anteprima - Il Centro

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anteprima - Il Centro
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Materiale preparatorio per la Lezione-seminario del 20 gennaio 2016 a disposizione di colleghi e
dottorandi interessati.
Angelo Torre, Università del Piemonte Orientale,
[email protected]
Public History e Patrimoine: due casi di storia applicata.
1.Il problema delle utilizzazioni pratiche della storia non sta al cuore delle preoccupazioni degli
storici professionisti. Dopo l’età dello schieramento politico e ideologico degli storici accademici,
pressappoco coincidente con la Guerra Fredda1 e, in Italia, con la Prima Repubblica, gli storici sono
sembrati allontanarsi dalla scena politica2, come ha in modo paradossale mostrato l’accendersi della
discussione sull’uso politico del passato3. Recentemente, tuttavia, voci anche estremamente
autorevoli l’hanno fatto invocando una natura “pubblica” della storia e rivendicando il ruolo
pubblico degli storici nel panorama della governance internazionale. Anzitutto, l’apertura di un sito
web dedicato a “History&Policy” da parte di un gruppo di studiosi dell’Università di Cambridge
(2002)4 ha riproposto il problema di fornire strumenti di lavoro e di riflessione alla politica, sia pure
con malcelate intenzioni di proporsi quali “consiglieri del principe” – la più tradizionale, se
vogliamo, delle applicazioni della disciplina storica. Si tratta di un progetto ambizioso, che si
richiama ai principi dello storicismo5 per proporre analisi sia in termini di processo storico, sia di
ragionamento analogico che tenga conto di differenze storiche e contesto, giustapponendo passato e
presente. L’iniziativa ha riaperto discussioni che a più di un decennio di distanza restano vive, come
dimostra un articolo del 2013 di Pamela Cox su “History Workshop”, una delle sedi, come
vedremo, più legate all’interesse per un allargamento della disciplina in direzione pratica: in quel
lavoro l’autrice6 mette in guardia dai pericoli di una politica “del tutto priva di prospettiva storica” e
ne prende le distanze.
Ma soprattutto, David Armitage – prima da solo7 e poi in collaborazione con la storicageografa Jo Guldi - ha tentato di formulare una diagnosi delle ragioni che spiegano (e giustificano)
l’assenza degli storici dalla scena della politica e di avanzare una prognosi. Nella prospettiva di
Armitage e Guldi non si tratta soltanto di un problema etico ravvisabile nel disinteresse per la sfera
pubblica, o di frustrazione per la perdita del ruolo di “consiglieri del principe” in favore di altre
1
Armitage –Guldi, History Manifesto, Cambridge, 2014, http://historymanifesto.cambridge.org. , in part. p. 82;
sull’opera cfr. P.Bertrand, Autour de “History Manifesto”- Les données sont-elles le “pain de
l’historien”?www.combats pour l’histoire.fr;Lemercier, La longue durée: une histoire sans histoire? www.diffusion de
la recherche.Histoire quantitative, Historiographies, Longue durée.fr, 01/12/2014 ; Frédéric Clavert, « Jo Guldi, David
Armitage, The History Manifesto », Lectures [En ligne], Les comptes rendus, 2014, mis en ligne le 31 décembre 2014,
consultato il 18 gennaio 2015, http://lectures.revues.org/16592; l’eco di quest’opera è stata indebitamente amplificata da
La longue durée en débat, discussione fra gli autori, L.Hunt, F. Trivellato, C. Moatti, C.Lemercier e C. Lamouroux,
Annales H.S.S., LXX, 2, 2015. Su intellettuali e bipolarismo la bibliografia è sterminata, ma v. N. Gilman, Mandarins
of the future: modernization theory in Cold War America, Baltimore, 2003.
2
R. Jacoby,The Last Intellectuals:American Culture in the Age of Academe, New York,1987; M.Bérubé and C. Nelson
(a cura di), Higher Education under Fire: “Politics”, 148; Economics, and the Crisis of the Humanities, New
York,1995; R. A. Posner,Public Intellectuals: A Study of Decline, Cambridge,(Ma), 2003); Jo Guldi,’The Surprising
Death of the Public Intellectual: A Manifesto’, “Absent” 1, 2008.
3
Cfr.tra molti altri www.usagespublicsdupasse.ehess.fr.
4
Cfr. www.historyandpolitics.org. Su questa iniziativa cfr. I. Tosh, Why history matters, Basingstoke, , 2008, pp. 99120. Ma si veda anche Id., In defence of applied history:the History and Policy website, in www.historyandpolitics.org
consultato il 15.10.2014.
5
J. Tosh, Why History, p. 116.
6
P. Cox, The Future Uses of History,”History Workshop”n. 75, 2013, pp. 125-45.
7
“The Guardian” 7.10.2014.Ringrazio Marco Mariano per avermi segnalato questo articolo.
2
corporazioni accademiche, un fenomeno in sè non nuovo: secondo Armitage e Guldi le ragioni
dell’emarginazione degli storici sarebbero interne alla disciplina e alle scelte metodologiche che
l’hanno caratterizzata nell’ultimo mezzo secolo. Tali scelte avrebbero determinato l’abbandono da
parte della politica di una prospettiva ricca di profondità cronologica, tipica del ragionamento
storico. Il prezzo pagato da tutti, storici e ”pubblico” generale, è stato salato: prendendo come
esempio le discussioni pubbliche intorno al mutamento climatico, alla governance internazionale e
alla controversa crescente ineguaglianza delle condizioni economiche degli abitanti del pianeta,
Armitage e Guldi mostrano come l’assenza di una prospettiva storica abbia determinato un ricorso a
soluzioni di breve periodo, e conseguentemente di breve respiro, intrise di opinioni mitologiche sul
passato che viziano le proposte per il futuro8. Di converso, ritengono che solo la ripresa della
vocazione “pubblica” della storia potrà assicurare la formulazione di proposte sensate per il futuro,
perché fondate su conoscenze realistiche del passato.
Che cosa impedisce dunque alla storia di assumere, o riassumere, la sua vocazione pubblica?
Secondo gli autori la risposta va individuata sul piano del metodo: l’abbandono da parte degli
storici, verso il 1970, di una prospettiva di lungo periodo avrebbe determinato l’affermarsi di una
cultura del “breve periodo (“short-termism”), culminata nell’esperienza microstorica – non tanto,
sembrerebbe di capire9 nella sua versione originaria italiana, quanto in quella esportata nella cultura
anglosassone10. Tale esperienza avrebbe rafforzato ed esasperato lo specialismo degli storici
facendone degli esperti di archivi e di documentazione esotica e marginale e costringendoli ad
abbandonare le capacità critiche e insieme sintetiche che contraddistinguono la disciplina storica.
Tuttavia Armitage confida ancora nel fatto che lo storico possegga un sapere legato alla
critica delle fonti - e più in generale delle informazioni – che manca ad economisti, politologi e
biologi e gli permette anzitutto di utilizzare modelli esplicativi multicausali derivanti dalla sua
capacità di usare criticamente più fonti contemporaneamente. Questo sapere consentirebbe allo
storico di ergersi ad arbitro fra le diverse, e rivali, spiegazioni e le diverse prognosi per la
risoluzione dei problemi politici che affliggono le popolazioni del pianeta nell’età “transnazionale”
che abbiamo raggiunto negli ultimi decenni.
A fronte di questo Armitage propone però una soluzione straordinariamente ingenua e
fideistica: la presenza di dati di tipo nuovo, forniti dalla digitalizzazione e messa in rete di una
quantità inaudita di informazioni, renderebbe a suo parere possibile una nuova “big history” fondata
sulla “longue durée” e basata sul confronto fra serie diverse di dati e di fenomeni, che sono
impossibili alle altre discipline. L’assunzione di questa prospettiva comporterebbe anche il recupero
della microstoria, sia pure, evidentemente, in una dimensione ancillare ed esemplificativa, a servizio
della sintesi storica che è richiesta per il ritorno degli storici alla funzione di consiglieri del principe
dalla quale sono stati spodestati.
Non intendo discutere qui la caratterizzazione caricaturale della microstoria che viene
proposta. Voglio solo notare che questo atteggiamento insospettisce non poco e fa pensare a una
natura rivendicativa del saggio. Ciò che più colpisce, invece, nel saggio di Armitage e Guldi, è il
disinteresse per la storia della disciplina che essi invocano, e la proposta di un ritorno puro e
semplice alla storiografia di cinquant’anni fa. Tale atteggiamento non si preoccupa di ricostruire le
alternative proposte nel passato che, proprio sul piano della storia applicata da loro invocata, si
possono, o si potrebbero, rintracciare. La funzione di “consigliere del principe” è infatti solo una
delle soluzioni possibili, e storicamente praticate, al problema della “applicabilità” della storia.
8
Armitage, “The Guardian” cit
Ivi, p. 46-48 e Conclusion
10
J. Scott, W. Sewell, N. Zemon Davis e R.Darnton sono i soli esplicitamente nominati dagli autori.
9
3
Intanto, lo storico nasce nei tribunali11 e non nelle università12. Di più, la dimensione applicativa
della storia è perlopiù ignorata. Ridurre lo storico a potenziale o frustrato consulente governativo è
una mutilazione delle discussioni che negli ultimi cento anni almeno si sono svolte all’interno della
professione storica. Andrebbe invece esplorata la domanda di storia13 che le nostre società
formulano, purtroppo “a nostra insaputa”, data la nostra indifferenza o la nostra incapacità di
coglierla. Come approssimazione a questo problema tenterò di individuare ed esaminare alcune
proposte di storia applicata che hanno caratterizzato l’ultimo secolo.
2. Intanto, va notato come la dimensione applicativa della disciplina storica non abbia legittimità,
un fatto che la distingue da altre scienze sociali, le quali prevedono a pieno titolo una propria utilità:
esistono infatti geografie14, antropologie15, sociologie16 ed economie applicate17, mentre un caso a
parte è costituito dalle scienze politiche, che appaiono intrinsecamente più vicine alla dimensione
pratica e legata all’utilità18. L’emergere di queste dimensioni applicative non è stata affatto pacifica,
e ha posto importanti problemi di metodo, ad esempio relativi alla legittimità e all’oggettività 19,
suscitando in ogni caso discussioni esplicite tra i praticanti. Per gli storici, invece, la scelta di una
dimensione applicativa non sembra aver posto questioni teoriche di rilievo, e ciò nonostante il fatto
che la discussione sull’oggettività della disciplina abbia avuto un grande rilievo negli ultimi
decenni20. Questo silenzio non ha certo giovato alla nostra disciplina, ed è perciò tanto più
interessante rilevare i pochi momenti – prevalentemente legati al mondo anglosassone - in cui è
emersa una discussione sull’applicabilità della storia e sulle alternative teoriche e metodologiche
che questa dimensione fa emergere. E’ questo l’oggetto delle pagine che seguono.
Troviamo il termine “storia applicata” in una manciata di occasioni, nella cultura
anglosassone ma soprattutto americana. La prima occasione è legata al tentativo di Benjamin F.
11
E. Fueter, Storia della storiografia moderna, Napoli, 1953; S. Bertelli, Erudizione e storia in Ludovico Antonio
Muratori, Napoli, 1960; V. Tigrino, Sudditi e confederati : Sanremo, Genova e una storia particolare del Settecento
europeo, Alessandria, 2009.
12
Insiste sull’estraneità delle discipline umanistiche sette-ottocentesche alle istituzioni educative S. Collini, Seeing a
specialist: the humanities as academic disciplines, “Past and Present”, 229, 2015, pp. 271-281. Sull’ambigua
collocazione della storia tra scienze sociali e discipline umanistiche, p. 274. A. Momigliano, Dalla storia universale
all’insegnamento della storia, in Id., Tra storia e storicismo, Pisa, 1985, p. 70 sgg.
13
Un campo di ricerca che gli storici sembrano per ora aver lasciato ai media studies: J. De Groot, Consuming history :
historians and heritage in contemporary popular culture, London-New York, 2009.
14
Per un esempio, cfr. Rural Landscape between State and Local Communities in Europe. Past and Present.
Proceedings of the 16th Session of the Standing European Conference for the Study of the Rural Landscape, a cura di P.
Sereno e M. L. Sturani, Alessandria, 1998; J.A.J. Vervloet, Applied historical geography: from inventory to planning
concepts; some reflections, ivi, pp. 195-201. In un’altra prospettiva T.W. Stwetnam, C.D.Allen, J.L.Betancourt, Applied
historical ecology:using the past to manage for the future, “Ecological applications”, 9, 1999, pp. 1189-1206.
