silloge - Alberto Beccari
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silloge - Alberto Beccari
44 CARMI V 2006 Carme CVI Gennaio Dio ti ringrazio per la fresca neve, Non la solita triste spolverata Come zucchero a velo sulla torta, Ma così lieta e soffice e abbondante. Ora bambini stattemi a sentire: Con le mani formate una pallina, S’abbufferà di neve rotolando, S’ingrosserà sino a sembrar’un corpo Ed una palla formerà la testa; Una buccia d’arancia per la bocca Uno stecco ricurvo come naso Due sassolini a modo d’occhi neri: Ora esultate, ché il pupazzo è fatto Ed alla fantasia vi s’apra il cuore Com’io l’aprivo allora, da bambino, Mentre guardavo scendere le falde Bianche ed allegre come le farfalle. Ed ingenuo pensavo che il futuro Sarebbe corso via, sempre felice, Sopra un manto di bianco vellutato. Dio ti ringrazio ancor per quella neve Anche se or so che poi verrà ‘l disgelo. Carme CVII La prostituta. Mentre assiugava i piedi coi capelli Le lacrime scendendo ,giù dagli occhi Facevano brillar le nere cilia Come rugiada fresca sopra i fiori: - T’amo Signore mio, T’amo e Ti credo E sempre seguirò le tue parole, Verrò dovunque Tu vorrai portarmi. E Lui la sollevo, pietoso, e disse - Tu sei la prima e t’amo più dogni altra, Perché viscido l’uomo ti disprezza, Raccogli l’odio delle donne tutte Che son gelose di figli e mariti; Sei un fiore da sempre calpestato; E l’umile tra gli umili tu sei, Ma nel mio regno tu sarai tra i primi. 45 SILLOGE - A SILVANA Carme XXX A Silvana Non t’aspettar da me dei canti eletti Di Romeo sugli amori e di Giulietta, Di Giuda o di Medea sugli atti abietti, D’Edipo sulla storia maledetta, Ma solo versi docili e corretti Dalla cadenza armonica e perfetta Che dolcemente cullan gl’intelletti Con la semplicità dell’operetta. Son cose fresche, come a primavera Zeffiro fa, accarezzando e via, Per volar verso l’ombre della sera. Sarà così, tutta la mia poesia, Perché ti giunga soffice e leggera Con un pizzico di malinconia. Dal libro CARMI I ‘VINCITORE DEL - PREMIO INTERNAZIONALE A. MANZONI 1966. ‘segnalazione speciale - premio S. Marco - cita’ di Venezia 1995 - e al - premio Surrentinum - 1995 1948 Carme VIII Ai raggi di pallide stelle, Il labbro d’amor assetato, Sul labbro assetato d’amore Si posa. È come un mistero, un incanto Che avvince ed unisce due cuori E voi stelle tacite in cielo Guardate. L’armonica pace del buio Invade la timida notte: La luna, tra un velo di nubi, Scompare E complice assiste il creato Al compier del grande mistero Che in anima e corpo, nel buio, Ci unisce. Carme IX Spera, poeta infelice, spera d’aver quel labbro, di suggere il miele che Venere e Marte, un tempo lontano, poté, ben più in alto d’Olimpo, portar regni eterni a scoprire. Carme X (Traduzione libera da Valerio Catullo.) Ora viviamo, Silvana, ed amiamo, 46 Le chiacchiere dei vecchi maligni Tutte un soldino stimare dobbiamo. Possono i soli cadere e salire, Ma quando spegnesi la nostra luce Resta una notte d’eterno dormire. Or mille baci tu dammi, poi cento, Quindi altri cento ed ancor altri mille, Infine ancor mille, ancora altri cento. Poi, quando stanchi sarem di baciare, Presto confonder le somme dovremo Che niun malvagio ci possa invidiare. Carme XII Quando con l’ombra sua muta la notte Ogni cosa mortal e la sfigura, Se la tristezza, l’anima t’opprime, Prova a pensar a quella ciocca nera Che birichina starnutir ti fece, Od al color di quegli occhietti vivi, E a quante volte la baciasti, oh quante! Vedrai che lieto giungerà il riposo Rinnovellando del suo bel sembiante. Carme XIV Sognamo insieme, gioventù ci aiuta, Amor ci guarda e ci sorride amico, Siamo felici e ci vogliamo bene. Che mai potrò più chiedere alla vita? Che mai potrò più chiederti Signore? Che possa tal felicità finire, Quando dal mondo fuggirà l’amore. Carme XVIII Alta è la notte e domani sta già per venire. Le palpebre grevi si chiudon sul sogno dorato: sono felice. Tra poco gli occhietti graziosi, il suo naso e calda la bocca sua e i suoi capelli neri, per me, sol per me saran belli. Alta è la notte e, nel cuore, sogno e realtà si fondono insieme. 1993 Carme XX (Premio Levico 1994 Menzione speciale della giuria) La morte mi sta muta davanti: golosa di ghermirmi. 47 Nonostante l’amor tuo, oltre la porta, resto solo con lei. Per quanto grande sia la tua disperazione, copioso il tuo pianto, non potrai caricarti sulle spalle nemmeno un soffio del silenzio e del buio, infiniti, che mi attendono. Eppur dall’amore tuo, Silvana, da quel tuo pianto mi tornerà la luce. Carme XXIII Se ti venisse voglia di un sonetto Dimmelo pure: subito lo scrivo E spero che verrà grazioso e vivo, Come le gambe allegre di un balletto. Voglio che scorra il verso ognor perfetto Come fa l’acqua del giocondo rivo E nella mente già me lo descrivo Sì coreografico, come un minuetto. Or dal Foscolo sette rime prendo E le mie sette affido a fausti eventi Poi sulle bianche pagine le stendo. Ecco che questi miei truccati accenti Come mia merce, amore mio ti vendo, Ma di malizia hai gli occhi rilucenti. Carme XXV Dopo la morte questo corpo stanco Ardi col fuoco, e cenere ritorni; Quando a tua volta il dolce capo bianco Poserai fiacco, per i lunghi giorni, Mano pietosa per eguale uffizio, Dissolva al fuoco i tuoi dolci contorni. Nell’urna stessa attenderem che il vizio E la virtù si venga a giudicare Per ritrovarci il giorno del giudizio, Un attimo, amor mio, senza aspettare. Carme XXVI (Padus Amoenus Sissa: Premio Coltaro 1997) Ogni mattina, tu giaci al mio fianco nel letto, con torpidi occhi al risveglio. Leggero odo uscire, dalle labbra, il respiro: la vita! Ti guardo commosso, incantato: tu dolce, amorosa, abitudine mia felice. Carme XXVIII 48 Silva mi sembri una capretta nera quando ritorni dalla parrucchiera: civettuola ed allegra, coi capelli d’ebano con i garbati riccioli minuti. Così mi sembri una capretta nera quando ritorni dalla parrucchiera. Peccato! Un filo bianco, un altro, un altro ancora, si mescola al colore dei capelli. E se non fosse per quei pochi fili, tu sembreresti una capretta nera, quando rincasi dalla parrucchiera. ALTRE 1994 - 2004 Carme XXXIX Se fossi nato in un diverso tempo Senza saperlo, oh solo amore mio, Come t’avrei cercata inutilmente! Con Alessandro nelle donne indiane Così sensuali e piene di mistero, O con Cesare tra valchirie bionde Nelle nebbiose selve dei Germani; Con Marco Polo nell’antica Cina tra le donnine sue di porcellana, O con Colombo, verso un mondo nuovo, L’orme seguendo del divino Ulisse. È forse questa l’ansia che sospinge Uomini seri, uomini sapienti Le fonti a ricercar del Nilo azzurro, La bianca vetta del Kilimangiaro, Senza riuscire a darsene un perché? Ecco un vero miracolo di Dio: Trovarsi insieme nello stesso luogo, In un attimo dell’eternità. Carme XL Ti ricordi la gioia di quei giorni a Venezia in quell’eterno camminare senza una meta, in quell’andare, l’un dietro l’altra, per le sue fresche calli uscendo uniti nel sole dei campi stupiti dai limpidi bagliori dei marmi, dei mosaici, degli ori? Ti ricordi la gioia del mutar dei colori dell’acqua al cangiar del tuo viso, del tuo sorriso che lentamente andava spegnendosi stanco, 49 nella notte rosata dagli antichi lampioni, in una romantica, calda ballata? Or nelle nebbie d’un’età grigia, avvolta nei bianchi capelli, rammenta quei giorni monelli pieni d’oblio, vuoti d’affanni; quei giorni leggeri nel sole. Carme XLI Noi siam due note, Do diesis re bemolle, Un solo suono. Carme LIII Ti ricordi, Silvana, quel primo fuggevole bacio nella strada di periferia al separarci per ritornare a casa? Quel casto bacio sulla bocca nel buio della sera, là, sotto lo spento lampione della chiesetta vicino all’ospedale? Noi eravamo in un romanzo rosa dell’ottocento, fatto d’amore che rimava con cuore, quasi ritratti in un quadro di banalità. Ma che felicità nella casta promessa mantenuta di quel continuo amore rinnovato che, nel tempo disfatto, ancora, tu mi perpetui intatto. Carme LIV - Conviviale - (alla tua zuppa inglese) (Vincitore del prestigioso premio Giuseppe Tirinnanzi - Legnano 1999) Ricordi quelle sagre di päese Che dopo una fantastica mangiata Finivan sempre con la - Zuppa Inglese - ? Piena di crema casta e vellutata, (Sopra la gialla, sotto quella nera Divise da una brusca marmellata) Avvolta in una rossa bomboniera Fatta di savoiardi e di liquore, Essa t’accompagnava sino a sera. Colorata, così, come un bel fiore Si disfaceva lentamente in bocca Riempiendoti di gusto e di torpore Come la nenia d’una filastrocca. Carme LV 50 Quel giorno morirò. Non sentirò mai più quell’aria fresca delle Dolomiti ricca di mille sensazioni estive; né, suadente ed asprigno, il profumo del mare; né gl’incerti vagiti delle nascenti, lievi primavere nelle mattine del luogo natale. Quel giorno morirò. Il dolce volto, chino su di me, d’una fresca infermiera non potrà più formare nella mente, neppure il desiderio d’un ricordo; e forse in quel momento le mani intorpidite non palperanno più l’aspra carezza del pulito lenzuolo di cotone. Il cibo sarà fiele alla mia bocca, una musica strana giungerà da lontano, fastidiosa come un ronzio di mosche, mentre il pensiero formerà una voce che l’arsa lingua modificherà. Forse mi piegherà il dolore dei muscoli contratti a maledire il giorno d’esser nato; o forse sarò cieco, simile ai mostri che popolano il mare nei più profondi abissi, nei sogni foschi delle notti cupe. Ma sia qualunque cosa, l’orribile momento non potrà cancellare nel ricordo quella mia vita, viva, insieme a te. Allora amore mio, prima d’entrar nel buio ad ascoltare l’eterno e cieco suono del silenzio, anche per un istante solamente, io vorrei risentire la tua voce Silvana mia. Carme LIX Ancora adesso, mogliettina mia, Tu sei la mia letizia, la mia vita Ed insieme la mia malinconia, Perché si scioglie il tempo tra le dita; Fugge il respiro, se ne va l’ardore, Si fissa nel pensier la dipartita. Ma dolce mi parrebbe il mio dolore Se dalla trista caligine potessi Sentir con la tua voce il tuo calore. Carme LXII Com’è ancor dolce il tuo pudore Passato così tanto tempo: Il buio è il regno del tuo amore. Carme LXXII 51 Il dolce tuo sorriso Si muta in ogni istante: È l’acquerello verde Dei prati in primavera, È l’ombra che ristora Chi va mietendo il grano, Il rosso delle foglie Che infuocano l’autunno, Il brivido d’un lago Blu nella casta neve; Arsura ogni momento E fresca sazietà. Carme LXXVIII Sei la mia luna E quando brilli tu Sorride il cielo. Carme LXXXIV Ricordi il caldo di quel giorno estivo! Noi due sereni, sedevamo insieme Sull’erba fresca, ai pié del monte Penna, Là dove acuta s’inerpica la roccia, Mentre il sole, giocando a luci ed ombre, Alle cose donava lo spessore. Il cocker di colore formentino Scoperto aveva il giuoco della palla E le ringhiava contro, ed abbaiava Spingendola col muso e con le zampe; Mentre la lunga lingua a penzoloni, Per ricercare il fresco, s’agitava. Insieme a lui giocavano i bambini Correndo lieti sopra il prato verde Col visetto arrossato dal calore. E scoppiettava il fuoco della legna, Mentre, posate in lastre di lavagna, del bue cuocevan le rosate carni, Atte ad ornare i tavoli di legno. Poi pranzavamo allegri e spensierati Con altri amici e col bicchiere in mano, All’ombra fresa d’un maestoso pino, Gettando al cane succulenti avanzi, Quas’irridendo al tempo che passava. Vi sarà ancora quella vecchia palla In un vecchio solaio polveroso? È morto quel grazioso cokerino, Son diventati adulti i due bambini; Ma noi siamo rimasti su quel prato, Nell’erba fresca ai pié del monte Penna, Dove acuta s’inerpica la roccia, Sempre fermi, con lei, nel nostr’amore. Carme LXXXV Com’é dolce la sera Dormire insieme a te, E chiudere quel giorno Con un tuo bacio lieve. Svegliarmi nella notte, Sentire la tua mano, Così vicina e calda. 52 Destarmi la mattina E porgere la guancia A un assonnato bacio Per dire con dolcezza, - Buon giorno amore mio - . Allora ti ringrazio Lettone genovese Di ferro ricciolino Che sai render felice Un bianco vecchierello Ancora innamorato De la sua vecchia amante. Carme LXXXVIII Ricordi quel sentiero di montagna Che s’inerpica in mezzo ai pini verdi Accompagnato da minute rocce, Quasi pietre miliari d’una strada? Poi vi s’apre la piana di Fuchiade Ricca d’erbe e di fiori variopinti Ornata d’orgogliosi martagoni Torniti nei colori rosa e arancio. Ricordi quella nuvoletta nera Che sembrava giocare tra le rocce, Quella piccola macchia contro il cielo? In un atimo s’allargava tutta Affamata d’azzurro luminoso, Desiderosa di mangiarlo tutto. E di tempesta s’imbruniva l’aria Folgorata da dei bagliori vivi; Il tuono percorreva le vallate Mentre gli aghi di grandine, cadendo, Penetravano, acuti, nei maglioni. Poi d’improvviso tutto si taceva E tornava a risplendere l’occaso Come se Giove, già rasserenato, Dopo riposti i fulmini infuocati, Ci guardasse benigno e compiacente. Tutto sembrava risvegliarsi allora: Cantavano gli uccelli nella luce Mentr’i cani spauriti, tra le panche, Uscivano leccandoti la mano. E gli insetti fecondi e laboriosi Propagavan la vita d’ogni fiore; S’intrecciavano i giuochi dei bambini, Mentre noi due, avvinti e stupefatti, Guardavami il tornare del sereno E ‘l nuovo rifiorire della vita. Carme LXXXIX Tu, giovane e bella, sembravi la vita che limpida scorre: grazioso zampillo di fresca fontana. 53 SILLOGE ICONE. (Segnalazione d’onore al Premio Firenze 1995:.) A Sua Eccellenza il Cardinale Giacomo Biffi augurando che possa continuare a lungo nelle sue coraggiose battaglie. Per invocazione Carme XXXIV Ave Maria (Zingaresca: antica forma poetica.) A Sua Santità Giovanni Paolo II° per un comune amore verso la madre celeste. Ave Maria di grazia piena, chiara e serena, il Signore è sempre con te e fosti tu a dar Gesù consolatore al peccatore. Tu tra le donne, beata e insonne, coi motti tuoi preghi per noi; per la mia sorte sino alla morte. . Carme XLIII Icone. a) Egli era Dio presente ed infinito Nell’eterno silenzio dello spazio Quando dal giorno separò la notte, Ponendo nel profondo e stelle e sole. Così la luce con mille colori, Mille armonie di suoni e di profumi Suscitò la gran festa della vita Che guizzò via vivificando l’onde, Volando nell’azzurro all’infinito E dando voce alla silente terra. Tra piante, fiori, frutti saporosi, Nacquero il bosco e la radura verde, Il prato solatio con l’ombra fresca, Il fuoco del vulcan ch’incendia i cieli Ed il deserto, il rivo spumeggiante Che corre come il tempo al suo destino. Indi l’acqua sfuggente e multiforme Venne a lambire la leggera arena Ed Egli le impastò, fece una statua, Un’anima v’infuse col respiro; Poi graziosa e garbata una compagna, Con grande amore, ancora gli donò. b) Eva tenendo sulle sue ginocchia, 54 Baciati gli occhi, accarezzando il capo: - Eva - le disse - queste meraviglie Che vanno sino al giunger della luce Ed attorno rimiri all’infinito, Tutte le fece Iddio, tutte ci diede. Ed ella a lui, fissa lo sguardo agli occhi: - Amore mio di tutte queste cose Tu puoi godere, ma nessuna è tua. Le mucche tu le vedi ma non sai Se son quante le dita d’una mano, D’entrambe, oppure delle nostre insieme Quando unite s’intrecciano amorose. Vedi il lupo giocare con l’agnello, Senti la fiera che ti lecca il viso, Ma cosa muove mai le loro vite? Che cosa batte dentro il loro petto? Perché dormono e van brucando l’erbe? Ma se saprai contarle ad una ad una, Conoscere il perché di queste cose Avrai la scienza e tutte saran tue: Diverranno obbedienti al tuo comando, Il tuo potere splenderà sul mondo. c) Orgogliosa la mostra ad un’amica, Stende la mano e l’indica col dito: - Quella è Maria, mia figlia prediletta. Obbediente la bimba nella scala S’avanza, verso il sommo sacerdote; Questi l’attende sulla soglia sacra Mite nel cuore, ma severo il viso Incorniciato dalla folta barba. Ricco di marmi la sovrasta il tempio, Immenso appare agli occhi suoi, ma lei Muove sicura incontro alla sua sorte. d) Venuto il tempo e giunto alla sua casa, L’arcangelo Gabriele, mentre guarda Quegli occhi liquidi com’é la notte, Le dice - Ave Maria piena di grazia Il Signore è con te. - Questo il saluto; Poi le reca la volontà di Dio: Del ventre suo santificato in Cristo E della vita sua, del suo dolore. Muta la donna, reclinato il capo, Inginocchiata come una bambina Al cospetto d’un mago misterioso Che parlando le sveli il suo destino, Trema pudica al verbo del Signore. Dice: - Sia fatta la sua volontà. Lei, tra tutte le donne benedetta, Pur subendo lo scherno dei vicini, L’invidia delle sterili comari, I primi ombrosi dubbi di Giuseppe, Come una trepida, amorosa madre Culla nel cuore la gioiosa attesa. 