Noi due e gli altri

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Noi due e gli altri
Beth è una donna tradita, ferita per ben due volte da Adam, ai suoi occhi ormai
nient’altro che un donnaiolo incallito e bugiardo. La prima volta è stata capace di
perdonare l’«innocente scappatella» del marito. Ha comprato con lui un rudere e
l’ha trasformato in una bella casa di tre piani in stile edoardiano, affacciata su un
viale costeggiato da sicomori. Là ha accudito con cura Meg, la loro adorata
bambina e, al chiuso della mansarda rallegrata dalla luce che penetra da tre lati,
ha ricavato il suo studio, dove ha composto le sue canzoni, e scacciato
definitivamente l’ombra del primo tradimento.
Come perdonare, però, un marito che ti tradisce una seconda volta, per giunta
con una «cameriera» che ha la metà dei suoi anni? E come non cadere dopo una
simile doppia ferita nell’incertezza nei riguardi del mondo e di sè stessa? Sino al
punto da accorgersi per la prima volta dei segni lasciati dal tempo sul proprio
corpo e pensare che, al di là di qualunque rotolo del Mar Morto, Dio è
indiscutibilmente maschio?
Adam si è reso conto di essere nei pasticci nell’istante stesso in cui ha incontrato
Emma nel ristorante in cui lavora. Sguardi, occhiolini, sorrisi e poi, sul sedile
posteriore del taxi... l’irrimediabile. Per un istante l’immagine di Beth, così bella,
fedele e piena di talento ha attraversato la sua mente. Ma solo per un istante,
perché subito dopo l’idea di fare sesso con una donna più giovane ha preso il
sopravvento, e Adam si è sentito riconciliato di nuovo con la vita a quarantatré
anni.
Ogni Natale, da dieci anni, Adam arresta la sua auto dinanzi a una sontuosa casa
di Hampstead, a Londra, con un regalo impacchettato con cura sul sedile del
passeggero. E ogni Natale scruta al di là delle finestre, cercando di cogliere quanto
accade all’interno, poi mette in moto e si allontana.
In quella casa si cela qualcosa che Adam non ha mai osato confessare a Beth. Ma,
è noto, nessun segreto resiste alle circostanze della vita. Da quel lussuoso
appartamento di Hampstead si riverserà, infatti, su Beth, sulla ormai
diciannovenne Meg e su Adam stesso un ciclone a confronto del quale quello
rappresentato dalla sfrontata, giovane Emma non è che una piccola tempesta.
«Consigliato ai fan di David Nicholls» (The Irish World), Noi due e gli altri illumina,
con un «talento fresco ed esaltante» (Nuala Casey) le zone d’ombra di un
matrimonio, là dove si celano i segreti capaci di determinarne la fine o,
all’opposto, un nuovo inizio.
Fionnuala Kearney vive ad Ascot con il marito. Noi due e gli altri è il suo primo
romanzo.
I NARRATORI DELLE TAVOLE
FIONNUALA KEARNEY
Noi due e gli altri
traduzione di
Cristiano Peddis
Titolo originale:
You, me & other people
© 2015 Fionnuala Kearney
© 2015 Neri Pozza Editore, Vicenza
www.neripozza.it
Edizione digitale: ottobre 2015
ISBN 978-88-545-1205-4
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
... Ad Aidan.
Grazie per avermi sempre amato come sai fare tu
Prima parte
Dicono che i migliori uomini
sono impastati di difetti
e per lo più divengono più buoni
per essere stati un po’ cattivi
William Shakespeare, Misura per misura
Prologo
Non dovrei essere qui. Lo so per certo, così come sono certo del mio nome, del
mio numero di tessera sanitaria, che conosco a memoria, della data e ora di
nascita di mia figlia. Lo so che non dovrei essere qui. Adam Hall... NC 100Z9T... 3
marzo 1994, ore 8:04 del mattino, Meg Sarah-Louise Hall, nata con parto cesareo,
primogenita mia e di mia moglie Beth. Scuoto la testa quasi involontariamente: è
la mia coscienza che mi dà di gomito per ricordarmi ancora una volta che no, non
dovrei essere qui.
Passo in macchina di fronte alla casa. Non c’è parcheggio, quindi sono costretto
a proseguire. Sul sedile del passeggero c’è un pacco regalo, incartato. Oggi è il
compleanno di qualcuno. Ci ho messo del tempo a sceglierlo, volevo fosse il
regalo giusto. È importante per me, importante che loro sappiano come mi sento.
Faccio un’inversione a U in fondo al vicolo, riprovo a cercare un posteggio più
vicino. A circa dieci case di distanza, qualcuno sta facendo manovra e riesco a
infilarmi nel posto lasciato libero.
Più in là c’è una festa, il portico è addobbato con dei palloncini legati al pilastro
all’ingresso. Lancio un’occhiata al pacchetto accanto a me. Quando l’ho incartato,
ho ripiegato su se stesso il nastro adesivo in modo che non fosse visibile
dall’esterno. È stata Beth a insegnarmelo, una volta per Natale. «Devi cercare di
nasconderlo. Così è molto più curato» mi aveva detto. E ha ragione. Le cose ben
nascoste sono molto più curate.
Apro il finestrino. Dalla casa con i palloncini arrivano voci allegre. Passa una
donna, a tracolla porta una borsa dall’aspetto pesante, in una mano ha un
pacchetto e nell’altra una bottiglia di vino. Non ho idea di chi sia, ma ha il passo
veloce, come se fosse in ritardo. A meno di un metro dalla mia auto, giusto
l’ampiezza dello stretto marciapiede, c’è una pianta di gelsomino. Prendo un bel
respiro, inalo quel profumo inebriante; chiudo gli occhi e in un istante torno con la
mente all’essenza floreale che usava mia madre. Con la mano sinistra afferro la
leva del freno a mano mentre nella testa risento la canzoncina che lei mi cantava
quand’ero piccolo. Fai una giravolta. Guardo di nuovo il pacchetto sul sedile. Mi
mordo il labbro. No, non dovrei essere qui.
Metto in moto. Mi sbarazzerò del regalo e non tornerò più. Giuro a me stesso
che non lo farò. Lo dico ad alta voce, mi guardo nello specchietto retrovisore e
pronuncio piano le parole di quel giuramento, come se ne andasse della mia
stessa vita...
Poi, sulla via del ritorno, penso alla cena domenicale che mi attende. Entrerò
nella nostra casa, darò un bacio a mia moglie. Farò una doccia per lavare via la
follia di questa mattina. E mi immergerò nella vita che amo. La immagino
incartata come un regalo, l’involucro esterno senza sbavature, chiuso col nastro
biadesivo o che altro ci vuole, perché una parte del contenuto appaia curato e in
ordine – nascosto alle persone che amo.
1.
«Mio marito è un donnaiolo» le rispondo. Lei è seduta, le gambe accavallate, e
prende appunti sui fogli a righe sottili del suo taccuino. «Una parola di cinque
sillabe per indicare un bugiardo che pensa solo con l’uccello. Come dovrei
sentirmi io? Si scopa una cameriera...» L’ultima parola ha il sapore pastoso della
marmite sulla mia lingua. Tra me e me, chiedo scusa a tutte le cameriere per bene
in giro per il mondo. A voce alta, invece, rivelo ciò che provo davvero, mentre con
la mano destra mi premo la parte sinistra del torace. «Mi sento tradita» dico, poi
abbasso la voce. «E fa un male cane».
La dottoressa Caroline Gothenburg mi offre un cenno comprensivo del capo.
Occhi verde oliva su un viso ampio incorniciato da riccioli rosso tiziano; gambe
lunghe e ben tornite che si intravedono sotto i collant lucidi... e io non posso fare
a meno di domandarmi se questa donna, nella sua scintillante esistenza, sia mai
stata tradita. Le pareti dello studio sono decorate da una marea di diplomi e
qualifiche, ognuno in una cornice sottilissima di legno cromato. Quindi è anche
intelligente, oltre che bella... e io mi ritrovo concentrata su di lei piuttosto che su
di me.
«Per la prossima seduta vorrei che mi preparasse una cronologia» dice,
interrompendo i miei pensieri. Sento la fronte aggrottarsi, solchi profondi che si
impilano uno sull’altro. Sono una donna con la testa. Che diavolo ci faccio qui?
Guardo al di là del tavolino la sagoma pulita, ordinata, della mia terapeuta e
ricaccio giù il panico che mi si sta arrampicando fino in gola.
«Mi aiuterà a conoscerla meglio» aggiunge lei. «Chi è Beth? Che cosa rende
Beth esattamente Beth? Mi piacerebbe capire chi è, da dove viene».
Arriva il suono di una sirena in lontananza, quasi ad avvertirmi di un’emergenza
in corso.
«Piacerebbe anche a me» le rispondo con un filo di voce.
Entro in macchina e il cellulare mi informa che ci sono tre chiamate senza
risposta. Una di Josh, il mio agente, e due di Adam. Li chiamano smartphone, ma
se il mio cellulare fosse davvero “smart” lo avrebbe già cancellato, il numero di
Adam. Ci ho pure pensato, però eliminare il suo nome dalla rubrica non eliminerà
Adam dalla mia testa. Attivo il Bluetooth, richiamo Josh e mi dirigo verso il
supermercato più vicino.
Venti minuti più tardi sto svuotando il contenuto del cesto della spesa e guardo
i miei acquisti scivolare sul nastro trasportatore della cassa. Arance Navel, tonno,
mais dolce, qualche rivista di gossip, un sandwich al pollo dall’aria perlomeno
sospetta e due bottiglie di sauvignon bianco ghiacciato.
