Per l`università della concorrenza e del merito

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Per l`università della concorrenza e del merito
Aldo Sandulli
PER L’UNIVERSITÀ DELLA CONCORRENZA E DEL MERITO
Nella classifica mondiale annuale per il 2007, appena pubblicata dalla rivista britannica
Times (in collaborazione con QS), soltanto due atenei italiani figurano tra i primi duecento: Bologna
(173°) e Roma La Sapienza (183°). Altre sette università della penisola sono collocate tra la
trecentesima e la quattrocentesima posizione: nessuna tra queste appartiene al mezzogiorno d’Italia.
Guidano la classifica, come sempre, le strutture americane ed inglesi, ma sempre più numerosi ed in
ascesa sono gli atenei asiatici e, in particolare, quelli cinesi.
Il dato, che registra il graduale declino internazionale dell’istruzione superiore italiana, è
confermato dal ranking diffuso, circa un mese fa, dall’università Jiao Tong di Shangai (che tiene
conto, però, anche degli istituti di formazione post-laurea). Questa rilevazione, elaborata con
parametri parzialmente diversi, fornisce un risultato analogo, quanto meno sotto il profilo della
perdita di competitività dell’università italiana. Con l’eccezione di due strutture di reale eccellenza,
la Scuola Normale Superiore di Pisa e la Sissa di Trieste, che sono tra le prime venti della classifica
mondiale, nessun altro ateneo è compreso nelle duecento posizioni di testa. Le prime sono la Statale
di Milano (215°), Pisa (261°) e Padova (278°).
L’atteggiamento con cui vengono solitamente accolti in Italia i ranking universitari è di
indifferenza e di scetticismo, in particolare per quanto riguarda i criteri di rilevazione. Tuttavia, il
rilievo di questi dati non deve essere sottovalutato: essi, da un lato, costituiscono un importante
segnale di allarme e, dall’altro, forniscono utili indicazioni circa l’orientamento da seguire nel
futuro.
Ad esempio, se esaminato più da vicino, il dato diffuso da Times-Qs sugli atenei di Bologna
e di Roma La Sapienza si presta a rilievi di grande interesse.
Il primo elemento da considerare riguarda il peer review score, il giudizio fornito dai “pari”
e, cioè, dagli scienziati stranieri sulla qualità degli studiosi che lavorano nei due atenei. Qui il
risultato è di assoluto rispetto: 79/100 per Roma La Sapienza e 78/100 per Bologna. Ciò significa
che l’università italiana, pur attraversando una grave crisi, è ancora in grado di risollevarsi, perché il
livello dei suoi scienziati di punta è tuttora assai elevato, anche se non è consentito sapere, in base ai
dati, quanto tempo essi dedichino effettivamente all’università. In ogni caso, tenendo conto soltanto
del peer review le due università citate sarebbero posizionate attorno alla 50° posizione mondiale.
Questo rilievo positivo è tutto sommato confermato dall’indice delle “citazioni” di tali università da
parte degli altri atenei: discreto per Roma La Sapienza (71/100) e sufficiente per Bologna (62/100).
Il secondo dato riguarda il tasso di occupazione dei neo-laureati dei due atenei. Il risultato è
appena sufficiente: 66/100 per Bologna e 63/100 per Roma La Sapienza. Pertanto, ottenere la laurea
in queste due università non rappresenta un valore aggiunto al fine di un accesso rapido al mondo
del lavoro. La ragione è evidente: il valore legale del titolo di studio e l’assenza di competizione tra
atenei fa sì che acquisire il diploma a Bologna piuttosto che in una università telematica sia
considerato, dal settore pubblico e dalle imprese private, del tutto equivalente. Ciò che conta da noi
è il titolo comunque ottenuto, non la serietà e la tradizione dell’istituzione che l’ha erogato.
Il terzo gruppo di dati riguarda il rapporto tra docenti e studenti ed il grado di attrazione di
docenti e studenti stranieri da parte delle due università. Qui il risultato è particolarmente deludente.