55 e) Quando venne la notte misteriosa, Prese il suo bimbo e, con le mani amiche, Lo pose a riposare sulla paglia; Un asino ed un bue soli compagni. Dagli angeli avvisati nella notte, Seguiti dal belar stanco del gregge, Discesero i pastori alla capanna Per adorare, ed al celeste coro S’unirono a cantar con franca voce: - Lode al Signore nei sereni cieli, Pace in terra alle genti laboriose, Ai popoli di buona volontà. Là dove il giorno va tingendo il cielo Col velo rosa che la vaga Aurora Gli porge al primo nascere del sole, Già s’eran mossi i Magi dell’oriente. Seduti sulle selle ricche d’ori, Cavalcando magnifici destrieri Di fini briglie e di gualdrappe ornati, Seguon l’astro lucente nelle notti, Per giungere alla misera capanna Ad adorare il bimbo del presagio. f) Torbida e nera e complice, la notte Nascose i cavalieri del monarca Mentre, tra il pianto e la disperazione, Strappavano i bambini dalle madri Per soddisfar l’angoscia del tiranno. Raccolti gli innocenti entro una sala, Provvidero i soldati, ebbri di vino, A perpetrare la più cupa strage. Emblematico fu quel giorno orrendo: Mutilazioni, aborti, stupri e fame, Scandali e morte fatti sui bambini Tutti son maledetti dal Signore, Oltre il finir dei secoli in eterno! g) Il tempo in cui compiva i dodici anni, Giunti a Gerusalemme per la Pasqua, Ecco che sulla strada del ritorno S’accorsero, sgomenti, i genitori Che con loro non c’era più Gesù. Oh tre giorni d’angoscia, di tormento, Ed eterni, per la ricerca ansiosa. Era nel tempio che parlava ai saggi Muti, incantati dalle sue parole. Che gioia fu trovarlo e quale orgoglio Vederlo disputar tra quei vecchioni; Ma ancor più grande lo stupore quando, Rispondendo alle grida ed ai rimbrotti, Disse: - Perché cercarmi, non sapete? Sto curando le cose di mio Padre. Come fu muto e triste quel ritorno Mentre ognuno dei tre, dentro il suo cuore, 56 Presagiva la fine della storia. h) Accadde che in quel dì, vicino al fiume, Giovanni, circondato dalle genti, Battezzasse con l’acqua del Giordano Che, lì, scendeva pigra alla sua foce Sbiancando in lievi spume contro i sassi; Dietro c’era, invisibile al suo fianco, L’ombra nera ed immobile d’Erode. Mentre Cristo pregava a capo chino, Lo benedì Giovanni con quell’acqua; Stupito s’aprì il cielo e la Colomba Discese su Gesù, s’udì la Voce: - È questo il mio figliuolo prediletto, Perciò di lui mi sono compiaciuto. i) Celeste padre, Dio dell’universo, Noi canteremo sempre la tua gloria. Venga il tuo regno e la tua volontà Sia fatta così in terra come in cielo. Sotto la neve tieni caldo il grano Frutto della fatica quotidiana E del sudore della nostra fronte. Perdonaci le offese ed i peccati, Come i debiti noi rimetteremo All’orfano che chiede con la mano, Alla vedova, al padre disperato. Allontanaci dalle tentazioni, Dalle bassezze, dai pensieri turpi E quando giunge l’ora della morte, Quando si spegne l’umile candela, Vienci incontro, Signore, sulla via. l) Quante sono le belle cortigiane, Il volto dolce come una madonna, Occhi torpidi e morbida la bocca Che ancheggiano sinuose e compiacenti! Così la peccatrice s’avvicina Alla tavola ornata per la cena. La guardano con sdegno i convitati, Ma subito si piega sui ginocchi E prende l’acqua fresca e lava i piedi, E li asciuga con i capelli sciolti. È piena di speranza e d’umiltà, Non parla, nella mente ha la preghiera. Gesù capisce e stende la sua mano: - T’ha redenta la fede, Maddalena: Io ti perdono d’aver molto amato, Vattene in pace e non peccare più. m) Mentre il povero implora con la mano Per chiedere un po’ d’acqua, un po’ di pane, Epulone si sazia di peccato. Sdraiato al desco con le cortigiane, Ch’espongono le carni vellutate 57 Come cibi preziosi al suo palato, Egli v’affonda ingordo ed occhi e mani. Fanno cornice a quella ricca mensa Quattro virtuosi, siedono per terra Suonando delle musiche sensuali, Con preziosi strumenti a corda e a fiato. La presenza del triste mendicante Aumenta per contrasto ogni piacere. Or, nel rugghiante fuoco dell’inferno, Nuovo Prometeo ognor incatenato, Con gli occhi riarsi ed arida la gola, D’un rivo sente il fresco mormorare, Chiede stremato un solo sorso d’acqua; Di bagnargli le labbra con un dito, Ma nessuno l’ascolta, ché l’ingordo Ha già bevuto in vita a sazietà. n) Quando giunge vicino a quella tomba Già l’odore dolciastro della morte Aleggia sulla gente disperata. Ma la donna lo prega e tanta fede Tocca il Signore ed egli si commuove. Lazzaro, uscito dalla nera morte, Come un bimbo svegliato la mattina Sbatte le palpebre alla viva luce Che gli ferisce gli occhi all’improvviso; Barcollando, insicuro nel cammino, Lascia il sepolcro per entrar nel sole. Tra i parenti, gli amici, i famigliari C’è chi trema, chi tace ammutolito, Chi s’accascia travolto dall’orrore E chi per non veder fugge lontano. Ma il sasso è già caduto nello stagno Ed il cerchio s’allarga all’infinito: Più nulla può restar com’era prima. o) Mentre prega sul monte degli ulivi, Dormono gli altri in quella notte orrenda Che lo consegna al tragico destino. Come il fratello che il fratello uccide Corre lungi dal luogo del delitto, Giuda nel buio cerca un nascondiglio Per sfuggire allo sguardo del Creatore, Ma la voce di Dio lo segue ovunque. Veloce il cuore pulsa nelle orecchie, Affannoso diventa il suo respiro, Il rimorso s’incolla come un’ombra, Più non resiste; un albero robusto Gli porge un ramo per il suo destino. p) - Forza gli dice il re, fammi vedere Che tu sai tramutare l’acqua in vino, Volar per l’aria come un lieve uccello, Edificare templi, i vaghi amici Richiamar dalle tenebre dell’orco. 58 Se tu non compi qui questi prodigi, Tu che d’essere dici il re dei re, Sei solo un miserabile cialtrone. Così beffardo lo deride Erode, Ma sa che non ha colpe e la sua vita Non osa consegnare al passo estremo: È macerato dentro dal rimorso D’aver donata, su d’un piatto d’oro, La testa di Giovanni a Salomé. Neri i capelli, gli occhi del cerbiatto, Sinuoso il fianco, il petto seduttore, Nuda danzando candida e lasciva, Gli aveva soggiogato sensi e mente Strappando quell’orribile regalo. Così rimanderà Cristo a Pilato Ed egli invano Lo vorrà salvare. q) Sotto la frusta trasudava il sangue Rosso rubino su quei fianchi scarni, Sul corpo fatto a reggere la croce. Ed egli sale lungo il suo Calvario Mentre il sudore lucido e copioso Lo bagna macerando le sue carni. - Sali re dei Giudei verso la morte. Urla la gente immemore e crudele. E cade, attende aiuto e gli occhi stanchi Invocano un sollievo al suo soffrire. - Sali re dei Giudei verso la morte. Si sente solo, là su quella croce, Ed anche il dubbio turba la sua mente: - Oh Padre mio! Perché tu m’abbandoni? Muovendo lento, l’astro della notte Oscura il sole, e tutti gli animali Zittiti dal terrore del portento Corrono a ripararsi nelle tane. Si nasconde il serpente tra ‘l fogliame, Gli uccelli il capo coprono con l’ale, Trema la terra mentre Cristo muore; Degli amici lo segue il tradimento Al cantare del gallo nel mattino. r) Risorto tornerà dentro la barca Che, rossa macchia contro il cielo nero, Vaga squassata sull’ondoso lago. Si distendon placate l’acque stanche Al lento segno della man di Cristo; E l’astro bianco che risplende in cielo Lenti di fuoco va segnando intorno Che guizzano al rollio come folletti. Calan le reti dentro quell’incantato, Vibrano i pesci avvinti dalle maglie Già catturati dal divino verbo, Mentre sale sicura la sua voce: - D’anime Pietro sei mio pescatore La Chiesa erigerò sulla tua pietra. - 59 s) È verde la collina degli ulivi Quando viene il momento del commiato, Ma s’inargenta al sole mentre Cristo Sale al cielo, sparendo tra le nubi, Per sedere alla destra di Dio Padre. Qui si compie la vita di Gesù, Qui comincia la storia della Chiesa Nell’attesa dell’ultimo Vangelo. Per ringraziamento Carme XLIV all’Angelo Custode Al Sindaco di Venezia Massimo Cacciari per una eguale simpatia verso l’Angelo Custode. Angelo del Signore Posa benedicente La mano sul mio capo; Se l’ombra del peccato S’allunga su di me, Sorreggi il piede mio, Governa il mio cammino, Ridona la tua luce All’insicura mente. Così tu sia per sempre Custode di quell’anima Che t’ha affidato Iddio. 