relazione per il conferimento della medaglia d`oro al merito della

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relazione per il conferimento della medaglia d`oro al merito della
RELAZIONE DI BASE PER IL CONFERIMENTO DELLA MEDAGLIA D’ORO AL
MERITO CIVILE AL GONFALONE DELLA PROVINCIA DI LATINA
Alle ore 23 dell'11 maggio 1944, gli Alleati lanciarono l’ultima offensiva contro la Linea
Gustav difesa dai tedeschi. Scrisse il generale René Chambe, portavoce del generale Alphonse
Juin, comandante del Corps Expeditionnaire Française:: "Undicimila bocche da fuoco creano
nel cielo traiettorie che formano una cupola sonora, e ne tremano l'aria e il suolo”. Era l’ultimo
atto della guerra che devastò il territorio della Provincia di Latina.
La guerra in terra pontina e aurunca ebbe ufficialmente inizio il 19 luglio 1943, quando sulla
Gazzetta Ufficiale del Regno n. 165 venne pubblicato il Regio decreto 14 luglio 1943 che
disponeva la dichiarazione dello stato di guerra “anche nel territorio della Provincia di Littoria".
Compresi fra tra i confini con il territorio del Governatorato di Roma (Aprilia e Cisterna) a
nord e il fiume Garigliano a sud, i 30 Comuni che costituivano l’allora “più giovane provincia
d’Italia” vissero la guerra guerreggiata per sei lunghissimi mesi, unica provincia italiana ad
essere interessata da due fronti, da due prime linee: quella del Garigliano, tra la fine di
novembre 1943 e maggio 1944 e quella del fronte di Anzio-Nettuno, che in realtà fu il fronte di
Littoria-Cisterna-Aprilia, tra il 22 gennaio e il 31 maggio 1944.
Il primo tributo di sangue fu pagato sul mare, che fu, in realtà, un terzo e anomalo fronte: il 24
luglio 1944 il piroscafo “Santa Lucia”, che collegava le Isole di Ponza e Ventotene a Gaeta e
Napoli venne affondato da aerosiluranti inglesi: morirono circa cento persone. La guerra,
prima ancora che si formassero e si consolidassero i due fronti, proseguì con bombardamenti
dapprima sporadici su Formia, Gaeta, Cisterna, Terracina, e infine con tutte le conseguenze di
una guerra di prima linea, inizialmente combattuta tra le case di Castelforte, SS Cosma e
Damiano, Minturno, Spigno Saturnia e le immediate retrovie di Formia, Gaeta, Itri, Fondi.
Il fiume Garigliano, che corre a valle degli abitati di Minturno e di Castelforte-SS Cosma e
Damiano, fu l’esile linea di divisione tra due eserciti contrapposti, a partire dal mese di
novembre 1943, quando gli Alleati, dopo aver conquistato Napoli grazie anche alla
sollevazione popolare, e dopo aver eliminato la prima linea di difesa tedesca sul fiume
Volturno, portarono tutto il peso della loro organizzazione sul confine tra Campania e Lazio,
dove correva il tratto terminale della Linea Gustav.
Dal 22 gennaio 1944, lo sbarco ad Anzio_Nettuno del II Corpo Alleato determinò anche il
destino bellico dei paesi dell’Agro pontino, in particolare di Cisterna, Aprilia e Littoria che si
trovarono, a loro volta, per cinque mesi sotto la violenza dei bombardamenti e
cannoneggiamenti, mentre tutte le popolazioni della costa venivano fatte retrocedere con la
forza verso posizioni più interne.
La battaglia del Garigliano, che iniziò l’11 maggio 1944, consentì al Corpo di Spedizione
Francese di rompere la Linea Gustav in prossimità di Castelforte-Minturno e di obbligare
l’esercito tedesco ad un subitaneo arretramento su tutta la Linea Gustav, fino al caposaldo di
Cassino che, dopo mesi di inutili bombardamenti, fu finalmente liberato dalla presenza tedesca,
e poté essere superato consentendo agli Alleati di riversarsi verso Roma attraverso la via
Casilina.