«Il tuo uomo ti tradisce?» grida il titolo sulla copertina di una delle riviste
mentre si muove lungo il nastro. Ce ne sono quattro, e tutte con rivelazioni dello
stesso tenore, giusto per rassicurarmi sul fatto che no, non sono l’unica, e nel
mondo l’infedeltà è un fenomeno di massa.
«Desidera i punti?» mi chiede la ragazza con la pelle color caffè e gli occhi a
mandorla da dietro il registratore di cassa.
«Punti?» ripeto io.
«Ha la tessera dei punti?» dice, soffocando uno sbadiglio. Noto un piccolo
tatuaggio all’interno del polso, un minuscolo simbolo dello yin e yang.
E scopro che ho voglia di urlare contro Miss Punti Yin-yang. Voglio gridare,
gridarle di non fare domande così stupide; chiederle se ha fatto caso oppure no
alla questione vitale che campeggia sulle riviste nel mio cesto; dirle che, se non ci
ha fatto caso, il suo voto in materia di servizio al cliente oggi è zero. Voglio
sommergerla con una raffica di parolacce, sono già tutte pronte nella mia testa.
Poi dico a me stessa che avrà l’età di mia figlia Meg, diciannove anni, che è troppo
giovane e quindi probabilmente non conosce ancora il sapore del tradimento.
Prendo un respiro profondo – no, non è certo colpa di Miss Yin-yang se mio
marito è uno stronzo...
Così, invece di gridare, scuoto piano la testa. No, non ho la tessera dei punti.
Quando arrivo alla macchina sto tremando dalla testa ai piedi. Conto fino a cento,
in silenzio, e cerco di riporre nell’angolo più remoto della mia mente la realtà dei
fatti: lui mi ha davvero lasciata e io ho appena trascorso un’ora nello studio di una
terapeuta. Riesco a fermare il tremore delle mani sedendomici sopra per qualche
istante, poi le agito un po’ in aria, accendo il motore e mi dirigo verso casa.
Abbiamo una bella casa. Tre piani, semi-indipendente, stile edoardiano,
affacciata su un viale costeggiato da sicomori nell’area residenziale del Surrey. Era
un rudere quando l’abbiamo comprata, quattordici anni fa. Tutta in mattoni rossi,
con le finestre a bovindo originali; dentro abbiamo buttato giù qualche muro e ne
abbiamo tirato su di nuovi. Un po’ come nel nostro matrimonio, in realtà, se non
per il fatto che la casa ora sembra uscita da una rivista tipo “Ville e Giardini” e io,
che sono la metà del nostro matrimonio, sembro uscita dalla foto “prima della
cura” nel dépliant dello studio di un chirurgo plastico.
Scendo, la ghiaia scricchiola sotto i miei piedi, e rimango a fissare queste mura,
le mura che amo. Mi chiedo se dovremo vendere la nostra casa, se finirò in una
minuscola pseudovilletta in qualche località senza nome. Una fitta allo stomaco,
lo massaggio lentamente con la mano e, non per la prima volta, nella mia testa
appare un’immagine della cameriera. È incompleta, sfumata nei contorni. Non so
nemmeno se ha i capelli lunghi o corti, biondi o scuri, ricci o lisci. Sarà sui trenta o
sui quaranta? Ti prego, speriamo non venti. Per me sarebbe durissima da digerire,
e figuriamoci come la prenderebbe Meg. Sapere che suo padre si scopa una che
compra i vestiti su quel sito di bassa lega che è Topshop sarebbe davvero troppo
per lei.
Poi, all’improvviso, un’imboscata: l’immagine di loro due che fanno sesso. Lei
grida forte come faccio io? E lui le tiene stretti i capelli alla base del collo, come
faceva con me? Arrivano le lacrime, silenziose, mute. Devo darci un taglio... Le
asciugo con la manica e resto immobile per un istante a guardare il giardino di
Adam, e alla fine giungo a una conclusione, rapida, improvvisa: non permetterò
che venda casa mia. Se mi vuole fuori di qui, dovrà portarmi via di peso e dentro
una cassa di legno.
Entro, scarico le buste della spesa e vado dritta nel mio studio, di sopra, nella
mansarda. La luce naturale arriva da tre lati attraverso le finestre inclinate sul
soffitto, ed è qui, di fronte ai due ampi schermi con le note e le linee melodiche,
che mi siedo, carta e penna, a scrivere la cronologia che mi è stata richiesta. Nel
giro di un minuto, dopo sei righe tracciate con una grafia precipitosa, sono di
nuovo la ragazzina del collegio, unica figlia sopravvissuta di una madre eccentrica
e di un padre alcolizzato. Continuo a scrivere, pregando dentro di me che la
dottoressa Gothenburg sappia il fatto suo, e lascio che la mia mano scarabocchi
sulla pagina un abbozzo del mio passato. Poco dopo sono una bimba che ha perso
il padre, troppo innamorato della bottiglia; sono la moglie ferita di un uomo che
ha già collezionato una precedente scappatella di una notte; sono una madre che
si sente in colpa perché desidera qualcosa di più della sua semplice condizione di
madre.
Fisso quello che ho scritto, le parole sparpagliate su due fogli: no, non la
definirei una vita spettacolare. Non è nemmeno materiale da buon samaritano,
ma servirà ad aiutare la dottoressa Gothenburg a conoscermi? E l’esistenza di un
fratellino, morto all’età di tre anni quando io ne avevo sei, rivelerà qualcosa di cui
nemmeno io sono consapevole? La mia ambizione di sfondare come autrice di
canzoni contribuirà a inquadrarmi come persona? Josh non fa che rassicurarmi,
dice che sarò il prossimo grande successo nel country pop. Sono io, però, che non
ne sono tanto sicura. Quello di cui invece sono sicura – lo vedo scritto chiaro e
tondo al centro della seconda pagina – è che mio marito è un fedifrago. E tenendo
conto del fatto che ci è cascato almeno due volte, questo lo rende un fedifrago
seriale. È scritto lì, nero su bianco, perché la dottoressa Gothenburg lo possa
leggere. È come se quelle parole, le parole che attestano le sue mancanze,
risaltassero tra le altre, sventolando come bandiere di fronte a me.
Squilla il cellulare, ma stavolta appena vedo il suo numero sul display scoppio a
ridere. È davvero convinto che, se continuerà a chiamarmi, un giorno come per
magia non sarò più furiosa con lui. Una parte di me spera che vada davvero così,
che abbia ragione, perché questa rabbia mi sta consumando dall’interno. La sento
avvinghiarsi al centro della mia anima, divorarla poco a poco, e in quel momento,
come se ci fosse bisogno di un effetto sonoro, il mio stomaco prende a
brontolare. Mi avvio al piano di sotto, passando di fronte alla parete piena di foto
incorniciate.
Una galleria di foto segnaletiche... Le dita della mia mano destra esitano sul
vetro, desiderose di accarezzare gli scatti di Meg da bambina, di sfiorare piano
quelle vecchie immagini di me e Adam, così giovani, così sorridenti. C’è anche una
foto del matrimonio, piena di amore e di speranza. Una di Adam, scattata a un
barbecue dai vicini: lui è in una posa da modello, lo sguardo fisso nell’obiettivo e il
mento rivolto verso l’alto. Le gambe lunghe e abbronzate fanno capolino dai
bermuda, i capelli biondo cenere, tagliati cortissimi, brillano alla luce del sole
estivo. Scendo le scale a passo molto lento, persa in anni e anni di ricordi. Arrivata
all’ultimo gradino, provo a spiegarmi com’è possibile che, se solo poche settimane
fa qualcuno mi avesse chiesto: «Siete felici?» la mia risposta, fiera, compiaciuta,
sarebbe stata: «Sì, certo». Ecco, ecco quanto è bravo a mentire mio marito.
In cucina prendo un bicchiere e lo riempio fino all’orlo di sauvignon ghiacciato.
Frugo in una delle buste della spesa e tiro fuori il sandwich di pollo, poi inizio a
masticare lentamente. Cerco di obbedire a quella voce nella testa che mi ripete
che devo sforzarmi di mangiare. Io non ne ho nessuna voglia. Voglio solo bere.
Una lunga sorsata di vino e sento l’alcol scivolarmi nelle vene, per andare subito a
colpire lì dove c’è più bisogno.
Il sole settembrino del tardo pomeriggio si insinua dalla porta a due ante che
affaccia sul giardino sul retro. Io mi muovo fuori e dentro la linea dell’ombra, il
sandwich di pollo in una mano, il bicchiere di vino nell’altra. Un boccone per ogni
sorso... Tra l’uno e l’altro, canticchio a labbra strette le parole di una canzone che
ho scritto ieri e sento la timida curva di un sorriso incresparmi il volto. Il
Thesaurus mi ha suggerito una rima per “bastardo”. “Codardo” – ossia vigliacco,
infido, vile. Adam “il codardo”. Adesso il sorriso si allarga e mastico quasi a fatica.
Ho bisogno di buttarmi anima e corpo nel lavoro, così mi muovo per tornare di
sopra, ma al quarto gradino mi volto, mi siedo e resto ferma, inerte. Osservo il
soggiorno di fronte a me, incapace di compiere anche il più piccolo movimento.
L’area cognitiva del mio cervello si è spenta. Le gambe si rifiutano di alzarsi, le
mani sembrano incollate alle ginocchia. Mi assalgono istantanee di ricordi, di
luoghi dove siamo stati insieme, di canzoni che abbiamo cantato, di momenti
condivisi. È la paura di ricominciare da zero che mi paralizza. Da dove inizio? Se mi
limito a inspirare ed espirare, forse il tempo non farà altro che passare. Annuisco.
Sì, è così che andrà. Devo solo aspettare che finisca, poi di colpo sarà passato un
mese, il nuovo inizio sarà già un fatto reale senza che io me ne debba rendere
davvero conto.
