Sul momento non riuscì a mettere in fila i pensieri: capiva che tutto
cambiava da quel momento in poi, sapeva confusamente che adesso i problemi
di ordine pratico improvvisamente impallidivano di fronte alla grande notizia,
ma ancora era incerta sulla piega che avrebbe preso la sua vita. Quando diede
la notizia a Fedor, questi ne fu felice fino nel profondo. “È magnifico”, le disse
D
38
dolcemente prendendole la mano nelle sue e guardandola negli occhi con uno
sguardo che esprimeva ringraziamento. “Ora non ti devi più stancare tanto:
i preparativi sono a buon punto, fatti aiutare dalla mamma per ordinare le
ultime cose e tu riposati: leggi, ricama, prepara delle belle ghirlande natalizie,
ma ti prego, non stancarti, non farmi stare in pensiero.” Sembra mio padre,
pensò Isabella.
Però fece come le veniva richiesto, non solo dal marito ma dai genitori, da
parenti amici e conoscenti. Ma il riposo faceva sì che avesse tutto il tempo per
pensare di più alla propria situazione, per cui sentiva in maniera bruciante
le cose che perdeva nel diventare madre, oltre che moglie.
Il Natale passò in un’atmosfera calda di affetto, fra le persone che aveva
più care al mondo. Il signor Valleolona aveva ordinato un certo numero di
panettoni alla confetteria Baj di corso Vittorio Emanuele, e a tutti quelli che
venivano a fare gli auguri offriva una buona fetta del dolce milanese per eccellenza, insieme a un bicchiere di spumante. Tutti i parenti volevano informarsi
in modo speciale da Isabella riguardo alla data presumibile della nascita del
primogenito. E tutti si prodigavano in consigli, aneddoti e abbracci; qualche
vecchia signora versò addirittura una lacrimuccia di commozione al pensiero
che lei, che fino a poco prima non era che una bambina, stesse per diventare
mamma.
Si fece la tombola e solo nel tardo pomeriggio Carlotta riuscì a vedere
Raffaele, il quale a sua volta era rimasto invischiato nei festeggiamenti fino
a quell’ora. Stettero a parlare un po’ in anticamera e poi con un bacio si
dettero appuntamento all’indomani.
39
Capitolo 20
Santo Stefano ognuno era in un posto diverso dall’altro.
Fedor, come prestabilito da tempo, partì per Parigi; il baule
era stato preparato già da alcuni giorni, la zia Anastasjia
era stata avvertita con un telegramma e a lui, il nipote, non
rimase che dirigersi con decisione alla stazione scortato da
Luigi il factotum. Questa volta Isabella non lo accompagnò, ma rimase a
letto sotto la trapunta a poltrire. Si fece portare dalla donna la colazione a
letto e si mise a sfogliare soprappensiero il proprio diario: tutto le parve così
lontano, nel tempo e nello spazio ma anche nel proprio io. Forse è questo
il solo modo per diventare adulti, pensò; ma non era tanto sicura di volerlo
diventare.
Dopo un po’ di lettura, entrò in camera Carlotta, ancora in vestaglia.
“Come ci si sente da sposata, sorellina?”, azzardò la piccola.
“Così”, rispose la maggiore con un rapido gesto della mano.
“Ma no, davvero, dev’essere bello sentirsi guardate con rispetto. E poi
fra un po’ sarai anche. . . ”
“Non cominciare anche tu, per carità. Non so ancora come mi sentirò
quando ci sarà il bambino, non lo so, non lo so. Da un lato sono felice, e poi
tutti intorno si complimentano come se avessimo raggiunto lo status che il
mondo si aspettava. Ma come sarà la nostra vita?”
“Bella!”, rispose Carlotta. E l’abbracciò sorridendo.
Ecco, pensò Isabella, con lei sto bene. Ma ho paura ad andare via da qui,
da casa mia, proprio adesso che sta per arrivare un figlio e non so come farò
a cavarmela.
A
40
Le due sorelle si alzarono e, fatta toilette, decisero di andare a far visita
alle amiche a cui non avevano ancora fatto gli auguri. Si recarono in carrozza
da Ludovica e poi da Bianca e sembrò loro di essere tornate indietro di un
paio d’anni, quando erano ancora tutte al liceo e i rapporti con i ragazzi si
limitavano a qualche sguardo imbarazzato e a lunghe confidenze.
Ludovica ora aveva un semi-fidanzato, uno studente all’ultimo anno del
Politecnico. Si frequentavano assiduamente da un mese o più, cosa che era
già un record per la ragazza, famosa tra le amiche per la sua incostanza - e
anche per l’incostanza dei partner.
Bianca invece era ancora a scuola, preparava la maturità e sognava di
iscriversi a medicina, laurearsi e poi andare in Africa a curare i lebbrosi.
Tanto lontana andava per ora la sua fantasia. . . E la famiglia Portolenghi,
che era di mentalità aperta, non l’avrebbe ostacolata.