A distanza di circa 10 giorni da quell’11 maggio partiva anche l’offensiva dalla testa di ponte di
Anzio-Nettuno: qui le unità erano rimaste imbottigliate nella striscia di terra conquistata con lo
sbarco del 22 gennaio e mantenuta a prezzo di gravissime perdite sia tra i combattenti che tra la
popolazione civile con tre successive sanguinose battaglie combattute sull’asse Aprilia-
Cisterna, e concluse il 4 marzo 1944. Aiutate dalla pressione del VI Corpo alleato che
avanzava da sud, il II Corpo lanciò l’offensiva che portò alla rottura dell’assedio, e che si
concluse prima con il ricongiungimento delle due unità nei pressi di Littoria (Borgo Grappa),
poi con la violenta battaglia per conquistare Cisterna, combattuta con micidiali e ripetuti
bombardamenti aerei, con cannoneggiamenti e con uno scontro campale di carri.
Lo scenario
Questi avvenimenti avevano investito una giovanissima Provincia, istituita meno di 9 anni
prima, e inaugurata il 18 dicembre 1934. Nasceva dalla fusione del settore nord della ex
Provincia di Terra di Lavoro, che il fascismo aveva soppresso nel 1926, con il settore sud della
provincia di Roma, fino al confine con il Governatorato romano. Aveva, quindi, dovuto
affrontare la guerra in condizioni di duplice precarietà: perché non era stata ultimata la piena
fusione amministrativa e funzionale; e perché non era stata ultimata la bonifica e il connesso
appoderamento, il che equivaleva a tenere circa 4000 famiglie coloniche in condizioni di
precarietà lavorativa e reddituale.
La guerra penetrò duramente in provincia, già nei giorni successivi allo sbarco anglo-americano
in Sicilia, avvenuto il 10 luglio 1943, che aveva aperto uno scenario bellico nuovo, che doveva
portare alla caduta della prima Capitale dell’Asse e alla conquista dell’Italia.
Second hand front, fronte secondario era considerato il teatro bellico sulla penisola italiana
nella valutazione degli anglo-americani. La rapida risalita attraverso la Calabria e lo sbarco di
Salerno dell’8 settembre 1943 si accompagnavano, però, a due fattori apparentemente
sottovalutati: la capacità strategica dell’esercito tedesco e le asperità dell’appennino laziale,
che, grazie anche al concorso della stagione invernale, avrebbero grandemente ridotto il
differenziale tecnico largamente favorevole agli alleati. L’immenso parco meccanico, tank,
blindati, semoventi, autocarri era pressoché inservibile sulle aspre balze dei monti, come
avrebbe dimostrato la battaglia di Castelforte, che fu vinta con le tecniche con cui si combatté
la Prima Guerra mondiale, ossia con sanguinosi assalti della fanteria e col micidiale uso
dell’artiglieria.
L’armistizio – preceduto dall’incomprensibile bombardamento di Terracina del 4 settembre
1943, che provocò un centinaio di morti civili - consegnò nelle mani dei tedeschi la provincia, i
comandi militari di Gaeta, Sabaudia, Littoria e le scorte disponibili presso di essi. E mentre
dallo sbarco di Salerno, contemporaneo alla proclamazione dell’armistizio, sarebbe scaturita la
liberazione del primo comune della provincia, l’isola di Ventotene, avvenuta il 9 settembre
1943, iniziava per le popolazioni del sud provincia il dramma.
Ma non va dimenticato che uno dei pochissimi episodi di resistenza armata ai tedeschi nelle ore
successive all’armistizio si registrò proprio in provincia di Littoria, nella base navale di Gaeta
che, dopo i combattimenti sviluppatisi nella notte tra l’8 e il 9 settembre, e dopo la clamorosa
fuga dagli ormeggi delle navi militari Pellicano e Gabbiano e del sottomarino Axum, che si
sottrassero alla cattura tedesca, dovette cedere le armi sotto la minaccia germanica di un
bombardamento della città che sarebbe inutilmente costato vite umane, soprattutto di civili.
I tedeschi, una volta messa sotto controllo l’area, temendo sbarchi tra Gaeta e Civitavecchia,
ordinarono alla popolazione di abbandonare la costa e di arretrare all’interno: le popolazioni di
Gaeta, Formia, Minturno si trovarono nella difficile situazione di cercare scampo tra le
montagne di Spigno, Esperia, Castelforte, rese inospitali dal clima invernale e da lunghe e
severe privazioni, e in aree dell’Agro pontino e della collina lepina e ausona.
Erano rifugi precari, o piuttosto trappole nelle quali gran parte della popolazione residente e
degli sfollati finirono per trovarsi dal novembre 1943 fino al maggio 1944, soffocati tra
l’angustia e la durezza della vita in montagna, priva di vie di fuga, e sottoposta a
rastrellamenti, razzìe e vigilanza spietata che le truppe tedesche esercitarono; e i
bombardamenti e cannoneggiamenti che gli anglo-americani indirizzavano per sollevare la
reazione dei civili, secondo una strategia psicologica che fu sperimentata per la prima volta
proprio in Italia, e che sarebbe diventata modello nelle guerre successive.