Rapporto docenti/studenti: 24/100 per Bologna, 11/100 per Roma La Sapienza. Appeal per studenti
stranieri: 26/100 per Bologna, 21/100 per Roma La Sapienza. Appeal per docenti stranieri: 21/100
per Bologna, 15/100 per Roma La Sapienza. Questi dati forniscono rilevanti indicazioni. In primo
luogo, gli atenei statali di maggior prestigio e tradizione soffrono di gigantismo, perdendo di
competitività a causa del numero, assai elevato, di studenti: una città come Roma, ad esempio,
dovrebbe seguire la direzione intrapresa da Parigi, della disarticolazione e del decentramento. In
secondo luogo, l’abilità dei docenti rappresenta soltanto una tra le ragioni che determina la scelta
dell’ateneo nel quale studiare: uno studente straniero, che ha la possibilità di optare tra università di
tutto il mondo, pretende qualcosa in più, nell’era delle comunicazioni elettroniche, di un professore,
un gesso ed una lavagna. Esige servizi all’avanguardia, che, tranne rarissime eccezioni, non può
ottenere in Italia, a causa della esiguità di risorse finanziarie e della loro distribuzione “a pioggia”.
In terzo luogo, per attirare studenti stranieri occorrerebbe, oltre che prestare servizi adeguati,
avviare insegnamenti e corsi di laurea in lingua inglese. In quarto luogo, per attrarre professori e
ricercatori stranieri, i docenti dovrebbero essere retribuiti in misura proporzionata ai meriti acquisiti.
In quinto luogo, prima di pensare ad attrarre docenti stranieri, ci si dovrebbe occupare di invogliare
bravi laureati italiani a proseguire gli studi. Sotto questo profilo, i dati confermano il declino della
ricerca italiana: su mille laureati italiani soltanto due proseguono gli studi, contro i diciotto
finlandesi.
Per poter gradualmente risollevarsi, il sistema universitario italiano dovrebbe avviare al più
presto un tragitto di rinnovamento, mirante al perseguimento di cinque principali obiettivi:
incremento delle risorse finanziarie; introduzione di forme di concorrenza (verso l’alto) tra atenei;
predisposizione di meccanismi premiali del merito; valorizzazione di un’autonomia responsabile
delle università; sviluppo di un sistema di valutazione serio e funzionante.
Il punto di partenza è costituito dalle risorse finanziarie pubbliche. Dopo un lustro di
inadeguata gestione della politica universitaria, il programma elettorale dell’attuale esecutivo aveva
posto in posizione di centralità l’università e la ricerca, facendo promesse parzialmente disattese.
L’Italia spende per la ricerca soltanto l’1,1% del PIL e quest’anno si avrà un ulteriore calo dei fondi
a disposizione dell’università e della ricerca. Il Giappone e gli Usa spendono tre volte tanto; i paesi
UE, in media, il doppio. È del tutto ovvio che, senza risorse pubbliche, la crescita è impossibile. Se
non si investe in ricerca ed innovazione, il paese è destinato a posizioni di retroguardia e ad una
prospettiva di medio periodo di recessione economica. Non è soltanto questione di fondi pubblici,
ma anche di finanziamenti privati. L’industria e la finanza italiana investono pochissimo nella
ricerca, dimostrando limitatezza di orizzonti e scarso coraggio imprenditoriale. Infine, è questione
anche di giustizia distributiva. Se è indubbio che i capaci e meritevoli ma privi di mezzi debbono
essere aiutati in tutti i modi possibili nella prosecuzione degli studi, garantendo borse di studio,
alloggio e quanto altro, vi è da ragionare sul fatto se anche coloro che appartengono a famiglie che
non sono affatto prive di mezzi debbano versare tasse di iscrizione esigue rispetto ai costi reali: in
primo luogo, non si può pretendere di ricevere le medesime prestazioni non dico di Yale, Oxford od
Harvard, ma neppure della finlandese Uppsala University, della cinese Tsinghua University o della
giapponese Tohoku University, ovviamente collocate, nella classifica Times-Qs, in posizioni
notevolmente migliori rispetto ai nostri atenei; in secondo luogo, le spese reali che lo Stato sostiene
per gli studenti universitari vengono coperte attraverso la leva fiscale, con la conseguenza che
l’università dei figli di famiglie abbienti è pagata da tutti con le tasse, sia da coloro che hanno poco
sia da coloro che non hanno figli o che non hanno figli che proseguono gli studi.
Risponde a criteri di giustizia, poi, che le risorse, ove reperite, non vadano attribuite “a
pioggia”, ma vadano distribuite, nel rispetto di prefissati parametri, premiando le istituzioni virtuose
ed i progetti di ricerca prestigiosi ed innovativi. Ciò, tra l’altro, consente di introdurre una
concorrenza dall’alto tra atenei, consistente nella spinta ad elaborare progetti di ricerca ambiziosi e
ad ottenere risultati scientifici all’altezza, al fine di attrarre maggiori finanziamenti pubblici e
privati. Vi deve essere, poi, una concorrenza dal basso, dettata dalla circostanza che gli studenti
siano invogliati a scegliere gli atenei di maggior prestigio scientifico, in cui lavorano i migliori
docenti e che forniscono i migliori servizi.
