La cura spirituale del morente
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La cura spirituale del morente
484-496:REGDOC 17-2008.qxd 8-09-2010 17:19 Pagina 484 C hiese nel mondo La cura spirituale del morente I Conferenza dei vescovi cattolici d’Inghilterra e Galles – Gruppo di lavoro La ricchezza principale della prospettiva cattolica del morire è data dal fatto che essa considera la morte «un processo complesso» che «coinvolge tutto l’essere, specialmente le nostre relazioni e non solo il nostro corpo». Riconoscere che la realtà del morente è più della sua malattia significa prendersi cura di lui in una prospettiva non riduzionista. Perciò, presentando il 25 giugno questa guida pratica La cura spirituale del morente stesa da un gruppo di lavoro da essi incaricato, i vescovi cattolici d’Inghilterra e Galles hanno affermato che essa «non è rivolta esclusivamente a pazienti e operatori sanitari cattolici. Il suo scopo è semplicemente quello di mettere a disposizione» di tutti, con toni pacati e chiarezza di dettagli, «le risorse di questa prospettiva ... per la cura delle persone», rispettando «l’esistenza di molte diverse modalità e tradizioni, religiose e non religiose, nelle quali questi aspetti trovano espressione nella vita e nella cura di una persona». Stampa (31.7.2010) da sito web www.catholicew.org.uk; nostra traduzione dall’inglese. IL REGNO - DOCUMENTI 15/2010 ntroduzione La malattia è un tempo nel quale, indipendentemente dalla presenza o meno di un proprio credo religioso, affiorano domande di natura spirituale. Ciò è particolarmente vero quando la persona s’avvicina alla fine della vita. Scopo di questa guida è aiutare gli operatori in prima linea a individuare le necessità spirituali dei propri pazienti e ad avere fiducia nelle proprie capacità di potervi rispondere. Tradizionalmente la cura spirituale e religiosa in ospedale è stata assicurata dal cappellano e dall’équipe dei cappellani. Questo è ancora vero e nella cura olistica multidisciplinare si dovrebbe includere abitualmente la presenza di un cappellano e dell’équipe dei cappellani per offrire questa cura. Ma l’offerta della cura spirituale non è un compito esclusivo dei cappellani o delle équipe dei cappellani. In qualche modo, ogni persona coinvolta nella cura di un paziente ha qualcosa da dare. Tuttavia molti operatori sanitari che si occupano di pazienti che si avvicinano alla fine della vita potrebbero non sentirsi in grado di rispondere a queste necessità spirituali e anzi potrebbero a volte non riconoscerle. Morire è un processo complesso perché coinvolge tutto il nostro essere, specialmente le nostre relazioni e non solo il nostro corpo. Anche se siamo semicoscienti o apparentemente incoscienti, vi sono ancora dimensioni della nostra realtà che possono essere attive e presenti benché non visibili. Anche la migliore scienza o la migliore fede religiosa si avvicina ai misteri della vita e della morte con necessaria umiltà. Ne sappiamo abbastanza per ammettere di conoscere molto poco e di comprendere solo un frammento dell’immensità di qualsiasi vita. A prescindere dall’avere o meno un credo religioso, siamo in grado di riconoscere che la persona umana è più della somma delle sue parti fisiche. Infatti, se concentriamo l’attenzione unicamente sulla malattia, consciamente o inconsciamente, distorciamo, strumentalizziamo e quindi svalutiamo la vita. Non abbiamo un modo semplice per esprimere il «di più» che c’è nella persona. Molte religioni e molte visioni del mondo intendono la cosa in termini di dimensione materia- 484 484-496:REGDOC 17-2008.qxd 8-09-2010 16:41 Pagina 485 le e dimensione spirituale. Pur essendo inestricabilmente legate nella persona umana, non si possono ridurre l’una all’altra. Anche se è difficile, e anche se nutriamo dei sospetti nei riguardi delle sue implicazioni religiose, siamo in grado comunque di dare ancora un posto e un linguaggio alla dimensione spirituale. In questo modo creiamo un’opportunità nel nostro modo di pensare e di agire che ci permette di riconoscere che la realtà umana è più di ciò che è solo materiale; non si può misurare o conoscere o spiegare esaurientemente tutto in termini puramente fisici. Un’esistenza umana e la persona che la vive sono sempre più di un fascio di geni e azioni. Anche la vita più limitata è vissuta nella trascendenza per il fatto di essere umana. Questo è il nocciolo dell’autentico umanesimo. Se non vediamo e onoriamo questo aspetto, non solo non rispettiamo la persona, ma le facciamo del male. Spesso c’è una violenza nascosta e inconscia in molti dei nostri sistemi, compresi quelli della cura, perché il loro modus operandi è riduzionista. Se riduciamo la morte a un evento clinico e la gestiamo solo attraverso una serie di procedure standard, non la affrontiamo bene né clinicamente né umanamente. Questa guida incentra l’attenzione principalmente sulla cura dei pazienti che si presume muoiano nel prossimo futuro, ma molti suoi contenuti sono importanti anche per situazioni diverse come quelle della morte improvvisa. La prima sezione della guida contiene consigli pratici su come fornire una buona cura spirituale, indipendentemente dal fatto che la persona morente o l’operatore sanitario professino o meno una particolare fede religiosa. La seconda sezione affronta alcune delle comuni questioni etiche che possono insorgere in quella situazione, come ad esempio sospendere o rifiutare un trattamento medico. La terza sezione offre una riflessione sull’esperienza del morire, sulla sua dimensione personale e misteriosa e una visione in grado di stimolare un approccio più sensibile e attento al tema. La guida nasce all’interno di una prospettiva cristiana cattolica, ma non è rivolta esclusivamente a pazienti e operatori sanitari cattolici. Il suo scopo è semplicemente quello di mettere a disposizione le risorse di questa prospettiva – esperienza, pratica, riflessione etica e teologica – per la cura delle persone nella fase terminale della vita. Cerca di tener presente tutta la persona, nella sua realtà spirituale, fisica e psicologica, e rispetta l’esistenza di molte diverse modalità e tradizioni, religiose e non religiose, nelle quali questi aspetti trovano espressione nella vita e nella cura di una persona. 