60 SILLOGE A VENEZIA Carme XIX Acrostico. (Premio internazionale di poesia Mario Rapisardi Catania 1993 Diploma di merito.) Vedo le cupole, e son sodi seni, E lei che s’apre al mio peregrinare; Nella laguna sua calda e sensuale Entro felice come nell’oblio: - Zitto, mi dice, adagiati sul ventre, Il capo stanco posa sulla spalla, Amore mio, son Veronica Franco. Carme XXXVI: Mosaico.. Voglio Venezia che tu donna sia Per poter farti carnalmente mia. Vorrei Venezia, splendida città, Per poter farti carnalmente mia. Che tu fossi una donna; e voluttà E gioia aver con te. Forse é pazzia. Vorrei Venezia, splendida città, Per poter farti carnalmente mia Che tu fossi una donna; e voluttà E gioia aver con te. Forse è pazzia; Ma se m’aggiro di trifora in merletto, Perché scoloro come un giovanetto? Vorrei Venezia, splendida città, Per poter farti carnalmente mia Che tu fossi una donna; e voluttà E gioia aver con te, con bramosia Frugare ogni tua magica realtà, Ogni mistero tuo. Forse è pazzia; Ma se m’aggiro di trifora in merletto, Perché scoloro come un giovanetto? Carme XL. A Silvana. Ti ricordi la gioia di quei giorni a Venezia in quell’eterno camminare senza una meta, in quell’andare, l’un dietro l’altra, per le sue fresche calli uscendo uniti nel sole dei campi stupiti dai limpidi bagliori dei marmi, dei mosaici, degli ori? Ti ricordi la gioia del mutar dei colori dell’acqua al cangiar del tuo viso, 61 del tuo sorriso che lentamente andava spegnendosi stanco, nella notte rosata dagli antichi lampioni, in una romantica, calda ballata? Or nelle nebbie d’un’età grigia, avvolta nei bianchi capelli, rammenta quei giorni monelli pieni d’oblio, vuoti d’affanni; quei giorni leggeri nel sole. Carme XLVI Alla Fenice. L’ala spezzata, il fantastico uccello che tu vedevi volare nel cielo tra mille suoni, tra mille colori, muto si tace, ferito, per terra. Là, prigioniere tra nere rovine, grevi penombre confondono insieme maschere e volti, cupi fantasmi di cori lontani coprono i canti. Genti cortesi che tutte le cose più belle adorate, or di lacrime è tempo; or che Venezia va sciogliendo in pianto gli occhi cerulei della sua laguna, ora straziate il cuore col suo tormento. Carme IL Davanti a Burano Poesia vincitrice del - Premio Internazionale S. Marco cita di Venezia - 1996. (Sezione: - Una poesia per Venezia - ). Davanti a Burano Col sole morente T’accendi di rosso Laguna d’opale; È solo un istante. La gondola nera, Quell’ombra cinese Che scivola lieve Sull’acqua cangiante, Ti porta la sera. Lontano Torcello, Al blu della notte, Si chiude nel mare. Carme LXIII Dolce amante nell’acqua, dove si van formando fantastici colori della luce e della fantasia. Sull’assolata piazza suona la voce tua nella campana e si frantuma, lì, in cubetti d’argento, 62 sull’ali dei colombi, nel piombo opaco delle tue vetrate. E rivoli di luce; vanno ad illuminare i marmi ed i mosaici delle chiese; si spargono nei cieli delle notti serene frusciando via come gondole nere sui nastri di cobalto. Nel sole dei campielli, uno strambo Arlecchino va mescolando capriole e sberleffi agl’inviti suadenti dell’amante nell’acqua. Carme LXVIII Lo giuro. Nell’aria che s’imbruna C’è una gondola - verde Che scivola sull’acqua Della verde laguna. È come un quadrifoglio, Raro nel verde prato, Ma non porta fortuna: È solo una stranezza, Una testa di legno Assurda, inopportuna Che nera tornerà Come l’altre, di notte, Contro la gialla luna. Carme LXXI Quando traspari, tremula sull’acqua, Dietro una nebbia diafana e sottile, Ti porgi all’occhio mio com’un ventaglio In un morbido pizzo di Burano. Vedo San Giorgio, vedo le Zitelle, Il Redentore, rigido rinascimento, Lezioso per gli arditi minareti E la Salute, eretta sulla poppa, Sembra venirmi incontro Fendendo l’acque della tua laguna. Sulla destra la chiesa di Vivaldi E di colonne e di finestre ornato Il palazzo ducal ricco di fregi. La Cattedrale e le Procuratie Racchiudono un salotto: la tua piazza. Ed al suonar dell’ore, il campanile Un volo grigio di piccioni innalza Che ti nasconde il sole e il cielo incanta. Apollo padre della fresca aurora Che porti il dì con l’infuocato carro Sulla laguna ferma i tuoi destrieri: Mille cose vedrai forse più grandi Mai nessuna più bella di Venezia. Carme LXXXIII Scrigno di splendide gioie, Avvolta in marmi pregiati, Delle tue chiese, Venezia, 63 È la più casta e pudica: Maria Santa del Miracolo, Palcoscenico di Dio.. Carme LXXXVII Uccisa dalla gretta stupidità dell’uomo, alla vita risorge la Fenice. Signore ti ringrazio! Limpidi suoni melodia di canti e morbidi colori, cacciano l’ombre d’orridi fantasmi. Rotta l’oscura notte, come Lazzaro uscita dalla tomba tolte le bende grigie porge ancora le maschere e le voci. Votate a nuova gloria, libera vola verso l’infinito sopra l’acque cangianti. Carme CIV (dall’isola dei morti a Venezia.) Dal verde sacro, dalle grigie tombe torno all’imbarcadero. Guardo. Davanti quell’antica chiesa, sul fondo blu del cielo, si staglian le montagne disegnate con la matita bianca. L’aria dell’atmosfera, tersa come la fede, limpida come l’occhio d’un bambino, sembra che te le ponga sul palmo della mano. Tu fermale pittore sulla tela, e conservale per l’eternità. 64 G.V. CATULLO Carmi - Delinea Libri Traduzione di Alberto Beccari Edizione fuori commercio Maggio 1996 ‘II Passer, deliciae meae puellae, Quicum ludere, quem in sinu tenere, Qui primum digitum dare adpetenti Et acris solet incitare morsus, Cum desiderio meo nitenti Karum nescioquid libet iocari Credo ut, cum gravis aquiescet ardor, Sit solaciolum sui doloris, Tecum ludere sicut ipsa possem Et tristis animi levare curas! ‘2 Passero, gioia della mia fanciulla, Che gioca con lui, se lo tiene in seno; Per eccitarlo porge all’acre morso La punta del suo dito da beccare, E lei, lo splendido amor mio, quel giuoco, Non so per qual motivo, ami giocare: Credo che possa, dall’affanno suo, Distrarla: il suo focoso ardor sopire. Con te potessi come lei svagarmi, Dall’animo levar le tristi cure! ‘III Lugete, o Veneres Cupidinesque Et quantumst hominum venustiorum. Passer mortuus est meae puellae, Passer, deliciae meae puellae, Quem plus illa oculis suis amabat: Nam mellitus erat suamque norat Ipsam tam bene quam puella matrem, Nec sese a gremio illius movebat, Sed circumsiliens modo huc modo illuc Ad solam dominam usque pipiabat. Qui nunc it per iter tenebricosum Illuc unde negant redire quemquam. At vobis male, sit, malae tenebrae Orci quae omnia bella devoratis: Tam bellum mihi passerem abstulistis. O factum male! O miselle passer! Tua nunc opera meae puellae Flendo turgiduli rubent ocelli. ‘3 Voi Amorini e Veneri piangete E quanti sono gli uomini gentili, Della mia Lesbia é morto il passerotto, Vera delizia della mia fanciulla E lei l’amava più degli occhi suoi: Era il suo miele e la riconosceva Come il bimbo la madre riconosce, 65 Né mai non si muoveva dal suo grembo, Di qua, di là correva saltellando E cinguettava solo alla padrona. Ora s’avanza per la strada oscura Donde nessuno fece mai ritorno. Sii maledetto tu, buio dell’Orco Che le cose più belle ti divori: M’hai rapito quel