15
P. Sillitoe, Anthropologists only Need Apply: Challenges of Applied Anthropology, “The Journal of the Royal
Anthropological Institute”, Vol. 13, No. 1 (Mar., 2007), pp.147-165.
16
M. F. Esquinas, La sociología aplicada: Applied sociology,” Reis”, No. 115 (Jul. - Sep., 2006), pp. 11-39.
17
Fin da “L'economista italiano”, 1859, l’economia applicata è una disciplina istituzionalmente accreditata.
18
Ma non necessariamente alla storia: il caso dei commons dimostra come essi possano essere considerati elementi di
una sorta di collettivismo a-storico (U. Mattei, Beni comuni : un manifesto, Bari, 2011), veicolo di antropologie
politiche (P. Dardot e C. Laval, Commun: essai sur la révolution au 21. Siècle, Paris, 2014, tr. it. Roma, 2015), oppure
una dimensione puramente organizzativa delle collettività locali (E. Ostrom, Governing the commons : the evolution of
institutions for collective action, Cambridge, 1990. E. Ostrom e V. Ostrom, Choice, rules and collective action : the
Ostroms on the study of institutions and governance, ed. e intr. di F. Sabetti e P. Dragos Aligica, Colchester, 2014.
19
J. Clifford, I frutti puri impazziscono : etnografia, letteratura e arte nel secolo 20, Torino, 2010 per l’antropologia,
mentre per la geografia mi permetto di rinviare al mio Un tournant spatial en histoire? Paysages, regards, ressources,
Annales H.S.S., vol. 63, 2008, p. 1127-1144 e alla bibliografia ivi ricordata.
20
Costituisce in un certo senso un’eccezione P. Novick, The “Objectvity Question” and the American Historical
Profession, Cambridge, 1988, che rifiuta in blocco l’argomento, p. 513: la storia fuori dall’università è “private
history”.
4
Shambaugh21 di costruire negli anni dieci del Novecento una “applied history” propedeutica alla
produzione legislativa dello stato dello Iowa, di cui dirigeva l’ufficio storico dello stato e nella cui
università egli insegnava scienze politiche e storia22. Ne nacque una collana editoriale, la “Iowa
Applied History Series”, che si occupava di costruire rassegne storiche dei precedenti legislativi su
temi ben definiti: dalle strade alla infortunistica, dal suffragio al licenziamento dei funzionari,
dall’assistenza alla legislazione sull’infanzia. Come diceva lo stesso Shambaugh, nasceva da una
forte enfasi “to solve present problems of human settlement” (vol. 3), ma si esprimeva soprattutto
nel campo della legislazione statale (distinta cioè da quella federale e da quella locale) 23. Una storia
applicata fu poi al centro delle politiche del New Deal, con una rinnovata attenzione al patrimonio
archivistico statale e federale e la conseguente creazione di posti di lavoro24.
Ritroviamo la “Applied history” in tutt’altro contesto: all’inizio degli anni settanta, al colmo
del successo della storia sociale come incrocio tra demografia storica, studi sullo sviluppo e storia
economica, Michael Drake lanciò a Cambridge una collana di “applied historical studies” che
rimase tuttavia senza seguito dopo un primo tentativo editoriale25. Si tratta di una proposta che non
ha avuto successo, apparentemente; tuttavia, mi pare che essa abbia seguito un percorso carsico che,
come vedremo, l‘ha fatta riemergere sporadicamente.
Pochi anni dopo il libro di Drake, e del tutto indipendentemente, si sviluppa un diverso
tentativo di creare una “storia applicata”. Esso è legato alle prime riflessioni, sviluppatesi in USA
alla metà degli anni settanta del secolo scorso, sulla crescente incapacità delle discipline storiche di
assicurare uno sbocco professionale ai propri studenti. In particolare ci si riferiva alla sempre più
chiara incapacità del sistema universitario nordamericano di assorbire gli addottorati di storia26, e ci
si proponeva di creare percorsi didattici in grado di preparare storici per l’industria privata e le
istituzioni pubbliche. Questa vicenda comportò intanto una riflessione sulla nascita della
storiografia professionistica (accademica) negli Stati Uniti di fine Ottocento. Si faceva notare ad
esempio come la professionalizzazione della storia avesse inferto una ferita lacerante al tessuto
culturale del paese, nel quale gli storici avevano fino ad allora mantenuto un forte legame con le
realtà territoriali e culturali locali27. In questo contesto emergono discussioni sulla separazione tra
21
Su Benjamin Schambaugh, cfr. A. M. Schroder, Applied History: An Early Form of Public History, “Public Works
Historical Society Newsletter”, 17, 3-4, 1980; P. Stearns, History and Policy Analysis: Toward Maturity, “ The Public
Historian”, Vol. 4, No. 3, 1982, pp. 4-29. Una breve biografia è disponibile in The Biographical Dictionary of Iowa, a
cura di R. Conard, University of Iowa Press, 2009 sito web consultato il 1 nov 2014, che riassume Ead., Benjamin
Shambaugh and the Intellectual Foundations of Public History, Iowa City, 2002, in cui si esamina il suo concetto di
"applied history".
22
E’chiaro che la questione della applicabilità andrebbe ricondotta alla dimensione statunitense delle “land grant
universities” e alla funzione della “charity” nella fondazione delle grandi istituzioni di ricerca americane (un es. molto
noto è la New School for Social Research e la sua antinazista “Graduate school” negli anni trenta. Ma si veda anche il
Black Mountain College oggetto di una mostra allo Staatliche Museen zu Berlin. “Black Mountain. An Interdisciplinary
Experiment 1933 - 1957. Devo a Sandro Lombardini l’indicazione di questo aspetto del problema.
23
La “Iowa Applied History Series” si compone di E.H. Downey, Regulation of Urban Utilities, State Historical
Society of Iowa, 1912, vol. 1,n.3; J.E. Brindley, Road Legislation in Iowa, Iowa City, ibidem, vol. 1, n. 4; Henry
Peterson, Corrupt practices Legislation in Iowa, ibidem n. 5; E.H. Downey, Work Accident Indemnity in Iowa, ibidem,
n.6. Nei volumi successivi si trovano saggi sulla riorganizzazione del governo statale in Iowa ; Home rule in Iowa, la
legislazione diretta in Iowa, l’eguaglianza di voto in Iowa, la selezione dei pubblici funzionari, il licenziamento dei
funzionari pubblici, il sistema meritocratico, la legislazione sull’infanzia; da notare B. Schambaugh, Introduction,a
Statute Law Making in Iowa, da cui è tratta la citazione successiva.
24
See C. B. Hosmer, Jr., Preservation Comes of Age: From Williamsburg to the National Trust, 1926-1949,
Charlottesville, 1981; H. Huyck, National Park Service Leads in History Teaching, OAH Newsletter 10, no. 1 (January
1982), 4-5. J. Tosh, Why History matters cit., p. 100sgg.
25
M. Drake, Applied Historical Studies, Cambridge University Press, 1973.
26
G. W. Johnson, The Origins of The Public Historian and the National Council on Public History, “Public Historian”
(d’ora in poi PH), 21, 3, 1999, pp.167-179. N. J. Stowe, The Promises and Challenges for Public History, PH, 9, 1,
1987, pp. 46-56. Per un accenno più vicino a noi, cfr. J. Vernon, The State They Are In: History and Public Education
in England, “Perspectives on History”, marzo 2011.
27
L’interpretazione è di T.H.Smith, The Renascence of local history, “The Historians” 35, 1, 1972, p. 1.
5
docenti e storici locali, dove si propone che la disciplina storica assuma un ruolo di mediazione tra
la seduzione per le radici, il radicamento locale del pubblico e il potenziale analitico della moderna
storiografia28.
La discussione americana degli anni settanta-ottanta fece emergere almeno tre principali
orientamenti, che sembrano ancora indirizzare gran parte delle ricerche. Da un lato un minoritario
filone di storia applicata, dall’altro quello di una storia “pubblica”, dall’altro ancora un filone
generato dall’esplosione delle ricerche legate alla dimensione di “heritage” 29. L’assenza di questi
temi dalla storiografia italiana rende non inutile, spero, un profilo minimo delle discussioni sorte
intorno a queste tre tematiche.
La nascita della discussione intorno alla storia “pubblica” negli Stati Uniti è legata alla
speranza di rispondere a una nuova domanda di storia, che si poteva cogliere nel settore privato così
come nelle istituzioni pubbliche non educative: non è un caso che tra le persone consultate per
l’elaborazione dei primi corsi di laurea di quella che venne chiamata “Public History” fossero
centrali le competenze di ricerca legate alla conflittualità locale, soprattutto quelle originate, in
California, dalle liti sulle acque30. Questa idea di una “utilità” della storia era molto ampia, e
percorre sotterraneamente la rivista che rappresenta quel movimento, “The Public Historian”,
fondata nel 1978: nei primi anni di pubblicazione si discute ad esempio di storici che affianchino i
pubblici ministeri - o gli avvocati difensori - nell’istruzione di determinati tipi di cause31. Non
mancano poi articoli che trattano in modo analitico problemi di storia locale: ad esempio ci si
interroga sulla rilevanza giurisdizionale dello studio della navigabilità dei fiumi, che ne determina
l’appartenenza a diversi settori dell’amministrazione32.
Questa accezione della “public history” in termini di storia applicata appare come il
tentativo di rispondere a una domanda di storia che si riteneva provenisse dall’esterno
dell’accademia, ma che non coincideva affatto con la ricerca commissionata da privati. Questa si
stava identificando con la prospettiva della “business history”33, la nostrana “storia d’impresa”. La
storia applicata aveva un’anima ben precisa e identificabile, che ancora nella prima metà degli anni
ottanta costituiva un distinto indirizzo di ricerca34 e i cui tentativi riecheggiano quelli di inizio
28
Rievocata da D. Brumberg, The Case for Reunion: Academic Historians, Public Historical Agencies and the New
York Historians-in –Residence Program, PH, 4, 2, 1982, p. 75. E soprattutto J. A. Williams, Introduction al fascicolo
monografico Public History and Local History, nato da un seminario della Rockfeller Foundation sulla separazione tra
docenti di storia e “local (or state) historians”, PH 5, 4, 1983, pp.7-16.
29
Sugli inizi della Public history negli USA cfr. N. Fasce, Prometeo e Babele.Un tentativo di storia pubblica del lavoro
negli Stati Uniti in L’uso pubblico della Storia, a cura di N.Gallerano, Milano, F.Angeli,1995, pp. 145-161. In generale
cfr. S. Noiret (a cura di), Public History. Pratiche nazionali e identità globale, “Memoria e Ricerca”, 37, 2011.
30
Johnson, art.cit., p. 168: “Robert Kelley, based on his experience serving as a consultant and witness for the State of
California in water litigation, conceived the idea of starting a graduate program dedicated to training young historians to
prepare for careers in both the private and the public sector, but not necesssarily as teachers”. Cfr. Otis L. Graham (che
dirige la rivista a partire dal 1990), Robert Kelley and the Pursuit of Useful History, “Journal of Policy History”, 23, 3
2011, pp. 429-37 riporta “a series of eleven consultation contracts with the California Attorney General’s Office in
which Bob was hired to provide reports and expert testimony in connection with flood and condemnation suits in the
Sacramento Valley. In the 1970s, he thought deeply about the implications of his off-campus consultant role”. Ivi,
riconduce la nascita della rivista alla convergenza degli sforzi di Kelley (Santa Barbara) e di Peter Stearns e Joel Tarr
alla Carnegie-Mellon University. Su Kelley cfr. anche J. Higham. Robert Kelley: Historian of Political Culture, PH, 17,
5, 1995, pp. 61-75.
31
Cfr.in particolare P. Soifer, The Litigation Historian. Objectivity, Responsibility and Sources, PH, 5, 2, 1983, pp. 4762 e per contro L. Johnson, Public Historian for the Defendant, ivi, 5, 1983, 3, pp. 65-76. Più recentemente A. L.
Brophy, Introducing Applied Legal History, “Law and Society Review”, 48, 1,2013, pp.233-40 e J. Oldham e S. J. Kim,
Arbitration in America: The Early History, ivi, pp.241-266. Cfr. anche, su temi legati all’aborto, la Roundtable:
Historians and the Webster Case, PH 12, 3, 1990, pp. 9-75
32
D. Schaffer, Managing the Tennessee River: Principles, Practice, and Change,PH 12, 2, 1990, pp.7-29.
33
Cfr. il fascicolo 3 del 1981 dedicato a Corporate/Business Industry.