1. Offrire una cura spirituale La spiritualità può essere interpretata in un ampio ventaglio di modi a seconda delle credenze di ciascuno. Alcune persone la fanno coincidere con valori esplicitamente religiosi, altre la considerano una ricerca personale di senso, cercando di scoprire lo scopo della propria vita e la parte che la sofferenza gioca in questa ricerca. Questo non significa che coloro che richiedono una cura religiosa più formale non abbiano bisogno di affrontare, o non vogliano affrontare, le questioni di senso più ampie. Al contrario, in quei momenti molte persone che non si definiscono «religiose», possono desiderare di ritornare alla fede nella quale sono state allevate, trovando in essa speranza e conforto. Ciò vale non solo per il paziente, ma anche per i familiari e i visitatori. In alternativa, esse possono non esprimere nessuno di questi desideri, ma volere semplicemente la presenza di qualcuno che stia con loro nella loro solitudine o sofferenza. Prendersi cura dello spirito è prestare attenzione a tutte queste cose. Perciò, dalle persone devotamente religiose a quelle che cercano il senso o a quelle che non esprimono alcun interesse per la religione o la spiritualità, vi sono molte cose che l’operatore sanitario può fare per contribuire al sostegno di una persona morente e conferire a quei momenti il maggior valore possibile. La cura delle persone morenti viene detta anche «cura palliativa». Le cure palliative comprendono la cura di pazienti con una malattia progressiva in fase avanzata, compresa quella per la fine della vita e il sostegno al lutto dei familiari e degli operatori. Si concentrano sulla riduzione della sofferenza e di altri sintomi, sul sostegno emotivo, spirituale e pratico dei pazienti e dei loro cari. Le cure palliative possono essere fornite insieme ad altri trattamenti medici, come ad esempio la chemioterapia o la radioterapia, o possono essere la fonte principale di cura e sostegno, quando non è più possibile curare il paziente. Il loro obiettivo è alleviare la sofferenza e offrire ai pazienti la migliore qualità di vita possibile. Negli ospedali, nelle case di cura e in altre strutture esistono varie procedure che consentono al personale medico e infermieristico di fornire cure palliative ai morenti. Centrale in queste procedure è il fatto che vi sia compresa la cura spirituale, che può spaziare dalla comune cura quotidiana del paziente alla chiamata del cappellano per la cura religiosa e sacramentale. Ma la bontà della procedura, qualunque essa sia, sarà direttamente proporzionale a quella di coloro che la usano, per cui è importante ricordare che al centro di tutti i nostri sforzi c’è la persona e noi siamo a servizio del suo interesse. Per raggiungere questo scopo è essenziale evitare la tentazione di considerare la procedura come un elenco di istruzioni da seguire macchinalmente. Essa dovrebbe essere il primo passo di una cura attenta che comprende una regolare valutazione clinica e una ponderata presa di decisioni fatta insieme al paziente o agendo nel suo interesse. Questa sezione presenta anzitutto alcuni dei modi in cui può manifestarsi la sofferenza spirituale, permettendo così al personale sanitario di cogliere i segnali che i pazienti offrono. Seguono poi suggerimenti sui modi in cui il personale sanitario può aiutare ad alleviare o affrontare la cura spirituale dei pazienti e delle loro famiglie. A volte questo può sollevare questioni etiche per i pazienti o il personale sanitario. Alcune delle questioni che insorgono più frequentemente saranno affrontate specificamente nella sezione 2. IL REGNO - DOCUMENTI 15/2010 485 484-496:REGDOC 17-2008.qxd 8-09-2010 16:41 Pagina 486 C hiese nel mondo Indicatori di sofferenza spirituale Non bisogna dimenticare che ciascuno di noi sperimenta il dolore, la sofferenza, la perdita, il rimpianto in modo del tutto personale. Non esistono due persone identiche, per cui le nostre necessità e il modo in cui le esprimiamo sono diversi. La malattia grave può provocare un effetto di disorientamento e spersonalizzazione del paziente, facendolo sentire vulnerabile o impotente di fronte agli avvenimenti e alla sofferenza che lo assalgono. Negli ospedali o in altre strutture di cura spesso sono gli operatori sanitari o coloro che assistono il malato a poter cogliere i segni della sofferenza spirituale, per cui la capacità di riconoscerli è essenziale per sostenere il paziente nel modo più significativo possibile. La sofferenza spirituale può manifestarsi in vari modi. Alcuni pazienti sono molto chiari sull’origine dei propri sentimenti, mentre altri possono essere inconsapevoli o scettici riguardo al potenziale della dimensione emotiva o spirituale rispetto alla propria esperienza della malattia. È importante ricordare che anche i parenti e gli amici sono toccati da ciò che accade ed è probabile che soffrano a modo loro. Anch’essi possono mostrare segni di sofferenza spirituale e aver quindi bisogno di sostegno. Gli indicatori che seguono vengono riuniti in tre gruppi: ambito fisico, ambito emotivo, domande. In realtà, ciascuno può presentare una combinazione di tutti i fattori insieme o per un certo periodo. Pur essendo importante considerare la possibile presenza di una malattia psicologica trattabile come una depressione latente, l’elemento chiave è considerare la spiritualità come un fattore che contribuisce al benessere generale di ogni paziente. Spesso il maggiore indizio di sofferenza spirituale è la continua sensazione di disperazione, ricerca o irrequietezza di spirito che proviene dal paziente. Ambito fisico – Sofferenza fisica persistente o altri sintomi che non sembrano rispondere in modo regolare alle medicine o ad altri trattamenti preventivi quando possibili. – Persistente agitazione o irrequietezza nonostante il fatto che le potenziali cause fisiche siano state affrontate. Spesso i parenti fanno molta fatica a sopportare la cosa ed essa può generare in loro stati d’ansia che, a loro volta, aumentano l’agitazione del paziente. – Continue domande riguardo alla causa o all’avanzamento della malattia o ricerca così irrealistica di trattamenti da indurre a pensare che il paziente stia lottando con l’accettazione della realtà del deterioramento della propria salute. – Il timore d’addormentarsi e non svegliarsi più o, in alternativa, il fatto di svegliarsi nel cuore della notte e non riuscire più ad addormentarsi. Ambito psicologico – Ansia di difficile definizione o che cambia obiettivo quando la causa dichiarata della stessa viene affrontata. – Continua ricerca di rassicurazione. Spesso è difficile rassicurare il paziente a lungo se non si affronta il bisogno spirituale soggiacente. 