Mi alzo soltanto quando mi ritrovo circondata dall’oscurità. Scendo un gradino,
accendo la luce e raggiungo il frigo. Prendo la bottiglia di vino e vado in salotto.
Trenta minuti dopo sto guardando l’ipertrofico televisore al plasma di Adam –
pisello piccolo, televisore grande – quando squilla il telefono di casa.
«Sei licenziata!» Sir Alan riempie lo schermo, l’indice puntato contro una
lavoratrice che non rende quanto dovrebbe.
«Ehi, amica, lo so come ti senti» dico, subito solidale con la malcapitata. «Beth,
sei licenziata!» Alzo il bicchiere in direzione della vittima di Sir Alan Sugar,
protagonista di The Apprentice, poi sollevo il ricevitore, sicura che a quest’ora non
possa essere che Meg.
«Meg?»
«Beth, sono io...»
No, non è Meg, la mia adorata bambina. È lui, il bastardo che le ha fornito metà
del patrimonio genetico, il codardo di cui, non appena sento la voce, avverto la
mancanza con ogni fibra del mio essere. E il cuore comincia a martellare contro la
cassa toracica.
«Come stai?» mi chiede. «Beth, non mettere giù. Per favore, dobbiamo
parlare».
«Non voglio parlarti».
Lui non risponde.
«Sei con lei?» gli chiedo.
Ancora silenzio. Un silenzio colpevole.
«Lo sai che sei un codardo?» È il vino a farmi parlare così.
Un sospiro. «Sì, me lo hai detto un sacco di volte».
«No, ti ho detto un sacco di volte che sei un bastardo, adesso ti sto dicendo che
sei pure un codardo». Nessuna risposta.
In sottofondo rumori di piatti e pentole, come se qualcuno stesse scaricando la
lavastoviglie. Immagino la scena. Che bel quadretto domestico! Molto Jamie e
Nigella. Adam parla a voce bassa, come se non volesse farsi sentire da qualcuno.
«Va’ a farti fottere, Adam». Sbatto la cornetta sul ricevitore. Guardo la bottiglia,
e i geni di mio padre che mi fanno ciao ciao con la mano.
2.
Fisso il display del cellulare. Chiamata terminata. Mi ha chiuso il telefono in faccia.
Di nuovo... E mi ha riempito di insulti. Beth lo sa quanto detesto il suo turpiloquio.
Sono passate due settimane da quando sono andato via di casa e ancora non
riesce a rivolgersi a me senza offendermi.
La porta della cucina è aperta e riesco a vedere Emma, chinata per raggiungere
il cestello più basso della lavastoviglie. Ha un abitino nero aderentissimo, e solo a
guardarla mi gira la testa: immagini di Emma nuda, di Beth nuda, mi annebbiano il
cervello già di per sé ingarbugliato. Inspiro a fondo, cercando di riempire i
polmoni nel modo più silenzioso possibile.
«Lo so che non ti perdi una parola». Emma mi osserva da dietro la spalla sinistra
e incrocia il mio sguardo. Con un unico movimento fluido alza le braccia, afferra i
lembi del vestito e se lo sfila dalla testa. Indossa le calze. Niente mutandine, solo
le autoreggenti e un reggiseno striminzito, e io sento crescere l’eccitazione
quando la vedo avanzare verso di me. Qualche istinto mi dice di starle lontano, di
alzare le mani e dire: «No, Emma, no», ma ormai è tardi, troppo tardi. Se fossi un
uomo migliore, avrei pronunciato quelle parole mesi fa. Allora mi piego al potere
del mio istinto primario, quello che mi dice di prenderla qui, sul parquet bianco
della sua cucina. Prima che io capisca cosa succede, è in ginocchio e mi sta
sbottonando i pantaloni. Chiudo gli occhi. Con una mano mi tengo allo stipite
della porta, con l’altra le afferro la testa alla base del collo, le dita intrecciate nei
suoi lunghi capelli biondi.
Mi sono reso conto di essere nei pasticci nell’istante stesso in cui l’ho
incontrata. La serata era iniziata come una semplice cena con i colleghi nel
ristorante in cui Emma lavora. È stata lei a cominciare: qualche sguardo esplicito,
un occhiolino, sorrisi. All’inizio pensavo che fosse la mia immaginazione, ma poi
Matt, il mio socio, mi ha bloccato in un angolo davanti al bagno.
«Non farlo, Adam» mi ha detto.
«Non fare cosa?»
«Non abboccare. Ti senti così figo che quella troietta bionda ci stia provando,
che stai giocherellando con la fede sotto il tavolo da quando siamo arrivati».
«Non è vero».
«Non fare cazzate, Adam. Tra te e Beth va alla grande».
A fine serata però, quando sono salito sul taxi con Emma, la fede era già in tasca
e avevo fatto la mia scelta. Ho pensato a Beth, mia moglie, stupenda, fedele,
piena di talento; la donna che mi faceva ridere almeno una volta al giorno, la
donna che amavo, la donna per cui avrei dato la vita, per cui ancora la darei. Sì, ho
pensato a lei, ma è durato un attimo.
Emma era la donna più sfrontata che avessi mai incontrato. Mi si è gettata
addosso sul sedile posteriore del taxi e mi ha afferrato il cazzo con le dita lunghe e
fresche di manicure. Io sono stato un debole, incapace di reagire. Sono passati
mesi e sono ancora un debole, un uomo di quarantatré anni che ha ferito sua
moglie così profondamente che ora non sa come riparare, e per questo ha scelto
di far finta di nulla e di concedersi sesso in abbondanza con una donna più
giovane. Ed è fantastico, ti riconcilia con la vita.
Lascio l’ufficio piuttosto presto, esco dal parcheggio sotterraneo e vado
incontro a una mite serata di settembre, il sole ancora piuttosto alto nel cielo. Alla
mia destra, dall’altra parte del fiume, il profilo del London Eye: le cabine della
ruota panoramica sono strapiene di turisti spensierati. È venerdì, normalmente
passerei il fiume per dirigermi verso la A3 in direzione di casa, dopo la settimana di
lavoro trascorsa in città. Otto mesi fa io e Beth abbiamo deciso di “prendere in
prestito” l’appartamento di mio fratello Ben, andato all’estero per un anno. Un
accordo vantaggioso per entrambe le parti: noi paghiamo un affitto molto
inferiore ai prezzi di mercato, coprendo la rata del mutuo, e lui conosce e si fida
dei suoi inquilini. Il piano era di fermarci qui durante la settimana, così io avrei
fatto meno il pendolare e Beth si sarebbe potuta godere Londra pur continuando
a scrivere le sue canzoni. Nuovo ambiente, nuove ispirazioni: ecco qual era il
nostro progetto.
Svolto in direzione est, verso l’autostrada, e mi dirigo nel quartiere dei docks,
dove si trova il monolocale con vista sul Tamigi. Ho intenzione di dormire lì
stanotte, ho in programma una serata Emma-free. Voglio concedermi un po’ di
riposo mentale, con un takeaway e una partita di calcio su Sky. E allora perché
continuo a guidare e proseguo verso est lungo la A13, e imbocco la M25, facendo
un giro lunghissimo per raggiungere quella che fino a qualche tempo fa chiamavo
casa mia?
Digito il numero con la mano libera. Se mi presento lì di punto in bianco è
capace di uccidermi. Già mi immagino la scena, incenerito sul posto dalla forza del
suo sguardo affilato. Ma sento il bisogno di vederla, di provare a spiegarmi. Non
ho le parole per farlo, solo il desiderio di provarci, perché in fondo quello che non
riesco a sopportare è che Beth mi odi. Il telefono squilla un paio di volte, poi ecco
la sua voce.
«Avete chiamato Adam e Beth Hall. Ci dispiace, al momento non possiamo
rispondere. Lasciate un messaggio e vi richiameremo».
Lei però non mi ha ancora richiamato. Digito un altro numero, nella speranza
che l’altra persona che ho ferito a morte abbia ancora voglia di rivolgermi la
parola.
«Ciao, papà» mi dice. Ha risposto al terzo squillo.
«Ciao, Meg». Resisto all’impulso di utilizzare il nomignolo di sempre, Pumpkin, il
mio fiore di zucca. «Tutto bene?» Sono così teso che riesco a percepire ogni
battito del mio cuore.
«Nei limiti di quanto possa andar bene quando hai uno stronzo come padre...»
Lascio uscire un sospiro, forte, lento, perché anche lei lo senta. «Me lo merito. E
mi dispiace»·
«Sì, te lo meriti, e il fatto che ti dispiaccia non basta. Sei ancora con quella?»
Dritta alla giugulare. Potrà anche avere i miei stessi occhi, gambe lunghe come
le mie e quel colore di capelli che Beth definisce “castagnaccio”, gentilmente
offerto dai miei geni, ma quando si tratta di certe cose, Meg è la figlia di Beth, non
c’è dubbio. Niente giri di parole, dritta al punto.
E così le rispondo con lo stesso approccio diretto. «Sì».
«Già... Perché hai chiamato?»
«Sei mia figlia, Meg. Vorrei vederti. Ti prego».
«Per fare cosa? Presentarmi la tua fighetta stronza, così possiamo giocare alla
famiglia disfunzionale?»
Rimango sconcertato dalle sue parole. È colpa di Beth se anche mia figlia parla
come uno scaricatore di porto.
«Io...»
«Ascolta, papà, è ancora troppo presto. È tutto troppo fresco. Non sei l’uomo
che pensavo fossi. L’uomo che ho sempre rispettato». Riesco a immaginarla,
scuote la testa prima di continuare. «Non sei quell’uomo, punto e basta».