passero grazioso. Misero passerotto! Oh turpe cosa! Ora, per colpa tua, si fanno gonfi E rossi gli occhi della mia fanciulla. ‘V Vivamus, mea Lesbia, atque amemus, Rumoresque senum severiorum Omnes unius aestimemus assis. Soles occidere et redire possunt: Nobis cum semel occidit brevis lux, Nox est perpetua una dormienda. Da mi basia mille, deinde centum, Dein mille altera, dein secunda centum, Deinde usque altera mille, deinde centum. Dein, cum milia multa facerimus, Conturbabimus illa ne sciamus, Aut nequis malus invidere possit, Cum tantum sciat esse basiorum. ‘5 Ora, mia Lesbia, viviamo ed amiamo, Il mormorare dei vecchi maligni Dobbiam stimarlo soltanto un soldino Possono i soli morire e risorgere, A noi, se spegnesi la breve luce, Resta una notte d’eterno dormire. Or mille baci tu dammi, poi cento, Quindi altri cento ed ancor altri mille, Infine mille, poi cent’ancora; Dopo aver fatte parecchie migliaia, Rimescoliamole senza contarle, Ché nessun osi di farci il malocchio, Quando saprà che ci son tanti baci. ‘VII Quaeris quot mihi basiationes Tuae, Lesbia, sint satis superque. Quam magnus numerus Libyssae harenae Lasarpiciferis iacet Cyrenis, Oraculum Iovis inter aestuosi Et Batti veteris sacrum sepulcrum, Aut quam sidera multa, cum tacet nox, Furtivos hominum vident amores, Tam te bastia multa basiare Vesano satis et super Catullost, Quae nec pernumerare curiosi Possint nec mala fascinare lingua. ‘7 Tu chiedi quanti baci Lesbia sian Sufficienti per farmene saziare. Quanti granelli son le sabbie libiche, 66 Dove, ricca di silfio, sta Cirene, Tra l’assolato oracolo di Giove E l’antica sacral tomba di Batto, O quante stelle nella muta notte Vedon furtivi degli uomini gli amori, Se tu mi bacerai con tanti baci Catullo ingordo si potrà saziare; Ne possano contarli i più curiosi Ne far lingue maligne la fattura. ‘VIII Miser Catulle, desinas ineptire, Et quod vides perisse perditum ducas. Fulsere quondam candidi tibi soles, Cum ventitabas quo puella ducebat Amata nobis quantum amabitur nulla. Ibi illa multa tum iocosa fiebant, Quae tu volebas nec puella nolebat. Fulsere vere candidi tibi soles. Nun iam illa non vult: tu quoque, impotens, (noli), Nec quae fugi sectare, nec miser vive, Sed obstinata mente perfer, obdura. Vale, puella. Iam Catullus obdurat, Nec te requiret nec rogabit invitam; At tu dolebis, cum rogaberis nulla. Scelesta, vae te! Quae tibi manet vita? Quis nunc te adibit? Cui videberis bella? Quem nunc amabis? Cuius esse diceris? Quem basiabis? Cui labella mordebis? At tu, Catulle, destinatus obdura. ‘8 Triste Catullo, più non vaneggiare, Ciò che vedi morire è già perduto. Ti rifulsero un dì candidi soli, Quando venivi dove lei voleva, Amata da me più d’ogni altra amante. D’amore, insiem, faceste molti giuochi, Che tu volevi e lei non ti negava. Ti rifulsero inver candidi soli. Ciò che non vuole lei, tu non volere, Non viver triste per seguir chi fugge, Ma tieni duro con ostinazione. Fanciulla addio, Catullo ti resiste; Non più voluto non ti cercherà, Ti pentirai: non ti vorrà nessuno. Malvagia, guai per te! Che vita avrai? Sembrerai bella a chi t’accosterà? E chi amerai? Di chi diran che sei? A chi, baciando, morderai le labbra? Ma tu, Catullo, con forza, resisti. ‘XI Furi et Aureli, comites Catulli, Sive in extremos pennetrabit Indos, Litus ut longe resonante Eoa Tunditur unda, Sive in Hyrcanos Arabasve molles, Seu Sagas sagittiferosque Parthos, Sive quae septemgeminus colorat Aequora Nilus, 67 Sive trans altas gradietur Alpes, Cesaris visens monimenta magni, Gallicum Rhenum, orribilesque ultiMosque Britannos Omnia haec, quaecumque feret voluntas Caelitum, temtare simul parati, Pauca nuntiate meae puellae Non bona dicta: - Cum suis vivat valeatque moechis, Quos simul complexa tenet trecentos, Nullum amans vere, sed identidem omnium Ilia rumpens; Nec meum respectet, ut ante, amorem, Qui illius culpa cecidit velut prati Ultimi flos, praeter eunte postquam Tactus aratro est - . ‘11 Furio ed Aurelio che mi seguireste Se penetrassi nell’India lontana, Dove battendo sulla sponda Eoa Ruggisce l’onda, Sia tra gli Ircani e gli Arabi lascivi, In mezzo ai Saci e tra i lancieri Parti, sia dove il Nilo con le sette foci Colora il mare. Sia camminando tra le vette alpine Per riveder di Cesare i trionfi Il Reno della Gallia, sin agli ultimi Torvi Britanni Voi che qualunque cosa voglia il cielo Sareste pronti, insieme, ad affrontare Dite alla mia fanciulla queste poche Acri parole: - Viva felice con i suoi amanti Che trecento n’abbraccia tutt’insieme E senz’amarne alcuno, a tutti quanti Spezza le reni All’amor mio trascorso non si volga, Reciso per sua colpa, ultimo fiore Toccato dall’aratro che passava in riva al prato - . ‘XIII Cenabis bene, mi Fabulle, apud me Paucis, si tibi di favent, diebus, Si tecum attulleris bonam atque magnam Cenam, non sine candida puella Et vino et sale et omnibus cachinnis, Haec si, inquam, attuleris, venuste noster, Cenabis bene: nam tui Catulli Plenus sacculus est aranearum. Sed contra accipies meros amores Seu quid suavius elegantiusvest: Nam unguentum dabo, quod meae puellae Donarunt Veneres Cupidinesque, Quod tu cum olfacies, deos rogabis, Totum ut te faciant, Fabulle, nasum. ; 68 ‘13 Mio Fabullo, da me cenerai bene Col favor degli dei tra pochi dì, Se porterai con te vitto copioso E buono ed una candida fanciulla E sale e vino e risa fragorose. Portando tutto ciò, leggiadro amico, Cenerai bene, ché di ragnatele È pieno il borsellino di Catullo. In cambio ti darò sincero affetto E quanto è di più fine e delicato: L’unguento raro che alla mia fanciulla Ebbe in dono da Veneri e Amorini. Tu, quando quel profumo sentirai, Pregherai Dio di farti tutto naso. ‘XIVa Siqui forte mearum ineptiarum Lectores eritis manusque vestras Non horrebitis admovere nobis. ‘14a Se per caso di queste inezie mie Un lettore sarai, non vergognarti, Vienimi incontro a stringermi la mano. XXVI Furi, villula vostra non ad Austri Flatus oppositast neque ad Favoni Nec saevi Boreae aut Apheliotae, Verum ad milia quindecim et ducentos. O ventum horribilem atque pestilentem! ‘26 Furio, la tua villetta non è esposta Ne del Favonio al vento, ne dell’Austro, Dell’Euro e di crudele Tramontana, Ma una cambiale di quindicimila Orribil vento, il più pestilenziale. ‘XXXI Paene insularum, Sirmio, insularumque Ocelle, quascumque in liquentibus stagnis Marique vasto fert uterque Neptunus, Quam te libenter quamque laetus inviso, Vix mi ipse credens Thyniam atque Bithynos Liquisse campos et videre te in tuto. O quid solutis est beatius curis, Cum mens onus reponit ac peregrino Labore fessi venimus larem ad nostrum Desideratoque acquiescimus lecto? Hoc est, quod unum est pro laboribus tantis. Salve, o venusta Sirmio, atque ero gaude: Gaudete vosque, o Lydiae lacus undae: Ridete quicquid est domi cachinnorum. ‘31 (a Giuseppe) Delle isole e penisole, Sirmione, Perla di quante avvolge il dio Nettuno 69 Nell’ampio mar, nei trasparenti laghi; Che gioia che letizia al rivederti, D’aver lasciato non mi sembra vero I Tini ed i Bitini ed ammirarti! Cos’è più caro che, tolti gli affanni E deposta la mente ogni sua cura, Tornare stanchi al nostro focolare E coricarsi nel desiato letto, Unico premio per i tuoi affanni? Salve bella Sirmione godi tutta, E voi godete Lidie onde del lago: Ridete ad ogni mio scroscio di risa. ‘XXXII Amabo, mea dulcis Ipsitilla, Meae deliciae, mei lepores, Iube ad te veniam meridiatum. Et si iusseris, illud adiuvato, Nequis liminis obseret tabellam; Neu tibi lubeat foras abire, Sed domini maneas paresque nobis Novem continuas fututiones. Verum, siquid ages, statim iubeto: Nam pransus iaceo, et satur supinus Pertundo tunicamque palliumque. ‘32 T’amo dolce Ipsitilla mia delizia, Piacevolezza mia, così ti prego: Fammi venir da te nel pomeriggio, E se ti fa piacere, per favore, Non chiudermi la porta dell’ingresso, Né ti venga la voglia d’andar fuori. Resta nella tua casa a prepararmi Nove chiavate senza interruzione. Fammi venire subito