34
H. Rousso, The Historian as Miracle-worker, PH ,6, 1984, 4, p. 69.
6
secolo XX già incontrati con l’invocazione di “legislative researchers” per la storia della
legislazione statale35. Ma era anche altro. Ad esempio, tra i nomi dei suoi promotori spicca quello di
Robert J. Stearns, direttore del “Journal of Social History”, per il quale curò un fascicolo dedicato
proprio alla “storia applicata”36: Esso conteneva articoli sulle politiche dell’educazione,
dell’energia, del pensionamento, della polizia, sul nutrizionismo, le donne nell’accademia, le
politiche scolastiche, le politiche ambientali USA dopo la seconda guerra mondiale37. Il programma
si riassumeva nell’invocazione di una storia interdisciplinare che si dedicasse ai “public issues”, ai
problemi etici legati alle richieste di una committenza e reagisse al fallimento di scienze sociali
troppo lontane dalla storia38: come nel caso inglese patrocinato da Michael Drake, la storia applicata
è intesa quale prolungamento di una storia sociale sostanzialmente positivistica, che ha la
presunzione di saper riconoscere il “basic change”39. Una posizione che appare non distante sul
piano del metodo da quella di Armitage e Guldi da cui siamo partiti, anche se estranea alla sua
posizione conservatrice di consigliere del principe.
In realtà, a metà degli anni ottanta si inizia a riconoscere che il movimento della “public
history” ha anche altre anime40: una che parte dal presupposto che la storia “progressive” debba
dedicarsi all’educazione delle masse, l’altra che riconosce l’esistenza di un pubblico del tutto
diverso: pianificatori, funzionari governativi41. La doppia
anima è resa esplicita paradossalmente42 come vedremo tra breve - da uno storico francese, Henry Rousso43: “indeed it
seems that “public history” was preferred to the more aggressive - but clearer – “applied history”.
This is a clear intellectual hesitation among the new pioneers”. Ma si possono rintracciare altre
versioni di questo contrasto: nelle parole di uno dei personaggi di spicco del movimento della
“public history”, la storia applicata è “limited to history addressing the policy field” e si tratterebbe
di una questione di poco merito se non fosse capace “to exacerbate tensions in our field”. Si ritiene
“more productive and illuminating to discuss, for example, the differences in the public history
discipline between conventional and applied approaches to research and writing” 44.
Il secondo orientamento (di riflessione e di ricerca) ebbe invece un successo trionfale. Ne
sono segni la rapida costituzione di un “National Council for Public History”45 e la prima
“convention” di Public History, alla quale parteciparono più di duemila persone. Perciò si disse con
chiarezza che “public history was actually a new field of history”46: uno spazio accademico e non un
problema analitico47. Questo stesso successo si tradusse sempre più spesso nell’identificazione del
carattere “public” con quello di una storia “progressive”, che dall’accademia o dalle istituzioni
pubbliche intendeva raggiungere un pubblico ansioso di consapevolezza storica. Questo
orientamento trovò un fertile terreno di coltura nelle ricerche di storia orale e nei lavori dedicati alle
35
P. P. Guzzo, State Legislative Research: Opportunities for Historians in Applied Research, PH, 2, 3, 1980.
PH 14, 4, 1981. L’anno successivo Stearns avrebbe precisato che il compito della storia applicata era “to apply
history to policy analysis”: Stearns, History and Policy Analysis: toward Maturity, PH, 4, 3, 1982, pp. 4-29. Ma per
Stearns la storia applicata nasce da sviluppi interni alla disciplina, e cioè dal suo rapporto con le scienze sociali (p. 25).
37
Gli autori sono rispettivamente Daniel P. Resnick, Joel Tarr, Gail Buchwalter King e Peter Stearns, Vivek Bammi,
Eugene J. Watts, Susan Boslego Carter, Paul Davis Chapman, Samuel P. Hays.
38
Stearns, Applied History and Social History, “Journal of Social History”, 14, 4 1981, pp. 533-34.
39
Stearns, History and Policy Analysis, PH, 4, 3, 1982, pp. 4-29, pp.25sgg.
40
T. Shallat, recensione a Presenting the Past: essays on history and the Public, a cura di S. P. Benson, S. Brier e R.
Rosenzwig, Philadelphia, 1986, PH 9, 1, 1987, p. 95.
41
Ma il recensore dice con una punta di malignità che il vero obiettivo sono “potential sources of funds”.
42
Paradossale nel senso che la cultura storica francese è apparsa fino allora del tutto estranea alla “public history”.
43
PH 6, 4, 1984: il numero è dedicato alla conferenza di Rotterdam del settembre 1982, p. 69.
44
N. Stowe, The Promises and Challenges for Public History, PH 9, 1, 1987, p. 49.
45
La vicenda è ricostruita da Johnson, art. cit.
46
Johnson, art.cit., p.171. Il corsivo è mio.
47
A. Lay e L. Pesante, La colonizzazione del proletariato e la scoperta della cultura operaia, in La cultura operaia
nella società industrializzata, “Mezzosecolo. Materiali di ricerca storica”, 5, Milano-Parigi, 1985 , p. 63. Ringrazio
Guido Franzinetti per questa indicazione.
36
7
problematiche della memoria, soprattutto legate alla storia di comunità 48. Ma, soprattutto, questo fu
il canale attraverso il quale furono compiuti i primi tentativi di esportare la “public history”: lo
testimonia un convegno tenutosi a Rotterdam nel settembre 198249. Le aperture più calorose
provennero però dall’Australia, dove assunsero posizioni di rottura anche per la rigidità
dell’ambiente accademico locale50 e per una domanda di storia acuita dai conflitti sui risarcimenti
alle popolazioni aborigene51. Su queste basi il movimento della Public History venne anzi criticato,
e condusse alla fondazione di una nuova rivista, “Public History Review” 52, che risulta più
strettamente legata alle ricerche intorno all’heritage e, come vedremo tra breve, alla sua controversa
natura.
3. Tentativi di esportazione della “public history” avvennero in Francia e Germania 53, e sono
ricordati da una delle più importanti esponenti del movimento della Public History, Hilda Kean 54.
Vedremo tra breve come in Francia, in particolare, gli interessi di ricerca55 e l’impegno politico dei
partecipanti56, oltre alla più vincolante definizione di “patrimonio culturale” come prerogativa
pubblica, abbiano impresso al movimento una direzione più legata all’esplorazione del rapporto tra
storia e memoria, dedicandosi all’Olocausto e alla memoria delle guerre del XX secolo57. Ma è
soprattutto in Inghilterra che la “public history” ha conosciuto un nuovo successo, anche se con un
significativo sfasamento temporale e un ulteriore allargamento di senso, non privo di ambiguità, che
ha condotto a patrocinare anzitutto la creazione di coscienza storica nel “public”58. In Gran
Bretagna essa deve molti dei suoi caratteri a Raphael Samuel e al suo tentativo, risalente agli anni
settanta, di costruire una “history from below” dilatata ben oltre la sua accezione tradizionale, legata
a E.P. Thompson59, verso una onnicomprensiva “cultura del passato” priva di legami con le fonti60.
Perciò non stupisce che Samuel abbia promosso la prima discussione europea di Public History fin
dal 1984.
48
Cfr. P.K.Blatz, Craftmanship and Flezxibility in Oral History: A Pluralistic Approach to Methodology and Theory,
PH 12, 4, 1990, pp. 7-22.
49
V. supra, nota 43.
50
H. Kean e P. Ashton, Introduction: People and their Pasts and Public History Today, in Id., (a cura di), People and
their pasts:public history today, Basingstoke, 2009, in part. pp.10-11.
51
Tosh, op. cit. ma anche gli editoriali di “Public History Review”. Cfr.soprattutto Conflicted Heritage, a cura di A.
Trapeznik, e, ivi, E. Ellison, Customary Rights: Holding the Line,”Public History Review”, 13, 2006, pp.1-3.
52
La rivista nasce nel 1992. Purtroppo sono difficilmente reperibili i primi anni, mentre è online dal 2006. Il problema
del dialogo fra storici e i loro differenti pubblici è al centro del lavoro della rivista. V. H. Kean e P. Ashton,
Introduction cit., pp.12-13.
53
Per uno sviluppo in area tedesca cfr. R. Bernbeck e S. Pollock, ‘Grabe wo Du stehst!’ An Archaeology of
Perpetrators, in Y. Hamilakis and P. Duke (a cura di), Archaeology and Capitalism: From Ethics to Politics, Walnut
Creek, CA, 2007, pp. 217-234. S. Linquist, , Grv Dr Du Star: Hur Man Utforskar ett Job, Stockholm, 1978. Ringrazio
Margaret Lanzinger e Hans Medick per queste indicazioni.
54
Cfr. il numero monografico The debut of Public History in Europe, PH, 6, 4 1984 con contributi di A.R Sutcliffe,
Gleams and Echoes of Public History in Western Europe: Before and after the Rotterdam Conference; A. Offer, Using
the Past in Britain: Retrospect and Prospect; J.C.H. Blom, Historical research as an Answer to Critical Political
Questions: The Example of the Menten Case; P. J. Beck, Forward with History: Studying the Past for Careers in the
Future; H. Rousso, Applied History, or the Historian as Miracle-Worker; G.W. Johnson, An American Impression of
Public History in Europe.
55
Il fascicolo di PH del 1984 indica come interlocutore per la Francia François Bédarida e l’Institut de l’histoire du
XXeme siècle
56
L’impegno si sviluppa attraverso il Comité de vigilance face aux usages publics de l’histoire, o CVUH, fondato da
Gérard Noiriel, Michèle Riot Sarcey e Nicolas Offenstadt. Cfr. M. Stevens, The Changing Place of Historians in Public
Life in France and the UK , PH 32, 3, 2010.
57
Cfr. H. Rousso, The Haunting Past,History, Memory and Justice in France, Philadelphia, 2002.
58
Questa almeno è la notazione di C. Castenada nella recensione a People and their Pasts,Public history today,
“Public History Review”, 16, 2009, pp. 119-121: “The premise of this book is deceptively simple: ‘that people are
active agents in creating histories’ (p. 119).
59
S. Cerutti, Who is below? EPT, historien des sociétés moderne: une relecture, di prossima pubblicazione in “Annales
H.S.S.”, 2015.
60
Seeing History.Public History in Britain now London, Boutle, 2000.
8
Il percorso di Samuel divenne chiaro nel 1994, con la pubblicazione di Theatres of
memory61, dove egli patrocinava una storia come “knowledge”62 che non si identificava più con i
saperi storici tradizionali (fonti, contesti, interpretazioni) ma invocava una costruzione corale,
popolare che avveniva nei campi più diversi (dai media ai ricordi personali) e con le tecniche più
diverse, ma in ogni caso lontane dal rapporto con le fonti – di qualsiasi genere esse possano essere.
Da questa impostazione – di cui Thompson aveva duramente criticato le premesse63 – è nato
tuttavia un immenso lavoro di “storie collettive” , o “community histories”. La “progressiva
dissoluzione di certezze”64 e l’irruzione in scena dell’heritage popolare (la museificazione delle case
di personaggi come Jimi Hendrix e Paul McCartney) suggerirono la necessità di un gruppo di
discussione che dal 1998 si è creato al Ruskin College di Oxford ed è contraddistinto da forti intenti
pedagogici: l’istruzione dei lavoratori è in effetti prerogativa del College. Da tale lavoro nasce la
raccolta del 2000 dedicata al “vedere la storia”65: la public history è vista come un ”umbrella” che
copre aree spesso ritenute mutuamente esclusive (dai tabloid ai libri accademici), e si invoca una
“popular history” in cui “seeing” ha una funzione centrale. Insomma, una provocatoria confusione
di generi di geertziana memoria. Ma la discussione appare straordinariamente viva e si è aperta
recentemente allo studio dei nuovi “consumi di storia”66 invalsi nei nuovi e vecchi media (ad es. la
pornografia storica), nei revivals di medioevo e di rituali di ogni genere a cui abbiamo assistito
negli ultimi venti anni. In mezzo a questa vasta gamma di interessi, alcuni articoli molto belli, che
analizzano la cangiante vocazione delle realtà locali67.