Mi mordo il labbro, lo sento tremare. Ha ragione. Non sono quell’uomo, ma non
lo sono mai stato. «Mi dispiace» riesco a dire con un filo di voce.
«Bla bla bla» fa lei, poi riaggancia.
Accosto sulla corsia d’emergenza. E il contenuto del mio stomaco si rovescia
sull’asfalto della A13. Sono riuscito a inzaccherare la portiera della mia adorata
Lexus. Mi tornano alla mente le parole di mia madre, morta da tanto tempo:
«Spero che tu sia fiero di te stesso, Adam». Mi pulisco la bocca con la manica della
camicia, poi guardo le tre carreggiate di traffico velocissimo e alzo gli occhi al
cielo. Meg mi odia. Ho combinato un casino. Un casino gigantesco.
La casa è sempre identica. Non so perché mi aspettassi di trovarla diversa. Sono
via da poco tempo, non più di quello necessario a una normale vacanza, eppure
sono cambiate così tante cose. La macchina di Beth non è nel vialetto, mi chiedo
se utilizzi il garage, ora che non c’è più la Lexus. Mi metto in bocca una caramella
alla menta e senza pensare due volte a quello che sto per fare scendo dalla
macchina.
Suono il campanello. Nessuna risposta. Provo a chiamare il numero di casa.
Segreteria. Ho le chiavi, ma non oserei mai... vado verso il garage, mi affaccio
dalla finestrella laterale. Non c’è la macchina, quindi Beth è di sicuro fuori casa.
Col dorso della mano pulisco il vetro e sbircio dentro. Ci sono gli scaffali ben
allineati lungo le pareti, tutto è perfettamente organizzato. Lo spazio centrale è
sempre libero per la macchina che tanto amo, la stessa che ora ha degli schizzi di
vomito sulla portiera del passeggero.
Decido di usare le chiavi e provo con la serratura in basso, quella della Chubb.
Nessun risultato. Anche la Banham si rifiuta di girare. Poi di colpo capisco: Beth le
ha cambiate entrambe. E improvvisamente ho la sensazione che mia moglie sia
dentro casa. Che sia qui fin dal mio arrivo. Apro lo sportellino della posta, in basso
sulla porta.
«Beth! Apri!» Mi risponde solo il silenzio. Ora sono in ginocchio e sbircio dalla
fessura, la testa inclinata di lato per vedere dentro.
«Ciao, Adam».
Scatto in piedi. Sylvia, la vicina di casa, quella a cui entrambi siamo legati, è lì, in
uno spazio libero tra le siepi di alloro.
«Ciao, Sylvia» la saluto mentre con le mani mi levo la polvere dai pantaloni.
«Ecco, io...»
«Le serrature sono state cambiate» mi conferma lei fissando il vialetto.
«Capisco». Cerco un contatto visivo, dopotutto sono più di dieci anni che
usciamo a cena assieme. «Non credo che...» Sylvia è anche incaricata di custodire
le chiavi di riserva, in caso di emergenza.
«Non chiederlo, Adam, per favore».
«No» le rispondo annuendo, «scusami. Sai dove è andata?»
Sylvia si stringe nelle spalle. È a quel punto che la vedo: la tristezza, la pietà,
l’amarezza nell’espressione del suo viso. Non saprei esattamente come definirla,
ma sono sicuro di non essere ancora pronto per subire un processo qui, in piedi,
sul gradino d’ingresso di casa mia.
«Okay, non preoccuparti. La chiamo più tardi». Con questo mi congedo dalla
mia commensale di un tempo e cerco riparo nella Lexus mezza vomitata. Cristo...
Sprofondo sulla morbida pelle del sedile e mi chiedo dove sia in questo momento
mia moglie. Potrebbe essere uscita con la sua amica Karen. Accendo il motore,
faccio manovra nel vialetto e dallo specchietto retrovisore vedo il profilo della
nostra casa farsi sempre più piccolo quanto più mi allontano. Poi una morsa alla
bocca dello stomaco, mentre lentamente prendo coscienza della realtà. Beth ha il
diritto di fare quello che vuole. Sono io a non avere il diritto, non più, di chiedermi
cosa stia facendo un venerdì sera... o qualunque altra sera, se è per questo.
L’immagine di mia moglie in compagnia di un altro uomo mi attraversa la mente
per un attimo. E non mi piace. Per niente. Quando imbocco l’autostrada, l’unica
cosa a cui riesco a pensare è che io mi piaccio ancora meno.
3.
«Vorrei che scrivesse qualcosa su di sé» mi dice allo scadere della nostra ora di
colloquio. «Scriva di se stessa, non di Adam, non di Meg, di sua madre, di suo
padre alcolizzato, del suo fratellino morto o di chiunque altro. Solo di sé. E non
stia a pensarci troppo, lasci che le parole vengano fuori da sé».
Scrivo ogni giorno, ma l’idea di essere io, e io soltanto, l’argomento da trattare
mi fa venire voglia di stringermi le ginocchia al petto e dondolare avanti e indietro
sulla sedia.
«Immagini una matrioska» mi suggerisce lei, prendendo dal tavolino una di
quelle bamboline russe a forma di botte. L’ultima volta che sono venuta qui, ho
notato che nello studio ce n’è uno scaffale pieno. La dottoressa apre la matrioska,
pezzo dopo pezzo, mostrando i cinque strati, di cui l’ultimo ha la forma e la
dimensione di una nocciolina.
«È qui che deve arrivare» mi dice, puntando l’unghia fresca di manicure al
centro della nocciolina. «Si sbucci, tolga gli altri strati, arrivi a se stessa.
All’essenza». Mi sta sorridendo, come se fosse molto compiaciuta delle sue
parole.
«Non sono sicura di...» Ho la voce segnata dell’ansia. «Di riuscire ad andare così
a fondo, non penso che riconoscerei i pezzi più piccoli della mia interiorità anche
se mi passassero di fronte e venissero a presentarsi».
«Forse potrebbe cominciare chiedendosi:“Chi sono?”» aggiunge lei, tornando
ad appoggiarsi allo schienale.
Provo a immaginarmi la scena ricorrendo all’associazione di parole, e vado nel
panico quando mi rendo conto di avere termini a sufficienza per descrivere al
massimo i primi due strati. La dottoressa mi invita a respirare, respirare piano,
dentro e fuori.
Chiudo gli occhi.
Poi continua: «Si chieda: “Che cosa provo?”».
Dio mio, provo nausea, ecco cosa provo. Ti prego, fa’ che quel nodo alla gola
non sia un conato di vomito.
«E infine magari “Cosa mi piace? Cosa non mi piace?”»
«Okay, basta così!». Ho afferrato la faccenda. Guardo prima lei, poi la
bambolina sul tavolino. «Credo che servirà una matrioska più grande».
Caroline – è stata lei a insistere perché usassi il suo nome di battesimo – si è
offerta di prestarmi qualche libro e dei CD sulle tecniche di rilassamento. Mi ha
anche mostrato un punto di riflessologia, nella parte carnosa del palmo della
mano, tra il pollice e l’indice, suggerendomi di esercitare una leggera pressione
ogni volta che mi prende il panico. Io credo che una canzone degli Abba funzioni
altrettanto bene, così quando arrivo in centro a Weybridge mi ritrovo a
canticchiare ad alta voce Fernando. È metà pomeriggio, l’ora dell’uscita da scuola,
e il traffico è incolonnato in una specie di lunghissima serpentina.
Finita Fernando, mi esibisco in The winner takes it all, per poi decidere, più o
meno a metà, che non ho scelto proprio la canzone più adatta. Infilo nel lettore
uno dei CD che mi ha dato Caroline. Il suono delle onde che si infrangono sugli
scogli e una melodia di fischi stile delfino invadono l’abitacolo. Inspiro
profondamente dal naso e sputo fuori l’aria dalla bocca, come mi ha insegnato lei.
Tre minuti dopo, non mi sono mossa di un millimetro e sento il trillo del cellulare
in vivavoce col Bluetooth.
«Ciao, tesoro» rispondo.
«Ciao, mamma. Tutto bene?»
«Alla grande». Non mento mai a Meg, ma non è il momento di rivelarle che né
gli Abba né i delfini riescono a intaccare la mia ansia perenne. Lancio un’occhiata
all’orologio. «Non avevi detto che avevi lezione tutto il pomeriggio?»
«Era vero. È vero. Non ci sono andata».
«Già...»
«Mi ha chiamata».
«Okay...» La coda è ancora immobile, siamo bloccati, e io esercito una lieve
pressione tra il pollice e l’indice della mano destra, nel punto più carnoso del
palmo.
«Per farla breve, non so che cosa pretende da me. Ti ha lasciato – ci ha lasciato
– per un’altra donna, poi mi chiama e vuole fare conversazione! Gliel’ho chiesto.
Insomma, gli ho chiesto se stava ancora con quella. Non ha nemmeno avuto le
palle di ammetterlo».
Meg si ferma un istante per prendere fiato e io levo il piede dal freno, avanzo di
qualche centimetro, poi torno a premere quel punto della mano. Se continuo così,
domani avrò un livido.
Però sono decisa a dire la cosa giusta. «Meg, tesoro, non tagliare i ponti. È una
cosa tra me e lui. Il problema è il nostro matrimonio, non quello che c’è fra voi. È
ancora tuo padre e ti ama con tutto il cuore». Proprio mentre lo dico, immagino la
smorfia sulla faccia di mia figlia. Di recente ci siamo ritrovate a chiederci se Adam
ce l’abbia davvero, un cuore.
«È un bugiardo, mamma» mi risponde rabbiosa.
«Sì, lo è, ma ha mentito a me, non a te».
«Ma le sue bugie colpiscono anche me! Non te ne rendi conto?»