L’asse Castelforte-Minturno venne a trovarsi fin dal novembre 1943 nella peculiare situazione
di essere territorio occupato dai tedeschi, ma con gli alleati a qualche chilometro di
distanza, sulla linea del Garigliano.
Le linee di difesa che i tedeschi predisposero per fronteggiare la risalita anglo-americana della
penisola ebbero, com’è noto, una chiave di volta nello sbarramento che correva dall’abruzzese
Ortona al Golfo di Gaeta e che s’incentrava in quello straordinario sistema difensivo noto come
Linea Gustav, un bastione che era preceduto dalla linea Bernhardt e seguito fino a Roma da
altre linee minori: la invernale, la Dora, la Caesar.
Per superare quest’ostacolo, gli Alleati progettarono uno sbarco in forze alle spalle dello
schieramento tedesco, nelle vicinanze di Roma. L’area prescelta fu quella di Anzio-Nettuno,
dove americani ed inglesi effettivamente presero terra la notte del 22 gennaio 1944. La battaglia
che qui si innestò e che durò fino alla fine del mese di maggio 1944, è nota col nome delle due
città litoranee, ma il peso più duro degli effetti della guerra si scaricò sui comuni pontini di
Cisterna, di Aprilia e dello stesso capoluogo Littoria. Essi si trovarono per circa cinque mesi
quotidianamente sotto il tiro dei grossi calibri che sparavano dal mare e degli attacchi aerei che
a centinaia colpirono tutti i centri, anche quelli che strategicamente non avevano alcuna ragione
di essere attaccati. E se le conseguenze peggiori, in termini di vite umane e di danni materiali
toccarono in particolare ad Aprilia e Cisterna, pressoché cancellate dal terreno, un forte tributo
di sangue pagarono tutti i Comuni dell’interno verso i quali erano andate confluendo le
popolazioni costiere e di pianura ricacciate dalla presenza dei due schieramenti avversari: Cori,
Maenza, Priverno, Campodimele, Lenola, oltre a Castelforte, SS Cosma e Damiano, Minturno,
Formia, Gaeta, Itri, Fondi e Terracina. L’intero territorio provinciale fu, perciò, coinvolto e
travolto dalle lunghe operazioni belliche.
Le popolazioni patirono, di conseguenza, lo sfollamento che colpì intere popolazioni, secondo i
ritmi di un nuovo Esodo, come accadde a Cisterna, dove gli abitanti dovettero dapprima vivere,
da gennaio a marzo, rifugiati nelle umide grotte di pozzolana scavate in profondità, e da dove
vennero espulsi tutti insieme il 19 marzo, per essere dispersi tra Roma, Cesano, Narni e altre
destinazioni. Anche la popolazione di Campodimele fu letteralmente prelevata e trasferita su
camion in Emilia, da dover sarebbe rientrata solo a guerra terminata. Gli abitanti di Aprilia, a
loro volta, vennero imbarcati sulle navi alleate e trasferiti in Calabria e Sicilia, insieme alle
popolazioni del sud. Centinaia di nuclei familiari di Formia, Gaeta e altri centri fu, invece,
trasferita nella campagna romana e allocati nella dismessa fabbrica della Breda in condizioni di
vita del tutto primitive.
Decine di cittadini, poi, subirono le rappresaglie tedesche o finirono davanti al plotone di
esecuzione, a mo’ d’“esempio”: autentiche stragi furono consumate a Minturno, Terracina,
Formia-Trivio, Cisterna e Borgo Montenero). E centinaia di uomini e di ragazzi furono catturati
e deportati in Germania, come ricordano testimonianze che hanno assunto la dignità di libri. La
maggior parte dei deportati non rientrò.
La battaglia finale
L’incarico di superare l’ostacolo dei monti, grandi alleati della difesa tedesca, venne affidato al
Corps Expeditionnaire Française, al comando del generale Alphonse Juin. Il Corpo
comprendeva soldati provenienti dalle colonie francesi, in particolare dalle colonie d’Africa,
marocchini, tunisini, algerini. Mentre gli algerini erano inquadrati soprattutto tra gli spahis, la
cavalleria meccanizzata, i marocchini ebbero l’incarico di fare da massa d’assalto. Su di essi
gravò il peso maggiore delle operazioni di sfondamento, e il più alto tributo di fatiche e di
sangue: ne ricevettero come tragico premio 24 ore di libertà assoluta dopo la battaglia, e fu una
libertà che essi, purtroppo, esercitarono in modo selvaggio. L’esperienza che ne fecero le
popolazioni civili pontine, che ebbero la sventura di trovarsi nel settore di penetrazione affidato
a queste truppe, è tristemente nota.
