il ritorno a castelforte

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il ritorno a castelforte
IL RITORNO A CASTELFORTE
Nella tarda mattinata di una calda e luminosa giornata estiva del 1945,
nel piazzale antistante la chiesa e nei pressi del ponte sul canale che
attraversa il centro abitato, vi è assembramento di persone come in un
giorno di festa. La guerra è finita da pochi mesi e noi sfollati torniamo a
casa. Sappiamo che il nostro paese è stato distrutto, ridotto a un cumulo
di macerie, ma non abbiamo idea di quello che effettivamente troveremo.
La comunità di San Matteo è numerosa e vuole essere presente alla nostra
partenza per attestarci ancora una volta la sua solidarietà e la sua
amicizia. Sui nostri volti si nota la commozione per il distacco da quella
meravigliosa gente che si è prodigata in modo ammirevole per lenire la
nostra sofferenza e ridurre i nostri disagi durante lo sfollamento. I nostri
genitori non si stancano di ringraziare gli abitanti per il bene ricevuto e
per quello che hanno fatto per tutti noi. Intorno ai camion, che devono
condurci a Bologna, vi è un gran movimento per la sistemazione di
scatole e pacchi contenenti i nostri miseri averi; a differenza dell’arrivo,
ora abbiamo qualcosa da portare via. Quando saliamo sui camion, la
commozione è incontenibile in tutti; alcuni piangono, altri hanno gli
occhi lucidi per il pianto represso o da poco interrotto. La lunga
convivenza ha cementato legami di affettuosa e sincera amicizia con i
locali. Allorché i camion avviano i motori e si immettono sulla strada in
direzione di Viadana, dall’una e dall’altra parte si agitano le braccia e si
sventolano i fazzoletti in segno di saluto mentre ci allontaniamo. Io sono
appoggiato alla sponda posteriore del camion e lascio srotolare una
striscia di carta, che svolazza leggera come la coda di aquilone dondolato
dal vento nel cielo azzurro. Data la conformazione pianeggiante del
territorio, in breve tempo scompaiono le sagome dei capannelli di
persone e le abitazioni di San Matteo. Tutto è inghiottito dall’immensa
pianura tappezzata di ampie macchie verdi e gialle, solcate di tanto in
tanto da corsi d’acqua e canali. Solo la croce del campanile della chiesa
rimane visibile ancora per qualche tempo, poi svanisce come il resto. Da
questo momento le persone, le case, il vissuto, i luoghi, le emozioni e le
sensazioni di San Matteo cominciano a scolpirsi lentamente, ma
indelebilmente nella mia mente; da allora, ricordo e nostalgia sono
sempre vivi in me.
Il viaggio procede regolarmente verso Bologna. Solo mentre
attraversiamo un lungo ponte di barche sul fiume Po, abbiamo paura a
causa delle oscillazioni e temiamo che possano determinare il
rovesciamento del camion e finire, così, in acqua; ma subito ci rendiamo
conto che il ponte è sicuro e può sostenere agevolmente il carico, senza
alcun pericolo per noi. Durante il viaggio io sono molto interessato a
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osservare i centri abitati attraversati, i quali suscitano la mia curiosità,
avendo struttura e dimensioni diverse da quelle cui sono abituato.
Dopo alcune soste, nel pomeriggio giungiamo al Centro Raccolta
nella periferia di Bologna. E’ un enorme accampamento costituito da
padiglioni militari e da numerose tende per l’alloggio degli sfollati.
L’attività del Centro è frenetica, con grande movimento di automezzi
militari di ogni tipo: jeep, ambulanze, autocarri. Si nota un continuo
andirivieni di sfollati che arrivano o partono. Vi sono anche moltissimi
soldati alleati, tra i quali molti di colore; io li guardo con grande stupore,
non avendoli mai visti prima. Sono dei giovanotti alti, robusti, aitanti,
con la divisa elegante di ottima stoffa; sono pure allegri, chiassosi e
scanzonati. Malgrado ciò, all’inizio mi incutono terrore, avendo in
passato avuto esperienza negativa con i soldati tedeschi, che avevano un
atteggiamento austero, marziale e sempre imbronciato. Io rimango
sorpreso soprattuto dai soldati negri, per il colore della pelle, i capelli neri
e ricci, le labbra tumide e il mento prominente. Quando sorridono, cosa
che fanno spesso, le loro labbra scoprono denti bianchi, il cui candore è
accentuato dal contrasto con il colore scuro della pelle. Allora ero
convinto che avessero i denti più bianchi dei nostri. Anche costoro con
noi sono gentili e affabili.