4. Verso la metà degli anni novanta, tuttavia, la discussione su Public Historian si incrociava
con la discussione su Heritage e Heritage Industry68, destinata a suscitare in Gran Bretagna dibattiti
accaniti tra gli storici. Il contributo della rivista americana è tutt’altro che irrilevante, poiché ci
consente di assistere per così dire “in diretta” al sorgere dei problemi di analisi e di gestione politica
relativi alla conservazione del patrimonio culturale. Un articolo di Robert Weible69, in particolare,
illustra le dinamiche sociali e culturali innescate dalla costruzione del patrimonio culturale locale, le
alternative tra la celebrazione della storia locale e l’analisi storica della località70. L’occasione è
data dalla vicenda paradigmatica della cittadina di Lowell, in Massachusetts71: cuore dell’industria
tessile ottocentesca e in declino a partire dagli anni venti del Novecento, negli anni settanta Lowell
è protagonista di un importante tentativo di ripensare il proprio destino. Weible delinea con estrema
lucidità le alternative emerse in quella specifica località ma in realtà coinvolgenti l’intera area della
costa Est degli USA investita dai processi di deindustrializzazione: il tentativo locale di costruire un
parco culturale urbano legandolo a una politica del multiculturalismo “non-controversial and
popular” si scontra con il progetto di utilizzazione del patrimonio idraulico industriale72. Nel corso
61
London, Verso, 1994.
Ivi,p.444: “A hybrid form of knowledge syncretizing past and present, memory and myth, the written record and the
spoken word”.
63
E.P. Thompson e R. Samuel, Theory and Evidence: “History Workshop”, 35, 1993, pp. 274-276.
64
H. Kean, P. Martin e S. J. Morgan, Introduction a Seeing History cit., p. 14.
65
Ibidem.
66
J. De Groot, Consuming History, cit.
67
B. Edwards, Aresbury and not-so-ancient-places: the making o fan English Heritage Landscape, in Seeing History
cit., pp. 65-80 e B. Wheeler,Language and landscape. The construction of place in an East London borough, ivi, pp.
105-126.
68
R. Hewison,The Heritage Industry. Britain in a Climate of Decline, Methuen 1987, pp. 10 sgg
69
R. Weible, Lowell: Building a New Appreciation for Historical Place, PH, 6, n.3, pp. 27-38. Robert Weible è
attualmente responsabile dei musei dello stato di New York.
70
P.29.
71
Su Lowell cfr.T. Hareven, Amoskeag : life and work in an american factory-city in New England, London, 1979 e
Ead., Family time and industrial time : the relationship between the family and work in a New England industrial
community, Cambridge, 1982.
72
Il sistema dei canali utilizzati dall’industria tessile è nazionalmente rilevante, e cambia i termini della discussione:
Weible, p. 32.
62
9
di aspre discussioni tra la cittadinanza, i politici locali, i tecnici della conservazione 73, si elabora la
visione di una città-museo, di una città come strumento educativo. Il dialogo tra la molteplicità
degli attori sociali (amministrazione federale, governativa, statale, locale, comitati vari di cittadini,
servizio dei parchi, ecc.) trova nella località tutt’intera l’oggetto della conservazione: la soluzione
consiste nel sottolineare “the importance of preserving and interpreting the full evolution of a
site”74. Quest’ultima soluzione è rivendicata dall’autore come un successo tra i cui svariati motivi
figura la collaborazione tra settore pubblico e settore privato75.
Casi come quello di Lowell mostrano, a mio parere, il carattere ideologico della discussione,
americana come inglese, sulla nozione di Heritage e sulle sue ricadute pratiche, tendente a bollarle
come “industry”. L’attenzione ai resti materiali e localizzati del passato venne infatti accusata di
distorcere il passato stesso, di ipnotizzare e riproporre valori che la democrazia ha superato:
soprattutto, essa venne accusata di “solidificare” energie creative che andavano così perdute (per
esempio in direzione dell’arte contemporanea). Qui ci sono state le discussioni più feroci, e non
ristrette agli storici. Intanto, i geografi hanno opposto una serie di considerazioni che possiamo
riassumere nelle opere di David Lowenthal – storico-geografo-landscape planner76. Il passato è
diventato straniero a noi perché non ci dice più nulla, e per questo stesso motivo dobbiamo
conservarlo: così, “preservation became our principal mode of appreciating the past…it tends to
preclude other uses”77. Public history, in ogni caso, non si può confondere con l’analisi
dell’heritage, di cui anzi, nelle parole di Samuel, sembra rappresentare una sostituzione negativa:
“Landscape and in particular those vast tracts of it which now come under the administration of the
National Trust, is now called to do the memory work which in earlier times might have been
performed by territorial belongings”78.
La discussione su Heritage coinvolgeva evidentemente la storia (oltre che i media studies), e
diede luogo alla nascita di nuove riviste79 e al tentativo di sganciare lo studio dei patrimoni culturali
dal consolidato indirizzo della “English Local History”, oggi in piena crisi80.
5. E’ in ogni caso curioso che problemi di così ampia portata come la discussione
sull’applicabilità del sapere storico e la sua funzione pubblica non abbiano suscitato un dibattito
adeguato. Anzi, sembrerebbe proprio che una storia della “public history/applied history” abbia
inflessioni sostanzialmente nazionali.
A considerare i materiali offerti dalla storiografia francese, si direbbe di sì. L’organizzazione
centripeta della cultura francese ha reso qui possibili concettualizzazioni e riflessioni altrove
impensabili, ma le ha circoscritte a un ambito di natura non tanto scientifica quanto politicoamministrativa81. Inoltre esse hanno riguardato solo secondariamente gli storici, poiché sono partite
73
Il ruolo del National Park Service in USA è uno dei filoni dominanti di PH.
P. 37
75
P. 35. Per la public history si tratterebbe quindi di accettare un maggiore coinvolgimento con i “community projects
… helping people understand their own history and make history relevant to social concerns”, p. 37.
76
D. Lowenthal, Past is a Foreign Country, Cambridge, 1985 ma anche e soprattutto Id., The Heritage Crusade and the
Spoils of History, ivi 1996. Di Lowenthal si veda anche la cura, in collaborazione con K. Olwig, di The Nature of
Cultural Heritage and the Culture of Natural Heritage:northern perspectives on a contested patrimony, London, 2006.
77
Lowenthal, Past is a Foreign Country, pp.xxiv-xxv.
78
Theatres of Memory, p. 25
79
Tra gli altri “Journal of Heritage Studies”. Si vedano anche i contributi di Laurajane Smith sull’importanza dei media
studies, ad es. in The uses of heritage, London, 2006.
80
Cfr. www.history.ox.ac.uk/research/seminars. Già E. Grendi, C. Phythian Adams e la local history inglese,
“Quaderni storici 89.12., 1994, pp. 559 sgg.
81
J.-L.Tornatore, La difficile politisation du patrimoine ethnologique, “Terrain”, 42, 2004, pp. 149-160, p. 151: il
patrimonio etnologico “est en effet marqué par une association étroite de la sphère scientifique avec la sphère
politique”. Il risultato è l’esistenza di una “chaîne patrimoniale” érigée au rang de doctrine après les services
patrimoniaux de l’appareil d’Etat, p. 152.
74
10
soprattutto dall’ambito etnologico, e solo in un secondo tempo hanno coinvolto la nostra disciplina.
Qui, in ogni caso, due accezioni della Public History sembrerebbero aver dominato il campo
(almeno stando alle bibliografie parigine; forse uno sguardo alle situazioni provinciali potrebbe
rivelare sorprese): il problema storia/memoria da un lato, il problema del patrimonio culturale
dall’altro, salvo fondersi intorno alla seconda metà degli anni settanta.
Il primo aspetto conduce probabilmente alla fondazione dell’“Institut de l’histoire du temps
présent” da parte di François Bédarida (e Henry Rousso) e apre alla storia dell’Olocausto e di Vichy
- una versione paradossalmente molto “pubblica” per studiosi che abbiamo ritrovato tra i critici
della Public History. Ma il vero dominatore della scena francese, almeno dagli anni settanta, è
l’interesse per il patrimonio culturale. Una nozione che viene deliberatamente contrapposta al suo
(apparente) omologo inglese di Heritage: privatistico quest’ultimo, pubblico e identitario il
secondo82 e vicino, invece, ai tentativi italiani di catalogazione dei beni culturali83.
Come è ben noto, il successo di questa parola d’ordine è stato enorme, al punto che si è già
prodotta una sua storiografia, che lo studia, se non da un punto di vista metodologico, almeno da
quello politico-culturale: si parla così di “explosion du patrimoine”84, addirittura si mette in guardia
dall’uso generalizzato del termine85. Le opinioni sulla sua nascita, sul suo stesso significato, sono
invece meno condivise. Per una voce autorevole come quella dello storico dell’arte André Chastel,
la nozione di patrimoine rappresenterebbe un allargamento quasi naturale della tradizione di tutela
dei “monumenti” della République, che risalirebbe, se non agli anni novanta del XVIII, agli anni
trenta del XIX86 e a un corpus legislativo di fine XIX secolo e inizio XX87: il suo punto di vista,
tuttavia, appare mosso soprattutto dalla necessità di legittimare con la profondità storica la tutela del
patrimonio monumentale. Per altre prospettive, come ad esempio quella degli storici della “politica
culturale”, la nascita e l’evoluzione della nozione di patrimonio sono ben diverse: ad ascoltare
Philippe Poirrier, autore di accurate ricostruzioni degli aspetti politici della storia politico-culturale
francese88, si tratterebbe di una storia molto più breve e discontinua. Secondo questo autore,
82
R. Hewison, La prise de conscience du patrimoine en Grande Bretagne, in Les regards de l’Histoire. L’émergence et
l’évolution de la notion de patrimoine au cours du XXe siècle en France (sous la présid. D’Henry Rousso), Entretiens
du Patrimoine, cirque d’hiver 26-28 nov. 2001. Paris, Fayard, 2003, pp. 357-362.
83
A. Emiliani, Le point de vue italien, in P. Nora (a cura di.), Science et conscience du patrimoine, Paris, 1997,
pp. 363-372.
84
P. Nora, L’explosion du patrimoine, “Patrimoines”, n. 2, 2005, pp. 6-12.
85
Secondo P. Poirrier, L’évolution de la notion de patrimoine dans les politiques culturelles menées en France sous la
Ve République in Le regard de l’Histoire. L’émergence et l’évolution de la notion de patrimoine au cours du XXe siècle
en France (sotto la presidenza di Henry Rousso, Dir. de l’Inst de l’Histoire du Temps Présent), Entretiens du
Patrimoine, cirque d’hiver 26-28 nov. 2001. Paris, 2003, pp. 47-61, p. 60: nel 1996 un funzionario di rango come
Jacques Rigaud lancia il primo allarme: il Patrimoine è la “présence du passé dans le présent, un héritage qui va de père
en fils”, e mette in guardia dai “dangers d’une irrésistible passion patrimoniale”.
86
A.Chastel, La notion de patrimoine in P. Nora (a cura di), Les Lieux de mémoire, Paris, 1984-88, vol. II, La Nation, t.
I, 1986, pp. 405-50, si schiera per la nozione larga di patrimonio nonostante la sua formazione e la sua parte nella
elaborazione dell’“Inventaire”: riconosce nell’interpretazione del patrimonio come insieme di materiali e forme di
oggetti “faits de la main de l’homme” un “accès nouveau et inéluctable au patrimoine, avec les chances d’un
approfondissement qui est une nouvelle preuve de son importance”(p. 441). Propone di usare la tecnica contro la
distruzione tecnologica del patrimonio. Constata la incredibile numerosità di “expositions dans les provinces, à Paris
même, où les édifices, les bourgs, les sites sont associés; leurs relations constituent pour une société donnée le
fondement de sa mèmoire, car ils livrent l’articulation même du cadre, à l’intersection de la nature qui modèle le sol et
de la culture qui l’interprète. A l’attachement du vécu devrait s’ajouter l’autorité du connu” (p. 443). Chastel fissa al
conflitto sulle Halles e soprattutto Beaubourg la svolta nell’attenzione del pubblico (p. 438-9 e “Le Monde”
23.12.1970). Indica anche nella battaglia per salvare il quartiere del Marais uno dei meriti della “carta di Venezia”.
Altra battaglia è quella sul Grand Palais, che verso 1950 l’amministrazione voleva eliminare. Di qui deriva forse la
rivalutazione di Viollet le Duc da parte di Chastel.
87
P. Poirrier (a cura di), Les politiques culturelles en France, Paris, 2002) sottolinea l’importanza dei corpi legislativi
del 1887 e 1913, un impianto poi rafforzato da Vichy.
88
Poirrier, op. cit.; Id., Pour une histoire des politiques culturelles dans le monde, 1945-2011, Paris, 2011; Id., La
politique culturelle en débat: anthologie, 1955-2012, ibidem, 2013; Id., a cura di, L'histoire culturelle, un "tournant
mondial" dans l'historiographie?, Dijon, 2008.