486 IL REGNO - DOCUMENTI 15/2010 – Dolore, collera, perdita, litigi o separazioni familiari irrisolti o non espressi in precedenza. – Collera verso il personale sanitario, verso sé stessi, il «sistema», la famiglia o gli amici. – Pianti persistenti, continua mancanza di fiducia. – Senso di abbandono. – Sentirsi perduto e solo. – Apatia o mancanza di motivazione. – Desiderio di morire. Domande – Cercare risposte a domande del tipo: «Perché mi capita questo?»; «Ho fatto qualcosa per attirarmi questo?». – Interrogarsi sul senso della sofferenza. – Porre domande che suggeriscono un sentimento d’ingiustizia. Ad esempio, «che cosa ho fatto per meritare questo?». – Autoaccusarsi o sentirsi in colpa per atti precedenti. – Cercare la soluzione, ad esempio per atti precedenti o desiderio di risanare relazioni infrante. Domande di fede – Gridare a Dio. – Dubitare della propria fede. – Chiedere aiuto spirituale. – Chiedere di vedere il cappellano (o rifiuto assoluto per paura di ciò che questo può rappresentare). – Bisogno di perdonare o di essere perdonati. A prima vista potrebbe sembrare che rispondere alle necessità spirituali di una persona sia una materia complessa. In realtà, il personale sanitario e le persone che assistono i malati sono in grado di offrire un sostegno spirituale prestando attenzione alle piccole cose che interessano il paziente. La sezione che segue sottolinea alcuni importanti aspetti comunicativi in queste situazioni con alcuni suggerimenti sul modo d’affrontare la sofferenza spirituale e sulle persone da avvicinare per ricevere aiuto. Comunicazione Una comunicazione sensibile e chiara è il cuore della buona cura del paziente Assicurarsi d’offrire ai pazienti e alle loro famiglie regolari opportunità di dialogo con il personale sanitario riguardo al cambiamento della loro situazione e delle loro preoccupazioni. Gli avvenimenti e il ritmo del cambiamento nel corso di una malattia grave e di un deterioramento della salute possono risultare opprimenti per i pazienti e le loro famiglie. Una comunicazione chiara e un’informazione passo a passo possono aiutare i pazienti a comprendere come la propria malattia li sta colpendo e ciò che si può fare per aiutarli. È altrettanto importante fornire un’informazione sufficiente in modo che i pazienti possano mantenere il controllo sulle scelte e decisioni che si aprono davanti a loro e che siano in grado di fare dei piani per sé stessi o per le proprie famiglie. I familiari e le persone vicine al paziente possono trova- 484-496:REGDOC 17-2008.qxd 8-09-2010 16:41 Pagina 487 re difficile sapere il modo di discutere le implicazioni della condizione del paziente o argomenti potenzialmente angoscianti. È più facile che accolgano con sollievo l’opportunità di fare domande riguardo alla malattia, alle aspettative e forse di rispondere alle domande poste loro dal paziente. Nella misura in cui il paziente è contento di condividere le informazioni relative alla propria malattia, la discussione di tali questioni può permettere ai parenti di comprendere il processo della morte mentre accompagnano il proprio caro. È importante spiegare che la natura della cura è cambiata e che ora il principale obiettivo è quello di assicurare, nella misura del possibile, una morte confortevole, pacifica e degna. Dovrebbero essere incoraggiati a continuare a parlare insieme come una famiglia o come amici con la maggiore apertura per loro possibile, perché questo è fonte di reciproco conforto e sostegno. Comunicare con il morente Riesce ancora a sentirmi? Molte persone trovano conforto nel fatto di continuare a parlare al paziente dopo che ha perso conoscenza, perché questo mantiene la relazione umana e per alcuni può essere un tempo prezioso di guarigione o scambio di sentimenti privati. Spesso si afferma che l’udito è un senso che può continuare a funzionare anche dopo che il paziente ha perso conoscenza, per cui i parenti dovrebbero essere incoraggiati a farlo se lo desiderano. Inoltre, questo ricorda a ogni persona coinvolta nella cura di un morente che il valore umano di un individuo non diminuisce con la sua incapacità di comunicare e che noi dovremmo mantenere una comunicazione sensibile e rispettosa. Come aiutare Mantenere una cura di tipo personale Usare il nome con il quale il paziente ama essere chiamato. Rivolgersi al paziente con il suo nome preferito stimola una relazione più personale. Non è raro che una persona sia chiamata con un nome diverso da quello registrato nelle note personali e questo può contribuire a farla sentire sempre più anonima. Molti pazienti possono non comprendere ciò che accade loro, ma questo può essere reso ancora più difficile da problemi di udito, deterioramento cognitivo o dal fatto di non avere come madrelingua quella di coloro che li assistono. Può occorrere loro più tempo e più energia per farsi comprendere e comprendere, tempo ed energia che essi possono non avere. L’attenzione ai loro bisogni personali rende la comunicazione e la cura più facile e più efficace. Costruire la fiducia Prendere tempo per il paziente. Costruire la fiducia con un paziente può aiutarlo a esprimere i suoi bisogni più profondi. Ad esempio, chiedere al paziente se c’è qualcosa che lo spaventa e prendere tempo per ascoltare la risposta dimostra un autentico interesse per le sue preoccupazioni. Alcune persone trovano più facile confidare a un estraneo e sentirsi ascoltati; in momenti del genere può essere molto rinfrancante. Ad altre può occorrere del tempo per confidare a un’altra persona le proprie preoccupazioni e ansie. L’uso di domande aperte può incoraggiare la comunicazione. Al contrario, se diamo l’impressione di essere troppo occupati o di dover andare altrove, la comunicazione risulta ostacolata. È utile prendere un po’ di tempo per informarsi sulla cura praticata al paziente e sulle sue preoccupazioni in modo da adattare la discussione alle sue necessità. In cambio, si mantiene la fiducia e il paziente si sente apprezzato. La cura dei pazienti affetti da deterioramento cognitivo o demenza richiede un supplemento di pazienza e di competenza, perché è probabile che essi abbiano bisogno di ripetute spiegazioni e rassicurazioni. I