«Mi dispiace». Sto annuendo piano. Certo che me ne rendo conto. Me ne rendo
conto da sempre, eppure qualcosa mi dice che sì, adesso lo odia, ma non durerà a
lungo. Presto Meg ricomincerà a volergli bene, e non voglio che si senta in obbligo
di avere il mio permesso. Sono, e saranno sempre, legati a filo doppio.
«Parla con lui, se ti cerca. Non tagliare i rapporti, non farlo per me. Avete
bisogno l’una dell’altro».
Mi risponde con una specie di “mhm” e io provo a cambiare argomento, le dico
di tornare a lezione e insisto perché tutto vada avanti come se niente fosse.
Quando chiude, mi promette che passerà a trovarmi la prossima settimana.
La telefonata sarà durata un paio di minuti e io sono sempre bloccata nel
traffico. Non c’è nulla da fare. Schiaccio PLAY sul lettore e mi circondo di altri trilli
alla Flipper.
Quando arrivo a casa mi sento piuttosto serena, a parte una sorta di mal di
mare. Parcheggio qualche metro prima dell’ingresso del garage. È un annesso,
separato dal resto della casa, sul lato libero dell’edificio, ed è un altro dei posti
ordinatissimi, al limite del compulsivo, di Adam.
Entro dalla serranda ribaltabile. All’interno, da un lato c’è uno scaffale che dal
pavimento arriva fino al soffitto, con una variegata selezione di vernici, pennelli,
rulli, smacchianti, tutti perfettamente disposti per colore e in base alle dimensioni
dei barattoli. Trovo una lattina di spray dorato, l’ho usato io lo scorso Natale per
verniciare delle pigne. A ripensarci ora non riesco a farmene una ragione: come
ho potuto ritenere importante il colore di una pigna? Nella parete opposta c’è la
“zona auto”, con una collezione di pelli di daino, lucidanti, schiume per la
carrozzeria, aspirapolvere in miniatura, cere, rotoli di panni delicati per
l’asciugatura.
Sposto un paio di cose. Metto alcuni barattoli di vernice nella zona auto, butto
sul pavimento le pelli di daino e ci ballo sopra, manco fossi un derviscio. Dal mini
aspirapolvere tolgo la sacca di raccolta e la svuoto sulle pelli, poi la riprendo e la
rimetto a posto. Mi avvicino allo scaffale e mischio barattoli piccoli e grandi e,
nonostante sia impegnata a incasinare le cose di Adam, ritrovo il contenitore della
vernice che ho comprato io, l’anno scorso, per tinteggiare l’ingresso. Mi ricordo
bene, lui era stato irremovibile.
«Non esiste» mi disse. «È un colore terribile».
E ricordo di aver accettato il suo “no” senza replicare.
Molto più tardi, dopo un panino al tonno che dovrebbe essere la mia cena,
torno nel garage. Recupero il barattolo di tinta, una magnifica tonalità di blu
“Tiffany”, qualche pennello, un rullo, e inizio a tinteggiare l’ingresso. Non mi è mai
piaciuto quel freddo color pietra che ha scelto Adam. Tutta la fase preparatoria –
togliere le foto, lavare i muri – mi prende un’eternità, e sto quasi per
abbandonare l’impresa quando afferro il pennello più sottile e lo intingo in
profondità nel barattolo della vernice. Sembra che abbia una vita tutta sua,
comincia a scrivere in blu Tiffany sul grigio pietra:
Sono Beth. Sono una donna forte. Una donna di mezza età. Mi piacciono lo
champagne, il cioccolato, l’oceano, le calze di pizzo, le polpette dell’Ikea, le
infradito, Touche Èclat, la musica e i testi delle canzoni. Non mi piacciono i politici,
i call center, le donne troppo magre, gli snob, il punk rock, il rafano, i codardi e
quelle che coi codardi ci vanno a letto.
Faccio un passo indietro e resto lì, ad ammirare il mio lavoro. Senza
rendermene conto ho creato una sorta di finestra di testo sulla parete
dell’ingresso. Attorno traccio un quadrato, sottolineo “i codardi e quelle che coi
codardi ci vanno a letto”. Non sono proprio sicura che fosse ciò che Caroline
aveva in mente quando ha detto “scrivere di se stessa”, ma secondo me funziona.
Prima di andare a dormire, lo osservo ancora. È una meraviglia.
Dormire, però, è diventato un altro problema. Un’ora dopo sono ancora del
tutto sveglia, con la televisione silenziata e il computer portatile poggiato accanto
a me. Il lieve ronzio della ventola mi dice che è ancora acceso e si sta
surriscaldando. Beato lui che è bollente. Salto giù dal letto, non ho nessuna
intenzione di pensare al sesso.
Nel bagno interno alla camera vengo letteralmente assalita dall’immagine di me
stessa. Lo specchio ovale con la cornice francese, quello sopra il mobile in noce
che ospita il doppio lavandino, mi conferma che, anche se gli occhi verdi
rimangono il mio tratto migliore, sono stati messi a dura prova dall’abbandono di
Adam. Anche il magico fondotinta Touche Èclat fatica a tenere testa alle venature
cupe e ombrose che un matrimonio a pezzi ti lascia sulla pelle.
Lo specchio a misura intera, a destra della vasca, mi mostra invece delle gambe
decisamente troppo corte rispetto al busto. Una coppia di peli pubici ingrigiti
testimonia, al di là di qualunque rotolo del Mar Morto, che Dio è maschio. Quel
poco di pelle cascante che sporge dall’elastico delle mutande mi ricorda che sono
una madre, come se davvero avessi bisogno di un promemoria... E i capelli, che a
ventidue anni erano lunghi, castano scuro e splendenti, ora – a vent’anni di
distanza – sono corti, d’un nero corvino e flosci, grazie a “L’Oréal, perché io
valgo”. Mi strucco con una salvietta detergente, ancora una volta, e comincio a
cantare. Scomparsa, l’ultimo mio brano che Josh è riuscito a vendere, e che fino a
oggi mi ha fatto guadagnare la principesca cifra di diecimilacinqucento sterline.
«Lo specchio non sa mentire, ma chi è lei, e io dove sono andata a finire?»
Grido con entusiasmo questo verso della canzone mentre scendo le scale e vado a
prendere l’aspirapolvere nell’armadio a muro dell’ingresso. Canto a voce ancora
più alta per superare il rombo di quell’aggeggio.
Lo passo in salotto, poi in sala da pranzo e infine nell’ingresso. Sfilo davanti al
mio capolavoro sulla parete e mi sfugge un sorriso. Quando metto a posto
l’aspirapolvere e vado in bagno a prendere l’anticalcare dall’armadietto sotto il
lavandino, mi rendo conto di essere in uno di quei momenti che Adam definiva
ossessivo-compulsivi, e per i quali di certo la mia terapeuta ha un preciso termine
scientifico in latino. I guanti gialli schioccano sulle mie mani prima di attaccare i
sanitari, senza che io smetta di cantare, con la spugna ruvida in una mano e un
bicchiere di vino appena riempito nell’altra. Se qualcuno mi vedesse, mi
prenderebbe per matta. Se esistessero gli alieni e ci stessero osservando, di certo
rapirebbero Sylvia, la vicina di casa, non me. Non si assumerebbero mai un rischio
simile.
4.
Sono seduto nel mio ufficio, la testa tra le mani e i gomiti poggiati sull’antico
tavolo di noce, pieno di cicatrici, che Beth ha recuperato in chissà quale paesino
della campagna bretone. Il mio orologio da polso sostiene che sono le dieci e
mezzo, il che significa che sono qui da almeno due ore. Nonostante i due immensi
monitor sulla parete di fronte, con il canale di Bloomberg che mi bombarda di
frecce rosse rivolte verso il basso, da quando sono arrivato non ho fatto altro che
perdere tempo con le scartoffie. Fuori dalla mia porta, la targa a qualche metro
dalla reception recita HALL&FRY. È un nome conosciuto nella City, e chi lo conosce
sa che siamo un’agenzia di intermediazione finanziaria rispettata e di successo, un
ufficio a conduzione privata ma molto stimato nel suo settore. Se la tua famiglia
ha soldi, vieni da noi: ce ne occupiamo e facciamo in modo che aumentino. Vuoi
investire nel mercato dell’arte? Preferisci il mattone? La Borsa? Siamo dei
professionisti della consulenza. Il nostro servizio è offrire buoni consigli. E, porca
miseria, quanto vorrei che qualcuno adesso li offrisse a me.
Con un tempismo perfetto, in quel momento Matt – il mio socio in affari da
quasi vent’anni – entra senza bussare.
«Hai un aspetto di merda» esordisce appena mi vede.
Mi passo le mani sul viso, ho la barba lunga di qualche giorno. «Non abbiamo
riunioni con i clienti oggi» è il mio unico tentativo di difesa.
«Io però sono costretto a guardarti». Lancia due cartelle sul mio tavolo. «Puoi
restituirmele per le quattro? Domani abbiamo un appuntamento con dei clienti, i
fratelli Granger. Quindi una rasatura non sarebbe male, che ne dici?»
Ignoro il riferimento ai clienti, ignoro la preoccupazione dipinta sul volto di Matt
mentre osserva i monitor alla parete e mi appoggio allo schienale della poltrona,
per poi mettere i piedi sopra la mia scrivania. «Sei incazzato con me per
qualcosa?»
«Cosa te lo fa pensare?» Matt si volta a guardarmi, mi studia da sopra le lenti
degli occhiali, poi ci ripensa e se li toglie. Così almeno ha qualcosa tra le mani da
agitare contro di me. «Per quale assurdo motivo qualcuno dovrebbe essere
incazzato con il favoloso Adam Hall?»