11
l’analisi delle politiche culturali condotte nella Francia della Quinta Repubblica farebbe emergere
tre fasi: la prima, che inizia nel 1959, avrebbe visto un intervento dei poteri pubblici per elaborare la
nozione di patrimonio (soprattutto il ministro André Malraux 89); una seconda fase, di discussione
pubblica, andrebbe identificata negli anni settanta; solo con una terza fase, coincidente con il
decennio successivo, invece, si avrebbe l’affermazione del patrimonio come categoria politicoculturale90. Secondo Poirrier, dunque, lo stato ha accompagnato una domanda sociale visibile con
nettezza dagli anni settanta. Soggiacenti ad entrambi, tuttavia, mi paiono altri due, distinti, fattori:
intanto, il ruolo – primario, secondo me – di una domanda sociale di storia applicata che pochi
finora si sono preoccupati di definire91. Ma ancora di più, come vedremo, hanno pesato le ricerche
degli etnografi francesi a partire almeno dall’inizio del secolo XX. Credo tuttavia che la saldatura di
questi due fattori abbia prodotto una nuova coscienza patrimoniale.
Questo secondo aspetto induce a cercare nel “patrimoine” il fattore di sviluppo della “public
history/applied history” nella sua versione francese. Un fattore, malgrado tutto, molto recente: basti
pensare che fino agli anni sessanta, il termine e la nozione di “patrimoine” sembrano assenti dalla
scena culturale92.
Fino agli inizi degli anni sessanta, in ogni caso, lo sguardo sul territorio francese e le sue
risorse culturali si era sviluppato lungo due binari lontani e paralleli: il primo, appunto, quello della
tutela, e il secondo, quello delle ricerche sul terreno. Di queste ultime, Florence Weber ci ha lasciato
delle ricostruzioni dettagliate, che riportano la vastità degli interessi e le differenti linee di analisi e
di intervento: da una parte, l’analisi strutturale del folklore e dei culti alpini di Van Gennep e la sua
ricostruzione del rituale lungo il ciclo di vita individuale93, criticato e rifiutato dalla sociologia
durkheimiana94; quella di André Varagnac, legata alla discutibile nozione di tradizione e di generi
di vita ma capace di organizzare vaste inchieste collettive95; infine, le istanze in favore di una
89
Su Malraux, tra infiniti contributi, cfr. Poirrier, L'État et la culture en France au XXe siècle, Paris, 2006.
P. Poirrier, L’évolution cit.
91
P. Poirrier, Conclusion. Politiques du patrimoine et politique culturelle, in P. Poirrier e L. Vadelorge (a cura di), Pour
une histoire des politiques du patrimoine, Paris, 2003, pp. 593-98, dove si denunciano tra l’altro conflitti interni al
mondo del patrimonio, incomprensibili ai più. Poirrier indica la rilevanza dell’inchiesta degli anni 90 su LanguedocRoussillon: E. Negrier, a cura di, Patrimoine culturel et décentralisation. Une étude en Languedoc-Roussillon, Paris,
2002. Conflitti interni, scarto tra azione dello stato e rappresentazione delle associazioni, il tentativo di associare le
collettività alla tutela, soprattutto dal 1983, e ancora più dal 2002, con i “protocoles de décentralisation culturelle”. Ma
il dibattito sul decentramento è aperto (ad es. nel 2003 l’inventario è trasferito alle regioni, e in alcuni casi alle
collettività locali interessate).
92
X. Laurent, Grandeur et misère du patrimoine d’André Malraux à Jacques Duhamel, Paris, École nationale des
chartes, 2003. P. Urfalino L’invention de la politique culturelle Paris, La documentation francaise, 1996 e V. Dubois,
Politique culturelle: genèse d'une categorie d'intervention publique, Paris, 1999 non nominano il patrimonio come
settore di intervento. Una data capitale, in ogni caso, come vedremo, è il 1962 (v. I. Balsamo, André Chastel et
l’aventure de l’Inventaire in P. Nora, Science et conscience du patrimoine cit.
93
Del folklorista belga Arnold Van Gennep vanno ricordati almeno I riti di passaggio, Torino,1981 (1909) e Du
berceau à la tombe, Paris, 1916, il Manuel de folklore français contemporain, Paris, 1937-49 e Le culte populaire des
saints en Savoie, Paris, 1973.
94
B. Thomassen, Emile Durkheim between Gabriel Tarde and Arnold Van Gennep: founding moments of sociology and
anthropology, “Social Anthropology”, 20, 3, 2012, pp. 231-249. Si veda per un confronto l’analisi dei culti alpini
proposta da Robert Hertz, Sociologie religieuse et anthropologie: deux enquêtes de terrain, 1912-1915, édition et
présentation de S. Baciocchi et N. Mariot, Paris, 2015 e D.-M. Boëll e R. Meyran, Du folklore à l’ethnologie, Paris,
2009, passim.
95
André Varagnac fondò con James Frazer la “Société de Folklore français” nel 1928, e partecipò con Lucien Febvre al
Comité de l’Encyclopédie Française. Fondò anche la Commission de recherches collectives: Une coopérative de travail
scientifique: la Commission des recherches collective du Comité de l’Encyclopédie Française, “Annales E.S.C., VII,
1936, pp. 302-06, che riproduce la carta della scomparsa dei “feus des brandons” e della “Saint-Jean”. La sua lettura dei
generi di vita è psicologica (Psycho-sociologie des traditions), ma usa categorie di età definite dai comportamenti
cerimoniali: curiosa è la sua lettura della Primavera di Botticelli come rappresentazione foklorica delle regine di maggio
e dei rapporti giovani-morti. Cfr. R. Meyran, André Varagnac et l’archéocivilisation: un théoricien de la culture
naturelle, in Du folklore à l’ethnologie, cit., pp. 193-204.
90
12
museificazione della cultura contadina promosse da Georges Henri Rivière, che condurranno nel
1937 alla fondazione del Musée des Arts et Traditions Populaires96. La ricostruzione di Florence
Weber che abbiamo già ricordato permette di seguire da vicino alcune fasi di ricerca, come quella
condotta nel 1937 a Romorantin, nella valle della Loira, sotto lo sguardo di un ospite d’eccezione
quale Bronislaw Malinowski, che non risparmiò le critiche all’esclusiva attenzione inventariale per
gli oggetti rispetto all’analisi della società locale e propose – invano, si direbbe - l’organizzazione di
seminari in questa seconda direzione97.
6. Questi due terreni – tutela e studi etnografici - iniziano a convergere a partire dalla fine
degli anni cinquanta, quando André Malraux diventa responsabile del nuovo dicastero degli affari
culturali, con tre sottodirezioni (monumenti e siti affidati alla direzione di architettura, musei a
quella di arti e lettere, archivi ai bâtiments), e nel 1964 affida ad André Chastel la progettazione
dell’“Inventaire général des monuments et des richesses artistiques de la France”98. Questo
strumento rappresentava un deciso allargamento del campo di interesse rispetto alla tradizionale
classificazione dei “Monuments Historiques”: come dirà lo stesso Chastel a metà degli anni ottanta,
includeva il sito nella prospettiva di inventariazione99. E’ stato osservato come dietro questa
operazione si nascondesse una lotta di potere: secondo Poirrier, andrebbe letta come una sfida al
potere dell’amministrazione dei “Monuments historiques”, allo scopo di sottrarre a Parigi il
monopolio della valutazione. In ogni caso, il nuovo settore si distingue per una produzione
importante di principi normativi per l’analisi dei differenti settori del patrimonio e per un rilevante
ampliamento cronologico, derivante dall’inclusione del patrimonio soprattutto architettonico e
iconografico del XIX100 (tutto il XIX, e non solo le avanguardie, si farà notare101). Ma siamo ancora
lontani dalla nozione di patrimonio che si affermerà in seguito.
96
Secondo la Weber la pubblica amministrazione “pluralizza ed estende il Patrimonio”. Ma non bisogna scordare il
riconoscimento del patrimonio rurale grazie all’azione di Claude Lévi-Strauss, Isac Chiva e lo stesso Rivière.
L’affermazione degli anni 1980 e l’amplificazione delle tendenze precedenti è sostenuta da Leniaud, con lo pseudonimo
Ollivier, Les monuments historiques demain…, “Terrain”, 9,1987, pp. 124-27, ora in Leniaud, Chroniques
patrimoniales Paris, 2001, pp. 285-290: la politica del patrimonio va rimessa in discussione per la perdita di senso di
concetti come nazione, belle arti; l’onnipotenza dello stato è battuta, l’universalismo del “patri moine” sostituisce la
concezione elitaria e unificatrice del “monument”. Di Rivière cfr. soprattutto l’attività museale e l’animazione di
mostre. Colpisce, per la fortuna che avrà successivamente, la precocità della mostra del 1952 sul libro popolare, su cui
si veda P. Brochon, Le livre de colportage en France, Paris, 1952, con una bella prefazione dello stesso Rivière. Isac
Chiva è forse colui che ha sostenuto con maggior decisione la difesa del patrimonio culturale come strumento di
gestione del territorio: Id., Une politique pour le patrimoine culturel rural, rapport présenté par M. I.C., 1994, in cui a
pp. 15-21 propone un “élargissement de la notion de patrimoine”, p. 19, dalle testimonianze sublimi del passato ad
artefatti quotidiani rappresentativi dei generi di vita, competenze che finiscono al ministero dell’Equipement nel 1978.
Fin dal 1980 vi si forma una “mission du patrimoine ethnologique” che comprende “modes spécifiques d’existence
matérielle et d’organization sociale des groupes qui composent un pays, leurs savoirs, leurs représentations du monde”.
Chiva sottolinea l’urgenza delle politiche di protezione del patrimonio e nota come l’espansione urbana e l’esodo rurale
abbiano esteso i campi d’azione patrimoniale.
97
F. Weber, Politiques du folklore en France (1930-1960), in P. Poirrier e L. Vadelorge, Pour une histoire des
politiques du patri moine cit., pp. 269-300. Nel 1937 Malinowski e Louis Dumont sono insieme a Romorantin a
raccogliere oggetti. G. Laferté, Tensions et catégories du folklore en 1937, in Du folklore à l’ethnologie cit. sostiene
che il folklore, da “archeologia nazionale”, diventa “archeologia sociale”, e rinvia a Florence Weber. B. Muller, Ecrire
le folklore: les réponses aux enquêtes de la commission des recherches collectives de l’Encyclopédie Française, ivi 29 48, p. 33 parla di diversi modi di intendere la “missione” di ricerca: per questionari diretti, per intermediari, per
osservazione diretta. Van Gennep (rimproverato dal circolo delle “Annales” di costruire artefatti come paesi e popoli), è
relegato al folklore applicato.
98
La differenza fra “monuments” e “inventaire” è sostanziale: i primi impongono l’esproprio del bene da parte dello
stato, il secondo no.
99
A. Chastel, La notion de patri moine, cit.; Poirrier, Evolution, p. 51: la volontà di Chastel di cogliere l’insieme del
costruito apre potenzialmente alla nozione di patrimonio, con intenti di riforma della storia dell’arte. Il cantiere è aperto
nel 1966 con un pre-inventario.
100
Poirrier, Evolution, p. 52 sottolinea l’amicizia personale di Le Corbusier e Malraux.
13
Questa sembra essersi fatta strada per vie lontane dalle ricerche degli specialisti. Infatti è
unanime il rilievo accordato dagli studiosi alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica, in
corrispondenza di due momenti e in contesti molto differenti. Il primo è legato al progetto di
sventramento delle Halles centrali di Parigi, di costruzione del Centre Pompidou a Beaubourg e,
parallelamente, alle proteste che condurranno alla inedita tutela del quartiere del Marais 102. Ma,
dall’altro, sono i fatti del maggio ‘68 a imprimere una nuova direzione alle politiche di
conservazione. Come riporta Poirrier, la nuova coscienza patrimoniale nasce con la volontà di
allargare il campo di indagine, a cominciare dai professionisti della conservazione: “C’est le cas
notamment au sein de l’Association Générale des conservateurs de collections publiques qui, en
juillet-septembre 1968 – l’on est encore sous le souffle de Mai – proposa un colloque intitulé
“patrimoine et collections publiques”103. I conservatori danno una definizione straordinariamente
larga di patrimonio: “le patrimoine est l’ensemble de tous les biens naturels ou créés par l’homme
sans limite de temps ni de lieu. Il constitue l’objet de la culture”. Questa definizione sarà fatta poi
propria dal Partito socialista francese nel documento programmatico Changer la vie del 1972, che
manterrà pressoché inalterata fino agli anni ottanta la volontà di superare la logica dei
“monumenti”104. In questo processo la nozione di “Monumento” verrà estesa ai “témoins les plus
humbles” della vita sociale e popolare, e si aggiungerà alla cultura tecnica e scientifica quale
testimone del nostro tempo.