se vuoi: Giacendo sazio, con la pancia all’aria, Sto perforando tunica e mantello. ‘XXXIII O furum optime balneariorum Vibenni pater et cinaede fili (Nam dextra pater inquinatiore, Culo filius est voraciore); Cur non exilium malasque in oras Itis, quandoquidem patris rapinae Notae sunt populo et nates pilosas, Fili, non potes asse venditare. ^’33 Dei ladri delle terme ecco i migliori: Vibennio il padre, il figlio gran finocchio (La destra di quel padre è la più sozza, Il culo del figliolo il più vorace). Ora in esilio andate alla malora, Del padre tutti sanno le rapine E le pelose chiappe di suo figlio Tu vender per un soldo non sapresti. ‘XL 70 Qauanam temala mens, miselle Ravide, agit prarecipitemin mleos iambos? Quis deos tibi non bene advocatus Vecordem parat excitare rixam? An ut pervenias in ora vulgi? Quid vis? Qualubet esse notus optas? Eris, quandoqudem meos amores Cum longa volusti amare,poena. ‘40 Per quale pazzia, misero Ravido A precipizio corri nei, miei giambi? Quale divinità male invocata Ti spinge verso questa folle rissa? Tu vuoi finire sopra ad ogni bocca? Che cosa cerchi? D’accuistare fama? L’avrai, volendo amare l’amor mio Tu pagherai con una lunga pena. .’XLI Ameana puella dufututa Tota milia me decem poposcit, Ista turpiculo puella naso, Decoctoris amica Formiani. Propinqui, quibus est puella curae, Amicos medicosque convocate: Non est sana puella, nec rogare Qualis sit solet aes imaginosa. ‘41 Ammiana verginella strafottuta, Brutta ragazza dal nasone sconcio Amica d’un Formiano (1) in bancarotta, M’ha chiesto un diecimila tondo tondo. Oh voi parenti che l’avete a cuore Presto chiamate medici ed amici: È matta la fanciulla, allucinata, Non vede nello specchio com’è fatta. (1) Mamurra, originario di Formia, ladrone politico amico di Cesare. ‘XLIII Salve, nec minimo puella naso nec bello pede nec nigris ocellis Nec longis digitis nec ore sicco Nec sane nimis elegante lingua, Decoctoris amica Formiani. Ten provincia narrat esse bellam? Tecum Lesbia nostra comparatur? O saeclum insapiens et infacetum! ‘43 Salve fanciulla dal non picciol naso Ne bello il piede, neanche gli occhi neri Nemmeno lunghe dita e secche labbra Non scelta ne forbita la parola, D’un Formiano spiantato l’amichetta. Ed in provincia dicon che sei bella? 71 Con la mia Lesbia fanno paragoni? Che secolo ignorante e senza gusto! ‘XLV Acmen Septimius suos amores Tenens in gremio: - Mea - iniquit - Acme, Ni te perdite amo atque amare porro Omnes sum assidue paratus annos Quantum qui pote plurimum perire, Solus in Libya Indiaque tosta Caesio veniam obvius leoni - . Hoc ut dixit, Amor, sinistra, ut ante Dextra, sternuit approbationem. At Acme leviter caput reflectens Et dulcis pueri ebrios ocellos Illo purpureo ore saviata: - Sic - inquit - mea vita Septimille, Huic uni domino usque serviamus, Ut multo mihi maior acriorque Ignis mollibus ardet in medullis. Hoc ut dixit, Amor, sinistram, ut ante Dextra, sternuit approbationem. Nunc ab auspicio bono profecti, Mutuis animis amant amantur. Unam Septimius misellus Acmen Mavolt quam Syrias Britanniasque: Uno in Septimio fidelis Acme Facit delicias libidinesque. Quis ullos homines beatiores Vidit, quis Venerem auspicatiorem? ‘45 Acme tenendo sulle sue ginocchia, - Acme - Settimio disse - amore mio, Se pronto non sarò sempre ad amarti Per infiniti dì perdutamente Tanto forte che ne potrei morire, Possa trovarmi nella riarsa Libia Contro una fiera dal ceruleo sguardo. Ciò disse e, come prima da sinistra, Da destra amore starnutì propizio. Ed Acme lieve reclinando il capo, Baciando con la sua purpurea bocca Gli occhi inebriati e dolci del fanciullo Disse: - Così Settimio mio, mia vita Voglio servire sempre un sol padrone, Si che un gran fuoco ognora più cocente Arda nelle ossa il tenero midollo. Ciò disse e, come prima da sinistra, Da destra amore starnutì propizio. Ora partiti da sì buon auspicio, Amanti entrambi s’amano riamati. Settimio, trepido per Acme sola, Lascerebbe le Sirie e le Britanne; (1) Acme fedele, sol nel suo Settimio Ripone ogni delizia, ogni piacere. Chi vide mai persone così liete Di Venere con un miglior auspicio? 72 (1) donne divenute di moda per la recente conquista di quelle terre. ‘XLVI Iam ver egelidos refert tepores, Iam caeli furor aequinoctialis Iocundis Zephyri silescit aureis. Linquantur Phrygii, Catulle, campi Niceaeque ager uber aestuosae: Ad claras Asiae volemus urbes. Iam mens praetrepidans avet vagari, Iam laeti studio pedes vigescunt. O dulces comitum valete coetus, Longe quos simul a domo profectos Diversae varie viae reportant. ‘46 Già primavera coi tepori miti Ritorna, già dal ciel dolce Zefiro Sopisce le tempeste equinoziali. Lascia Catullo le pianure frige, I caldi di Nicea fertili campi; Voliam dell’Asia alle Città famose. Già la tua mente ha frenesia d’andare, I piedi tuoi son pieni di vigore. Addio d’amici miei dolce brigata, Partiti insiem dalla lontana patria Ora torniamo per diverse strade. ‘XLVIII Mellitos oculos tuos, Iuventi, Siquis me sinat usque basiare, Usque ad milia basiem trecenta, Nec mi unquam videar satur futurus, Non si densior aridis aristis Sit nostrae seges osculationis. ‘48 Se gli occhi tuoi melati, mio Giovenzio, Baciare li potessi a volontà, Li bacerei trecentomila volte Senza raggiunger mai la sazietà, Anche se i nostri baci fosser tanti Quante pungenti spighe son nei campi. ‘LI Ille mi par esse deo videtur, Ille, si fas est, superare divos, Qui sedens adversus identidem te Spectat et audit Dulce ridentem, misero quod omnis Eripit sensus mihi; nam simul te, Lesbia, aspexi, nihil est super mi (vocis in ore.) Lingua sed torpet, tenuis sub artus Flamma demanat, sonitu suopte Tintinnat aures, gemina teguntur Lumina nocte. ‘51 Mi pare che sia simile ad un dio, 73 Se è possibile degli dei più grande, Chi talora, sedendoti di fronte, Guarda e t’ascolta Ridere sì dolce: misero me, Lesbia, che perdo i sensi al tuo cospetto; Appena ti vedo mi resta in gola Un fil di voce, S’addormenta la lingua, un tenue fuoco Scorre le membra, rombano le orecchie Per un interno suono, entrambi gli occhi Vela la notte. LIb Otium, Catulle, tibi molestumst: Otio exultas nimiumque gestis, Otium et reges prius et beatas Perdidit urbes. 51b Insopportabile è l’ozio, Catullo In tutto quel che fai t’eccita l’ozio, L’ozio rovinò prima i re, poi tante Città felici. ‘LVI O rem ridiculam, Cato, et iocosam Dignamque auribus et tuo cachinno. Ride, quicquid amas, Cato, Catullum: Res est ridicula et nimis iocosa. Deprendi modo pupulum puellae Crusantem: hunc ego, si placet Dionae, Pro telo rigida mea cecidi. ‘56 Catone, o cosa buffa e divertente Degna del riso e dell’orecchio tuo. Ridine per l’amore che mi porti È cosa troppo buffa e divertente. Testé vedo stuprare da un pivello una fanciulla ed io col cazzo duro a Venere piacendo, l’ho inculato. ‘LVII Pulcre convenit inprobis cinaedis, Mamurrae pathicoque Caesarique. Nec mirum: maculae pares utrisque, Urbana altera et illa Formiana, Impressae resident nec eluentur: Morbosi, pariter, gemelli utrique, Uno in lecticulo erudituli ambo, Non hic quam ille magis vorax adulter, Rivales socii et puellularum. Pulcre convenit improbis cinaedis. ‘57 Che bella intesa di finocchi sconci: Son Cesare e Mamurra il bagascione. Non stupite: son pari per le colpe (Una di Formia e l’altra cittadina), (1) L’hanno impresse, ne si cancellan mai: 74 Morbosi uguali, tutti e due gemelli, Sul letto insieme entrambi gli eruditi, L’un più dell’altro ingordi d’adulterio Con le fanciulle son rivali e soci. Oh bella intesa di finocchi sconci. (1) Mamurra è di Formia e Cesare di Roma. ‘LVIII Caeli, Lesbia nostra, Lesbia illa, Illa Lesbia, quam Catullus unam Plus quam se atque suos amavit omnes, Nunc in quadriviis et angiportis Glubit magnanimi Remi nepotes. ‘58 Oh Celio, Lesbia nostra, quella Lesbia, La Lesbia che Catullo, unica e sola, Più dei suoi tutti e di se stesso amò, In angiporti e trivi lo scappuccia Di Romolo ai magnanimi nipoti. ‘LX Num te leaena montibus Libystinis Aut Scylla latrans infima inguinum parte, Tam mente dura procravit ac taetra, Ut supplicis vocem in novissimo casu Contemptam haberes, a nimis fero corde? ‘60 Sì d’animo duro e feroce ti fece, Una leonessa sulle libiche vette, O Scilla latrante dall’inguine fondo, Oh cuore crudele che tanto disprezzi la supplice voce d’un disperato? ‘LXX Nulli se dicit mulier mea nubere malle Quam mihi, non si se Iupiter ipse petat. Dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti, In vento et rapida scribere oportet acqua. ‘70 La donna mia mi dice di voler far l’amore Soltanto con me, pur se glielo chiedesse Giove; Ma quel che donna dice col suo voglioso amante, Devi scriver nel vento, dentro l’acqua veloce. ‘LXXV Huc est mens deucta tua, mea Lesbia, culpa, Atque ita se officio perdidit ipsa suo, Ut iam nec bene velle queat tibi, si optuma fias, Nec desistere amare, omnia si facias. ‘75 Tale è ‘l mio stato per tua colpa, o Lesbia, Che ormai la mente mia s’è persa il senno: Anche pudica amarti non potrei, Anche sgualdrina ancora t’amerei. 