Il profilo del merito è strettamente collegato a quello della concorrenza. Un ateneo può
liberamente scegliere uno studioso di scarso valore, ma sapendo che questa scelta la pagherà, in
termini di numero e di qualità delle iscrizioni. Oggi, in assenza di competizione, nessuno scotto
viene pagato dagli atenei che compiono scelte di comodo. Inoltre, se un docente è un bravo e
laborioso didatta ed un valente e produttivo scienziato deve poter essere retribuito in proporzione al
suo valore. Ciò al fine: di dare a ciascuno in base ai meriti; di motivare ad una maggiore resa e ad
una produzione scientifica più proficua ed elevata; di concentrare le energie degli scienziati
all’interno degli atenei, evitando che siano invogliati a coltivare attività collaterali al di fuori degli
stessi. Vi sono tanti modi di fare il professore universitario in Italia: si può lavorare tanto e bene e
ciò accade in moltissimi casi; ma si può anche fare pochissimo e ricevere il medesimo stipendio a
fine mese. Dietro il paravento della libertà di insegnamento e della scienza si è celato per decenni lo
scambio tra sostanziale omogeneità (verso il basso) del trattamento economico ed assoluta libertà di
gestione del tempo dedicato dai professori all’università (in particolare, nei settori delle
professioni). Anche la disciplina relativa al tempo pieno e definito pare inadeguata ai tempi, poiché
gli obblighi da rispettare per il tempo pieno sono facilmente aggirati e l’attenzione solitamente
dedicata dai professori a tempo definito all’attività universitaria è veramente irrisoria; occorrerebbe,
invece, rinvenire standard oggettivi di prestazione, sotto il profilo quantitativo, da far rispettare da
chiunque insegni in un ateneo. Occorre rifuggire, poi, dalla ricorrente tentazione (bipartisan e
tipicamente italica) di incidere sulle politiche del personale universitario a colpi di ope legis,
anziché attraverso la regola del concorso pubblico. Circa la selezione dei ricercatori e dei professori,
infine, sarebbe necessario tornare, in tempi brevi, per tutti i posti di ruolo, a concorsi nazionali, gli
unici suscettibili di garantire un certo grado di omogeneità delle valutazioni: tuttavia, al fine di
evitare gli inconvenienti del passato, occorrerebbe porre estrema attenzione, in sede di formulazione
della normativa, al profilo del rispetto rigido dei tempi da parte delle commissioni di concorso.
L’autonomia universitaria merita tutela e, al proposito, bisogna rilevare che, sotto il profilo
della definizione dei programmi e dei corsi universitari, nell’ultimo quindicennio, ne sia sempre
stata concessa poca. Tuttavia, occorre rilevare che gli atenei e, in particolare, quelli del
mezzogiorno, hanno fatto un pessimo uso degli spazi di autonomia (in particolare, per ciò che
riguarda la politica del personale docente e tecnico-amministrativo), che si è tradotta spesso nella
creazione di lobbies locali e, talvolta, di veri e propri piccoli feudi. Ciò ha prodotto casi limite: ad
esempio, quello della chiamata, a Macerata, per chiara fama, con la legge sul ritorno dei cervelli, di
un docente di lettere presso una fantomatica Università di Ulaan-Bator, in Mongolia, che pare si sia
scoperto essere un istituto secondario superiore. Ma la gestione irresponsabile dell’autonomia ha
prodotto, più diffusamente, un clima contrario ad un emulativo sviluppo del sistema universitario, a
danno dell’equilibrata gestione, della qualità e del merito ed a scapito, ovviamente, degli studenti.
Svolgere l’ufficio di rettore, di preside, di membro di consiglio di amministrazione è divenuto,
anziché un compito succedaneo, da adempiere con spirito di servizio, una vera e propria
“professione”, una sorta di carriera parallela a quella del professore universitario. Il disegno di legge
sui ricercatori, che contiene qualche elemento positivo in ordine alla limitazione dell’influenza dei
settori scientifici disciplinari, poco fa per contrastare i poteri locali, anzi, finisce per rafforzarli.
Individua quale avversario le cd. corporazioni accademiche (che, se il sistema universitario
attraversa la crisi attuale, hanno sicuramente forti responsabilità e colpe), ma non comprende che
altrettanto pericolose sono le corti locali (e, spesso, le vicende più delicate derivano proprio dalla
contaminazione tra gruppi di pressione accademici e lobbies locali). Occorrerebbe, dunque,
affiancare all’autonomia la responsabilità e, cioè, far sì che scelte consapevoli degli atenei siano
ammesse, ma che essi paghino lo scotto di scelte sbagliate.