7. Nonostante questa nascita tormentata e dinamica, o forse, paradossalmente, proprio grazie ad
essa, la nozione di “patrimoine” diventa una vera e propria parola d’ordine per tutti gli specialisti
della cultura, alta e bassa. Ciò è dovuto al fatto che essa rappresenta la confluenza delle ricerche di
storia dell’arte e dell’architettura e delle ricerche etnografiche, che con gli anni settanta conquistano
un posto di primaria importanza nel panorama delle scienze umane francesi105. Così, la dimensione
patrimoniale acquisisce sempre nuovi settori (il secolo XIX, come già ricordato, le scienze ecc):
Bruno Foucart, ad esempio, ricorda l’inedita inclusione di trecento edifici ottocenteschi
nell’“Inventaire supplémentaire” voluta dal ministro Guy106.
Con la fine del decennio si profila la consacrazione della nozione di patrimonio presso gli
storici, fino allora lontani da queste discussioni, e il grande pubblico, grazie a una brillante
intuizione didattica e una clamorosa operazione editoriale: nel 1978 Pierre Nora inaugura nella
neonata Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales il seminario sui luoghi della memoria, che
avrà un successo immenso e durerà un triennio. Ma soprattutto, grazie alla posizione dello stesso
Nora, si tradurrà in una fortunatissima pubblicazione107: la cosa andrebbe certo verificata con
precisione, ma lo sviluppo dell’impresa ne sembra attestare una certa casualità 108. L’indice
dell’opera, infatti, sembra riflettere un allargamento rimarchevole a partire da un nucleo molto
tradizionale: si passa da un primo volume dedicato alla République109 affidato a una storiografia
sociale ottocentista allora al suo apogeo (Agulhon, Rébérioux ecc.), ad altri sei volumi dedicati alla
101
B. Foucart, A la découverte des nouveaux champs du patrimoine, in Science et conscience du patrimoine, cit., pp.
305-20.
102
A. Chastel, La notion de Patrimoine cit.
103
P. Poirrier, op. cit., p. 53. Non ho potuto trovare gli “Atti” pubblicati nel 1969.
104
«Changer la vie»: programme de gouvernement du Parti socialiste, présentation par F. Mitterrand, Paris, 1972.
105
F. Zonabend, La mémoire longue: temps et histoires au village, Paris, 1999; Y. Verdier, Façons de dire, façons de
faire: la laveuse, la couturière, la cuisinière, Paris, 1997; T. Jolas, M.- C. Pingaud, Y. Verdier, F. Zonabend, Une
campagne voisine: Minot, un village bourguignon, Paris, 1990.
106
Foucart, op. cit.
107
Les Lieux de Mémoire diretto da P. Nora, Paris 1984-1992, 3 voll. in 7 tomi. I, La République, 1984; II, La Nation,
1986, 3 tomi; III, Les France, 1992, 3 tomi.
108
Non mancano le registrazioni della novità del tema: il successo editoriale di Lieux de Mémoire è preparato da Marc
Guillaume: nel 1980 esce il suo La politique du patri moine, Paris: il patrimonio diventa una filosofia politica.
“Pionieristico”, secondo Poirrier, 2003.
109
Secondo Nora la République è un regime politico divenuto una seconda natura, che si confonde con la propria
memoria.
14
“nazione” e alle diverse figure della “Francia”110, affidati invece a una storiografia nuova ed
eterogenea. Il rapporto fra storia, memoria e luoghi favorisce l’incontro con la nozione di
patrimonio che, come dirà lo stesso Nora, assicura l’unità dell’opera: “le patrimoine…aurait pu
couvrir ce livre tout entier….”111. La scelta di questo oggetto è legata da Nora alla scomparsa rapida
della memoria nazionale, e alla necessità di una identificazione dei luoghi in cui si è incarnata e che
ne costituiscono i simboli più eclatanti: feste, emblemi, monumenti e commemorazioni. In un
saggio iniziale, Entre mémoire et histoire. La problématique des lieux, il curatore chiarisce il nesso
tra memoria, luoghi e patrimonio. La nostra epoca segna la fine delle tradizioni e della civiltà
tradizionale e genera un forte senso di rottura: la fine dei contadini, la mondializzazione, la
decolonizzazione ecc. rappresentano un’accelerazione della modernità e rafforzano la relazione fra
società e storia, rompendo con un quadro di civiltà “tradizionale” che ancorava invece la società alla
memoria. Si parla di memoria perché sta scomparendo.
Il metodo di lavoro prevede lo studio di casi - i luoghi, appunto -, attraverso i quali si spera
di chiarire le ambiguità che comportano memoria, nazione, e i loro rapporti. I luoghi sono da
intendere in vari sensi, dal più concreto (dai monumenti ai defunti agli archivi nazionali) al più
astratto e intellettualmente costruito (lignaggio, generazione, regione.). Ma lo studio per luoghi
consente anche l’incrocio fra differenti discipline: storia, etnografia, psicologia. Rappresenta così il
punto di incontro di importanti tradizioni di ricerca che avevano segnato lo sviluppo della storia
sociale e culturale in Francia intorno alla VIe section dell’Ecole Pratique112.
La memoria, d’altro canto, rappresenta una cornice più che un contenuto: va cioè intesa
come luogo di pratiche (ad es. la letteratura) consapevoli, e in questo differisce dal ricordo, che anzi
presuppone.
8. La fortuna della nozione di patrimonio è dovuta anche al suo legame con la dimensione politica e
amministrativa. Secondo Philippe Poirrier questo legame sarebbe stato sollecitato dalla presidenza
di Valéry Giscard d’Estaing, che anzi l’avrebbe strumentalizzata per metterla al servizio della
“società liberale avanzata”. Tale convergenza sarebbe all’origine di una serie di nuove pratiche
nell’amministrazione francese: la prima va senz’altro identificata nella creazione della Direzione
del patrimonio del 1978, contemporanea, e possibile compensazione, del trasferimento della
direzione di architettura al Ministero delle Infrastrutture113; nel 1980 si celebra l’“année du
patrimoine”, che, grazie alla sua risonanza decentrata e pluralistica, ha un ruolo fondatore114;
sempre nel 1980 si ha la creazione della “Mission et Conseil du patrimoine ethnologique” grazie
all’azione di Isac Chiva115. Per Poirrier, da cui sono tratte molte di queste considerazioni, si tratta di
un esempio topico “de la dialectique entre la formalisation et l’institutionnalisation d’une
discipline”; infine, l’elaborazione di una “Carta egli ecomusei”, nella primavera del 1981, rafforza
la relazione stretta fra istituzione museale e territorio. A questi elementi di diversificazione
dell’azione amministrativa e alla loro estensione della nozione di patrimonio si potrebbero
aggiungere i parchi naturali, il riconoscimento del patrimonio rurale (grazie all’influenza di Claude
Levi Strauss, dello stesso Chiva e di Georges Henri Rivière). In ogni caso, e grazie a tutte queste
110
Non senza ambiguità Nora (I, p. XVIII) afferma che la progressione evoca un percorso logico ma non lineare.
Nora, Introduction alla sezione Patrimoine in Lieux de Mémoire vol. II, t. I, p. 403
112
Va qui sottolineata l’azione incisiva per una critica della patrimonializzazione da parte di Daniel Fabre: L’ethnologie
française à la croisée des engagements, in Y. Boursier, a cura di, Résistances et résistants, Paris, L’Harmattan, 1997.
Ringrazio Marinella Carosso per questa e altre preziose indicazioni.
113
Poirrier, Evolution cit., pp. 54 sgg.
114
Sull’importanza di questo evento insiste Nora. Ma bisognerebbe forse studiare l’anno europeo della cultura, il 1975.
115
Di Chiva cfr. Le communautés rurales. Problèmes, méthodes et exemples de recherches, Rapports et documents des
sciences sociales, UNESCO, n. 10, 1958.
111
15
sollecitazioni, l’affermazione del “patrimonio” negli anni ottanta, vede confluire una serie di
tensioni molteplici, che amplificano le tendenze precedenti116.
Il “patrimoine” continua in ogni caso la sua marcia trionfale, a cavallo tra ricerca scientifica,
politica e amministrazione. Nel 0000 nascono Les territoires du patrimoine, un seminario
organizzato dal sociologo H. P.Jeudy 117. Nel 1982 il rapporto di Max Querrien, “Pour une nouvelle
politique du patrimoine”, immagina una politique d’ensemble du patrimoine fondata sull’unità della
nozione stessa di patrimonio, la sensibilizzazione popolare, e propone, in consonanza con la politica
di Jack Lang, di associare patrimonio e “creatività” contro una nozione “passatista” della
protezione e della tutela. Le priorità assegnate all’archeologia della Francia, ai settori degli archivi e
delle biblioteche e all’etnologia, rifletterebbero secondo alcuni studiosi il tentativo del socialismo
francese di sottrarre il “patrimonio” alla destra118.
Il legame con la sfera politica, che ha senza dubbio favorito la fortuna di questo filone, ne determina
però anche le incertezze e le contraddizioni. Così, se nel 1984, in un seminario tenutosi alla
Salpétrière di Parigi insiste nell’auspicare l’estensione del campo patrimoniale alle campagne, alla
tecnica e all’industria, due soli anni dopo il “plan patrimoine” lanciato dal ministro Léotard appare
al contrario sbilanciato in favore della comunicazione e allo stesso tempo critico nei confronti degli
ampliamenti della nozione di patrimonio e propone un ritorno alla concezione monumentale con
l’esclusione dei cosiddetti “patrimoni immateriali”119. Ma nel 1987 nasce l’amministrazione del
patrimonio120 di cui sono forse una eco, l’anno successivo, gli “Entretiens du Patrimoine”,
organizzati dalla stessa “Direction du Patrimoine”. Questa serie di successi fa ipotizzare a Pierre
Nora, che nello stesso anno coordina il primo “Forum du Patrimoine”, l’emergere di una nuova
“coscienza patrimoniale democratica”, che rappresenterebbe una rottura culturale analoga a quella
degli anni 1830, responsabile della nascita della cultura della tutela121.
La stessa dipendenza dalla sfera politica sembrerebbe responsabile delle tormentate vicende
successive delle politiche del patrimonio. Si levano le prime importanti voci critiche nei confronti
della politica del patrimonio: Marc Fumaroli, nel 1991, fortemente polemico contro l’uso
propagandistico del patrimonio da parte del partito socialista francese 122; l’anno successivo Jean
Michel Leniaud da un lato sostiene la necessità di discutere la nozione stessa di patrimonio, e in
ogni caso di allocarla nelle collettività territoriali di fronte all’incapacità dell’amministrazione di
garantire “memorie singolari” caratteristiche della “società plurale”123. Si giunge a mettere in
116
J.-M. Leniaud (pseud. Ollivier), Les monuments historiques demain cit., pp. 124-27 ora in Leniaud, Chroniques
patrimoniales, Paris, 2001, pp. 285-290.
117
H. P.Jeudy, Dossiers des Séminaires techniques, territoires et sociétés, Délégation à la Recherche et à l’Innovation,
Service de la recherche, des Etudes et du Traitement de l‘Information sur l’Environnement, n. 10, gennaio1990.
118
In questo senso andrebbe interpretato lo stesso dinamismo di Jack Lang: Poirrier-Vadelorge, op.cit., p. 578, parlano
di una “conversione patrimoniale”, con un raddoppio della spesa pubblica tra 1971 e 1989-91.
119
Poirrier-Vadelorge, op. cit., pp. 576-77, ricordano il “plan-patrimoine” del 1986, centrato sul binomio “conservare e
comunicare”. Con il ministero Léotard si metterà invece in discussione l’allargamento della nozione di patrimonio in
favore di un ritorno al monumentale e l’esclusione del patrimonio immateriale.
120
Nora, 1988.
121
P. Nora, Patrimoine et mémoire,in Nora, a cura di, Forum du Patrimoine:Patrimoine et société contemporaine, Cité
des Sciences et de l’industrie de Paris-La Villette, Ministère de la culture et de la communication, 1988, pp. 12-15
sostiene il carattere costruito e vincolante della storia del Patrimonio, il rapporto di sostituzione tra memoria e
patrimonio (sentimento della perdita), ma ipotizza un rapporto intimo con il passato e la ricerca di identità. Parla di un
“bien culturel du pays”.