Tutti i soldati alleati, che noi chiamiamo americani, si comportano in
modo amichevole e gioviale, senza fronzoli, con la popolazione civile
alloggiata nel Centro, specialmente con i ragazzi. Allorché formiamo dei
chiassosi capannelli, spesso riceviamo caramelle, biscotti, gallette,
cioccolato, cheving gum (gomma da masticare); i più grandi rimediano
anche sigarette. L’impatto con la gomma da masticare per me è negativo:
la mastico fino a quando avverto il sapore dolce, poi la sputo. Notiamo
che alcuni soldati parlano bene la nostra lingua; ci dicono di essere nati in
Italia o di avervi parenti. Se i soldati parlano la loro lingua,
comprendiamo ben poco di quello che dicono, ma noi ci facciamo capire
con la mimica e con i gesti, con sufficienti risultati. Spesso i soldati ci
chiedono di farsi fotografare assieme a noi, per una foto ricordo; infatti,
ci scattano numerose foto sulle jeep, sui camion, nelle varie zone del
Centro; ad alcuni di noi mettono in testa il loro berretto. Quando vi sono
anche i soldati negri, cosa che capita spesso, mia madre è un po’ in
apprensione e mi fa cenno di allontanarmi; a lei quei soldati, sconosciuti
e con i caratteri somatici così diversi dai nostri, incutono un po’ di paura.
Ben presto, però, si rende conto che sono diversi dagli altri solo per il
colore della pelle, e mi lascia stare.
Nel Centro rimaniamo circa due giorni, nell’attesa che si organizzi il
trasporto per il nostro ritorno a casa. Siamo alloggiati in una tenda, il cui
arredamento è costituito da letti militari, tavolo e alcuni sgabelli. Durante
il giorno nella tenda fa molto caldo e noi ragazzi passiamo il tempo
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scorazzando per il Centro, cercando di avvicinare quei militari disposti a
giocare e conversare con noi, per rimediare qualcosa.
Poco dopo il nostro arrivo, ci conducono in un padiglione, che funge
da infermeria, ove ci sottopongono a disinfestazione; con un soffietto ci
cospargono ben bene di polvere bianca, il famoso Ddt (Dicloro difenil
tricloroetano), la testa e l’interno degli abiti, in pratica tutto il corpo.
Subito cerchiamo di liberarci da quella fastidiosa polvere, che ci rende
ridicoli, spolverandoci gli indumenti e scompigliandoci i capelli. Gli
infermieri ci rassicurano che quella polvere è innocua ed è molto efficace
contro i parassiti, vale a dire pulci e pidocchi. A questo trattamento ci
sottopongono un’altra volta, prima della partenza. I nostri genitori sono
molto perplessi per questo secondo intervento di disinfezione,
ritenendolo esagerato, poiché le nostre condizioni igieniche, ora, sono
ben diverse da quelle del periodo in cui avevamo forzosamente lasciato il
paese a causa degli eventi bellici.
Dopo un paio di giorni, di mattina, ci conducono in una stazione
ferroviaria, forse Bologna, ove saliamo su un treno con carrozze di legno,
di terza classe. Il viaggio è particolarmente lento, poiché la rete
ferroviaria non è ancora perfettamente riattivata, a causa dei danni subiti
coi devastanti bombardamenti aerei. Per tale motivo il treno viaggia ad
andatura ridotta, con lunghe soste alle stazioni. Per me è il primo vero
viaggio in treno; infatti, all’andata, quando ci avevano condotto a
Mantova, avevamo viaggiato in carri merci blindati, al chiuso, senza
poter aprire il portellone, a causa del freddo invernale, senza poter vedere
le località attraversate. Io mi siedo vicino al finestrino per osservare
meglio il paesaggio; è una emozione irripetibile per me avere una visione
dei luoghi prima da lontano, poi da vicino, che scompaiono velocemente
dal mio campo visivo. Molti paesaggi mi sono rimasti impressi, specie
quelli della tratta appenninica, Bologna Firenze. Ancora oggi, quando in
treno percorro quella zona, mi sembra di riconoscerne alcuni di quelli che
mi avevano particolarmente affascinato in quel periodo.