A pranzo si ritrovarono loro quattro di famiglia, senza tutti gli ospiti del
giorno prima. Fu un giorno di tepore familiare: si mangiò ancora l’arrosto e
il panettone, si brindò e si parlò di tutto.
Ma in sottofondo tutti sapevano che di lì a poco, pochissimo, ci sarebbe
stato il nuovo addio. Appena ritornato Fedor, gli sposi sarebbero entrati
nella loro nuova casa e nella vita a due, definitiva con tutta probabilità. E
in estate sarebbe nato un bambino. O una bambina. Ognuno si lanciava
in scommesse sul sesso del nascituro, tranne Isabella che per ora non voleva
pensarci.
41
Capitolo 21
el frattempo Fedor era arrivato nella capitale francese. Parigi gli apparve diversa dall’ultima volta, quando era stata
testimone del loro lungo viaggio di nozze: la permanenza in
quella città, anche se era durata alcuni mesi a cavallo tra l’estate e l’autunno, non si poteva definire altro che un viaggio
di nozze, non una reale vita a due fatta di impegni, di separazioni obbligate
per il lavoro, anche di routine, diciamolo pure.
Era stato un alzarsi la mattina felici, stringendosi l’uno all’altro con intimità nuova. E poi guardare fuori dalla finestra e decidere lì per lì come
occupare la giornata, a seconda di com’era il tempo o anche dell’estro del
momento. Così, mano nella mano, avevano passeggiato alle Tuileries e al
Bois de Boulogne. Erano stati a Montmartre, dove Isabella si era fatta fare
il ritratto da un artista povero e pallido, il quale con due tocchi di gessetto
aveva disegnato il suo bel profilo e porgendoglielo le aveva detto: “Siete più
bella di così, mademoiselle!” Avevano riso all’idea che nessuno immaginasse
che erano sposati.
Ora invece Parigi era gelida, imbiancata dalla neve che continuava a cadere, e un po’ di quel clima gli era entrato nel cuore e nei pensieri. Era
solo, ma non era questa l’unica causa della sua malinconia: era cambiata
la situazione, per sempre. Finita l’epoca spensierata, incominciava la parte
più difficile: costruire giorno per giorno, anno dopo anno, una famiglia, con
tutto quello che comporta un compito così difficile, proibitivo a prima vista
per una giovane coppia poco pratica delle insidie della vita.
La zia Anastasjia fu affettuosa come sempre, anzi quasi si offese per il
N
42
fatto che il nipote volesse andare in albergo, ma Fedor fu irremovibile, un
po’ per non crearle problemi, ma soprattutto per mantenere un minimo di
libertà. Ad ogni modo passarono gran parte delle giornate insieme, girando
per uffici e consolati, finché riuscirono a ottenere un lasciapassare per la
famiglia Koshkin, firmato dall’ambasciatore russo a Parigi. Fedor non seppe
mai fino in fondo quale canale privilegiato avesse la zia né quale personalità
avesse messo di mezzo per avere quel prezioso documento che metteva fine
alla misera situazione dei suoi cari, ma le fu grato per sempre. È vero, anche
in Francia ci sarebbe stato il problema di guadagnarsi da vivere, ma quei soldi
che il conte Koshkin aveva depositato alla Banque de France per il figlio ora
sarebbero stati utilizzati per sistemare la famiglia e per dare modo ai fratelli
di Fedja di terminare gli studi e diventare poi autosufficienti.
Dal Consolato venne scritto ai signori Koshkin che potevano prepararsi al
viaggio, portando con sé l’indispensabile come bagaglio, per non complicare
gli spostamenti. Tutto fu predisposto nei minimi particolari da Parigi; così
una mattina, prima che facesse chiaro, un carro andò a prendere quelle povere
persone a casa e le condusse alla stazione più vicina, dove dopo poco arrivò il
treno che le avrebbe portate in una nuova nazione, lontana dalle loro radici,
dai ricordi, dagli amici. Per fortuna, come tutti i nobili anche se decaduti,
parlavano il francese: questo li avrebbe senz’altro aiutati a inserirsi nella
nuova realtà.
43
Capitolo 22
opo alcuni giorni e molte coincidenze fra i treni, la piccola
carovana arrivò alla Gare de l’Est. Erano tutti sfiancati dal
viaggio, avevano dormito poco e male, quando capitava, e
non si erano potuti lavare decentemente. Regnava anche un
certo nervosismo, dovuto alla convivenza obbligata in uno
stretto scompartimento, oltre che ai disagi e alle lunghe privazioni da cui
provenivano.
La stazione, vista così verso sera, apparve loro piuttosto sinistra, con
il buio che era scivolato fino sui binari e una nebbiolina densa e scura ad
avvolgere persone e bagagli.