122
M. Fumaroli, L’Etat culturel: une religion moderne, Paris, 1992, si oppone alla politica socialista favorevole alle
Maisons de la culture, cioè al progetto del Grand Louvre, a cui rimprovera di vedere il patrimonio solo come fattore di
propaganda. In verità Fumaroli invoca il patrimonio come zoccolo duro della politica culturale opposto a clan e coteries.
Cfr. anche Poirrier-Vadelorge, pp. 583-86.
123
Leniaud prosegue la propria polemica con L’utopie française. Essai sur le patrimoine, Paris, 1992:
l’amministrazione centralizzata non favorisce più la nascita di memorie singolari, e le collettività territoriali sono i
nuovi mediatori della società plurale. Polemica (p. 60) contro l’Inventaire général, in cui vede non un’impresa
16
discussione lo stesso concetto di “monumento storico” e si invoca il ritorno al puro e semplice
“monumento”124.
Mi pare che si inseriscano in questo tormentato quadro i tentativi delle università
periferiche, a partire dagli anni novanta, di fare della nozione di “patrimoine” un campo di attività
dinamico, potenzialmente inesauribile. Le iniziative sono innumerevoli, e vanno in direzioni
molteplici: dalla “storia patrimoniale dei siti” proposta da Jean-Yves Andrieux a Rennes125, alle
iniziative dell’università di Digione di analizzare il patrimonio culturale vitivinicolo126 e tante altre
che non è qui possibile ricordare. La politica internazionale di “creazione” del patrimonio ai fini
della sua protezione, sotto l’egida dell’Unesco, appare come il coronamento di una politica
amministrativa più che di uno sviluppo della ricerca scientifica127. In ogni caso, la saldatura tra
patrimonio e ricerca storica appare problematica, segno di una matrice epistemologica che resta in
gran parte da investigare128: la saldatura dorata della memoria elude una ricerca della domanda
sociale di storia, e propone un approccio troppo blando e opaco al problema dei patrimoni culturali.
9. Anche in Italia si è manifestata la tendenza all’uscita della ricerca storica dalle università, ma si è
espressa in modo del tutto contraddittorio129. Da un lato si sono investite grandi energie di ricerca,
dall’altro non paiono essersi sviluppate riflessioni su ciò che si andava facendo né si sono proposti
temi di discussione metodologica a questo riguardo, a meno che non si intenda la microstoria come
una proposta di divulgazione della ricerca130. Una grande ondata di nuove storie locali,
necessariamente eterogenee dal punto di vista metodologico, ha invaso il mercato storiografico. Un
inedito interesse per la storia sociale del movimento operaio ha generato una nuova consapevolezza
delle sue dimensioni capillari e periferiche131. Si è aperta una nuova stagione di studi sulle
istituzioni assistenziali, caritative e devozionali, che ha prodotto una grande massa di nuove
conoscenze132. Nuove aree di ricerca si sono aperte, come ad esempio il rituale, cittadino e
contadino, laico come ecclesiastico133. Ma, soprattutto, una nuova generazione di studi sul
patrimonio culturale, locale o territoriale è stata resa possibile da un’editoria bancaria o patrocinata
scientifica, ma un organo di mediatizzazione, un luogo dove si fabbricano documenti destinati alla comunicazione
sociale e scientifica: vocabolari, raccolte di immagini, repertori, opere di cantone (locali). Critica la classificazione dei
monumenti nazionali proposta da Ludovic Vitet nel 1833 poiché non ha nulla di scientifico. Sostiene infine che
patrimonio e patrimonializzazione sono correlati al mercato edilizio (p. 67).
124
F. Choay, Allégorie du patrimoine, Paris, 1991 critica il declino insito nel passaggio da “monumento” a
“monumento storico” e si oppone al culto ufficiale del patrimonio gestito dallo stato.
125
J.-Y. Andrieux, Patrimoine et histoire, Paris, Belin 1997: Id., Les politiques du patrimoine industriel en France
(1972-2000): bilan et perspectives, in Poirrier-Vadelorge, op. cit., pp. 451-468.
126
Le regard de l’Histoire. L’émergence et l’évolution de la notion de patrimoine au cours du XXe siècle en France cit.;
Poirrier, Conclusion. Politiques du patrimoine et politique culturelle, in Poirrier-Vadelorge, op. cit., pp.593-98.
127
La raccolta di Nora arriva ad affrontare la storia dei “patrimoni dell’umanità”: A. Chastel, op. cit., p. 50. Sulle
politiche culturali dell’Unesco cfr. P. Betts, Humanity’s new heritage: Unesco and the rewriting of world history, “Past
and Present”, 228, 2015, pp. 249-294.
128
Riporto qui un suggerimento di Julia Csergo, che ringrazio.
129
Questo paragrafo contiene riflessioni di carattere soggettivo, e fa riferimento a una bibliografia molto selettiva
perché relativa a campi che ho praticato personalmente. E’ evidente che tali riferimenti non esauriscono un tema che
meriterebbe, e spero che meriterà in futuro, ben altro spazio.
130
Era presente, e si manifestava attraverso l’avversione per la divulgazione sintetica dei manuali, ma non mi pare si sia
sviluppata né sia stata mai percepita in questo senso. Cfr. E. Grendi, Del senso comune storiografico, “Quaderni
storici”, 41, 1979, pp. 698-707 e la discussione che ne è seguita.
131
Un esempio tra moltissimi altri: Torino tra le due guerre, Torino, 1978.
132
L. Ciammitti, Il conservatorio delle giovani di Bologna,Bologna, 1981; E. Parma Armani, L' Albergo dei poveri di
Genova : una struttura assistenziale seicentesca, Genova, 1978; Antichi luoghi pii di Cremona : l'archivio dell'Istituto
elemosiniere (secoli 13.-18.), a cura di G. Politi, Cremona, 1978; M. R. Marrone, M. Toscano, Il Real albergo dei
poveri di Palermo, Palermo, 1995.
133
Esempi piemontesi: Vita religiosa a Canale : documenti e testimonianze,Torino, 1978; Vita religiosa e comunità a
Piossasco : invito alla costruzione di una storia locale, Piossasco-Torino, 1980; Radiografia di un territorio : beni
culturali a Cuneo e nel Cuneese : Cuneo, Mostra in San Francesco, maggio-settembre 1980, Cuneo, 1980; La Liguria
delle casacce : devozione, arte, storia delle confraternite liguri : Genova, 8 maggio-27 giugno 1982, Genova, 1982.
17
da finanziamenti bancari, al centro come nella periferia134. Manca in questa sede lo spazio per
sviluppare compiutamente queste impressioni attraverso concrete ipotesi di ricerca, ma la pluralità
di direzioni imboccate dalla storiografia negli anni settanta mi pare indubbia.
In questa congerie di iniziative e di risultati, l’idea di una ricerca storica legata ai problemi
di identificazione, classificazione e comprensione del patrimonio storico-artistico locale ha
costituito un’importante fonte di ispirazione. In alcune situazioni poi, come il Piemonte e l’Umbria,
le istituzioni di tutela hanno svolto una funzione di promozione della ricerca storica 135, con risultati
talvolta di grande valore, dando corpo alla speranza di un “catalogo” costruito dal basso e dalla
periferia attraverso un movimento di “ri-appropriazione”136.
L’espansione della ricerca storica fuori dall’Università ha senza dubbio costituito la risposta
a una domanda “politica” di storia che nasceva in modo spontaneo e in apparenza inarrestabile nella
società. In parte essa era legata ai movimenti sociali di massa che si erano sviluppati tra la fine degli
anni sessanta e l’inizio degli anni settanta, ma anche altri fattori sembrano averla influenzata: la
nuova articolazione del governo locale, con la nascita delle regioni così come delle comunità
montane, e il rinnovamento politico degli enti locali tradizionali, dai comuni (soprattutto le grandi
città del paese) alle province, hanno espresso a loro volta una domanda a cui la ricerca storica ha
tentato di dare risposte, talvolta anche di grande ricchezza metodologica e di peso137. Ben presto
sono affiorati i primi dubbi sulle conseguenze che il mancato avvio di una politica culturale avrebbe
potuto avere sull’espansione della ricerca fuori dall’università138. Eppure, il lavoro amministrativo
dei nuovi enti territoriali si scontrava con problemi concreti e reali, suscettibili di costruire una
domanda di storia che in qualche rarissimo caso ha anche tentato di tradursi in proposta
storiografica: sto pensando allo Schedario Storico-Territoriale dei Comuni Piemontesi, a cui ho
potuto partecipare in prima persona139, ma immagino che una molteplicità di altre iniziative – ad
esempio il progetto Civita in Lombardia140 - siano andate in direzioni analoghe.
A questa domanda istituzionale di storia si è poi affiancata la committenza privata: basti
ricordare la Fondazione Benetton e le ricerche sulle comunità venete, le fondazioni di impresa e la
committenza della storia d’impresa141. L’allargamento della ricerca in direzione della storia sociale
e dell’antropologia storica ha poi prodotto nuove istituzioni, intorno alle quali si sono aggregate
134
Si possono citare a puro titolo di esempio le collane “Arte in Piemonte” della Cassa di Risparmio di Torino; I
“Quaderni della Fondazione per l’Arte” della Fondazione 1563 della Compagnia di San Paolo.
135
Per il Piemonte cfr. Valle di Susa : arte e storia dall'XI al XVIII secolo, a cura di G. Romano, Torino, 1977; Tessuti
antichi nelle chiese di Arona, a cura di D. Devoti e G. Romano, Torino, 1981; Bernardino Lanino, a cura di P. Astrua e
G. Romano, Milano, Electa 1985;Inventario trinese : fonti e documenti figurativi : Trino, chiesa della confraternita
dell'orazione e morte, 17 maggio-15 giugno 1980, a cura di A. Barbero e di C. Spantigati, Trino (VC), 1980; Valli
monregalesi: arte, società, devozioni, a cura di G. Galante Garrone, S. Lombardini e A. Torre, Vicoforte (CN), 1985.
Per l’Umbria cfr B.Toscano, Museo locale e territorio, Spoleto, 1972; Per un atlante aperto dei beni culturali della
Calabria: situazione, problemi, prospettive, Roma, 1985, pp. 103-111.
136
A. Emiliani, Le point de vue cit.
137
Mi riferisco qui alla collana “Storia e cultura locale in Piemonte”, edita a partire dal 1981: E. Beltrami e altri,
Relazioni sociali e strategie individuali in ambiente urbano : Torino nel Novecento, Torino, 1981; A. Barbero, F.
Ramella, A. Torre, Materiali sulla religiosita' dei laici : Alba 1698 - Asti 1742, 1981; C. Belloni, Festa e lavoro nella
montagna torinese e a Torino1981; E. Cappelletti, R.Mannino, M. Pregliasco, Sopravvivenza e vitalità del canto
popolare nell'alta Langa, 1981; S. Benaduce, S. De Benedetti, G.R.Morteo, Spettacolo e spettacolarità tra Langhe e
Roeri, 1981; D. Jalla e S. Musso, Territorio, fabbrica e cultura operaia a Torino : 1900-1940, 1982.
138
G. Romano, Per la valle di Susa, in Valle di Susa cit., pp. 3-5 sulle attese nella regione come committente di ricerca.
Per una critica delle politiche regionali A. Prosperi, La ragione entro i limiti di una sola regione?, “Quaderni storici”,
XVIII, n. 53, 1983, pp. 725-734.
139
Sullo Schedario storico-territoriale dei comuni piemontesi cfr. Lo spazio politico locale in età medievale, moderna e
contemporanea : atti del Convegno internazionale di studi (Alessandria, 26-27 novembre 2004), a cura di R. Bordone,
P. Guglielmotti, S. Lombardini, A. Torre, Alessandria, 2007 e il sito www.centrocasalis.it.
140
Le istituzioni storiche del territorio lombardo - Civita, che faceva parte del portale Lombardia Storica, ora
LombardiaBeniCulturali. Su questa iniziativa cfr. l’intervento di M. Signori in Lo spazio politico locale cit., pp. 000-00.
141
Numerosi esempi, da Dueville : storia e identificazione di una comunità del passato, a cura di C.Povolo, Vicenza,
1985 a Volano : storia di una comunità, a cura di M. Bonazza, G.M.Varanini, Volano-Rovereto, 2005. Per le
pubblicazioni di impresa cfr. la collana “Gli intangibili” e i “Quaderni” della Fondazione Adriano Olivetti di Ivrea.
18
prospettive di ricerca: i nuovi musei dedicati al mondo contadino, da San Marino di Bentivoglio a
Cassego a infiniti altri142. Alcune situazioni dell’Italia meridionale, dotate di strutture universitarie
(Napoli e Bari, Palermo e Catania) hanno partecipato a questa espansione della domanda sociale di
storia143.