75 ‘LXXXIII Lesbia mi praesente viro mala plurima dicit: Haec illi fatuo maxima laetitiast. Mule, nihil sentis. Si nostri oblita taceret, Sana esset: nunc quod gannit et obloquitur, Non solum meminit, sed quae multo acrior est res, Iratast, hoc est, uritur et loquitur. ‘83 Lesbia con suo marito parla male di me Fatuo. di tutto questo, molto se ne compiace. Mulo, tu non capisci. Se di noi due tacesse Risanata sarebbe, ma se sparla e borbotta Ecco che ancor mi pensa, ma quel ch’è assai più grave Mi pensa con la rabbia, perché ne parla e brucia. ‘LXXXV Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior. ‘85 Io t’amo e t’odio; forse tu chiedi come faccia, Non lo capisco, sento che m’accade e ne soffro. ‘LXXXIX Gelius est tenuis: quid ni? quoi tam bona mater Tamque valens vivat tamque venusta soror Tamque bonus patruus tamque omnia plena puellis Cognatis, quare is desinat esse macer? Qui ut nihil attingat, nisi quod fas tangere non est, Quantumvis quare sit macer invenies. ‘89 Gelio, per forza, è smunto. Abita con sua madre Tanto focosa e bella, la sorella sensuale, Uno zio compiacente, tante parenti fresche; Perché ti vuoi stupire che sia così sciupato? Anche attingendo solo là dove gli è proibito Ne avrebbe a sufficienza per esser macilento. s’XCIII Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere, Nec scire utrum sis albus an ater homo. ‘93 Non faccio alcuna cosa, Cesare, per piacerti, Né un uomo, per sapere, se bianco o nero sei. ‘XCIV Mentula moechatur. Moechatur mentula? Certe: Hoc est, quod dicunt, ipsa olera olla legit. ‘94 Il Minchia (1) fotte. Fotte la minchia? Certamente: Si dice che ogni botte dà il vino che contiene. (1) Il poeta col nome di Minchia intende Mamurra, ‘CI Multas per gentes et multa per aequora vectus 76 Advenio has miseras, frater, ad inferias, Ut te postremo donarem munere mortis Et mutam nequiquam alloquerer cinerem, Quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum, Heu miser indigne frater adempte mihi. Nunc tamen interea haec, prisco, quae more parentum Tradita sunt tristi munere ad inferias, Accipe fraterno multum manantia fletu, Atque in perpetuum, frater, ave atque vale. ‘101 Condotto tra le molte contrade e i molti mari, A queste esequie tristi, fratello, son venuto, A te, l’estremo dono di morte per portare, Invano per parlare col tuo cenere muto, Poiché volle il destino te, proprio te, carpirmi Oh misero fratello rapito indegnamente. Ed or, com’è l’usanza dei nostri antichi padri Ti son offerti, intanto, tristi doni di morte. Accettali bagnati d’un copioso pianto E ti lascio fratello con un eterno addio. ‘CIX Iucundum, mea vita, mihi proponis amorem Hunc nostrum inter nos perpetuumque fore. Di magni, facite ut vere promittere possit, Atque id sincere dicat et ex animo, Ut liceat nobis tota perducere vita Aeternum hoc sanctae foendus amicitiae. ‘109 Proponi, vita mia, che questo amore Felice sia, eterno per entrambi. Oh fate sommi Dei che il ver prometta E che lo dica con sincero cuore, Perchè si possa, per l’intera vita Serbar quel patto d’un amore eterno. 77 GLI SBERLEFFI (poesia satirica) At non effugies meos iambos Ma tu, ai giambi miei, non sfuggirai G.V.Catullo Premessa Gli Sberleffi con nome e cognome si riferiscono ovviamente alle persone medesime; gli altri, invece, sono dedicati a certi gruppi di individui facenti parte di certe categorie di persone o di attività. È ovvio che non tutti gli attori sono finocchi, che non tutte le radicali sono puttane e così via .Se qualcuno dei mie lettori, dotato di una fantasia malata, nell’ambito delle sue elucubrazioni mentali si riconosce in queste satire o pensa di collegare una stanza con un nome, affari suoi; non era nelle mie intenzioni e la cosa è puramente casuale. Capirete! Chi si attenterebbe a fare una corbelleria del genere in questa nostra farsa di democrazia! Nel primo secolo Avanti Cristo, nella libera e democratica Repubblica Romana, il poeta Valerio Catullo scriveva: CARME LVII - Che bella intesa di finocchi sconci Son Cesare e Mamurra il bagascione, _ _ Ma parlava solamente di Cesare, allora, insieme a Pompeo e Crasso, signore e padrone dell’Impero Romano. Cicerone, in un clamoroso processo, definiva notoria puttana la bella Clodia: nobile romana sposata a de un uomo dell’antica famiglia dei Claudi e sorella di uno dei più potenti politici di quel tempo. Vi figurate se oggidì dicessimo cose del genere anche solo di qualche mediocre politico, o di qualche sciupata donniciola della Roma bene? Povera e libera Italia democratica nella quale finalmente si può parlare male di Garibaldi ma nella quale esiste ancora il buffo reato di vilipendio del capo dello stato. Heu Heu! - Mala tempora currunt. Sberleffo I L’opinionista velenoso. (seconda classificata premio Pablo Neruda 1955 , sezione poesia satirica) Il mellifluo serpente dagli occhiali L’intelligenza a messo a far bottega Per realizzar discreti capitali, Pontificando come un gran stratega Alla bifida lingua ha messo l’ali; Con argomenti da retrobottega, Usando del villan l’eloquio osceno, Infanga tutti con il suo veleno. Sberleffo II La Ninfa Egeria. T’hanno dipinto il culo, quale onore, Per una dama colta e spiritosa; Della persona tua scelto ha il pittore La cosa più sublime e sostanziosa, Usando il suo pennello con vigore. Con gli anni diventò gelatinosa La parte che nei quadri puoi mostrare: Ora ti serve sol per defecare. Sberleffo III C’era una volya un opinionista cattivo. (ora è diventsato quasi buono.) Quale colombo dal disio chiamato, Il deretano, oscena mongolfiera, Posto su d’uno scanno rassegnato, È pronto per vociar da mane a sera. Con la faccia di corno levigato Va ripetendo la sua tiritera (Laida, volgare, inutile concione): 78 Un disco de - La voce del padrone . Sberleffo IV Occhetto. Marciando - Fiero l’occhio, svelto il passo Contro i nemici del proletariato I compagni ondeggiando menò a spasso Finché, fortuna loro, fu cacciato. Caduto in man dei Nazi, colpo basso, Pelo per pelo i baffi han depilato, Ma, fiero lui del suo parlare vivo, Non gli han strappato un sol congiuntivo. Sberleffo V Una pornostar. Una voliera pare la tua fica Ove volando corrono gli allocchi, Ali spiegate, come in valle aprica, Scontrandosi l’un l’altro, questi sciocchi. Come chiamati da una voce amica, Incuranti di spendere i baiocchi, Ottenebrati dalla loro foia, Si trovan nel porcile di una troia. Sberleffo VI Il direttore. Del basasotto col mesto mugolare, Dentro lo schermo ognor scodinzolando Par sciocco, ma con trucchi da comare Le quattro ciarle sue sta sciorinando. Del Dio signore pregi e virtù rare Va, genuflesso, al volgo propinando; Ma c’è chi dice: - In questo amore raro Più della fede, ahimè, potrà il denaro? Sberleffo VII La opinionista. T’ha punto un’ape? corri all’ospedale Per far curare i tumidi labbroni, Ché l’infezion, davvero un po’ speciale, T’ha trasformato il seno in due meloni. Coi tuoi arguti motti da pitale Non