Ma Fedor li riconobbe da lontano, si sbracciò per farsi vedere e poi subito
corse verso di loro. Tutti i viaggiatori del binario poterono notare l’affetto
e il calore che passavano da una persona all’altra, gli abbracci, i baci e la
commozione.
Il giovane aveva già preso accordi con un vetturino: e costui, con calma,
caricò i bagagli su un carrello e li trasportò al furgone. Poi fece salire tutti
quei poveracci che gli apparivano come mendicanti e si diresse deciso verso la
pensione dove alloggiava Fedor. Quando la proprietaria vide arrivare quella
strana gente, lacera e malconcia, si chiese se aveva fatto bene ad accettare la
proposta di prenderli nel proprio albergo per un po’ di tempo, finché non si
fossero sistemati in via definitiva.
Comunque dette loro le chiavi delle camere, sperando in cuor suo che si
trasformassero il più possibile dopo un bagno e un cambio d’abito. E così
fu davvero, anzi Madame du Freisne dovette ammettere che erano dei veri
D
44
signori, abili conversatori e oltretutto ottimi conoscitori della lingua francese;
le piacque soprattutto la signora Koshkin per la gentilezza dei modi e la
dignità che esprimeva.
Quella sera stettero tutti nella sala dell’albergo a parlare fino a tardi:
dovevano prendere molte decisioni e piuttosto in fretta, visto che non si
trattava di un soggiorno turistico, ma l’inizio di una nuova vita. Chissà
quando avrebbero mai potuto rimettere piede in Russia! E ora il distacco
doloroso ma necessario era avvenuto, e non restava altro che entrare di slancio
in quella nuova fase.
Così il giorno dopo e quello dopo ancora, e per un po’ di tempo, si incontravano con la zia Anastasjia e con tutti i suoi amici russi. Alla lunga
sembrò loro di essere quasi in patria.
Trovarono un appartamento semi-centrale in un solido palazzo ottocentesco, su un viale alberato vicino alla Senna. Aveva grandi stanze e soffitti
alti, anche le finestre erano ampie e rendevano luminosi i locali; l’affitto era
un po’ alto, ma i soldi erano già a disposizione, visto che Fedor aveva voluto
che tutti i fratelli e sorelle diventassero intestatari del famoso lascito.
Era febbraio e faceva un freddo pungente, quando il giovane conte decise
di abbandonare i suoi famigliari per far ritorno da Isabella. Ormai aveva
sistemato tutto e poteva finalmente permettersi di gioire per il fatto di avere
una giovane moglie ad aspettarlo e un bimbo in arrivo. Come aveva potuto
gettarsi così a corpo morto nelle questioni dei suoi cari, dimenticando i propri
doveri di vicinanza nei confronti di Isabella?
45
Capitolo 23
rmai si festeggiava il carnevale. Infatti quasi senza accorgersi
Fedor era stato via quasi due mesi e in quel periodo Isabella
oscillava tra il piacere di farsi coccolare come quando era in
casa e il desiderio di indipendenza. Però, pensava, è chiedere
un po’ troppo a una ragazza della mia età, sposata e incinta
e con il marito lontano: quale autonomia posso raggiungere ora? A volte
si sentiva come imbrigliata dagli eventi, costretta a un ruolo che non le si
confaceva; e così il suo umore ondeggiava tra l’apatia, il desiderio di riscatto
e la disperazione.
Quindi è facile capire perché, quando lui si presentò alla porta contento
e sicuro, Isabella lo accolse in modo freddo e distaccato, come per gridargli
tutto il proprio dolore e l’impossibilità di essere capita. Infatti lui non comprendeva affatto il suo cambiamento, proprio ora che stavano per diventare
una famiglia vera, con una casa e un figlio loro.
Nel periodo di lontananza si erano scritti, ma le lettere di lui erano brevi resoconti di quello che aveva fatto e quelle di lei erano reticenti, perché
Isabella sentiva che quello di cui avevano bisogno erano ore e ore di intime
confidenze, svelamenti e sorprese, tutto l’opposto di quello stato di calma
piatta che il loro matrimonio borghese prevedeva. E aveva solo diciotto anni!
Fedor si teneva invece apposta su un registro medio, in cauto allarme
per le mattane di lei: mattane inesistenti, ma ugualmente temute. Sembra
volermi tenere al guinzaglio, pensava Isabella con disappunto.
La loro casa era comunque pronta e dopo soli due giorni vi si trasferirono.
L’inizio non fu dei migliori, perché la giovane portò con sé l’orsacchiotto di
O
46
peluche che le aveva fatto compagnia durante tutta l’infanzia e oltre: il marito
la guardò interrogativo e le chiese aspro che cosa aspettava a crescere. Lei
rimase in silenzio e lasciò che le lacrime scorressero sulle guance: si sentiva
sconfitta, incompresa e gonfia per la gravidanza. Era scontenta di sé ma non
sapeva proprio come porre rimedio alla situazione.