membri della famiglia o le persone che li assistono possono consigliare riguardo al modo migliore di aiutarli e, in realtà, la cosa migliore può essere quella di sostenere la famiglia in modo che possa rassicurare il proprio congiunto in forme a lui familiari. Fare domande in tema di spiritualità Creare le occasioni per parlare di spiritualità. Molte persone non sanno da dove cominciare per parlare di spiritualità o di disagio spirituale. Questo può essere dovuto al fatto che considerano la spiritualità sinonimo di credenze o riti basati sulla fede e possono avvertire un personale senso d’estraneità o imbarazzo al riguardo. Oppure può essere dovuto all’esitazione a rompere il ghiaccio su un argomento personale, al timore di mancare di rispetto o di offendere o alla mancanza di un linguaggio condiviso per esprimere la spiritualità. Se invece vediamo la spiritualità come l’«essenza» di qualcuno, dei suoi valori, del senso di sé e della dignità personale, allora possiamo cominciare a fare la sua conoscenza come persona. Alcuni suggerimenti per una domanda iniziale potrebbero essere: – Parlami un po’ di te. – Come va il morale? – Come la malattia ha colpito te o la tua famiglia? – A che cosa pensi in particolare in questo momento? – C’è qualcosa o qualcuno che ti aiuta nei momenti difficili? – C’è qualcosa che fai più fatica a sopportare (il dolore, l’insonnia) in questo momento? Esplorare priorità e scelte Cercare sempre di consentire al paziente di esprimere le sue preferenze. È importante scoprire i punti di vista del paziente e coinvolgerli per quanto possibile nelle decisioni relative alla sua cura. I pazienti possono aver già espresso la propria volontà riguardo al trattamento e la cura, ma è utile offrire loro l’opportunità di riconsiderarli. Non è raro che con l’avanzare della malattia cambino le priorità. Ad esempio, in passato possono aver espresso il desiderio di morire in casa e ora riconoscere che la cosa non è più realistica. Questi cambiamenti possono essere associati a sensi di tristezza, colpa, perdita e aggravare la sofferenza spirituale. I pazienti potrebbero vivere per un tempo più breve o IL REGNO - DOCUMENTI 15/2010 487 484-496:REGDOC 17-2008.qxd 8-09-2010 16:41 Pagina 488 C hiese nel mondo più lungo rispetto alle aspettative e cercare di fissare delle scadenze sarà inevitabilmente difficile. Tuttavia, per molti pazienti è utile avere una qualche idea riguardo al corso probabile della loro malattia; questo permette loro di sistemare i loro affari, di programmare il proprio funerale o di dare la priorità alle persone che vogliono vedere. Gli ultimi tempi sono una parte molto importante di una spiritualità piena. Riconoscere che gli individui hanno la capacità di prendere decisioni personali fino a prova contraria. È importante mantenere aperte tutte le scelte realistiche, anche quando la salute del paziente declina rapidamente, poiché le capacità possono variare e una persona può desiderare di fare la propria scelta fino al momento della morte. Privacy Offrire una stanza privata al paziente. Lo spazio privato crea un ambiente migliore per consultazioni o conversazioni sensibili. L’offerta di uno spazio privato anche ad amici e a familiari durante questo tempo diventa sempre più importante. La disponibilità di una stanza singola dovrebbe essere una priorità in modo che i familiari possano trascorrere del tempo da soli con i propri cari. È più difficile rattristarsi, piangere o sedere insieme in silenzio in uno spazio pubblico, per non parlare della sofferenza che questo può causare altri pazienti e visitatori. Tuttavia questo può non essere la scelta giusta per certi pazienti che potrebbero considerare la stanza singola una forma di isolamento o l’espressione della necessità di escluderli dalla compagnia degli altri pazienti. In questa situazione o quando non vi è possibilità di una stanza singola, un luogo tranquillo per i familiari e i visitatori può essere di grande aiuto. Dignità Pensare oltre la malattia del paziente. Mantenere la dignità della persona morente acquista un significato aggiunto. Informarsi su come si sente di morale la rassicura che non si tiene conto solo dei suoi sintomi fisici. Mantenere puliti i pazienti e in ordine lo spazio attorno a loro accresce il loro senso di dignità. È importante anche la cura della bocca, per conservarla umida e più confortevole. La cura personale, ad esempio prendersi il tempo di lavare e pettinare i capelli del paziente, lo aiuta non solo a sentirsi meglio, ma anche a ristabilire il senso della sua dimensione personale. In realtà, il contatto fisico può essere un modo profondo per sostenere una persona morente. Il tenere la mano della persona può rassicurarla più della parola più saggia. La morte non è una questione privata ma sociale. Condividiamo una stessa umanità anche se non sempre una stessa fede e un caldo contatto umano può aiutare il paziente angosciato nel momento in cui la sua vita giunge al termine. A volte i pazienti o i loro parenti chiedono di fare o inserire nella cura cose particolari negli ultimi giorni di vita del paziente. È importante essere sensibili a queste richieste. Qualcosa che potrebbe sembrare non importante a un osservatore esterno può avere una grande importanza per il paziente. Può essere un oggetto personale con un profondo valore affettivo, o un oggetto religioso come un crocifisso, una corona del rosario o un libro di preghiere. 