Le operazioni di guerra si prestano malamente a valutazioni di carattere morale: ma non sembra
esservi dubbio sul fatto che la scelta di soldati educati alle impervie montagne dell’Atlante,
inviati a svolgere anche nelle montagne italiane il lavoro più sporco e più duro, e ai quali si
chiedeva soltanto determinazione nell’assaltare e ferocia nel completare l’attacco, potesse
comportare un “premio”: se interrogativi ci si possono porre, essi riguardano anche chi concepì
quel “premio” come stimolo all’esercizio della ferocia, conoscendone gli inevitabili esiti.
L'offensiva di primavera ebbe, dunque, inizio la notte dell’11 maggio 1944, alle ore 23, ed ebbe
il nome di Operazione Diadem. L’azione di sorpresa condotta di notte dalle truppe francoafricane portò alla cattura dei monti Faìto, Maio, Feuci, e mise in crisi lo schieramento tedesco,
che dovette ripiegare per non essere tagliato in due e preso alle spalle. Il ripiegamento divenne
poi generale, e aprì la strada alla V Armata americana, sulla costa, e alla VIII Armata britannica
su Cassino; e Cassino divenne il simbolo di quella battaglia, la "Termopili della 1^ divisione
paracadutisti tedesca", voce tragica, “come la morte di Artù descritta da Tennyson", al termine
di un giorno nel quale "il rumore della battaglia si rovesciò tra le montagne...", come ebbe a
scrivere uno dei combattenti, lo scrittore-soldato Christopher Buckley.
L’eco di quel rombo fu ulteriormente rappresentato dal tributo di sangue che la popolazione
civile dovette pagare come sanguinoso supplemento della ferocia delle truppe coloniali: circa
duemila persone, donne, vecchi e bambini, subirono violenza lungo tutto l’arco collinare, dagli
Aurunci, agli Ausoni ai Lepini, i luoghi dove le popolazioni della pianura si erano rifugiate.
La fine della guerra
La guerra passò, ma non passarono i suoi effetti: la provincia di Littoria la pagava con circa 7
mila dei suoi cittadini uccisi, oltre 10.000 feriti. Ad essi si aggiunge il sacrificio della vita degli
uomini in armi nei diversi teatri di combattimento in Patria e all’estero, dalla Russia all’Africa.
I danni materiali furono sintetizzati, a fine guerra, nel seguente modo da Camera di Commercio
e Consorzi di bonifica:
- otto comuni rimasero distrutti con percentuali di demolizioni tra il 75 e il 92%
- altri 8 furono severamente danneggiati sia nel patrimonio edilizio che nelle infrastrutture
- 59.052 vani civili rimasero distrutti o furono resi inabitabili nei 16 Comuni che avevano
maggiormente patìto la presenza della guerra; 23 mila delle 43 mila abitazioni furono
annientate o danneggiate, infrastrutture civili, reti di comunicazione, ponti stradali quasi
interamente demoliti
- le banchine portuali di Gaeta, Formia e Terracina vennero distrutte da cariche di dinamite
piazzate dai tedeschi
- le flottiglie da pesca di questi tre paesi vennero quasi interamente affondate per rendere
inutilizzabili gli accosti alle banchine già distrutte
- una carta dell'Opera nazionale Combattenti, realizzata attraverso sopralluoghi e la istruttoria
delle pratiche di risarcimento dei danni di guerra, attribuisce all’Agro Pontino 299 poderi
(erano stati costruiti solo negli anni immediatamente precedenti) distrutti, 507 fortemente
danneggiati e 954 danneggiati, con 4205 vani distrutti e oltre 8000 danneggiati
- 10.468 ettari di superficie agricola furono allagati dai tedeschi mediante la rottura delle opere
di bonifica e rimasero sommersi e sottratti all’agricoltura per due anni (1944-45)
- 71 mila metri cubi di stalle e magazzini furono distrutti e circa 100 mila danneggiati
- il 50 per cento dei macchinari agricoli o dei mezzi di trazione furono annientati
- l’agricoltura subì la perdita di oltre 6.500 ettari di superficie boschiva, di 8,5 milioni di viti
totalmente distrutti e di altri 4 milioni danneggiati; di 220 mila olivi perduti e 150 mila
danneggiati, di 600 mila alberature varie distrutte o danneggiate
- per quanto riguarda le scorte vive, andarono perduti 47.491 bovini, pari all'83,4% del
patrimonio anteguerra; 6495 equini, 59.303 ovini, 11.000 suini
- nel campo delle opere pubbliche e di bonifica, fu messo fuori uso il 50% degli impianti
idrovori e andarono distrutti o gravemente danneggiati 30 ponti in cemento armato costruiti da
pochi anni. Nel conto entra anche la perdita di diserbatrici per i canali, l’intasamento delle foci
e il taglio di argini dei fiumi, il sabotaggio di paratie, di ponti, strade, porti, ferrovie, lo
smontaggio e il furto di macchine idrovore.