Alla fine prevalse però il suo senso pratico: decise che non doveva - assolutamente - buttarsi giù così. Il futuro deve ancora arrivare, disse fra sé,
per ora devo abituarmi alla nuova vita, rendendola il più gradevole possibile
innanzitutto a me, e poi anche a Fedor. Comprò dal fiorista un mazzo di
primule e viole, che mise in un piccolo vaso in salotto; lo rimirò a lungo e
promise a se stessa che d’ora in poi si sarebbe tenuta a galla.
Poi si preparò un tè che sorbì piano nella tazza del servizio bello, guardò
la zuccheriera d’argento di forma ovale, regalo degli zii, e si dispose a leggere
un buon libro sulla poltrona allungabile, quella con l’appoggia-piedi.
Il resto si vedrà, sospirò. E decise, prima o poi, di andare a trovare
Ludovica. Chissà che non possa sfogarmi un po’ con lei, pensò. Aveva tante
amiche al Liceo, Isabella, ma le aveva perse sposandosi ed era stata una
pretesa eccessiva che Fedor prendesse il posto di tutte le amicizie.
47
Capitolo 24
volte, quando era sola, Isabella spalancava la porta-finestra
e lasciava entrare l’aria tiepida della primavera: le roselline
selvatiche della grande terrazza emanavano un profumo che
sapeva di nostalgia e il rampicante creava un delizioso angolo
là dove la scaletta portava alla torre, il punto più mitico e
misterioso della casa. E la fantasia volava.
Ci pensava il suo giovane sposo a riportarla subito sulla terra, quando
rientrava stanco per essere stato in ufficio e si aspettava comprensione e belle
parole e un pranzetto prelibato, prima di passare nel salottino a fumare e
leggere il giornale.
Ormai la nostra eroina si era accorta che non era questo che si era aspettata e sempre più spesso si trovava a mormorare fra sé: “Se l’avessi saputo. . . ”,
ma qualcosa le diceva che, se anche fosse stata un minimo più lungimirante,
si sarebbe ugualmente intestardita a sposare il suo bel russo, così, per dare
una svolta alla propria vita piatta. Inoltre va detto che Isabella si sentiva
davvero innamorata del giovane Koshkin quando piena di entusiasmo si era
trovata con la fede al dito ancora prima di capire bene il passo che stava
facendo. E perché i suoi genitori l’avevano lasciata fare senza aprirle gli occhi? Ma anche a questa domanda sapeva già che cosa obiettare: se l’avessero
ostacolata, l’avrebbero solo legata di più a lui. Quindi non c’era scampo né
via di fuga, pensava da ultimo.
Una ragazza le dava una mano in cucina e nelle faccende domestiche,
campo in cui le fanciulle Valleolona, come tutte le loro amiche, erano quasi
del tutto incompetenti. Giacomina veniva dalla montagna, dalle Prealpi
A
48
lombarde, dove era nata e vissuta venti anni insieme con il padre, la madre
che poi era morta, e una decina di fratelli. Erano venuti su a polenta; di
giorno facevano pascolare le pecore o coltivavano il mais per il padrone, la
sera il capo-famiglia leggeva la Bibbia ad alta voce. Suo padre costruiva
personalmente gli zoccoli per tutta la famiglia: erano solidi, non si rompevano
facilmente e tenevano i piedi isolati dal fango che si veniva a creare tutte le
volte che pioveva forte, nel lungo inverno. Non possedevano niente lassù e
così, un po’ per volta, i figli erano scesi a valle alla ricerca di un lavoro un
po’ più decente. E Giacomina non poteva lamentarsi: era capitata in una
famiglia dove veniva trattata con rispetto e poi il lavoro non sarebbe stato
troppo pesante, dopo i primi tempi assai duri per avviare un nuovo ménage.
Isabella era contenta di condividere la casa con qualcuno, perché non era
assolutamente abituata a stare sola tutto il giorno: è vero che, quando era in
casa con i genitori, a volte si rintanava nella biblioteca del padre per stare in
pace e divorava libri su libri, ma quella solitudine era cercata, mentre questa
era imposta dalla nuova situazione.
Un giorno prese guanti e cappello, si mise un bel giacchino sull’abito chiaro e uscì per andare a trovare Ludovica che, avvertita, la stava aspettando.
49
Capitolo 25
i fece venire a prendere da Luigi, che fu ben contento di accompagnarla. Ma quando arrivarono dalle parti dell’Ospedale
Maggiore, Isabella chiese di proseguire a piedi e s’incamminò
lungo il naviglio fino al punto in cui questo formava un laghetto:
da lì c’era la vista spettacolare della guglia più alta del duomo,
in lontananza. Svoltato l’angolo, arrivò al bel palazzo dove abitava l’amica;
qui congedò il fido accompagnatore, dicendogli di venirla a prendere verso le
sei.
