La chiesa cattolica di fronte alla pena di morte

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La chiesa cattolica di fronte alla pena di morte
Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli
LA CHIESA CATTOLICA DI FRONTE ALLA
PENA DI MORTE (*)
Giannino Piana
I primi tre secoli della vita della Chiesa sono stati contrassegnati da un
atteggiamento di netto rifiuto della pena capitale. Tale atteggiamento, che
è rintracciabile nelle testimonianze di molti Padri - Lattanzio, Tertulliano,
Minucio Felice, Ippolito e così via - si inscrive all'interno di un contesto
di più generale rifiuto di ogni forma di violenza; rifiuto che non si
traduce soltanto nel respingere la guerra ma anche nel fare obiezione di
coscienza al servizio militare, rinunciando perciò a ogni forma di
partecipazione all'esercito. L'assoluta fedeltà al radicalismo evangelico,
che include quale istanza fondamentale la non-violenza, è il motivo di un
atteggiamento tanto drastico.
Accanto a questa motivazione, che occupa senza dubbio il posto
centrale, ne esistono tuttavia anche altre, prima fra tutte - come
osservano molti studiosi di tale periodo - la volontà di respingere una
concezione assolutistica della politica, che assegnava all'autorità civile un
potere assoluto con connotati persino sacrali - a Roma vigeva il culto
dell'imperatore - e che sfociava nell'attribuzione a essa del diritto di vita e
di morte nei confronti dei cittadini. Per questo in diversi scritti patristici
il diniego della pena di morte risulta strettamente connesso alla polemica
anti-idolatrica verso il mondo pagano; polemica che ha caratterizzato i
primi secoli di vita della chiesa e che aveva di mira la desacralizzazione
del potere politico - Cesare non è Dio - nonché la sottrazione a esso di
una disponibilità assoluta sulla vita di coloro che sono governati.
La motivazione più importante della condanna della pena capitale (come
d'altronde di ogni altro attentato alla vita umana), però, era costituita
dalla sua inconciliabilità con il comandamento dell'amore, l'asse portante
dell'intera esperienza morale del cristiano. La carità, che implica il dono
di sé all'altro, e dunque la rottura di ogni barriera di separazione fino alla
caduta della linea di demarcazione tra "prossimo" e "nemico" - ogni
uomo è prossimo e va come tale trattato - è infatti del tutto
incompatibile con l'esercizio di qualsiasi forma di violenza, soprattutto
con la soppressione della vita umana.
Nel IV secolo questa posizione viene improvvisamente a cadere. Il
ripristino del legame tra religione e politica, che ha luogo in epoca
costantiniana con la definizione di un patto di mutuo sostegno, riporta
nell'alveo politico la questione della vita. Il sinodo di Arles del 314 - a
ridosso dell'editto di Milano del 313 che riconosce la libertà religiosa per
la professione di fede cristiana - non solo permette ai cristiani l'esercizio
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del servizio militare, ma dichiara addirittura che tale servizio è un dovere,
punendo la diserzione con l'esclusione dai sacramenti. A sua volta, a
distanza di alcuni decenni, sia pure con le dovute precisazioni e con
l'obiettivo di fissare i limiti della sua applicabilità, Agostino introduce il
concetto di "guerra giusta"; concetto che permarrà a lungo nell'ambito
della tradizione cristiana. La pace infatti, da lui definita tranquillitas ordinis
o ordinata concordia e considerata, per lo stretto rapporto con la giustizia,
come il compito supremo della comunità politica, rende legittimo da
parte dello stato l'uso della forza laddove si danno situazioni di conflitto,
che non possono essere diversamente sanate.
Il riconoscimento della legittimità della pena di morte è dunque motivato
da una ragione di ordine sociopolitico. Alla quale si aggiunge tuttavia - e
godrà in seguito per tutto il medioevo di un'indiscussa importanza - una
ragione strettamente intraecclesiale, l'interesse della chiesa a combattere i
propri nemici, gli eretici, e perciò il ricorso al potere politico come
strumento privilegiato ("braccio secolare") per l'esecuzione di tale
compito.
L'etica postcostantiniana è dunque una etica del compromesso, dominata grazie soprattutto all'enorme influenza del pensiero di Agostino - da un
forte pessimismo antropologico e dal riconoscimento della possibilità (e
dell'utilità) che il potere politico commini (ovviamente quale extrema ratio)
la pena di morte in vista del mantenimento dell'ordine sociale o della
preservazione dell'integrità dottrinale all'interno della chiesa, facendo
affidamento quale correttivo - come vuole lo stesso Agostino - sul potere
di intercessione del vescovo: "La vostra severità - egli scrive alludendo al
potere dei magistrati - è utile perché assicura la nostra tranquillità: la
nostra intercessione è utile perché tempera la vostra severità". 16 Le
grandi istanze del discorso della montagna sono del tutto accantonate; la
tendenza è a farne una lettura sempre più "interiorizzata" e "privatistica",
escludendo in partenza la loro applicabilità alla conduzione della vita
pubblica.