Giungiamo a Roma l’indomani mattina, alla stazione Centrale, attuale
Termini. La stazione è un enorme cantiere, in cui si nota una frenetica
attività per i lavori di riparazione e di ampliamento. Per raggiungere
l’esterno, passiamo tra cumuli di pietre, grosse buche, cataste di
traversine e di binari, materiali di ogni genere. Nel piazzale antistante alla
stazione troviamo un camioncino, scoperto, su cui fanno salire solo la
mia famiglia per condurci a Castelforte. Noi siamo molto stanchi e
assonnati. Il viaggio procede lento attraverso la via Appia, a causa delle
buche e del manto stradale dissestato. A bordo del camioncino ci
sediamo, dietro la cabina, sulle scatole e sui pacchi, per ripararci dal
vento, pur essendo la giornata calda e luminosa. Mia madre è alquanto
sofferente per il mal d’auto. Dopo alcune ore di viaggio, io avverto
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indolenzimento all’addome per i sobbalzi e gli scossoni dovuti alle buche
e agli avvallamenti del fondo stradale. Per attenuare la mia sofferenza, mi
sdraio sul pianale, poggiando la testa su un pacco e cercando di dormire;
sono particolarmente stanco e assonnato, poiché la notte precedente in
treno ho dormito poco e male. Non riesco a riposare; non osservo
neppure il paesaggio, che pure mi attrae moltissimo. In prossimità di
Formia, mia madre ci avverte che manca poco all’arrivo. Io sono
contento della notizia e cambio posizione; mi metto seduto e osservo il
paesaggio, cominciando a notare i primi segni della devastazione della
guerra. Ormai soltanto 25 chilometri ci separano da Castelforte.
Purtroppo occorre ancora del tempo per giungere a destinazione.
L’andatura del camioncino è molto lenta, a causa della strada
particolarmente sconnessa, specialmente quando, abbandonata l’Appia, si
immette su quella che conduce a Castelforte, che, peraltro, non è
asfaltata. Io non ho dimestichezza con il territorio, e non ho la cognizione
delle località e delle distanze. Continuamente mi informo del tempo che
manca all’arrivo. Per calmarmi, mia madre mi assicura che fra poco
saremo a casa. Cominciano a calare le prime ombre della sera e
finalmente giungiamo alla periferia di Castelforte. Incomincia a
presentarsi a noi un paesaggio desolante. Appaiono le prime abitazioni
ridotte a scheletri o completamente distrutte, alcuni automezzi militari
fuori uso e ribaltati, materiale bellico abbandonato lungo la strada.
I rigogliosi e fertili campi sono incolti e coperti di una fitta sterpaglia
ingiallita dal calore estivo. I pochi alberi rimasti sono schiantati o secchi.
Quando arriviamo alla frazione di San Lorenzo, dal basso si ha la
panoramica completa dell’intero centro abitato; la situazione è
apocalittica, il paese non esiste più, è raso al suolo! Si vede in piedi solo
la torre medievale che, come una stele, si erge su un ammasso di macerie.
La chiesa di San Giovanni, adiacente ad essa, è scomparsa, al suo posto è
rimasto un vuoto desolante. Le verdi colline, una volta coperte di
rigogliosa e lussureggiante vegetazione, costituita prevalentemente da
ulivi, sono completamente spoglie. Si ha l’impressione che un devastante
incendio abbia cancellato ogni forma di vita vegetale. Addentrandoci nel
centro abitato, si percepisce nella giusta misura l’entità della distruzione.
Le abitazioni appaiono completamente demolite; nel migliore dei casi
hanno il tetto e i solai alti crollati, con brecce nei muri. Ai lati delle strade
vi sono montagne di calcinacci. Il transito del camioncino è difficoltoso.