«Sì, va bene, allora mettiti in coda con gli altri» borbotto prima di levare i piedi
dalla scrivania.
Matt prende posto sulla sedia di fronte a me e si passa le dita tra i pochi capelli
rimasti.
«Che stai combinando, Adam? Ne hai almeno un’idea? Insomma, ami questa
ragazza?»
Mi alzo e guardo fuori dalla finestra, vorrei perdermi nel frastuono della città
sotto di noi. Il ronzio sordo e insistente del traffico, le sirene delle ambulanze, i
corni delle barche sul fiume... Il mio ufficio si affaccia su Tower Bridge e non passa
giorno senza che io mi avvicini alla finestra del sesto piano e mi dia un pizzicotto
per essere sicuro di non sognare. Sono un uomo fortunato. Almeno lo ero. Adesso
sono un bastardo fortunato. Un codardo fortunato. Un bastardo codardo e
fortunato. Sento lo sguardo di Matt trapanarmi la schiena.
«Adam?»
«Le domande sono tre. A quale vuoi che risponda per prima?»
«Fai tu».
Mi volto verso di lui. «La verità è che no, non ho idea di cosa sto facendo. Non
penso di essere innamorato, ma sono attratto da lei...»
Matt fa una specie di sbuffo. «Si chiama attrazione sessuale» dice con il tono di
chi constata un’ovvietà.
Io scuoto il capo, come per difendermi.
«Se non è attrazione sessuale e non è amore, allora di cosa si tratta? Hai
qualcosa in comune con lei?»
«Lei si chiama Emma».
«Con Emma, allora». Matt si stringe nelle spalle e si alza, poi inforca
nuovamente gli occhiali. «Dimmi, cos’hai in comune con Emma?»
«Lei è...» Indugio un istante di troppo.
«È bella da morire» interviene lui. Credo che, in un modo strano e tutto suo,
stia cercando di essermi d’aiuto.
Emma ha dieci anni meno di me. È ricca di famiglia, mentre nel mio DNA ci sono
solo le povere strade di Bethnal Green. Lei nemmeno sa chi sono gli Eagles e io
invece ero presente a ogni loro concerto in Gran Bretagna. Non potrebbe mai
cantare con me una canzone di Bruce Springsteen. Vive in una casa senza un
granello fuori posto, bianca, asettica, mentre io sono – insomma, Beth è – uno di
quelli che non butta mai via niente.
«È bella da morire» confermo. «E, francamente, a letto è un fenomeno».
Osservo la schiena del mio socio strizzata nella giacca mentre lascia la mia
stanza.
«Attrazione sessuale» mi dice, voltando appena la testa. «Te l’avevo detto... A
proposito» aggiunge con un sorrisetto, «hai un appuntamento per pranzo con il
mio sogno numero uno».
Strizzo le palpebre mentre la porta si chiude dietro di lui.
Maledizione. Karen. Ho appuntamento a pranzo con la donna dietro cui Matt
sbava da anni. Karen, la nostra consulente informatica, e anche la migliore amica
di Beth.
Quando si avvicina, noto che gli uomini si girano a guardarla. Karen è stupenda:
alta, slanciata, rossa naturale, snella ma formosa. I capelli sono lisci, corti, quasi a
spazzola; occhi castani enormi all’ombra di ciglia lunghe e pesanti, naso delicato e
labbra carnose. Indossa una giacca sciancrata e pantaloni larghi a zampa. Rifiuta i
miei due bacetti sulle guance, allontana il viso e lentamente inizia a infilare le
lunghe gambe sotto il tavolo che ho riservato per il nostro pranzo. Le porgo una
busta.
«Mi dispiace» le dico. «Avrei potuto mandarti un bonifico, ma volevo scusarmi
di persona. Con questo abbiamo saldato tutto».
Lei annuisce senza mai degnarmi di uno sguardo e un istante dopo sta già
sfilando le gambe da sotto il tavolo.
«Come? Tutto qui?» La mia voce sembra quella di un quattordicenne prossimo
alle lacrime.
Lei mi squadra, severa. «Adam, ho accettato di vederti perché mi dovevate
seimila bigliettoni. Pensavo di doverti intortare per essere pagata. Pensavo che mi
sarei beccata la storia dei tempi duri, della recessione che ancora si fa sentire; che
i vostri clienti non vi hanno ancora pagato e che quindi fate fatica a liquidare i
fornitori, ma...» Solleva un braccio con gesto teatrale mentre fa scivolare la borsa
firmata sull’altra spalla. «Be’, eccoci qui, e mi hai già dato tutto quello che mi
dovevi!»
«Resta almeno per pranzo...»
«Piuttosto muoio di fame».
«Per favore». Incrocio il suo sguardo, ha gli occhi come due fessure. «Ho
bisogno di parlarti, di parlare con qualcuno».
«Prova su Yell.com. Cerca alla voce “consulenti per teste di cazzo”». È ancora in
piedi.
«Ti prego. Beth non vuole ascoltarmi».
Sembra ammorbidirsi e prende di nuovo posto, ma niente gambe sotto il
tavolo. Si siede sul bordo del divanetto, pronta a una rapida uscita di scena.
Eppure per me è già abbastanza.
«Bevi qualcosa?»
Scuote la testa.
«Ti dispiace se io ordino?»
Scuote ancora la testa. Faccio un cenno al cameriere agitando in aria il mio
bicchiere vuoto di gin tonic e sillabando “un altro”. Lei tiene lo sguardo basso.
«Da dove inizio?» Poso entrambe le mani sul tavolo e afferro il bordo con i
pollici.
«Be’, potresti cominciare spiegandomi perché stai giocando a nascondino in
mezzo alle gambe di una cameriera bionda, che ne dici?»
«Non è una cameriera» replico, «è co-proprietaria del ristorante». L’ho
scoperto da poco e non vedevo l’ora di dirlo a Karen.
«Buon per lei. Allora spiegami perché stai giocando a nascondino in mezzo alle
gambe di una co-proprietaria di ristorante. E non è la prima volta...»
Sputa fuori le ultime parole. Per un istante sono confuso, non colgo il
riferimento. Poi però è tutto chiaro: davanti a me c’è Karen, a cui Beth racconta
tutto. E certamente ha saputo dell’altra volta, ma allora era stato diverso. Ed è
successo tanto tempo fa.
«È successo tanto tempo fa» mormoro.
«Come dici? Non ti sento» risponde pronta, portandosi una mano a coppa
all’orecchio. «Immagino fossero le tue scuse per aver spezzato il cuore di Beth. E
non è la prima volta».
Quasi porto via il gin tonic dal vassoio quando il cameriere si avvicina al tavolo.
«Mi dispiace. Certo che mi dispiace. Mi dispiace ogni santo giorno...»
«Parole, Adam, solo parole... Grazie per l’assegno».
Si alza, liscia i pantaloni di sartoria e mi punta gli occhi addosso. «Spero davvero
che si possa continuare un rapporto di lavoro, ma quando si tratta del tuo
comportamento e di Beth, non aspettarti mai che prenda le tue difese».
«Non me lo aspetto, Karen». Allungo un braccio e le afferro il polso. «Ascolta,
vorrei solo parlarle. Parlare e basta, provare a spiegarle».
«Non lo capisci, eh?» risponde secca, sfuggendo alla mia presa. «L’hai ferita, e
questa volta troppo a fondo. Non c’è spazio per le spiegazioni».
«Ma siamo sposati da...»
Karen sbuffa forte, si scuote dalla mia presa e se ne va.
Gli uomini la fissano mentre si allontana, poi guardano me. Sembra una lite tra
amanti, e io faccio la parte del cattivo. Be’, hanno ragione a metà.
«Vent’anni». Finisco la frase, rivolto al mio gin tonic. Svuoto il bicchiere in un
unico sorso, e per la prima volta realizzo che forse sì, questa potrebbe essere la
fine del mio matrimonio. Mi chiedo come diavolo ho fatto a diventare così
strafottente. Cosa pensavo, che Beth mi avrebbe semplicemente ripreso con sé?
Sì. È esattamente quello che pensavo. Che potevo divertirmi un po’, ammettere
l’errore e che lei mi avrebbe ripreso con sé. Cazzo. Merda. Vaffanculo. Queste
parole mi girano in testa e all’improvviso mi sembra di parlare come lei. Mi sto
esercitando nello stile Beth, parolacce a ripetizione. Esco dal ristorante col
pensiero di Emma che mi aspetta da lei tra cinque ore, per cena. Cazzo. Cazzo,
cazzo, cazzo.
Sono un po’ sbronzo. Uno stinco di agnello fatto in casa, brasato a fuoco lento,
mi fissa da un piatto bianco posato su un tavolo bianco. Sono seduto su una sedia
bianca, sopra un tappeto bianco. Ho un tovagliolo di lino bianco sulle gambe.
Praticamente sono alla Casa Bianca.
«Non sei perfetta, sai». Punto la forchetta contro la persona di fronte a me.
«Non sei per niente...» Mi guardo intorno, come se cercassi le parole giuste.
«Candida» aggiungo.
«Ancora un po’ di vino?» mi propone lei.
«Non sei innocente, tu. No, assolutamente no. Sapevi che ero sposato. Lo
sapevi eccome». Beve un sorso di vino. «Lo sapevo» ammette.
«Tutto questo bianco». Agito le posate a indicare la stanza, facendo colare del
grasso sul tappeto bianco. «Ops». Mi porto una mano alla bocca, sono
decisamente alticcio. «Una macchia. Emma, c’è una macchia sul tuo tappeto».
Lei si alza, va in cucina e torna con uno spray detergente e un panno. Si china e
prova a cancellare l’affronto di quella chiazza scura.