convinci nemmeno i più coglioni; Perché le tue parole ci sian care Le labbra tra le gambe fai parlare Sberleffo VIII Umberto Bossi 1966. Del tribuno la gran testa di cazzo È sempre dura, un colpo mai non perde. Seguita dai minchioni per codazzo, Il saper suo sul popolo disperde Farneticando come un vecchio pazzo E lancia in resta va pestando merde. Dell’Italia vuol fare un gran macello Bella la testa, ahimè, poco cervello Sberleffo IX Silvio Berlusconi 1966. Dal volto eliminata ogni rughetta, Tutto spalmato con il fondo tinta, Gli hanno insegnato bene l’etichetta Togliendo dal suo dir l’ira e la grinta. Così con quella faccia che è perfetta Da sembrare una stampa, un’acqua tinta, Lo compri per sapone profumato, 79 Ma lui é solo Marsiglia da bucato. Sberleffo X Un attore. Ti pavoneggi in scena con mossette Dimenando il culetto da finocchio, Ma Dio ti fece, ahimè, senza le tette. Se te lo trovi dietro tienlo d’occhio, Che non ti sottometta a cose abbiette Usando quel suo lurido batocchio. Tu dici che ti prendo pel sedere? Amico mio, t’ho fatto un gran piacere. Sberleffo XI Il trombone demagogo. Dipinto il viso di superba grinta Sgrana un rosario di banalità; Sembra vino ma é solo broda tinta : Demagogia con falsa ingenuità. C’é chi ci crede, i più fan solo finta, Stanno al giuoco con vile ambiguità; Va sul fine, ma quella tiritera S’insozza uscendo dalla sua dentiera. Sberleffo XII Fini. Con quel visetto suo da grande attore, Fatto sparire l’asso di bastoni Messosi nell’occhiello un bianco Fiore, Sembra avere calato i pantaloni; Ma questo gesto é stato traditore: Ha mostrato che sotto ha due coglioni. Attenti tutti che la ditta Fini Non ci trasformi in ciccioli ed affini. Sberleffo XIII La vecchia attrice. (Medaglia d’oro per la poesia satirica Premio Brontolo 1999) Un buon chirurgo t’ha rifatto il viso Cancellando le zampe di gallina, A fondo nel sedere t’hanno inciso, Ti han tolto due bistecche alla pancina, Or ti sembra di stare in paradiso, D’esser tornata quasi una bambina; Ma sbatti gli occhi, mamma mia che orrore, T’apri di dietro con un gran fragore. Sberleffo XIV La vecchia animalista. Mostrarti nuda, via, non ti conviene; Più che una donna sembri una salsiccia: La pelle delle tette più non tiene E tutto il resto è solo pappa e ciccia Sì che al vederti s’addormenta il pene. Di bello c’è soltanto la pelliccia Ch’ orna la ripa e merita un pëana. Al sei Gennaio dì della Befana. Sberleffo XV Massimo Dalema Luglio 1996. Parlando ognor da primo della classe, Intrisi ha i baffi con melassa e miele Per sedurre conigli, merli e masse. Attento stia che può tornargli in fiele E stenderlo stecchito sopra un asse Con un pubblico fatto di candele; 80 Ma sempre col visetto acqua e sapone E vestito da prima comunione. Sberleffo XVI Il conduttore. Per nascondere quello che non ha D’una fine camicia ha messo il collo; Mentre avanza con tonda venustà Lecca il potente, ma deride il pollo, Dando del suo vangel la verità. Dei radicali morbido rampollo, Per mascherarsi va stirando il viso Nel più fatuo ed insipido sorriso. Sberleffo XVII Ad una radicale. Il petto é piatto, il culo son due seni Sopra due stecchi con le cosce storte E camminando invano lo dimeni. Sempre in calor sotto le gonne corte Apri le gambe, più non ti trattieni, Abbandoni il pudore alla sua sorte Poi se la iella un pargolo ti sgancia, Corri alla mutua per smunir la pancia. Sberleffo XVIII Una sposina. Or mentre attendi quel radioso giorno Col corpo già panciuto, il viso stanco, Ti dai da far guardandoti d’attorno Dei ricchi maschi nel copioso branco. Già pregustando qualche ricco corno, Al fatidico si tu vieni in bianco, Ma di ben poco cara mia ti vanti: Usata dietro sei, lisa davanti. Sberleffo XIX Ad una femminista. Ti si vede ogni dì in televisione Con atre quattro o cinque belle menti Spaparazzate in comode poltrone A parlare di gravidi argomenti Assistono alla bella trasmissione Cervelli di idee ricchi e di fermenti Mentre il moderatore gira il disco Del più laido e ritrito conformismo. Sberleffo XX Romano Prodi Luglio 1996. Ma dove vai bellezza in bicicletta! Quadra la testa, con le braccia corte, Tozzo e pesante sopra la pancetta, Stai pedalando con le gambette storte; Mi sembri un corridore da burletta Che vada incontro ad una triste sorte. Baffetto: tu lo vedi che marpione? Lascialo andare e torna allo zampone Sberleffo XXI Alcune femministe Ho visto un vecchio film un po’ cretino Di quelli che ti rompono i coglioni Ma l’attrice sembrava un modellino: Aveva due magnifici coscioni, Due fianchi tondi con un bel culino. Ora se penso a certi scheletroni 81 Di femministe dico: - Alla riscossa, Buttate ai cani quel mucchietto d’ossa. XXII Per giurie di certi concorsi letterari. - Metri e stanze son cose sconvenienti, Pattume le terzine ed i sonetti; Noi siam delle giurie di competenti Ripiene di sofismi e preconcetti: Premiamo sol versacci ed escrementi. Satira mia di versi maledetti, Non recare dolcezza e cortesia: Non ti curar di loro e ‘pussa’ via. Sberleffo XXVIII Veltroni. Veltroni caro dalla faccia onesta Guardati attorno ed apri bene l’occhio, Ché l’esperienza tua mi par modesta. Di tutti i gay che, dell’eletto crocchio, Tra ghirlande di fiori han fatto festa Per la vittoria tua, al più finocchio, Dotato d’esperienza duratura, Cl ministero dai della cultura Sberleffo XXIV Visco. Mentre dentro lo schermo va ghignando Con la faccia da spettro infarinato Il pudore e il ritegno messi al bando Tutto il denaro mio se l’è fregato. Un giorno se n’andrà, ma chissà quando; Nel frattempo qualcosa va cambiato Ecco, mettiamo Dracula sul fisco E sopra l’AVIS ìl ministro Visco Sberleffo XXV Testamento. (Ad un po’ di - cacca - in vasetto alla - Biennale d’arte - a Venezia.) Se morirò tagliatemi i coglioni E poneteli sotto formalina, Poi trovatevi un gruppo di minchioni Che si possano mettere in berlina, Due critici sofistici e tromboni Disposti a fare un poco di manfrina: Così potrete far tanti baiocchi Alla faccia dell’arte e degli sciocchi. Sberleffo XXVI Berlinguer. (per una sana riforma della scuola.) Con la faccia da Gongolo stranito, Per esaltare la geniale impresa, Declama con l’eloquio suo forbito: - Tutto va ben madama la marchesa. Così non si nasconde dietro un dito, Anzi, usando le mani a sua difesa, Con giuochi di prestigio molto rari Fa diventar cavalli anche i somari. Sberleffo XXVII. Rosi Bindi. E tu mi sembri come una patata Con dei germogli bianchi e velenosi Che si difende tutta spiritata, 82 Con modi saputelli ed altezzosi, Dalla critica dura e scervellata Di giornalisti vili e tendenziosi. Ma in ospedali tuoi, oh cosa stramba, Tagliano il braccio per salvar la gamba. Sberleffo XXVIII Rutelli. Forse non è un atleta il buon Francesco Ma ciribirin che bel faccin. Fiorito il dire, con eloquio fresco Quando sorride mostra i bei dentin Per le mamme lo sguardo bambinesco Per le pupe lo sguardo d’assassin Per voi concittadini che dolore Fa il politico invece che l’attore Sberleffo XXIX L’arabo. Ecco che giunge l’arabo infedele, Che se ne frega del buon Dio Maomettto; E si presenta tutto lattemiele, Perché l’accogli con fraterno affetto. Se l’infingardo ha il cuor pieno di fiele E ti mette una bomba sotto il letto Tu parti in armi come un bersagliere O gentilmente porgi anche il sedere? Sberleffo XXX Fassino. Col tempo il suo nasetto tutto tondo A forza di mentir, ma che macello, S’è allungato in un modo inverecondo Per trasformarlo in un rapace uccello. Causa il belare suo mite e facondo Potrebbero comprarlo per agnello Fuor della Pasqua, si sa, per risparmiare, Ma s’è tutt’osso; cosa vuoi mangiare! Sberleffo XXXI Bertinotti. Con la parlata un poco stizzosetta Forse ti può sembrare un pechinese, M’avvolto in una splendida giaccietta Ti porge, per salvezza del paese, Demagogia, in punta di forchetta. Ha tutta l’aria dessere un borghese Frequentator di nobili salotti: Parliam del proletario Bertinotti Ogni riferimento a persone non nominate è puramente casuale e non voluto.