A queste perdite si aggiunsero due conseguenze direttamente connesse con la guerra: le
malattie, a cominciare dalla malaria, che assunse un carattere epidemico e che investì tutti i
paesi costieri e di pianura, da Cisterna a Minturno; e la morte per esplosioni di ordigni bellici.
Va in proposito ricordato che circa 12.259 ettari di terreno agricolo furono minati, insieme a
circa 100 km di litorale, per una profondità che andava fino a 5-600 metri.
La bonifica dei campi minati comportò nuovi lutti e abbatté il valore commerciale dei beni, che
si vendevano con la clausola del “salvi ordigni bellici”. Essa rimase operativa fino ai primi anni
Sessanta del Novecento, ma la scoperta di ordigni efficienti è ancora cronaca attuale.
Conclusioni
Esigenze di sintesi e di ricordo riassumono solitamente una grande battaglia in un solo nome
che ne diventa il simbolo; nella economia di una grande battaglia come quella sulla Gustav
meridionale, si parla di “battaglia di Cassino”; così come quella dello sbarco di Anzio-Nettuno
è ricordata da questi due nomi. Ma non è un caso che i Francesi chiamino “battaglia del
Garigliano” o “battaglia di Castelforte” quella che vinse la Gustav; e che una vasta bibliografia
(in parte citata in appendice alla presente relazione) americana ricordi la tragedia di Cisterna,
mentre quella britannica ricorda soprattutto Aprilia.
Nei libri di storia restano spesso solo le grandi manovre strategiche, mentre la più gran parte
degli episodi, soprattutto quelli che riguardano i civili, è confinata negli angoli oscuri, quelli
riservati alla indagine di dettaglio, affidata primariamente al ricordo di chi ne fu coinvolto.
Essi, in definitiva, resterebbero il più delle volte anonimi se non soccorresse la memoria di chi
li ha subìti: le medaglie, allora, diventano cognizione di quegli episodi, coscienza acquisita di
una società che da locale diventa vasta come l’Italia, memoria collettiva della Nazione.
Ed è per questa ragione che non è anacronistico sollecitare l’attribuzione di medaglie a 60 anni
dagli avvenimenti che ne crearono le ragioni. Il ricordo passa attraverso le generazioni, si
mantiene integro sopravvivendo ai nuovi eventi. E se undici città pontine hanno ottenuto
attraverso medaglie d’oro, d’argento, di bronzo il riconoscimento delle proprie sacrosante
ragioni di fregiarsi di quei simboli, la Provincia, nella sua unitarietà chiede quel riconoscimento
nella compattezza e globalità del suo tessuto sociale e della forza della sua memoria. Essa, si è
già ricordato, è stata una delle poche terre italiane nelle quali rimase operativo per diversi mesi
– tra novembre 1943 e maggio 1944 - un duplice fronte: quello della Linea Gustav e quello di
Anzio-Nettuno-Cisterna-Aprilia.
Ma quella pontina è anche la terra dalla quale è partito il primo annuncio della nuova Europa in
quel Manifesto per un’Europa libera e unita che nel confino di Ventotene concepirono e
scrissero, con un sogno che si sarebbe dimostrato non utopico, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi
ed Eugenio Colorni.
La battaglia nell’area aurunca è patrimonio di un’ampia letteratura di guerra di tutte le parti
che ne rimasero coinvolte: da Ernest Fisher che scrisse per l’Ufficio storico dell’Esercito
americano, a Fridolin von Senger und Etterlin, comandante delle truppe corazzate prima a
Cassino, poi in Italia; ai generali Chambe e Juin, agli ufficiali o storici francesi Robichon, Le
Goyet, Goutard, Gaujac, Boulle e altri, al generale Mario Puddu, alle testimonianze del
castelfortese generale Giuseppe Aloja, che fu Capo di S. M. Generale nei primi anni Sessanta
del Novecento. Ma fondamentali sono e restano gli scritti definiti “locali”, che sono la vera
storia di come la gente visse la guerra.