E veniamo al punto di arrivo di tutto il discorso sin qui compiuto: la valutazione della
didattica e della ricerca o, meglio, lo sviluppo della valutazione nell’università italiana. Non può
aversi concorrenza, merito, autonomia responsabile, né possono essere distribuite con
consapevolezza le risorse finanziarie, senza un sistema di valutazione delle istituzioni universitarie
serio e funzionante.
Sotto questo profilo, un dato positivo è rappresentato dall’istituzione dell’Agenzia nazionale
di valutazione dell’università e della ricerca (ANVUR). Pur suscitando la legge talune perplessità di
fondo (ad esempio, anziché adottare il modello organizzativo dell’autorità indipendente, come in
altri paesi, si è preferito impiegare quello dell’agenzia, collegata al ministero), l’iniziativa è
senz’altro valida. Il problema è che l’ANVUR non potrà iniziare a produrre i risultati della sua
attività (nella più ottimistica delle ipotesi) prima del 2010. Va colta positivamente, in tal senso,
anche la recente decisione di rinnovare l’esperienza del CIVR (che, pur con alcuni difetti strutturali
e funzionali, aveva provveduto a valutare la ricerca per il periodo relativo alla produzione
scientifica 2001-2003), in modo da non restare privi di meccanismi di valutazione per ben tre anni.
Infine, rappresentano un significativo passo in avanti il d.m. n. 362/2007, che definisce le linee
guida generali di indirizzo della programmazione universitaria 2007-09, ed il d.m. n. 506/2007, che
contiene gli indicatori di qualità e quantità per il monitoraggio e la valutazione dei risultati
dell’attuazione dei programmi universitari, i quali attribuiscono uno spazio rilevante alla
valutazione dei risultati e legano in parte l’attribuzione dei finanziamenti alla qualità degli esiti
ottenuti. Si è, tuttavia, appena agli inizi: la strada da compiere per pervenire ad un modello di
valutazione organico e coerente è ancora lunga ed irta di ostacoli.
La valutazione universitaria deve essere di tre tipi e tutti vanno coltivati e sviluppati, in
modo da poter creare una rete di dati miranti allo sviluppo della competizione, fondata
sull’imitazione delle best practices. La valutazione istituzionale è volta a stabilire per facoltà e
settori scientifici, quali siano le realtà più virtuose della penisola sotto il profilo della ricerca: a
questo compito principale dovrebbe adempiere l’ANVUR, attraverso rinnovati ed innovativi
(nonché coraggiosi) criteri. La valutazione della produzione scientifica dei singoli docenti
(migliorando l’esperienza del CIVR), per monitorarne la qualità (anche a fini di differenziazione
degli incentivi finanziari, data una base stipendiale fissa), ma talvolta anche semplicemente per
verificarne l’esistenza (con annesse sanzioni disciplinari, anche estreme, in caso di reiterata assenza
di produzione scientifica). La valutazione della qualità-quantità didattica dei programmi e dei corsi
universitari (anche qui con ricadute sui finanziamenti, per gli aspetti quantitativi e qualitativi), ma
anche dei singoli docenti, avvalendosi, sotto questo profilo, dell’esperienza del CNVSU,
sviluppando le dinamiche di autovalutazione da tempo avviate ed affiancando ad esse le necessarie
procedure concernenti l’accreditamento dei corsi di laurea. L’evoluzione delle tre forme di
valutazione deve proseguire in via parallela, in modo tale che l’una funga da supporto all’altra e
che, pur conservando la separazione tra esse, i dati possano essere incrociati e confrontati in tempo
reale.
In materia di valutazione, le questioni più delicate e rilevanti sono due: quali sono e come
sono individuati gli standard ed i parametri utilizzati; chi effettua la valutazione e su quali basi
viene selezionato. È evidente che le regole dell’attività incidono in modo decisivo sull’esito della
stessa. Su tali punti, tuttavia, non si può, in questa sede, entrare nel merito, essendo talmente delicati
e complessi da richiedere appositi dettagliati interventi.
Certo è che un sistema di valutazione serio e funzionante costituisce la chiave di volta per lo
sviluppo di un apparato universitario fondato sul merito, sulla concorrenza, sull’autonomia
responsabile. Atenei, scienziati, docenti, deputati funzionalmente a valutare, debbono considerare
come un’opportunità, anziché come un fastidio, l’idea di essere sottoposti a valutazione.