Durante tutto il pomeriggio cercò di ritrovare l’antico affiatamento con
Ludovica, e a tratti ci riuscì, soprattutto quando le due giovani dimenticavano
per un attimo la nuova realtà per tuffarsi a capofitto nei ricordi; ma l’ora
dei saluti arrivò troppo presto e piombò tra di loro a ricordare che adesso
ognuna aveva un’altra vita e che il passato era chiuso con il lucchetto.
Forse però quell’incontro bastò a ridare speranza a Isabella: non tutto era
perduto, aveva ancora un’amica e i genitori, era primavera e. . . non era poi
un dramma diventare mamma, anzi. E magari anche con Fedor sarebbero
venuti tempi migliori, chissà. Ma di questo dubitava già di più: la sensazione
prevalente era che la magia che c’era stata fra di loro si fosse infranta appena
realizzata.
Tornando a casa piuttosto rasserenata, adocchiò sul bordo della strada un
gattino spaesato: istintivamente si chinò, lo vide così piccolo, così indifeso,
che le venne in mente il bambino che doveva nascere di lì a tre mesi. Decise
sui due piedi di portarsi a casa Bianchino: così lo chiamò subito, anche se
il mantello non era candido. Ma lo sarebbe diventato stando in casa, ben
S
50
nutrito e accudito.
E con stupore di Isabella, Fedor la sera non batté ciglio alla vista del
nuovo arrivato: non lo trattò come un intruso, anzi lo accolse con un sorriso.
È andata bene, pensò lei; e incominciò a guardarlo con maggiore simpatia.
I giorni ora passavano veloci, tra i preparativi per la nascita imminente e
una visita dei genitori, di Carlotta o di qualche amica. E poi in casa iniziava
a trovarsi bene; aveva una biblioteca abbastanza varia, anche se piccola, che
sarebbe aumentata con gli anni , ma che già ora le dava soddisfazione. Non
era mai sola e la sera giocava a dama o a scarabeo con il marito, oppure se
ne stavano in salotto a leggere o a chiacchierare. Qualche volta ascoltavano
un’opera alla radio, ma la sera Isabella era stanca e amava andare a letto
presto, subito dopo la camomilla che le portava Giacomina.
Il gattino aveva la sua cesta in corridoio e una ciotola in cucina, ma a Isabella era vietato accarezzarlo, perché le avevano detto che era pericoloso per
una donna incinta. Non sapeva bene perché, ma nel dubbio si era adattata,
rimandando le coccole di qualche mese.
Insomma, nell’insieme la sua vita stava prendendo una fisionomia più
nitida e a tratti il ruolo che giocava le appariva meno stretto, più accettabile,
anche se non corrispondeva più al suo ideale di vita. Quello era chiuso a
chiave insieme a tutto il passato.
51
Capitolo 26
el frattempo la famiglia Portolenghi era stata scossa da un
piccolo scandalo. Bisogna sapere che Bianca aveva un innamorato, e questo non sarebbe niente di grave; anche Carlotta, che aveva la sua età, stava con Raffaele, pur senza tante
cerimonie di fidanzamento. E poi i Portolenghi erano una
famiglia di larghe vedute, che si faceva un vanto della propria modernità.
Ma era successo un fatto che li aveva costretti a prendere posizione, perché, sia ben chiaro, erano pur sempre una famiglia borghese e non si sentivano
tagliati per sfidare il perbenismo. Dunque andò così: in un giorno di maggio,
nel liceo frequentato da Bianca, durante l’intervallo la più antipatica delle
prof, quella di latino e greco, sorprese la ragazza con Arnoldo - questo era il
nome del complice - in tenero atteggiamento. Avevano scovato una piccola
rientranza che dava su un terrazzino e lì si stavano baciando appassionatamente. Come aveva fatto Arnoldo a entrare, visto che non era iscritto a quella
scuola? Si presume che avesse atteso un attimo di distrazione del custode;
la strada per raggiungere il posto prestabilito l’aveva studiata per giorni e
giorni con Bianca e l’orario doveva essere quello corrispondente all’intervallo:
le dieci e mezzo. La fanciulla andava tutti i giorni nel luogo previsto, finché
finalmente si presentò il suo Romeo che, appena la vide, l’abbracciò e la baciò
con trasporto.
Non si era ben capito perché i due ragazzi avessero voluto sfidare l’autorità
scolastica e familiare, ma forse la spiegazione più semplice è anche la più
plausibile: lui amava il rischio, quindi la situazione pericolosa lo tentava.
E la nostra Bianca, come qualunque ragazza innamorata, accolse commossa
N
52
Arnoldo tra le sue braccia.
Fatto sta che la professoressa si fece rossa in viso, trascinò Bianca dal
Preside, mentre Arnoldo fu fatto allontanare con la minaccia di denunciarlo. Furono chiamati i signori Portolenghi, che si mostrarono scandalizzati e
umiliati, e si decise di mettere la ribelle al Collegio delle Fanciulle a terminare l’anno. Solo così, aggiunse il preside, si poteva evitare l’espulsione della
ragazza da tutte le scuole del regno.