488 IL REGNO - DOCUMENTI 15/2010 Tenere in mano o toccare questi oggetti può essere l’unica preghiera che un paziente è in grado di fare. Il fatto di vedere questi oggetti al capezzale di un paziente è un’ulteriore indicazione dei suoi bisogni spirituali e religiosi e dovrebbe indurre le persone che lo assistono a porre domande al riguardo e incoraggiare il paziente a parlare di ciò in cui crede. Medicazione dei sintomi dolorosi Essere chiari sui benefici relativi e sulla necessità della medicazione sedativa. A volte le medicine richieste per alleviare i sintomi, come la sofferenza o l’agitazione, possono causare anche sonnolenza o sedazione. Verso la fine della vita questo provoca una crescente debolezza e fatica perché le condizioni generali del paziente peggiorano. Il paziente o i suoi familiari possono far fatica a comprendere la cosa e vorrebbero il meglio per la persona che amano. Nessuno vuole vedere soffrire un’altro, ma al tempo stesso la medicazione sedativa può compromettere la capacità del paziente di comunicare in quelli che possono essere momenti importanti. Questo può sollevare possibili questioni etiche che saranno approfondite nella sezione 2. Vi sono casi in cui i familiari o altri visitatori sono a disagio di fronte all’agitazione o all’evidente sofferenza della persona morente. Essi potrebbero chiedere che il paziente sia sedato in modo da alleviare la sofferenza di tutti. Tuttavia è importante tener conto dei desideri del paziente al riguardo e assicurarsi che i suoi bisogni e desideri non siano offuscati da quelli degli altri. Alcuni preferiscono restare più vigili, accettando una certa dose di sofferenza o altri sintomi pur di poter comunicare con i familiari o d’essere più consapevoli della loro presenza prima di morire. Possono anche desiderare di poter ascoltare una preghiera o Scrittura o di partecipare al rito religioso che può rafforzarle e consolarle nei loro ultimi giorni di vita. I principi delle cure palliative sottendono la maggior parte delle cure descritte in questa sezione. Ma può essere utile chiedere il sostegno di una cura palliativa specialistica in situazioni in cui il paziente ha sintomi complessi o è difficile trovare il giusto equilibrio fra i benefici e gli effetti collaterali della medicazione per l’alleviamento dei sintomi. La consulenza sulle cure palliative specialistiche è disponibile negli ospedali, case di cura, hospice e per i pazienti curati a domicilio. Alimentazione e idratazione Fornirla come cura basilare quando è possibile. I membri della famiglia o coloro che assistono i malati potrebbero sperimentare un particolare stato d’ansia di fronte alla cessazione o sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione. Possono ritenerlo prematuro, forse pensando che vi sono altre scelte terapeutiche che non sono state tentate o che dovrebbero essere coinvolti nelle discussioni su questo tema. È importante che le persone vicine al paziente abbiano l’opportunità di discutere le loro preoccupazioni in modo da comprendere le scelte realistiche disponibili per la persona morente. Questo tema verrà approfondito nella sezione 2. 484-496:REGDOC 17-2008.qxd 8-09-2010 16:41 Pagina 489 Fare domande sulla fede Chiedere ai pazienti/ai familiari se hanno un particolare credo religioso. Ricordare di chiedere al paziente o ai suoi familiari se hanno fede è il modo più ovvio per scoprire se vi sono bisogni religiosi o spirituali specifici che il cappellano potrebbe soddisfare. Quest’informazione viene abitualmente raccolta dai membri dell’équipe multidisciplinare e può essere poi trasmessa al cappellano. Questo assicura ulteriormente il paziente che professa una fede religiosa che le sue necessità sia fisiche sia spirituali occupano un posto centrale nella cura. D’altra parte, certe persone possono aver abbandonato la pratica della fede o nel corso di una lunga malattia possono aver «litigato» con Dio. Questo può causare sofferenza che può aggravare a sua volta lo stato mentale e fisico del paziente. A questo punto il desiderio di ritorno alla propria fede o di fare pace con Dio può essere la cosa più significativa nella vita di una persona. Ascoltare attentamente ciò che un paziente dice ed essere sensibili agli indizi che possono aprire la strada alla visita di un cappellano. Per i cristiani cattolici gli ultimi giorni e momenti della vita possono servire a preparare l’incontro con Dio e a essere pronti alla cura religioso-sacramentale offerta dal sacerdote. Anche il fatto di evitare la vecchia espressione «estrema unzione» e parlare di «unzione degli infermi» può contribuire a ridurre l’ansia. Santa comunione Prendere in considerazione l’offerta del sacramento della comunione. Per i pazienti cristiani essere in grado di ricevere la santa comunione dal cappellano può essere molto significativo. Quando non è possibile, sia a causa di problemi alla bocca sia per difficoltà di deglutizione o per la presenza dei sondini per l’alimentazione, si possono rassicurare il paziente e i suoi familiari che il semplice desiderio di ricevere la comunione costituisce una «comunione spirituale». Informare l’équipe dei cappellani Coinvolgere l’équipe dei cappellani il prima possibile. L’assicurarsi che un membro dell’équipe dei cappellani sia coinvolto tempestivamente nel momento dell’ammissione del paziente in ospedale permetterà di provvedere a una cura continuativa e al sostegno del paziente e dei propri familiari in quel difficile momento. Le équipe sono composte sempre più spesso da membri di diverse religioni permettendo così di rispondere alle necessità dei pazienti nel modo più appropriato ed efficace possibile. La cappellania è ben più di una risorsa last minute per i riti religiosi. Il cappellano, ordinato o laico, e le équipe dei cappellani possono aiutare a sostenere i pazienti, le famiglie e il personale sanitario quando il paziente giunge al termine della vita. Preghiera A volte i pazienti potrebbero chiedere al personale di pregare per loro. Pregare con i pazienti può essere un’area sensibile, ma se lo si fa correttamente non c’è motivo di evitarlo. Non dovrebbe esservi alcuna intenzione di convertire o di inculcare la propria fede nel paziente, ma se si sa che il paziente è una persona di preghiera, di fede, potrebbe essere di grande conforto e sostegno per lui il fatto che il personale, su richiesta sua o dei familiari, sia in grado di pregare insieme a loro o leggere loro un passo della Bibbia. Se il personale si sente insicuro sul comportamento da tenere in queste circostanze, dovrebbe discutere la cosa con il cappellano invece di supporre che questo sia un campo minato. Dovrebbe esservi la preoccupazione di offendere i pazienti a questo riguardo e così il loro bisogno non espresso potrebbe restare insoddisfatto. Donazione degli organi Le famiglie potrebbero aver bisogno del sostegno del cappellano se non sono sicure che la propria fede permetta la donazione degli organi. La fede cattolica accetta la donazione degli organi, ma le persone possono non saperlo, specialmente nel caso in cui non è chiaro se la persona deceduta aveva dato il proprio consenso o non aveva espresso alcun desiderio al riguardo quando era ancora in vita. Il cappellano può tranquillizzare i membri della famiglia su questo punto e anche essere semplicemente presente quando discutono della cosa con l’équipe della donazione degli organi. Cura della famiglia e degli amici Offrire una cura spirituale permanente. La cura dei familiari e degli amici non termina con la morte del paziente. Non è raro che le persone in lutto cerchino il sostegno spirituale e religioso dell’équipe dei cappellani. Il cappellano può anche organizzare una sostegno continuo nella comunità, assicurando che la parrocchia faccia visite pastorali alle famiglie e agli amici in lutto per farli sentire meno isolati nella loro perdita. Alcune parrocchie hanno anche gruppi di sostegno a lungo termine alle persone in lutto. In alternativa, l’équipe dei cappellani è sempre disponibile all’ospedale per prendersi cura in maniera continuativa delle persone che chiedono questo aiuto. 