«Anch’io ho una macchia... sulla coscienza» mormoro. «No, a dire il vero due...
due terribili, enormi segni neri sulla coscienza».
Lei solleva lo sguardo su di me, annuisce brevemente; poi torna a dedicarsi al
tappeto.
«Però, visto che sei in ginocchio...» dico, e sbotto a ridere. Cazzo, sono proprio
spiritoso, davvero uno spasso stasera.
5.
«Non sia così dura con se stessa» mi dice. Le ho parlato del mio lavoro. Di come
sento di non essere abbastanza in gamba, del timore di non riuscire a “sfondare”.
«E se invece avesse ottenuto ciò che desidera, invece di avere sempre la
sensazione di doverlo distruggere?» mi chiede Caroline.
Per un istante sono inorridita. «Distruggere?» Sbuffo con forza. È questo che
faccio? Lascio sospesa la sua domanda e come unica reazione alzo le spalle.
«L’ho ascoltata». Si sporge verso di me. «Ed è davvero troppo severa con se
stessa. Se qualcuno la trattasse come lei tratta se stessa, potrebbe fargli causa,
sarebbe stalking».
Cerco un suggerimento nel foglio sgualcito che tengo tra le mani, una copia
della cronologia che ho preparato. Cosa è andato storto? Voglio gridare, gridare
forte, prendermela con Adam, ma non posso. Ho il sospetto di aver avuto anch’io
un ruolo ben preciso nell’arrivare a questo punto.
«Lo aveva già fatto in precedenza» le dico tra le lacrime. «Anni fa... ma l’avevo
perdonato».
«Come è andata?»
«Una cliente...» Stacco un filo bianco dal mio cardigan blu. «Una donna con cui
stava trattando un’operazione commerciale. Non ho mai scoperto chi fosse. Meg
aveva solo nove anni all’epoca. E io non volevo saperlo, volevo solo che tutto
tornasse come prima... e così l’abbiamo superata». Il filo è sparito, ma continuo a
massaggiarmi il braccio. «Anche se poi in realtà è andata così: io l’ho superata, lui
ha soltanto annuito, e si è adeguato». Scuoto la testa. «Che vada all’inferno.
Concentriamoci su di me...»
«Va bene. Un po’ di compiti per casa». Caroline batte piano le mani. «Vorrei che
provasse a riportare i pensieri allegri all’interno della sua vita. Provi a recitare
delle affermazioni positive, come una sorta di mantra».
Ce la posso fare. Le concedo un sorriso, cosa rara ultimamente. Non c’è
problema.
«Deve cercare di essere spontanea. Immagini come potrebbe essere fare
qualcosa di non programmato».
Il primo istinto è quello di dirle di non essere stupida. Non faccio cose che non
ho programmato, io, e l’ossessione per il controllo è praticamente una mia
invenzione. «Non saprei» le rispondo.
«Che cosa la spaventa?» mi sfida lei.
Tutto. Me ne rendo conto in quel momento: ho paura di tutto.
Quando arrivo a casa, c’è un’auto familiare parcheggiata nel vialetto e Karen è
seduta sul gradino d’ingresso con un enorme mazzo di gerbere giallissime, i miei
fiori preferiti, e una bottiglia di bollicine dall’inconfondibile etichetta arancione.
Tiene il viso sollevato a godersi i raggi del sole mattutino.
Le vado incontro e l’abbraccio forte. «Sono le dieci. Non dovresti essere al
lavoro?»
«Lavoro per conto mio: ho preso qualche ora libera, pensavo che potessi aver
bisogno di questo». Mi mostra la bottiglia mentre apro la porta.
«Sono le dieci del mattino» ripeto con un sorriso.
«E allora? È una mezza bottiglia, e poi ho portato anche del succo d’arancia, se
proprio vuoi rovinare il sapore». Arriccia il naso, a indicare che non saprebbe
immaginare niente di più disgustoso. Mi avvicino e l’abbraccio di nuovo,
mormorandole un semplice «grazie» all’orecchio. In questo momento, sono
davvero felice di averla accanto. Le sue antenne si drizzano ogni volta che ho
bisogno di lei. Come a sottolineare che è davvero così, quando arriviamo in cucina
tira fuori da una piccola busta frigo infilata nella sua immensa borsa dei bagel
freschi ripieni al salmone e crema di formaggio.
«Devi mangiare qualcosa di sano» mi dice, e inizia subito a versare lo
champagne. Ora siamo serie. Iniziamo a mangiare, parlare e bere; o almeno lei
mangia, io più che altro parlo e bevo. Di tanto in tanto Karen scuote la testa
mentre le racconto della seduta mattutina con la dottoressa Gothenburg.
«Allora?» mi chiede, accigliata. «Che cosa ti spaventa?»
Esito un istante prima di rispondere, ma solo un istante, poi scoppio a piangere.
«Sono sempre spaventata».
Sposta di lato il bicchiere ormai vuoto e mi prende la mano. «Continua».
«Di essere sola... di riprenderlo con me e non fidarmi di lui; che succeda
qualcosa di brutto a Meg, di stare con qualcun altro... Non so se ce la farei».
«Ma va’» sbotta lei, poi si alza e va al lavello. «Se è di questo che si tratta» dice
agitando il bollitore prima di accenderlo, «un uccello è sempre un uccello, sono
tutti uguali. Dammi retta».
Io sono ancora scossa dai singhiozzi e Karen ride.
«E poi il diavolo, le streghe, gli alieni» continuo io, contando sulle dita delle
mani tutto ciò di cui ho paura.
«Sii seria».
«Sono seria, Karen, te lo giuro».
Sporge il labbro inferiore. «Lo vedo».
«Paura di perderlo, un giorno». Inarco un sopracciglio.
«Perdere cosa?»
«Il mio equilibrio... il controllo... Mi sembra quasi che, se mostrerò al mondo
tutta la rabbia che ho dentro, mi sbatteranno in manicomio e getteranno via la
chiave».
«Ti compro un sacco da boxe. Poi, che altro?»
«Sono preoccupata per Meg, per le conseguenze che questa situazione avrà su
di lei. Adora suo padre».
«Meg se la caverà. È giovane ed è forte, e poi ha preso troppo da te per
permettere che una cosa simile la butti giù».
«Non la butterà giù, ma di sicuro inciderà sulla sua fiducia negli uomini».
«Stronzate».
«Ah, prendermi il cancro» aggiungo. «E se scoprono che i pentapeptidi sono
cancerogeni? E se mi attacco alla bottiglia? E se i geni di mio padre prendono il
sopravvento?»
«E se magari stessi un po’ esagerando?»
Ignoro il suo commento e vado avanti. «Oh, anche l’acqua dove è scura e
profonda, i viaggi in aereo, e aspetta... a quanto pare ho un persecutore dentro di
me».
Karen resta in silenzio. È davanti al bollitore, assorta nei suoi pensieri, allora mi
alzo anch’io, la riaccompagno al suo sgabello e preparo due tazze fumanti di Earl
Grey.
Lei avvolge la sua con le mani. «L’ho visto la settimana scorsa» mi dice poi.
«Davvero?» L’atmosfera nella stanza cambia bruscamente.
«Mi doveva dei soldi e sono andata a prendere l’assegno. Sta di merda».
«Oh, come no, si sta scopando una cameriera. Si merita di stare di merda».
Prendo posto di fronte alla mia amica.
«Non è una cameriera. Mi ha detto che è co-proprietaria del ristorante».
«Ah, sì? Bene, non me ne frega un cazzo, per me potrebbe anche essere tutto
suo. Me ne sbatto anche se ha un’intera catena di ristoranti. È una puttana
rovinafamiglie».
Karen sbotta a ridere.
«Ti ha chiesto di me?» Non sono sicura del perché lo voglio sapere. Però lo
voglio sapere.
«Certo. Mi ha chiesto di parlarti, di mettere una buona parola con te. Gli ho
risposto di andare a farsi fottere. Bastardo arrogante... Ora però basta parlare di
lui!» Batte una mano sul ripiano della colazione e io sussulto. «Che ne dici se mi
fermo qui il prossimo fine settimana?» propone. «Ci prendiamo qualcosa al
takeaway e resto a dormire, o magari andiamo in un winebar. Non sono sicura
che tu sia pronta, ma forse se rimorchi qualcuno, insomma, almeno una
pomiciata...»
Mi sfugge un gemito disperato e mi prendo la testa tra le mani.
«Ehi, parlavo di una pomiciata veloce, mica di un cazzo di matrimonio».
«Sai una cosa? Mi sto annoiando. Parliamo della tua vita sentimentale».
«Mhm...» fa Karen. «Niente di nuovo da segnalare, a parte una decisione».
Sollevo la testa, e anche le sopracciglia.
«Ho deciso» riprende lei «che ho bisogno di un uomo più grande di me. Un
uomo più grande, con disponibilità economiche, maturo e affettuoso».
Le sorrido. «Ottima decisione. Sai che questo significa un uomo sopra i
quaranta».
Karen mi fa la linguaccia, ma non replica alla mia frecciata: quest’anno saranno
quaranta anche per lei.
«E comunque, adesso possiamo andare a rimorchiare insieme, io e te».
«Scordatelo, non succederà». Non riesco a immaginare una prospettiva
peggiore al momento.
«Mai dire mai».
«Invece dico proprio mai».
«Davvero?» Mi versa un altro bicchiere, trascurando il suo. «Andiamo, Beth,
tieniti la paura, ma fallo lo stesso! Mai è un tempo terribilmente lungo. Dammi
retta. Hai bisogno di una pomiciata. E alla svelta». Le ultime due parole le
pronuncia con una certa urgenza, come se la mia stessa vita dipendesse da uno
scambio di saliva. E alla svelta.
Mi vengono i brividi, incrocio il suo sguardo ed entrambe sbottiamo a ridere.