Ci volle una settimana per organizzare il trasferimento: Bianca infatti
dovette entrare nell’educandato come interna. Il Collegio delle Fanciulle era
- ed è - ospitato in un’austera costruzione in via della Passione, che ospitava
nobili decadute, ragazze orfane, o appunto fanciulle che dovevano redimersi.
C’era una cappella interna, dove ogni tanto veniva don Giovanni a dire Messa
per le allieve; queste avevano un’età variabile dai sei ai venti anni, infatti
c’erano le elementari, il ginnasio e il liceo. Le interne avevano una divisa
grigia che le differenziava anche a livello cromatico dalle più fortunate esterne
o semi-convittrici e il contatto tra l’autorità e le ragazze era costituito da
altre fanciulle poco più grandi che non avevano famiglia e quindi, arrivate ai
vent’anni come interne, venivano tenute lì come guardiane dei costumi delle
sfortunate educande.
53
Capitolo 27
ianca era triste e abbattuta. Il suo rendimento scolastico
era sempre stato piuttosto buono, ma qui si pretendevano
cose a cui non era abituata: per le materie letterarie studi
pomeridiani lunghi e snervanti, tesi solo all’apprendimento
mnemonico; per quelle scientifiche pagine e pagine di esercizi
che dovevano rendere automatico il procedimento, senza richiedere intuizione
o genialità.
L’ambiente era così bigotto che nemmeno le passeggiate nel parco potevano essere fonte di distrazione per le educande, le quali erano sempre
accompagnate da qualcuno che vietasse loro di correre, di scalmanarsi o anche di farsi delle confidenze. Nella sala da pranzo si andava in fila per due;
ugualmente inquadrate ci si dirigeva alla sera verso le camerate. E tutto il
giorno si stava con quella divisa grigia che doveva ricordare la modestia che
si addice a delle brave fanciulle, come diceva don Giovanni.
Carlotta, quando seppe il destino infausto dell’amica, chiese consiglio in
casa su come fare per andare a trovarla; s’informò perfino presso gli insegnanti, ma tutti scuotevano il capo per farle capire che era impossibile, perché
l’aveva fatta troppo grossa.
L’unica cosa positiva fu che ben presto la scuola finì: il Collegio delle
Fanciulle dovette promuovere Bianca senza rimandarla a ottobre, visti i buoni
risultati raggiunti, e lei fu subito spedita in campagna con la mamma per
tenerla lontana da Arnoldo, diavolo tentatore.
Lì Carlotta riuscì finalmente a raggiungerla e a parlarle. La madre rimase
quasi sempre presente all’incontro, sembrava non volesse lasciarle sole, ma le
B
54
ragazze approfittarono dei pochi momenti in cui lei si assentava per dirsi le
cose principali. Così la piccola Valleolona si accorse che l’amica non era più
innamorata di Arnoldo, anzi covava verso di lui un certo risentimento per
averle causato tutti quei guai per una bravata del tutto inutile.
Buon segno, pensò Carlotta. Almeno la lasceranno tornare alla nostra
scuola!
Non sapeva, ingenuamente, che i genitori l’avevano già iscritta al Collegio
delle Fanciulle anche per l’anno successivo, sebbene da esterna. Non potevano
più farle frequentare un liceo in cui aveva dato scandalo. . .
Quel pomeriggio passò in fretta: le amiche per merenda mangiarono le
ciliegie, mentre l’estate campestre sembrava promettere un futuro più roseo.
Carlotta infatti si sentiva molto più leggera, mentre la carrozza guidata da
Luigi la riaccompagnava in città. Così decise di fare una piccola deviazione
e si fece condurre dalla sorella: voleva darle le buone notizie di Bianca e
nel contempo informarsi sulla gravidanza. Non vedeva Isabella da un po’ di
giorni e si stupì nel vederla così tonda, stanca e pallida.
“Sorellina, non ti vedo bene. Dovresti stare all’aria buona, a mio parere!”
“Sì, solo che la levatrice non può seguirmi di qua e di là. E io, quando
sarà il momento, voglio lei vicina, non mi sentirei tranquilla con nessun altro.
Lo sai che ha fatto nascere anche noi due, e la mamma ci ha detto che per te
è stato anche un parto difficile. Quindi sto a Milano tutta estate, ma voglio
lei.”
Nel sentirla così determinata, Carlotta tacque.
55
Capitolo 28
opo pochi giorni, anche Carlotta venne mandata in campagna dagli zii. Non si sognò neppure di dire a Raffaele di
andarla a trovare, perché non voleva fare la fine dell’amica;
per occupare il tempo decise di fare delle belle passeggiate e
così spesso usciva di prima mattina con un abito di cotone
leggero a fiorellini, un paio di scarpe comode e un buon libro, in compagnia
di Fido, il bracco dello zio. Non era necessario andare lontano per stare bene,
infatti tutto attorno alla casa c’erano prati e campi a perdita d’occhio, poco
più in là un ruscello con alberi e cespugli e piccole radure.