La giustificazione della legittimità della pena di morte persiste inalterata
nella Chiesa anche in epoca medioevale. Anzi, sembra persino
rafforzarsi, sia grazie ad alcuni pronunciamenti ufficiali della gerarchia,
sia, e soprattutto, in forza dell'elaborazione, a livello teologico, di più
solide argomentazioni dottrinali.
Sul primo versante - quello del magistero - le posizioni non sempre sono
omogenee. Mentre appare infatti chiara, da un lato, la conferma della
liceità della pena capitale - è sufficiente ricordare la dura condanna della
posizione assunta dai valdesi che ne impugnavano la legittimità - e si
assiste persino a una maggiore intransigenza rispetto al passato, che
porta alla sostituzione dell'intervento mitigante del vescovo auspicato da
Agostino (la intercessio episcopalis) con l'imposizione al potere secolare, in
presenza di un eretico, di rendere esecutiva la pena; si fa strada, dall'altro,
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in alcuni casi, soprattutto a seguito di una sempre maggiore distinzione
delle competenze tra potere spirituale e potere temporale, il divieto di
processi che prevedano la comminazione della pena capitale in luoghi
dipendenti dalla giurisdizione ecclesiastica (è quanto prescrive, per
esempio, il sinodo di Rouen del 1190).
Dal canto suo, la teologia medioevale affina le motivazioni che ne
legittimano il ricorso, dando la prevalenza a quelle di ordine eticopolitico. Lo sviluppo dell'idea di "bene comune" e la convinzione diffusa
che esso deve avere il primato su quello individuale diviene la ragione
determinante per giustificare la soppressione di chi rappresenta un serio
pericolo per la sua preservazione. "Il bene comune - afferma in termini
perentori Tommaso d'Aquino - è migliore del bene particolare di una
sola persona. Si deve quindi sottrarre un bene particolare per conservare
il bene comune. Ora la vita di alcuni uomini pestiferi impedisce il bene
comune". (1) Accanto alla ridiscussione delle motivazioni, ha inoltre,
luogo in questo ultimo periodo, una più precisa definizione della casistica
nella quale la pena di morte può essere applicata. Il dibattito che si apre
chiama in causa gli aspetti di continuità, ma anche di differenza, tra
peccato e reato. Il primato assegnato alle motivazioni di ordine sociale
spinge a dare la preminenza a quegli atti che hanno un'immediata
ricaduta sull'ordine pubblico. Ma l'ancora insufficiente distinzione tra i
due piani lascia sussistere frequenti oscillazioni dall'uno all'altro: un
esempio di questa incoerenza è costituito dalla posizione di Duns Scoto,
il quale sostiene la necessità della pena di morte per i casi di assassinio e
di bestemmia, mentre si oppone alla sua applicazione nei casi di furto e
di adulterio. (2)
La riforma protestante non modifica sostanzialmente la posizione
medioevale. Lutero afferma con forza l'esistenza di un potere di vita e di
morte delegato da Dio agli uomini investiti di autorità politica. Egli si
oppone tuttavia all'uso della pena capitale per motivi esclusivamente
intraecclesiali, limitandone l'applicabilità soltanto ai casi di criminalità
comune. A spingerlo in tale direzione è soprattutto la preoccupazione di
evitare la commixtio regnorum, cioè la commistione tra legge e vangelo. Per
questo, al contrario di Zwingli e di Calvino, che considerando l'eresia
anche un delitto politico, optano per la pena di morte degli eretici, egli è
decisamente contrario in questo caso alla sua applicazione. (3)
La manualistica morale cattolica, che ha inizio nel XVII secolo, ribadisce
la legittimità della pena di morte, approfondendone le motivazioni, che
vengono ricondotte a tre argomentazioni, non necessariamente
alternative, assegnando, di volta in volta, all'una o all'altra la prevalenza.
La prima individua il fondamento della pena di morte nella retribuzione del
reato: essa rappresenterebbe un tipo di ritorsione, sotto forma di
sofferenza, inflitta al fine della restaurazione dell'ordine violato: malum
passionis quod infligitur ob malum actionis. La seconda riconduce il fondamento
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all'intimidazione: la pena di morte assolverebbe, in questo caso, a una
funzione di prevenzione e di dissuasione, costituendo il timore del
castigo esemplare una sorta di deterrente nei confronti della tentazione
di commettere lo stesso reato. Infine, la terza rinvia alla tutela della sicurezza
pubblica: la pena di morte concorrerebbe alla preservazione dell'ordine
sociale e andrebbe ascritta all'istituto della legittima difesa, il cui raggio
d'azione non può essere circoscritto alla sola sfera privata ma deve
estendersi anche a quella pubblica.
Note
*. Da P. Costa (a cura di), Il diritto di uccidere, Feltrinelli, Milano 2010, pp.
125-29.
1. Tommaso d'Aquino, Summa contra Gentiles, n. 146.
2. Cfr. Duns Scoto, IV Sentent., dist. XV, q. 3.
3. Cfr. Lutero, Scritti politici, n. 426. In ambito cattolico la legittimità della
pena di morte per gli eretici è soprattutto sostenuta, in questo periodo,
da Roberto Bellarmino.
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