Gli Indiani
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Gli Indiani
GLI INDIANI NAVAJOS Da bambino leggevo tantissimi fumetti. Ancora adesso ogni tanto mi capita di sfogliarne qualcuno, ma allora mi piacevano molto quelli sugli Indiani d’America ed i cow boy. Mi incantavano i cappelli degli sceriffi e la stella lucente che portavano appuntata sul petto, e immaginavo che un giorno avrei anch’io potuto portare i cinturoni e le famigerate colt. E d’altronde erano ben pochi i bambini che non si immedesimavano nelle gesta dei mitici pionieri che avevano conquistato il West, costruendo le ferrovie e le stazioni, avamposti del progresso, dove poi arrivava sbuffante il cavallo d’acciaio, come i Musi Rossi, cioè gli Indiani, chiamavano il treno, che attraversava sferragliante gli immensi territori inesplorati dove vivevano le loro numerose tribù. E poi c’erano i cercatori d’oro, i pistoleri, i cacciatori di taglie, David Crocket e Buffalo Bill, straordinario cacciatore di bisonti. Ma io in realtà facevo segretamente il tifo per i Pellirosse. Sognavo di cavalcare come loro per le sconfinate praterie in groppa ai cavalli selvaggi, i mustangs, e di danzare ai piedi di cento totem, di sentirmi protetto dal Grande Spirito, di mandare segnali di fumo e seguire le orme dei nemici. E magari diventare guerriero e dipingermi il volto coi colori di guerra. E poi sognavo di avere un nome suggestivo come lo hanno tutti i Pellirosse: Occhio di Lince, Alce Veloce o Coda di Lupo. Sognavo anche di andare a caccia del bisonte e di tirare una freccia al cielo, come scrive magicamente De Andrè nella bellissima canzone dedicata agli Indiani d’America dal titolo “Fiume Sand Creek“. Negli anni mi erano diventati assai familiari i Seminoles che vivevano nelle paludi della Louisania, gli Apaches, feroci ed abili guerrieri, ed i Sioux, i Cheyenne e gli Arapaho che battendosi eroicamente riuscirono a sconfiggere nella famosa battaglia del Little Bighorn il 7° Cavalleggeri dell’esercito degli Stati uniti guidato dal generale Custer. Ma la mia grande ammirazione andava ai Navajos, il fiero e pacifico popolo indiano che nei fumetti aveva un capo bianco: il mitico Aquila della Notte e cioè Tex Willer. E con lui c’era il suo pard Kit Carson, chiamato dagli amici Navajos, Capelli d’Argento. E c’era ovviamente anche Tiger Jack, un Sakem, cioè un capo Navajo amico fraterno di Tex Willer, e poi il figlio di Aquila della Notte. Mi piaceva il modo in cui gli Indiani concepivano la vita, ed il loro rapporto armonico con la Natura e il loro credere che un Grande Spirito regolasse i rapporti tra gli uomini e tra questi e gli animali e le piante. Quella degli Indiani è una saggezza antica; la saggezza di un popolo che sulla terra cammina leggero. All’invasione, spesso violenta dei bianchi, alle loro canne tonanti, i micidiali winchesters, hanno potuto opporre soltanto quella loro atavica saggezza ed i loro costumi di vita fondati sulla tolleranza e l’armonia. Nei loro confronti è stato perpetrato un vero e proprio genocidio culturale ed etnico. Moltissimi di loro sono stati massacrati perché colpevoli di non accettare le leggi dell’uomo bianco. E i superstiti sono stati costretti a vivere nelle riserve, obbligati a rinunciare agli immensi spazi dove cavalcavano liberi incontro al vento. Sono trascorsi ormai diversi secoli dalla civilizzazione forzata del mitico Far West, dalla conquista di quella lontana frontiera, e i discendenti di quelle orgogliose popolazioni americane dalla pelle rossa che occupavano quelle terre da millenni prima degli uomini bianchi, sono ormai pochissimi. Alcune Tribù contano ormai solo poche decine di individui e quando saranno scomparsi anche questi ultimi rappresentanti di quei popoli gloriosi spariranno per sempre le loro lingue e quella loro saggezza ancestrale. Molte tribù ancora oggi vivono nelle riserve. Tantissimi non si sono integrati e vivono con miseri sussidi statali, magari schiavi di quell’Acqua di Fuoco che avevano imparato a conoscere dagli Uomini Bianchi. Forse è per questo che il presidente Obama, appena qualche settimana fa, ha deciso di risarcire la Grande Nazione Indiana riconoscendo finalmente un equo indennizzo per le terre espropriate. Questa decisione del Presidente degli Stati Uniti mette la parola fine ad una vertenza che si trascinava da decenni e decenni. Più di uno ha voluto accostare gli Indiani d’America ai Sardi: si tratta di un accostamento suggestivo che si fonda sulla fierezza di entrambi i popoli, sul loro amore per le tradizioni, sulla saggezza, sul rispetto per gli altri e sulla sopraffazione subita nei secoli da parte di altri popoli. Anche a Fabrizio de Andrè non erano sfuggite queste similitudini e per questa ragione aveva scritto quello che molti considerano il suo disco più bello: “L’Indiano”. Qualche giorno fa nel sito ufficiale del Comune di Tonara è stata pubblicata una poesia degli Indiani Navajos. Si tratta di una poesia che ha un respiro profondo e che trasmette una concezione di vita assai lontana dagli schemi frenetici e spesso nevrotici della civiltà occidentale. Insomma c’è in questa poesia tutta la filosofia e l’anima degli Indiani d’America. Allora pensando a quell’ancestrale legame che pare legare la nazione sarda a quella indiana ho voluto tradurre i versi di questa poesia in sardo logudorese. POESIA NAVAJO Non ti auguro un dono qualsiasi ti auguro soltanto quello che i più non hanno. Ti auguro tempo, per divertirti e per ridere… Ti auguro tempo per il tuo Fare e il tuo Pensare, non solo per te stesso, ma anche per donarlo agli altri. Ti auguro tempo, non per affrettarti e correre, ma tempo per essere contento. Ti auguro tempo, non soltanto per trascorrerlo ti auguro tempo perché te ne resti, tempo per stupirti e tempo per fidarti… Ti auguro tempo per toccare le stelle e tempo per crescere, per maturare. Ti auguro tempo per sperare nuovamente e per amare…. Ti auguro tempo per trovare te stesso, per vivere ogni tuo giorno, ogni tua ora come un dono. Ti auguro tempo anche per perdonare. Ti auguro di avere tempo, tempo per la vita. POESIA DE SOS INDIANOS NAVAJO Non t’augùro de tènnere calesiat cosa Ma chi hapas solu su chi medas non tenent. Hapas tempus pro ti disaogare e riere… hapas tempus pro su Fagher tou e su Pensare, non pro te ebbia ma finas pro nde dare a attere. T’augùro tempus, non pro essere semper in presse e currere ma tempus pro essere bresadu T’augùro tempus non pro nde lu colare ebbia t’augùro tèmpus chi ti nd’abbarret; tempus pro t’ispantare e tempus pro ti fidare… E hapas tempus pro toccare sos isteddos e tempus pro creschere e pro faghere a mannu. T’augùro ‘e tenner tempus pro isperare torra e pro istimare…… T’augùro ‘e tenner tempus pro t’agattare tue etottu e pro biver cada die, e cada ora che una sienda donada. E hapas tempus pro perdonare. T’augùro ‘e tenner tempus tempus pro sa vida. Pier Luigi La Croce