Carlotta si trovava un posticino all’ombra e leggeva, oppure sognava.
Qualche volta scriveva alle amiche, alla mamma e al papà, o alla sorella.
Anche a Raffaele, certo, e gli diceva che aveva voglia di rivederlo; ma tutto
sommato si trovava bene in quella situazione sospesa, senza orari né impegni,
senza responsabilità alcuna. Rientrava per un pranzo leggero, adatto al caldo
che già si faceva sentire, poi aspettava nella casa in penombra che passassero
le ore più torride. Il pomeriggio stava volentieri a parlare con la zia, che a
sua volta era felice di aver trovato qualcuno con cui scambiare opinioni, a cui
soprattutto raccontare della vita passata e delle aspettative per il futuro; i
cuginetti erano un po’ troppo piccoli per essere veramente di compagnia a
Carlotta, ma lei era sempre ridente e portava in casa una ventata di allegria,
di leggerezza.
La sera, quando lo zio rincasava, capitava di fare un giretto tutti insieme
prima di cena. Poi, quando era sceso il buio e Mariuccia era in cucina a
lavare i piatti e a mettere tutto a posto, si usciva davanti a casa a godere il
D
56
fresco della sera, sorseggiando una bibita o il caffè freddo.
I genitori di Ludovica, invece, decisero di non tornare al Lido quell’estate,
ma di andare in Costa Azzurra, a Cannes. Era il primo luglio quando giunsero
all’hotel molto chic presso il quale avevano prenotato le stanze per tutto il
mese. A disposizione degli ospiti c’era la spiaggia privata con cabine, sdraio
e ombrelloni: vi regnavano solerti bagnini pronti a esaudire ogni desiderio;
all’interno una grande sala da pranzo con veranda e molte salette di ritrovo.
Ai piani, oltre alle camere normali, molto eleganti e spaziose, c’erano le
suites per gli ospiti di riguardo, con salottino privato, toilette e balcone.
Appena arrivata e dopo aver deposto le valigie, Ludovica pensò che tutto
sommato poteva cercare di riagganciare Miguel, così, tanto per avere un po’
di compagnia mentre si trovava lì da sola, senza il fidanzatino di Milano. In
fondo il bel pittore le aveva scritto un biglietto da Nizza e niente le impediva
di mandargli due righe per invitarlo a venirla a trovare; l’unico ostacolo erano
i genitori, che non dimostravano alcuna simpatia per lui, anzi lo vedevano
come un perditempo e un profittatore. Ma si sa che l’animo delle fanciulle a
volte fa strani giri, fatto sta che la ragazza incominciò a pensare seriamente
a come attuare il suo piano.
57
Capitolo 29
ncominciò a farsi amico il facchino, che vedeva sempre affaccendato
con i bagagli, molto solerte soprattutto quando gli veniva offerta una
mancia sostanziosa. Ludovica scelse quindi un momento in cui era
da sola, gli si avvicinò furtiva nella hall porgendogli una banconota
arrotolata su se stessa che Jean riconobbe subito come molto interessante e lo pregò di portare personalmente un biglietto all’atélier di Miguel.
Gli dette nome e indirizzo e si sistemò al bar a sorseggiare una bibita fresca.
Ora si trattava solo di aspettare; si sarebbe regolata a seconda della risposta. . . In quel momento scesero dalla camera i genitori, che le proposero
una passeggiata in carrozza nei dintorni. E così anche lei vide i luoghi che
erano stati tanto cari a Isabella e Fedor: promontori e pini fino sulla scogliera, campi di lavanda nell’entroterra, e paesini caratteristici, ognuno con
il suo castello memore di antiche glorie.
Quando tornò dalla gita, con un nuovo foulard in stile provenzale a fiorellini su fondo nero, vide subito in lontananza Miguel che la salutava con la
mano. Papà e mamma erano interdetti per lo stupore. Come avrà fatto a
sapere che siamo arrivati?, si chiedevano. Ludovica scese dalla carrozza come
una diva, gli porse la mano da baciare e lo salutò distrattamente. Ma subito
dopo gli chiese come stava, se dipingeva ancora lo stesso genere di opere o se
la sua arte aveva subito un cambiamento; insomma fece in modo che lui la
invitasse per l’indomani a vedere i nuovi quadri. Aveva vinto, così almeno le
pareva. Superato lo scoglio dell’indifferenza che le aveva dimostrato durante
la lontananza, sperava che l’estate potesse portare a un nuovo riavvicinamento. E in questo caso, chissà chi avrebbe scelto poi tra lui ed Ermanno. Che
I
58
noia dover scegliere! Vedremo sul momento, concluse tra sé.