Dappertutto si notano carcasse di automezzi militari, cataste di cassette di
munizioni, armi rotte, ordigni inesplosi, proiettili di ogni tipo, elmetti
ammaccati o forati, materiale di ogni genere. Il paese è stato liberato il 13
maggio 1944, eppure si ha l’impressione che gli eserciti dei belligeranti
lo abbiano abbandonato da pochissimo tempo. Al nostro passaggio alcuni
abitanti si affacciano come ombre dalle macerie, sembrano dei
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sopravvissuti a quell’immane devastazione. Il camioncino si ferma a San
Rocco, ove scendiamo. La nostra casa è distrutta come le altre: non è
abitabile. La chiesa di San Rocco è gravemente danneggiata; solo la
facciata sembra integra, ma ad un attento esame, invece, si notano
evidenti lesioni che la rendono pericolante. Il campanile somiglia a un
grosso tronco spezzato e incenerito da un fulmine. Il vicino monumento
ai caduti è ancora in piedi, con le due statue bronzee, un fante morente e
uno combattente, della prima guerra mondiale: sono crivellate di fori.
I lastroni di travertino, che rivestivano le quattro facciate, sono a terra in
frammenti. Noi ci rechiamo nella vecchia abitazione, presso la chiesa
dell’Annunziata, la quale, essendo ben protetta dalle altre, è stata solo
parzialmente distrutta; ha il tetto crollato, le finestre con i vetri in
frantumi, i muri e le porte bucherellati da numerose schegge; è abitabile
solo il piano terra. La mia nonna materna, Elisabetta Volpe (Bettuccia),
rientrata in paese alcuni mesi prima, ha effettuato gli interventi
indispensabili per renderla abitabile, sia pure in modo precario. Mia
madre si rende conto che è stato un grave errore abbandonare San Matteo
e che nel paese è impossibile vivere per la mancanza di tutto, soprattutto
di acqua, fognature, luce e servizi essenziali.
Il paese è trasformato in un grande cantiere; possono viverci solo le
persone utili alla sua rinascita. Esso richiede urgenti interventi per la
ricostruzione e la bonifica del territorio dagli innumerevoli ordigni
bellici, specialmente le mine. Durante il giorno si nota un incessante
andirivieni di camion militari americani, i famosi treassi, a sei ruote con
il pianale ribaltabile. Sono camion robusti, potenti, agili; non si fermano
davanti a nessun ostacolo, si infilano dappertutto. Trasportano con ritmo
frenetico macerie e materiale da costruzione. Sono in azione pure squadre
di artificieri per rimuovere gli ordigni inesplosi e le casse di quelli
abbandonati dagli eserciti in fuga o in avanzata. Il lavoro più delicato è
svolto dagli sminatori per bonificare i terreni che si ritengono minati, al
fine di far riprendere le attività agricole. Il pericolo maggiore per la
popolazione è addentrarsi nei campi, con il rischio di saltare su qualche
mina. Inoltre, è anche pericoloso rimuovere le macerie delle case
distrutte, anche solo per recuperare qualche suppellettile o utensile,
poiché si possono verificare dei crolli o ci si può ferire inciampando ai
ferri e alle travi che spuntano dai cumuli delle rovine. Il paese è
particolarmente pericoloso per noi ragazzi, poiché la nostra irrequietezza
e la nostra curiosità ci induce a scorazzare tra le abitazioni sventrate, a
rovistare ovunque, a manipolare armi abbandonate e ordigni, con
possibili conseguenze letali. Per questi motivi, i responsabili del
coordinamento delle attività logistiche e di ricostruzione, molto
saggiamente e responsabilmente, invitano la popolazione inattiva,
specialmente le famiglie con bambini, ragazzi e giovani, ad abbandonare
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Castelforte per recarsi a Roma, in uno degli appositi Centri predisposti a
Santa Croce in Gerusalemme e a Trastevere, e ritornare quando le
condizioni lo consentiranno. La mia famiglia, come le altre, abbandona il
paese e si trasferisce a Roma, presso la caserma Lamarmora. La nonna,
invece, rimane per completare i lavori di ricostruzione della nostra
abitazione. Per noi inizia, così, un altro lungo periodo di sfollamento,
anche se volontario.
Ezio D’Aprano
Riportato in: D’Aprano Ezio, Infanzia da sfollato. Da Castelforte a San Matteo
di Viadana e Roma tra pensieri e ricordi, Herald Editore, Roma, 2007, pagg. 4853.
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