2. Questioni etiche nella cura alla fine della vita 1. Rispettare la vita e accettare la morte Occorre tener presenti due cose nella cura alla fine della vita: rispettare la vita e accettare la morte. Rispettare la vita significa che ogni persona è tenuta in considerazione finché vive. Questo implica che lo scopo della nostra azione o della nostra rinuncia all’azione non può essere mai la morte. Non dobbiamo mai cercare di procurare o di affrettare la morte. D’altra parte, accettare la morte significa che dobbiamo preparare adeguatamente la persona a essa. Questo implica che non dobbiamo mai negare la realtà della situazione o sfuggire all’inevitabile ricorrendo a ogni possibile trattamento. 2. Quali questioni etiche possono insorgere nella cura delle persone che si avvicinano alla morte? Nella cura delle persone che si avvicinano alla morte possono insorgere questioni etiche. In ogni cura medica la IL REGNO - DOCUMENTI 15/2010 489 484-496:REGDOC 17-2008.qxd 8-09-2010 16:41 Pagina 490 C hiese nel mondo norma etica più importante è il rispetto del paziente. Rispettare il paziente significa rispettare il bene della vita del paziente, per quanto lunga o breve possa essere. Implica anche il coinvolgimento del paziente nella discussione e nelle decisioni sulla cura e sui trattamenti. Nella misura del possibile queste decisioni devono essere conformi ai desideri, valori e alla fede del paziente. Quando sono noti, è utile menzionarli nel piano di cura generale o come componenti di un piano di cura avanzato. Le decisioni relative al trattamento o alla cura non devono essere prese per conto di un paziente competente senza il suo consenso. A causa della loro relazione con il paziente, è importante includere anche i familiari stretti o coloro che se ne prendono cura nelle discussioni e decisioni importanti, a meno che il paziente non desideri il loro coinvolgimento. Questo è particolarmente importante nel caso in cui il paziente non sia più in grado di decidere personalmente. In certi casi possono esservi visioni diverse o conflitti fra il paziente e i familiari, che danno luogo a un dilemma etico sul modo di soddisfare i rispettivi desideri. Il personale medico ha la responsabilità professionale di considerare il paziente come propria preoccupazione primaria e può aver bisogno di trovare altri modi per sostenere la famiglia, eventualmente attraverso la cura o la consulenza spirituale. Quando il paziente si avvicina alla morte, è sempre meno probabile che risponda ai molti interventi medici. Perciò è importante assicurarsi che le decisioni relative al trattamento, comprese quelle di sospendere il trattamento, siano basate su un’accurata diagnosi della causa del peggioramento e su una regolare nuova valutazione della situazione, perché non è etico gravare il paziente con un trattamento inutile. In questa situazione, le priorità della cura diventano il mantenimento di un buon controllo dei sintomi e l’assicurazione di cure palliative. Altre questioni etiche che possono insorgere nella cura della fine della vita riguardano l’uso dell’alimentazione e idratazione clinicamente assistita e il ricorso alla medicazione con effetti sedativi, compresi gli analgesici. 3. È giusto talora sospendere o negare un trattamento che potrebbe prolungare la vita? Può esserlo. Pur avendo il dovere di prendersi cura della propria salute, le persone non hanno il dovere di prolungare all’infinito la propria vita. Dopo tutto, la morte è inevitabile. Perciò anche gli operatori sanitari non hanno il dovere di mantenere in vita le persone in qualsiasi situazione. Con l’avvicinarsi della morte, un trattamento che potrebbe prolungare brevemente la vita potrebbe causare una sofferenza tale da indurre il paziente a considerarlo eccessivamente gravoso. D’altra parte, non è mai accettabile sospendere un trattamento allo scopo di affrettare la morte. Se il trattamento può avere qualche limitato beneficio in termini di prolungamento della vita o di controllo dei sintomi, il paziente può ancora volerlo. Anche le decisioni relative a un beneficio marginale possono essere molto importanti per certi pazienti. Perciò la buona comunicazione e sensibilità sono essenziali per prendere correttamente queste decisioni. 490 IL REGNO - DOCUMENTI 15/2010 4. Che cosa insegna la Chiesa cattolica in materia di sospensione del trattamento? La Chiesa cattolica riconosce che il trattamento può essere ragionevolmente sospeso se è eccessivamente gravoso rispetto ai benefici sperati. Il Catechismo della Chiesa cattolica afferma chiaramente che le decisioni in merito alla sospensione del trattamento devono essere prese in genere dal paziente o, qualora non ne sia capace, da qualcuno che ha il potere legale di agire per conto suo. «L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’“accanimento terapeutico”. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente» (n. 2278). 5. C’è differenza fra decidere di non accettare un trattamento e interrompere un trattamento già iniziato? Fra decidere di non accettare un trattamento e decidere di interrompere un trattamento già iniziato c’è almeno una differenza psicologica. Può risultare emotivamente più difficile interrompere qualcosa che decidere di non iniziarla. Tuttavia, non possiamo sempre sapere se un trattamento funziona finché non lo sperimentiamo. Non dobbiamo scoraggiare le persone dall’iniziare un trattamento semplicemente per evitare l’ansia causata dalla sua eventuale successiva sospensione. Può essere invece più utile, e una buona prassi clinica, discutere prima le circostanze nelle quali si sospenderà un determinato trattamento o intervento. 