Jean ormai cercava di essere sempre pronto a risolvere qualunque problema si prospettasse, quindi il giorno dopo fece venire una carrozza che portò
la ragazza dal giovane. Miguel non era solo, perché voleva presentarle il cugino Matéo che tanto aveva fatto per lui. E infatti Ludovica si accorse subito
del salto professionale che egli aveva fatto venendo in Costa Azzurra: il suo
studio era ampio e luminoso, pieno di tele e di colori, e c’era un ragazzo
molto giovane, un apprendista, che gli teneva in ordine il locale, gli passava
i pennelli e il materiale e faceva qualche semplice lavoro preparatorio. Seppe
da Miguel che le ordinazioni arrivavano in abbondanza, insomma la sua arte
veniva capita e apprezzata. Ludovica si congratulò con slancio, Matéo salutò allontanandosi e il garzone venne spedito a fare una commissione: erano
rimasti soli. Miguel chiuse piano la porta e all’improvviso la baciò; lei si
lasciò baciare perché, colta di sorpresa, non aveva fatto in tempo a chiedersi
se accettare o meno, per cui si comportò istintivamente. D’altra parte lui
era piuttosto sicuro del fatto suo, perché era stata lei a cercarlo, quindi evidentemente non le era indifferente. Così incominciò una storia segreta fra i
due: sarebbe durata l’espace d’un été o avrebbe portato a una rottura con
Ermanno? Ludovica ancora non lo sapeva.
59
Capitolo 30
ntanto a Milano Isabella era intenta a tutt’altro: a vincere il caldo,
innanzitutto, a fare piccoli pasti leggeri che non l’appesantissero, pur
dandole il giusto nutrimento. Preparava golfini e scarpine di lana e si
chiedeva come avrebbe fatto quella povera creaturina a stare coperta
con quel clima torrido. La culla di vimini rivestita di cotone giallo
a quadretti era pronta nella stanza, dove le persiane rimanevano accostate
tutto il giorno per non disperdere quel po’ di fresco incamerato la mattina
presto.
Alessandro per fortuna nacque di notte, alle tre e quindici. L’ostetrica
venne chiamata da Fedor la sera alle sei, quando Isabella cominciò ad avere le
prime contrazioni. Poi venne avvertita la famiglia, che arrivò al completo per
sincerarsi delle condizioni della partoriente. Giacomina, come nei romanzi
dell’Ottocento o nei film in bianco e nero, era indaffarata a bollire panni
su panni, mentre Isabella sudava e a tratti gridava, assistita dalla Carmen.
Questa era una solida donna di campagna, che non aveva avuto né figli
né marito, e si era specializzata nel far nascere i bambini delle altre, fino
a farne un mestiere. A Milano era molto apprezzata e aveva un giro di
clienti affezionate, che si rivolgevano a lei anche per avere un consiglio o un
parere, oltre che per partorire. E lei si recava da tutte di giorno o di notte,
con dedizione: entrava nella casa e organizzava l’assistenza con decisione,
allontanando dalla puerpera tutte le persone inutili, compreso naturalmente
il marito di turno, che a suo parere ingombrava.
Appena nato, Alessandro venne lavato e gli fu dato lo schiaffetto per farlo
piangere, in modo che gli si aprissero i polmoni. Anche Isabella ebbe modo
I
60
di sciacquarsi il viso e di cambiarsi, prima di ricevere la visita del marito,
poi della mamma, del papà e di Carlotta. Tutto le turbinava in testa: era
diventata mamma, una situazione incancellabile, da cui non si torna indietro!
Sorrideva a tutti senza capire bene quello che stava avvenendo. Come per
il matrimonio, anche questa nuova tappa avveniva, per così dire, prima che
Isabella se ne potesse rendere conto.
Al mattino, appena aperto l’ufficio postale, Fedor si precipitò a telegrafare
ai suoi cari: Nato Alessandro, tutto bene. Vi aspettiamo per il battesimo,
segue lettera.
Poi andò in pasticceria, comprò un vassoio di cannoncini e li portò in
ufficio, dove tutti, tra una pasta e una flûte di spumante, si congratularono
con il neo-padre con abbracci, baci e pacche sulle spalle.
La sera arrivò in un soffio. Isabella finalmente dormì qualche ora: aveva
tanto bisogno di rifarsi!
Accanto a lei il suo sposo era in subbuglio: non solo non era abituato a
quello uè uè di neonato, ma pensava all’enorme cambiamento che la nascita
di un figlio stava per produrre nella loro vita. Giovani ma non più spensierati, era giunto per loro il momento della maturità. La moglie si svegliò
di soprassalto e gli sorrise. Lui le prese entrambe le mani e gliele baciò. E
restarono così, muti, a guardare il soffitto della loro camera da letto.
61
Elena Trabaudi
Isabella la sposa del conte
Edizioni Lubok
Data di pubblicazione: 12 giugno 2009
www.carlamuschio.com
Immagine di copertina: Carla Muschio, Due gocce
Donwload gratuito per uso non commerciale