Sono queste indagini e le testimonianze che esse raccolgono, modeste e vissute, che hanno
contribuito a chiarire, al di là delle ricostruzioni di modello clausevitziano, che è l’Uomo
qualunque il vero protagonista di qualsiasi dramma cosmico, ne sia o meno consapevole
partecipe.
Quelle memorie hanno reso tutti, e tutti insieme, protagonisti di un evento la cui portata
sfuggiva al loro raziocinio, ma i cui effetti restavano profondamente infissi nelle loro carni.
Le generazioni che hanno vissuto tra il 1945 ed oggi hanno avuto la fortuna di percorrere una
lunga stagione di pace. Ma è stata una fortuna temperata dalla continua presenza di guerre.
Sono, anzi, più di cent'anni che il nostro mondo conosce guerre senza interruzioni: le
generazioni del Novecento hanno scandito i cicli storici sul metro delle due "grandi guerre", e
misurato i problemi esistenziali valutando quelli del periodo interbellico, un ventennio, e quelli
del secondo lungo periodo che si definisce post-bellico, ma nel quale la guerra ha continuato ad
investire Oriente e Occidente, dalla Corea, alla ex Jugoslavia, all’Iraq.
Molti hanno imparato a conoscere la geografia del mondo attraverso i reportage televisivi e
giornalistici costruiti sugli eventi di guerra. E nei giorni che viviamo sono ancora in corso una
cinquantina di conflitti armati, di alcuni dei quali s’è perduta anche la cronaca, e che
continuano ad investire soprattutto civili e soprattutto bambini. E quando i bambini diventano
parte così coinvolta di eventi bellici significa che la nostra civiltà non cammina bene.
Quando, dunque, usiamo la parola composta “post-bellico”, diciamo, purtroppo, espressione
imprecisa, perché priva di reale riscontro sul grande palcoscenico del mondo, perché su questo
palcoscenico la guerra non è mai finita. Si è solo spostata, verso le contrade marginali, verso la
povera gente. Si è “regionalizzata”, come si dice con neologismo che banalizza la tragedia.
E questo fatalmente dimostra che la storia di un uomo, di un Paese, del mondo è storia dell'oggi
ma costruita sulla storia di ieri senza discontinuità, senza interrompere i grandi cicli della
Storia.
Se questa è la logica della docenza della Storia, se ne dovrebbe dedurre che il passaggio dalla
memoria al futuro è carico di di-speranza. Chi non fa memoria è condannato a rivivere la storia,
ha detto il 16 ottobre 2003 a Roma il presidente Ciampi, ricordando la razzìa del ghetto ebraico
del 1943.
Lo svolgersi delle guerre è perciò indizio di memoria corta o di rifiuto della memoria, e anche
nell'odierno nostro stato di pace si manifestano inquietanti i segni della polarizzazione delle
posizioni, che può generare intolleranza, ossia un atteggiamento mentale aggressivo, ostile.
Viviamo un'età di lunga transizione, una sorta di Quaternario delle relazioni, che non riesce
sempre a far emergere i livelli della coscienza partecipativa, e che si rintana sempre di più nel
particolare, nell’egoismo, nella esclusione dell’altro, che rifiuta l’altruità, che vuole non
discutere ma imporre: l’economia, la razza, la religione, l’appartenenza politica, la forma di
gestione.
Ma riesce anche difficile vivere senza la speranza che dalla storia del precario perenne si passi
ad una condizione di non-precarietà. Ovviamente, sarà inutile esercizio andare a cercare negli
altri una risposta che andrà cercata dentro ciascuno di noi.
Questo, forse, è l’insegnamento che viene dal ricordare le esperienze di una Provincia come
quella di Latina, che chiede che si affidi anche al simbolo di una Medaglia d’Oro la funzione di
perpetuare la memoria, perché la dimenticanza degli orrori non condanni a vivere nuovamente
una stessa difficile storia.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Questa nota tiene conto degli scritti relativi alla zona di operazioni cui la Relazione fa
riferimento. Le opere generali citate sono limitate a quelle classiche, con qualche eccezione
riferita ad argomenti particolari e agli aggiornamenti recenti.
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