le donne in carcere a ri-amare il loro corpo

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le donne in carcere a ri-amare il loro corpo
aiuto
le donne
in carcere
a ri-amare
il loro corpo
La ginecologa Adele Teodoro
si è inventata un progetto
unico in Italia. Due volte al
mese, con il suo ecografo
portatile, trasforma le celle
in uno studio medico.
Visita le detenute, ma non
solo: «Parlo con loro di
prevenzione, figli, menopausa.
Perché ritrovino
quella femminilità che la
vita ha ferito»
Daniele Testa - Mondadori Portfolio
di EMANUELA ZUCCALÀ scrivile a [email protected]
Adele Teodoro, 43 anni,
ginecologa. A lei e al suo
impegno da volontaria in
carcere è dedicato un capitolo
del libro Donne che vorresti
conoscere (Infinito Edizioni, a
fianco la cover) della giornalista
Emanuela Zuccalà, che firma
questo articolo.
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DONNE MODERNE
«Sono una donna libera, che ha avuto sempre la possibilità di
scegliere. Sentivo il bisogno di dare qualcosa di me e della mia
professionalità a donne che invece la vita ha solo ferito». Adele
Teodoro parla con un entusiasmo trascinante. Ginecologa, 43
anni, napoletana ma ormai milanese d’adozione, con la sua associazione Gravidanza Gaia (gravidanzagaia.org) si è inventata
un progetto unico in Italia. Armata solo di un ecografo portatile
(acquistato a rate, di tasca sua), da 3 anni entra in carcere, da
volontaria, per offrire alle detenute un programma di prevenzione con screening, pap-test, ecografia transvaginale e diagnosi
precoce. Trasformando una cella in studio medico, ha esordito
nel 2011 nel carcere Pontedecimo a Genova e in questi giorni
comincerà anche nel penitenziario milanese di San Vittore. Il suo
impegno le è valso l’Ambrogino d’oro, la medaglia che ogni anno
il Comune di Milano riconosce ai cittadini più meritevoli. E lei,
alla cerimonia, ha voluto salire sul palco con la figlia Gaia, di 10
anni, per ascoltare la motivazione: “La tenacia di Adele Teodoro
ha vinto le resistenze della burocrazia e ha consentito di tutelare
la salute di centinaia di donne”.
Daniele Testa - Mondadori Portfolio
Perché ha scelto di impegnarsi come volontaria proprio in carcere,
il luogo più duro? «Per via di un incontro felice. Mentre pensavo a
cosa poter fare per le meno fortunate di me, ho conosciuto Maria
Milano d’Aragona, allora direttrice di Pontedecimo: competente,
appassionata, convinta del potere della solidarietà femminile. Così,
insieme, abbiamo creato il progetto pilota e superato la burocrazia:
poche settimane dopo ero in carcere con il camice e l’ecografo. Per
due sabati al mese, visitando una ventina di donne ogni volta».
Come l’hanno accolta le detenute? «La prima che ho conosciuto
era una marocchina 50enne, segnata dalla vita. Quasi tutte non
possiedono nulla, dunque accolgono a braccia aperte il dono
che stai portando loro. Per le più giovani la maternità incarna la
speranza nel futuro. La loro domanda ricorrente è: “Potrò ancora
avere figli?”. Hanno paura che il carcere le intacchi nell’integrità
fisica e hanno bisogno di conforto. Per questo non mi limito a
visitarle: parlo loro della menopausa e dell’igiene intima, distribuendo campioni dei migliori prodotti che ho. Una volta ho
persino fatto una colletta tra i miei colleghi per rifornirle di assorbenti, poiché alcune non possono permetterseli. È stato comico
viaggiare da Milano a Genova con l’auto stracolma: sembravo
una contrabbandiera».
Dunque non è un semplice rapporto medico-paziente. «Non
potrebbe esserlo: il carcere, soprattutto per le donne, è mortificazione del corpo. Io le accompagno in un percorso di conoscenza e di cura di sé, oltre che della propria femminilità. Non
dimenticherò mai due detenute che, prima di incontrarmi, si
scambiavano un paio di orecchini gialli: volevano presentarsi
da me eleganti. La visita medica era diventata un’occasione per
essere di nuovo belle».
Come ha trovato la salute di queste donne? «Dietro le sbarre
ci si può curare, ma non esiste la prevenzione, che dal punto di
vista ginecologico è fondamentale. Già durante le prime visite,
ho riscontrato tre stadi cancerosi alla cervice dell’utero, subito
operati, oltre a cisti ovariche, endometriosi, vaginiti: disturbi
facilmente curabili, se individuati in tempo, ma pericolosissimi
se trascurati».
Una volta una
detenuta mi ha
detto: «Dottoressa,
mi manca la
libertà di sedermi
sul mio water»
Sarà inevitabile parlare dei reati per cui sono recluse. «Io
non chiedo mai, non mi compete. Sono loro a raccontarmi spontaneamente il loro passato, perché cercano un
rapporto di fiducia».
Quali storie si è ritrovata ad ascoltare? «Di ogni tipo.
Dalla nigeriana costretta a prostituirsi all’italiana condannata per falso in bilancio perché tentava di salvare la
sua azienda. E mi ha commossa l’amicizia fra due donne:
un’egiziana bellissima che aveva ucciso il compagno per
gelosia e un’italiana che, quando l’ho vista per la prima
volta, stava in isolamento, quasi catatonica. Aveva reso
tetraplegico il figlio neonato scuotendolo troppo forte per
farlo smettere di piangere, perché il marito minacciava di
uccidere lei e il bimbo, se il piccolo non fosse stato zitto.
Grazie all’amicizia della compagna di cella, ha smesso
di pensare al suicidio. Se fosse stata aiutata prima, il suo
destino e quello del bimbo sarebbero stati diversi».
Cosa sta donando a lei l’esperienza in carcere? «Tanta
forza. Ho riscritto la mia scala delle priorità, so cos’è veramente importante nella vita e mi sento al settimo cielo
quando ho il tempo di fare una passeggiata con mia figlia
Gaia e prendere un gelato. Una detenuta mi ha detto:
“Dottoressa, mi manca la libertà di sedermi sul mio water”,
perché nelle celle il bagno è condiviso e con la turca. Una
promiscuità che avvilisce. Sono cose che a noi paiono
banali. Ma la libertà è anche questo».
Il suo è un progetto pilota: lo estenderà a tutta Italia? «È
il mio sogno. Basterebbero altre ginecologhe volontarie,
una burocrazia fluida e dei benefattori che aiutassero ad
acquistare gli ecografi. Ma purtroppo tanti pensano che
i criminali non meritino aiuto. Invece è importante che
la pena sia vissuta con dignità: così i detenuti, quando
usciranno, non saranno peggiori di prima, difficilmente
ricadranno nella spirale di degrado e la società intera ne
trarrà beneficio».
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