6. Si devono fornire sempre l’alimentazione e l’idratazione per via orale? Anche se il bisogno di alimentazione e idratazione diminuisce negli ultimi giorni di vita, non si deve trascurare il significato umano del mangiare e del bere, perché può far parte della cura del bisogno spirituale del paziente. Per molte persone offrire o condividere il cibo e la bevanda è un segno di cura e d’affetto. Tutti i pazienti hanno diritto a mangiare e a bere in quantità e qualità adeguate e all’aiuto di cui hanno bisogno per mangiare e bere. A volte i pazienti ricevono un’insufficiente alimentazione e idratazione orali a causa di una cura inadeguata e della mancanza di attenzione ai loro bisogni. Questo è chiaramente inaccettabile. Se vi sono dei rischi, perché il paziente ha difficoltà a deglutire, devono essere spiegati. La decisione di passare o meno dall’alimentazione e idratazione per via orale a quella clinicamente assistita (per esempio, con un sondino) deve essere presa valutando realisticamente rischi e benefici. Questo giudizio sarà influenzato dallo stadio della malattia del paziente e dalla sua vicinanza alla morte. 484-496:REGDOC 17-2008.qxd 8-09-2010 16:41 Pagina 491 7. L’alimentazione e idratazione clinicamente assistita è una forma di trattamento medico? L’alimentazione e idratazione clinicamente assistita, detta a volte «alimentazione e idratazione artificiale» o «alimentazione e idratazione con mezzi artificiali» indica la somministrazione di cibo e liquidi mediante un sondino. Non riguarda l’aiuto offerto alla persona per mangiare o bere per via orale, ad esempio imboccandola. È sbagliato considerare l’alimentazione e idratazione clinicamente assistita un trattamento medico, se con questo si vuole intendere che essa ha lo stesso status umano ed etico degli altri interventi medici. È vero che l’alimentazione e idratazione clinicamente assistita scavalca i meccanismi naturali del mangiare e del bere e richiede un monitoraggio clinico. Certe persone considereranno il significato dell’alimentazione e idratazione clinicamente assistita come un intervento clinico, principalmente a causa dell’inserimento e del mantenimento di flebo o di sondini per l’alimentazione. Ciononostante, la somministrazione di acqua e cibo, anche se fatta mediante sondino, è un mezzo naturale di conservazione della vita. Alimentare la persona o placare la sua sete è un’espressione fondamentale di solidarietà e di cura. Perciò l’alimentazione e l’idratazione, anche clinicamente assistite, devono essere intese come elementi di cura che devono essere assicurati finché sono necessari ed efficaci. 8. Che cosa insegna la Chiesa cattolica sull’alimentazione e idratazione clinicamente assistita? Giovanni Paolo II ha affermato chiaramente che la Chiesa cattolica considera l’alimentazione e l’idratazione un mezzo naturale per preservare la vita, anche quando sono fornite per «vie artificiali». «In particolare, vorrei sottolineare come la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenti sempre un mezzo naturale di conservazione della vita, non un atto medico. Il suo uso pertanto sarà da considerarsi, in linea di principio, ordinario e proporzionato, e come tale moralmente obbligatorio, nella misura in cui e fino a quando esso dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che nella fattispecie consiste nel procurare nutrimento al paziente e lenimento delle sofferenze. L’obbligo di non far mancare “le cure normali dovute all’ammalato in simili casi” comprende infatti anche l’impiego dell’alimentazione e idratazione» (GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti al congresso internazionale «Trattamenti a sostegno della vita e stato vegetativo», 20.3.2004; Regno-doc. 11,2004,364-365). 9. È giusto talora sospendere l’alimentazione e idratazione clinicamente assistita? L’alimentazione e l’idratazione clinicamente assistita deve essere generalmente fornita quando questo è il modo migliore di soddisfare i bisogni nutrizionali; ma può non essere più indicata negli ultimi giorni di vita quando l’alimentazione avrebbe un effetto minimo o nullo sulla conservazione della vita o anche prima in certe condizioni, come la demenza, quando si osserva, nonostante l’alimentazione e idratazione clinicamente assistita, una continua perdita di peso come componente degli ultimi stadi della malattia. Normalmente non dovrebbe esservi una regola generale pro o contro l’alimentazione e idratazione clinicamente assistita. Si dovrebbe invece giudicare ogni caso in base alle necessità del singolo paziente, valutando separatamente alimentazione e idratazione. I vantaggi e gli svantaggi varieranno in base al tipo di alimentazione e idratazione clinicamente assistita e alle condizioni del paziente. Le decisioni in materia di ricorso o rinuncia all’alimentazione e idratazione clinicamente assistita devono essere trattate con una particolare sensibilità, prendendo in considerazione bisogni, desideri e valori del paziente. La decisione della sospensione dell’alimentazione e idratazione clinicamente assistita non deve essere mai motivata dal desiderio di abbreviare la vita della persona. 10. Come vanno risolti i conflitti sull’alimentazione e idratazione clinicamente assistita? Nel Regno Unito, un paziente competente ha diritto per legge di rifiutare un trattamento medico e l’alimentazione e idratazione clinicamente assistita è considerata un trattamento medico per questo scopo. Ciò può causare conflitti di coscienza nell’operatore sanitario nel caso in cui un paziente non sia morente, ma dipenda dall’alimentazione e idratazione clinicamente assistita quanto ai propri bisogni nutrizionali. Comunque, se un paziente competente ha rifiutato l’alimentazione e idratazione clinicamente assistita ed è impossibile convincerlo dei suoi benefici, l’operatore sanitario non è colpevole di negligenza per i danni derivanti dalla mancata alimentazione e idratazione. Questo perché, in realtà, la legge sottrae alla responsabilità professionale del medico questo aspetto della cura della persona. Può insorgere un conflitto anche quando un paziente o un parente desidera che l’équipe medica fornisca l’alimentazione e idratazione clinicamente assistita, ma quest’ultima pensa che non sarebbe efficace. È importante riconoscere il significato psicologico e spirituale del cibo e dei liquidi per il paziente