Si è in ogni caso assistito a una straordinaria frammentazione della committenza. Una
pluralità di soggetti, enti, istituzioni e imprese ha cercato di interpretare il fenomeno. Si è così avuta
una committenza della politica, dai partiti ai sindacati 144, dalle Camere di Commercio ad
associazioni di ogni genere: la memoria, o, altrimenti detto, la storia orale hanno giocato un ruolo di
rottura, ma solo in rari casi, mi pare, il lavoro di ricerca ha affrontato i rilevanti problemi di metodo
posti da questa nuova pratica storiografica145. Ma infiniti altri impulsi provenienti dal basso, dai
comitati di villaggio e di quartiere, hanno tentato di rispondere a una domanda di storia che
varrebbe la pena, un giorno, di ricostruire.
Ciò che invece è mancato totalmente è il tentativo di riflettere e sviluppare una discussione
sulla natura della domanda di storia, e sulla pertinenza delle risposte che si tentava di dare in termini
di ricerca: i pochi tentativi in questa direzione sono stati snobbati e alla fine ignorati 146. Si potrebbe
dire che ognuno è andato per conto proprio, e la pluralità di committenza di storia si è riflessa in una
ricchezza pulviscolare di iniziative, e in una incontrastata “forza della domanda”, a cui gli storici
non sono stati capaci di rispondere in modo critico e riflessivo: il committente chiede, e va
accontentato. Vorrei essere smentito, ma mi pare che si sia trattato insomma di un approccio al
problema della storia applicata in termini di rapporti personali. Esso ha avuto costi molto pesanti,
che in prima approssimazione sembrano essersi tradotti nell’ignoranza reciproca dei protagonisti.
Ognuno ha gestito la propria rete personale di rapporti: si è fatta la propria ricerca, grande o piccola,
seria o meno che fosse, senza che mai si sviluppassero riflessioni di alcun genere. Certamente, il
lavoro di ricerca sul territorio è andato avanti, ma lo ha fatto per specialismi disciplinari. Oggi, nel
momento in cui la storia è estromessa dal dibattito pubblico, salvo specializzarsi nelle celebrazioni
offerte dal calendario, sarebbe forse il caso di avviare una riflessione non episodica.
Così, ad esempio, il problema dell’identificazione degli oggetti, cruciale per le nuove
archeologie e per l’elaborazione delle procedure di catalogazione, non ha sollevato le discussioni
che meritava. Allo stesso modo, il fallimento dei musei locali, ancora invocati a fine anni settanta
come collettori di energie di conoscenza e di ricerca, ha lasciato posto a indagini di natura
territoriale che si sono reciprocamente ignorate. In tal modo, quando il vento è cambiato, quando
cioè gli orientamenti dei responsabili della tutela si sono concentrati sulle eccellenze nel tentativo di
trasformarle in grandi imprese redditizie dal punto di vista economico e mediatico, un intero
patrimonio di ricerche e di conoscenze è stato travolto dall’oblio.
Altrettanto, se non più deludente, e con conseguenze certamente più gravi, è stata la risposta
delle istituzioni a questa domanda di storia. In un certo senso, ogni istituzione ha usato la storia – o
la propria presenza di committente - in funzione di autolegittimazione. Ma, quel che è più grave,
142
Cfr. C. Poni, Per un archivio popolare : il museo di San Marino di Bentivoglio, “Quaderni storici”, 33, 1976, pp.
310-320; Informazioni sull'attività del museo. Museo della civiltà contadina, S. Marino di Bentivoglio (Bologna),
Bologna, 1976; per un’altra istituzione locale cfr. L' esperienza di Cassego, 5-10 maggio 1979, Levanto (SP), 1979.
143
Una selezione tra materiali molto ampi: G. Giarrizzo, Un comune rurale della Sicilia etnea : (Biancavilla 18101860), Catania, 1963; B. Salvemini, Il territorio sghembo : forme dinamiche degli spazi umani in età moderna :
sondaggi e letture, Bari, 2006; G. Fiume, Santa Margherita di Belice : dall'origine dell'agro-town alla città nuova :
(1610-2010), Palermo, 2012.
144
F. Bozzini, La Cisl nella memoria dei suoi militanti: una ricerca su fonti orali, a cura di M. Carbognin e L.
Paganelli, e Id., Ventidue militanti si raccontano:una ricerca su fonti orali, a cura di M. Carbognin e L. Paganelli, in
Trent’anni di storia sindacale, a cura di Centro studi nazionale Cisl, Roma, 1980, vol. 3.
145
L. Passerini, L. Scaraffia, G. Levi, Vita quotidiana in un quartiere operaio di Torino fra le due guerre: l’apporto
della storia orale, “Quaderni storici”, XII, 2(35), 1977, pp. 433 449. L’articolo è ripubblicato in B. Bernardi, C. Poni,
A. Triulzi (a cura di), Fonti orali. Antropologia e storia, Milano, 1978.
146
V. Tigrino, Storia di un seminario di storia locale. Edoardo Grendi e il Seminario Permanente di Genova (19891999), in R. Cevasco, a cura di, La natura della Montagna. Studi in ricordo di Giuseppina Poggi, Sestri Levante, 2013,
pp. 211-232.
19
neppure la didattica è stata sfiorata da queste trasformazioni147, primo segno della incapacità
dell’università italiana di adeguare i propri metodi e i propri contenuti alla nuova situazione. Per
non fare che un esempio, la risposta che l’università ha dato al problema dell’identificazione e
dell’analisi delle culture locali italiane si è concentrata nei corsi di laurea in Beni Culturali affidati
di solito a storici dell’arte e archeologi, talvolta ai geografi e in quelli di Beni Ambientali e
Territoriali affidati agli architetti. I corsi di laurea in turismo sembrano occuparsi di tutt’altro. Si è
trattato, come hanno sottolineato voci autorevoli148, di risposte istituzionali fallimentari. La proposta
dei Beni Culturali si è troppo spesso limitata a caratterizzare l’oggetto in termini tecnici e a ignorare
il problema di una domanda di storia dal (e del) territorio. Quella dei beni ambientali e territoriali,
d’altro canto, non ha in genere affrontato il problema di una storia del territorio, che avrebbe
richiesto una discussione realmente interdisciplinare, che non è stata mai affrontata. Non a caso,
dunque, le varie scienze umane si sono create i “propri” storici: gli storici dell’architettura in questo
campo, così come gli storici delle istituzioni e del pensiero in campo politologico o gli storici
economici nel proprio settore di competenza. Un tipico ragionamento condotto “per prerogative” e
non per problemi, ulteriore segno di una cooptazione più che di una consapevolezza. Si è assistito
così a una serie di paradossi, come quello, per non fare che un esempio, di “economie della cultura”
che non sentono la necessità di affrontare l’aspetto storico dei problemi delle manifestazioni
culturali149.
In sostanza, l’approccio personale e disciplinare a quella domanda di storia ha impedito
l’elaborazione di un punto di vista, o di una prospettiva che partisse dai problemi posti dalle nuove
domande di storia che emergevano dal tessuto sociale e culturale italiano o cercasse di individuarne
di nuovi. E’ ovvio che si tratta di un problema molto ampio, ma una riflessione sulle risposte che la
storiografia italiana ha dato alla “domanda di storia” nell’ultimo mezzo secolo mi sembra più che
necessaria. Non si tratta soltanto di un lavoro nella profondità temporale come suggeriscono
Armitage e Guldi nel testo da cui siamo partiti. Si tratta di capire che la storia è un lavoro
sull’oggetto, una ridefinizione degli oggetti del presente – ma molto spesso anche del passato - a
partire dai contorni costruiti attraverso il confronto con le fonti. Una ricerca storica, per essere tale,
implica una ridefinizione del suo oggetto. Questo forse è l’aspetto critico della nostra disciplina, che
comporta una riflessione sulla domanda stessa che ci viene rivolta. Se non la si conduce, si rischia
di lavorare alla legittimazione della committenza. Se invece tale riflessione critica viene sviluppata,
ci si inoltra in un terreno denso di insidie, ma ricchissimo e affascinante di scoperte e ritrovamenti. I
due esempi sopra analizzati, quello spontaneo statunitense e quello centralista francese, lo
suggeriscono con forza.
Conclusioni provvisorie
L’applicabilità della storia fuori dall’accademia è dunque uno dei terreni cruciali che Armitage e
Guldi ignorano. Certo il piglio del conservatore illuminato di Armitage e i suoi indirizzi di ricerca
lo pongono visceralmente lontano dalla “history from below”, ma un aspetto lo accomuna ad essa.
Nessuna delle due si preoccupa infatti di conoscere la domanda di storia che percorre la nostra
società. Entrambe presuppongono che un’offerta sia possibile, ma la sviluppano dall’interno di un
fortilizio accademico, non importa se progressista o radicale. Sarebbe tempo, invece, di chiedersi
come identificare tale domanda, e come trovare le risposte che richiede.
147
Si veda tuttavia l’articolo di M. Biasin e W. Tucci in questo stesso volume.
S. Settis, Il paesaggio come bene comune, Napoli, 2013; T. Montanari, Istruzioni per l'uso del futuro : il patrimonio
culturale e la democrazia che verrà, Roma, 2014
149
Ho cercato di raccontare le vicende – che credo tipiche – di un corso di laurea “non ortodosso” sui beni culturali e
turismo a cui mi sono dedicato negli anni 2000-2010 circa in Università in Provincia e provincializzazione
dell’università, in R. Cevasco, a cura di, La natura della Montagna cit., pp.000-000.
148
20
Gli esempi fin qui esaminati mostrano, a mio parere, che la storia applicata ha implicazioni
teoriche di ampia portata, non riducibili al peso della committenza; il tentativo di ripercorrerne gli
sviluppi mette in evidenza congiunture politico-culturali di grande dinamicità e interesse, e in
particolare la svolta degli anni settanta, che ha proposto anche all’esterno dell’accademia nuove
forme di pratica storiografica, e in ogni caso nuovi legami tra storia e società, ben lontane da quelle
ingenuamente ipotizzate da Armitage e Guldi. La nozione di Heritage e quella di patrimonio, verso
le quali la ricerca si è indirizzata dopo una iniziale, ricca pluralità di proposte, hanno risolto
l’applicabilità della storia con la creazione di oggetti di studio, ma a costo di perdere di vista i
problemi che la proposta conteneva. La lettura della applicabilità in termini di memoria e in termini
di comunicazione della ricerca storica, che oggi pare prevalere150, sembra un aspetto, molto
parziale, di una tendenza più ampia e meno conosciuta
E’ chiaro che queste considerazioni iniziali richiederebbero di essere sviluppate anche a
proposito dell’Italia. Come abbiamo detto, qui ognuno è andato per proprio conto, e la pluralità di
committenza di storia si è riflessa in una ricchezza pulviscolare di iniziative, e una incontrastata
“forza della domanda”, a cui gli storici non sono stati capaci di rispondere in modo critico e
riflessivo, bensì personale e disciplinare: il committente chiede, e la risposta deve accontentarlo.
Ora che la crisi finanziaria, economica e politica del paese ha con ogni probabilità arrestato questa
ondata, riflessioni in questo senso sarebbero auspicabili.
In conclusione, dove la storia applicata nasce da una discussione dall’esterno dell’università
genera categorie nuove (Public History, storia applicata, memoria, Heritage?), ma resta ai margini:
lo illustrano gli sviluppi inglesi della storia applicata. Dove, invece, come in Francia, la storia
applicata nasce all’ombra dell’amministrazione, non sviluppa le potenzialità e non crea un oggetto
adeguato alla dimensione del problema da cui nasce: la cultura è un inventario o è un processo?
Come si fa a divulgare un processo, a mostrarlo? Ma, d’altro canto, come si fa a conservare senza
partire dall’inventario?
Queste vicende mostrano in ogni caso che la legittimità degli storici a occuparsi di
patrimonio è contestata, sia nella prospettiva amministrativa francese e in quella disciplinare
italiana dei “beni culturali”. Ciò è dovuto in parte al fatto che il “patrimonio” non è una categoria
storiografica, in parte perché molti storici appaiono ideologicamente lontani dalla prospettiva di
applicazione che il patrimonio presuppone. D’altro canto, però, queste stesse vicende mostrano che
altre domande di storia sono possibili e meritevoli di trovare risposte da parte nostra.
150
S. Noiret, blog su Digital & Public HIstory dal 2012; per una proposta precoce in questo senso cfr. M. Mariano, S.
Cinotto, Comunicare il passato. Cinema, giornali e libri di testo nella narrazione storica, Torino, 2004.