Parecchie risate più tardi, ci ritroviamo chissà come a discutere ancora delle mie
paure interiori. A un certo punto Karen dà un’occhiata al suo orologio e sul suo
viso appare una smorfia delusa. «Mi dispiace, devo proprio andare». Si avvicina
per abbracciarmi.
«E se per il sesso mi affido al mio vibratore con le orecchie da coniglio?» le offro
come battuta di commiato.
Lei infila il cappotto nell’ingresso. «Sembra la storia della mia vita. Devi aver
paura» dice in tono grave, «molta, molta paura...» Poi, quando già penso che sia
fuori dalla porta, si ferma, stringe le palpebre e con un cenno interrogativo del
capo indica la parete.
«Oh, certo» rispondo, le sopracciglia inarcate. «Questa roba. Sto imbiancando.
Che te ne pare del colore?»
La mia amica legge il testo, e sulle sue labbra piene compare l’abbozzo di un
sorriso.
«Il colore è uno schifo totale» sentenzia alla fine. «E codardo è una parola che
esiste davvero?»
Più tardi quello stesso giorno, mentre sto lavorando in mansarda, mi si
aggroviglia lo stomaco quando controllo le email.
----Original Message---Da: ahall@hall&fryuk.net
Data: 23 Settembre 2014 15:37 PM
A: [email protected]
Oggetto: Tu (e io)
Ciao,
sono sicuro di essere l’ultima persona al mondo che hai voglia di sentire, ma ho
davvero bisogno di parlarti. Spero che tu stia bene. Io sto bene. Ti penso. Mi
manchi.
AX
Con lo stomaco ancora in subbuglio, digito la mia risposta.
----Original Message---Da: [email protected]
Data: 23 Settembre 2014 15:45 PM
A: ahall@hall&fryuk.net
Oggetto: La tua mail
Sono STUFA dei tuoi bisogni. Avevi bisogno di mollarmi per scopare con un’altra.
Ora hai bisogno di parlarmi. Ti manco... Sei stato tu a lasciarmi! In che cazzo di
pianeta vivi? E le tue “X” ficcatele nel culo.
Beth
Appena schiaccio invio, sento sbattere la porta d’ingresso e il cuore perde un
battito. Merda. Avanzo piano verso la soglia e resto in ascolto. Non sono pronta
per incontrarlo, e in testa mi frullano pensieri di ogni genere. Il cuore mi batte
all’impazzata. Poi mi viene in mente che ho cambiato le serrature, ma solo
quando sento i passi sulle scale, i gradini fatti due alla volta e un più esplicito:
«Mamma?», mi rendo conto che stavo trattenendo il respiro. Mi ritrovo seduta a
premere quel punto tra il pollice e l’indice nel momento in cui Meg fa capolino
sulla soglia.
«Eccoti! Dovevo immaginarlo! Dio santo, mamma, apri almeno una finestra!»
Attraversa la stanza e viene ad abbracciarmi, poi torna indietro, raggiunge la
prima finestra e la spalanca.
«Come fai a lavorare così? Sembra di stare in una bara! C’è qualcosa da
mangiare? Andiamo» mi prende per mano, «sto morendo di fame».
«Sei fortunata» le dico mentre scendiamo le scale. «Stavo per andare a fare la
spesa». La bugia scivola agile sulla mia lingua. «Come mai sei già qui? Pensavo
arrivassi domani».
Meg si volta sulle scale e mi scruta con gli stessi occhi di Adam.
«Guardati, mamma. Penso che me lo sentissi» è la sua spiegazione.
«Sentirti cosa?» Sono un po’ offesa perché, a parte la parentesi ossessivocompulsiva di mezzanotte, mi sembra di cavarmela piuttosto bene. Sono a
disagio, così mi rassetto la tuta da ginnastica, un po’ vecchiotta, e faccio scorrere
una mano tra i capelli.
«Sai che ti dico?» Con un cenno del capo indica l’artistica finestra di testo sulla
parete dell’ingresso. «Dammi il tempo di fare una doccia e cambiarmi, poi mi porti
a cena da Guido. E prometto che non farò cenno al fatto che ti comporti in modo
strano».
«Affare fatto» rispondo, e di colpo mi sento felice che Meg sia qui.
«Mi manca» confessa Meg più tardi davanti a un piatto di gnocchi.
«Tesoro, ha smesso di amare me, non te».
Ancora quegli occhi che mi fissano. «Mamma, papà non smetterà mai di amarti.
È solo che ama di più se stesso».
Oh, la voce della verità.
«Ma l’amore per te è ancora più forte» aggiungo. «Non scordarlo mai».
Vedo che si sta sforzando di non piangere; strappa un minuscolo pezzo di pane
all’aglio ogni tre secondi. È come se, continuando a masticare, potesse ricacciare
indietro le lacrime.
«Non riesco ancora a crederci» ammette lei. «Ogni mattina mi sveglio e penso a
come si è comportato e non posso che scuotere la testa».
Io annuisco.
«È una situazione così schifosamente stereotipata. Pensavo che fosse un uomo
migliore».
«Lo pensavamo tutti, no?» dico con un sospiro profondo. «Ora mangia, però,
altrimenti si fredda».
Prende la forchetta, infilza tre gnocchi e li porta alla bocca.
E proprio in quell’istante, mentre la osservo, mi torna in mente con prepotenza
la sua immagine di quando aveva tre anni: il labbro inferiore che trema, così come
sta iniziando a fare ora; un lungo respiro e la sensazione che stia per mettersi a
ululare come una belva feroce o continui col tremolio del labbro, rifiutandosi
cocciuta di piangere. Questa sera non ci sono urla selvagge, ma le dighe dei suoi
occhi cedono ugualmente. Lacrime silenziose le rigano il viso. Distoglie lo sguardo,
cerca una via di fuga verso la toilette delle signore, e io le prendo una mano e la
stringo forte.
«Resta» le chiedo, supplichevole. «Va tutto bene...» Ci sono solo altri quattro
clienti nel ristorante e il nostro tavolo è abbastanza appartato. In fondo alla gola
sento il sapore salato di altre lacrime, le mie. Cerco di controllarle; passo il
tovagliolo a Meg e sussurro: «Andrà tutto bene». Quelle parole mi sembrano
vuote, inutili. Spero che per lei abbiano un valore diverso.
«Tu...» mi dice mentre tira su col naso e cerca di asciugarsi gli occhi «lo
riprenderesti con te?»
La luce di speranza nel suo sguardo mi blocca il respiro, vorrei prendere quanta
più aria possibile per fare i conti con ciò che implica l’espressione sul suo viso.
Nonostante la forza che dimostra, nonostante la rabbia comprensibile nei
confronti del padre, tutto quello che Meg desidera è che questa faccenda finisca e
che la sua famiglia torni quella di prima. Io invece Adam lo vorrei uccidere. Vorrei
ucciderlo per quello che sta facendo a lei e a me. Scuoto piano la testa. «Non lo
so, Meg. Ancora non lo so».
Lei annuisce, distoglie lo sguardo, prende una forchettata di gnocchi ormai
quasi freddi e mastica lentamente. La osservo, un altro boccone e ricomincia da
capo. Le lascio la mano, prendo la mia forchetta e arrotolo un nodo di spaghetti. Il
ragù alla bolognese è carico di aglio e penso ad Adam, scappava sempre a gambe
levate di fronte a un bacio gusto aglio. Mi sembra quasi di fargli un dispetto
quando pulisco perfettamente il piatto, fino all’ultima goccia di sugo.
Chiacchieriamo ancora, di qualunque argomento purché non abbia a che fare
con me e Adam, o Adam, me e lei. Parliamo dei suoi corsi, delle compagne di
appartamento, dei tutor a scuola e della doccia a casa sua, che ha la muffa
nell’intonaco tra le piastrelle. In pochi minuti dalle lacrime passa alle risate; io
sorrido e mi sorride anche lei. Si alza, viene dal mio lato del tavolo e mi abbraccia.
Stretta. Non c’è bisogno di altre parole. È una ragazza forte. Starà bene e, se sta
bene lei, starò bene anch’io.
Più tardi, dopo una cioccolata calda notturna, Meg si infila un maglione sopra la
T-shirt e si scusa ancora una volta perché non resta a dormire. «Mi dispiace,
mamma, domattina presto ho un seminario. Hai bisogno di qualcosa?» La prendo
tra le braccia, impresa non facile visto che è molto più alta di me. Le accarezzo i
bellissimi ricci castani.
«No. Sto bene se stai bene tu» le sussurro sui capelli soffici.
«Quella parola con la “B”, eh, mamma? Va così male?»
Bene è una parola in codice a casa nostra, una specie di acronimo: B come
“bile”, E come “esausta”, N come “nervosa” e ancora E, come “emotivamente
instabile”.
Mi bacia, un leggero tocco di labbra. «Riguardati, mamma». Vorrei trattenerla
nel mio abbraccio, avvolgerla nei miei vestiti o farla diventare piccolissima e
metterla in tasca per tenerla al sicuro. Appena se ne va, corro alla borsa, prendo il
mio computer e il dittafono. Mentre scrivo le parole, canticchio il motivetto a
bocca chiusa e lo registro. Il titolo è: La parola con la B.
Non sto bene, ascolta,
non sto bene questa volta,
quella parola non ha senso
nella mia vita distorta.
Chiudo gli occhi e provo a visualizzarla cantata davanti a un pubblico
internazionale.
Forse col tempo, più avanti,
bene significherà davvero bene,
ma mancano tanti giorni, tanti,
troppe cicatrici, sul cuore e sulle vene,
te lo ripeto ancora, no, non sto bene.
Fine dell'estratto Kindle.
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