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Primo maggio 2007
Il ri(s)catto del lavoro
“Se otto ore vi sembran poche andate voi a lavorar…” recitava un’antica canzone del lavoro. La
prima legge che introduceva la giornata lavorativa di otto ore è nata negli Stati Uniti nel 1866
e la sua applicazione era prevista a partire dal primo maggio. Le manifestazioni indette a
sostegno delle otto ore hanno segnato gloriosamente e tragicamente la storia del movimento
operaio e di quella che è poi diventata una giornata simbolo. Le otto ore, il limite oltre il quale
il lavoro diventa schiavitù, sono frutto di una battaglia ottocentesca. Da allora di strada ne è
stata fatta tanta, ma ancora sono troppi nel mondo di oggi i lavoratori ridotti in schiavitù e
sfruttati oltre ogni limite.
In quale mondo? Anche nel nostro.
Piace molto a tanti commentatori scandalizzarsi di quante tutele godano certi lavoratori, ad
esempio quelli con contratto a tempo determinato per non parlare di quelli pubblici, a fronte
delle condizioni precarie e senza sicurezza di tanti altri. Incredibilmente fanno scandalo le
tutele e i diritti e non lo sfruttamento, per usare un termine che – come dice Michele Serra – è
ormai insensatamente in disuso. Ha ragione Serra, chiamiamo le cose con loro nome perché il
mondo vero non è quello patinato della pubblicità né quello dei supereroi dei videogame.
Vediamo qualche sprazzo di questa realtà.
Oltre 200 milioni di bambini tra 5 e 14 anni (oltre 350 milioni tra 5 e 17 anni) lavorano invece
di andare a scuola o fanno tutte e due le cose. La maggior parte di questi, però, svolge attività
incompatibili con l’età se non addirittura dannose. L’abolizione del lavoro minorile è stata
anche questa una battaglia ottocentesca che sembrava vinta. Nei paesi sviluppati, ad esempio
l’Europa e il Nord America, la percentuale è relativamente bassa circa il 2% della fascia d’età
5-14. Questa percentuale triplica se si aggiungono i paesi dell’est europeo. I dati di Asia, Africa
e America Latina sono allucinanti. Da far impallidire Dickens, Zola, Hugo. Meriterebbe rileggerli
questi autori e soprattutto farli leggere ai giovani.
Dall’inizio del 2007 304 persone sono morte sul lavoro in Italia, oltre 7.000 sono rimaste
invalide in un numero di infortuni che ha superato quota 300 mila. Non è un buon inizio,
tenuto conto che l’anno scorso le morti sul lavoro nel nostro paese sono state 1.280, oltre 3
persone al giorno comprese le domeniche, natale, pasqua… E’ comprensibile lo sdegno del
Presidente Napolitano. Ma la sua commozione non sembra contagiare il resto del paese.
Aspettiamo il prossimo morto per riascoltare la litania dell’indignazione. Ma dove sono gli
ispettori del lavoro? Chi da gli appalti alle ditte che non rispettano le norme di sicurezza? Quali
sono le sanzioni per i responsabili, anche quando agiscono tramite terzi?
“Noi vivremo del lavoro…” cantavano i lavoratori nei festosi cortei del primo Maggio di qualche
decennio fa. Oggi di lavoro si muore. E se proprio non si muore, neppure si campa con gli 800
euro al mese che guadagnano un ricercatore o un bidello.
Nella tradizione del movimento sindacale c’era – c’è - un tema assai caro: il lavoro non doveva
rappresentare alienazione, ma riscatto, emancipazione. Una delle battaglie più importanti del
Novecento si è giocata sulle competenze e sui saperi. Il pensiero corre a Giuseppe Di Vittorio,
di cui quest’anno ricorre il cinquantenario della morte, avvenuta nel novembre del 1957. Egli
ha sempre creduto che la cultura e il sapere fossero una condizione indispensabile per
l’emancipazione delle persone. La sua vita ne è stata una dimostrazione: da “evaso
dall’ignoranza” – come si definì – studiò da autodidatta fino a sedere con onore nel Parlamento
della Repubblica. Nella sua generosità di grande dirigente condivideva ciò che imparava con i
“suoi” lavoratori. Anche dal suo esempio e dalla sua lezione è nata in Italia la scuola aperta a
tutti, la possibilità anche per i più umili di accedere all’istruzione superiore e all’università. Di
Vittorio, Don Milani, altri grandi maestri avevano capito che la fortuna di una nazione dipende
soprattutto dalla capacità e dalla cultura del suo popolo. Oggi corriamo il rischio che si formi
una massa di lavoratori senza competenze che passano da un lavoro all’altro perché l’uno vale
l’altro, perché sono obbligati a lavorare acriticamente, senza una nozione precisa di diritto e di
dovere, laddove i diritti sono negati e i doveri sono cieca ubbidienza. In questo non c’è
cittadinanza, c’è, per l’appunto sfruttamento. Ma così il paese non cresce perché si trova,
prima di tutto in un deficit di civiltà.
“Otto ore per lavorare, otto ore per dormire, otto ore per istruirsi” c’era scritto sul quadrante di
un orologio che Di Vittorio ricevette in regalo per i suoi sessant’anni.
Correva l’anno 1952 e allora non si prevedeva che andare e tornare dal lavoro comportasse
ore e ore in mezzo al traffico. Oggi si dovrebbe lavorare meno e formarsi di più, anzi la
formazione per tutto l’arco della vita dovrebbe essere obbligatoria. A beneficio di se stessi, del
lavoro e dell’intera comunità.
Editoriale VS LA RIVISTA – Maggio 2007
di Anna Maria Villari