e per i suoi parenti, perché spesso il cibo e la bevanda rappresentano la vita, il conforto, la speranza e l’evitare la sofferenza. In queste circostanze non aiuta impostare la discussione in termini di diritto o potere dei medici di rifiutare un trattamento medico che non ritengono indicato e classificare l’alimentazione e idratazione clinicamente assistita come «trattamento medico». Questo approccio non serve ad alleviare la preoccupazione e può anzi infiammare la situazione. Occorre invece una grande sensibilità per le preoccupazioni del paziente o dei suoi familiari, e apertura e disponibilità a discutere le ragioni della decisione. IL REGNO - DOCUMENTI 15/2010 491 484-496:REGDOC 17-2008.qxd 8-09-2010 16:41 Pagina 492 C hiese nel mondo Il primo passo deve essere l’onesta valutazione di vantaggi e svantaggi dei diversi tipi di alimentazione e idratazione clinicamente assistita e una chiara comunicazione degli stessi. Il paziente o i familiari possono sopravvalutare i benefici dell’alimentazione e idratazione clinicamente assistita per il prolungamento della vita o per l’alleviamento dei sintomi. È altresì possibile che l’équipe medica sottovaluti i vantaggi o sopravvaluti gli svantaggi dell’idratazione. Se è probabile che l’alimentazione e idratazione clinicamente assistita (e soprattutto l’idratazione) fornisca qualche beneficio marginale ed è improbabile che faccia male, e se è relativamente facile fornirla nel contesto della cura (ad esempio, liquidi per via sottocutanea) ed è fortemente desiderata dal paziente, l’alimentazione e idratazione clinicamente assistita dovrebbe essere presa in considerazione, perlomeno per il tempo necessario a valutarne i benefici relativi. Può insorgere una preoccupazione particolare se il paziente o i familiari non vogliono credere che egli o ella stia morendo e temono che la rinuncia all’alimentazione e idratazione clinicamente assistita renda la prognosi una profezia che si autoavvera. Questo può essere un riflesso dell’indisponibilità ad affrontare la realtà, ma può essere anche un’autentica preoccupazione di una diagnosi sbagliata, perché le diagnosi di morte imminente possono essere problematiche. L’équipe medica dovrebbe accertarsi della diagnosi e valutare nuovamente la situazione. Il paziente o i familiari possono anche desiderare di avere anche un altro parere e l’équipe medica dovrebbe essere disponibile a questo, perché a volte capita che la diagnosi sia sbagliata. In questa situazione, in genere si dovrebbe fornire l’idratazione clinicamente assistita, mentre si riesamina il caso. 11. È giusto fornire un trattamento che potrebbe abbreviare la vita? È sempre inaccettabile fornire un trattamento che miri ad affrettare la morte. Tuttavia molti trattamenti hanno effetti collaterali e a volte è ragionevole accettare il rischio di abbreviare la vita per raggiungere un qualche altro scopo, come ad esempio lenire adeguatamente i sintomi. Quest’accettazione di effetti collaterali indesiderati viene a volte denominata principio del doppio effetto. Si è spesso citata come esempio del «doppio effetto» la somministrazione di analgesici verso la fine della vita. Ma ora noi sappiamo che questo è fuorviante. Benché molti pazienti e persino operatori sanitari abbiano l’impressione che un’analgesia efficace affretti la morte, è provato che l’uso di analgesici verso la fine della vita non la abbrevia se sono prescritti e usati in modo appropriato e secondo la migliore prassi corrente. Perciò, in realtà, la paura che gli analgesici possano affrettare la morte conduce a un falso dilemma. Là dove esiste una tale paura, gli operatori sanitari dovrebbero mettere in chiaro che i loro interventi non affrettano la morte e lo dovrebbero comunicare efficacemente ai pazienti e ai loro familiari. Se esiste una preoccupazione riguardo al raggiungimento di un equilibrio fra lenimento dei sintomi e potenziali 492 IL REGNO - DOCUMENTI 15/2010 effetti collaterali, i servizi di cure palliative forniscono consulenza in materia di uso efficace e sicuro dell’analgesia e di altre medicine che leniscono i sintomi. 12. È giusto sedare le persone alla fine della vita? Un insufficiente trattamento del dolore o dell’angoscia può provocare una notevole sofferenza fisica, psicologica e spirituale. Tuttavia, un trattamento eccessivo o un trattamento inadatto possono precipitare le persone in uno stato di incoscienza o di semicoscienza anche quando non è necessario per un efficace lenimento dei sintomi. Questo potrebbe privare le persone dell’opportunità di fare una buona morte, mettere ordine per quanto possibile nelle loro cose, fare pace, congedarsi dai loro parenti e amici. Un elemento importante nella cura dei morenti è assicurare loro lo spazio necessario per rendersi conto della loro vita e prepararsi alla morte. Questo è particolarmente vero se, come credono i cristiani, la morte non è solo la fine della vita terrena, ma anche un momento di giudizio e di passaggio alla vita eterna o all’esclusione eterna dalla vita. Da un punto di vista cristiano l’avvicinarsi della morte è un tempo di speciale necessità spirituale. Le cure palliative cercano d’alleviare i sintomi del dolore angosciante mediante l’uso di medicine, compresi i sedativi. In alcune situazioni la sedazione può essere appropriata per l’alleviamento di sintomi intrattabili o angoscianti che non possono essere alleviati con altri mezzi. Tuttavia, è buona pratica per le cure palliative introdurre la sedazione solo quando è necessario, aumentando la dose gradualmente in modo che il livello della sedazione sia unicamente quello richiesto per l’alleviamento dei sintomi. Questo porterà molto raramente a una sedazione profonda immediata. Quando è possibile, il paziente deve essere coinvolto nella propria pianificazione di cura e di trattamento in modo che essi possano influenzare il livello dell’effetto sedativo desiderabile per l’alleviamento dei propri sintomi. 13. Che cosa insegna la Chiesa cattolica sull’uso degli analgesici e dei sedativi verso la fine della vita? La Dichiarazione sull’eutanasia della Congregazione per la dottrina della fede presenta l’insegnamento cattolico sull’analgesia. Essa permette l’uso dell’analgesia anche se dovesse abbreviare la vita (anche se, in realtà, è provato che la vita non viene abbreviata dall’uso appropriato dell’analgesia). E la Chiesa cattolica non vieta neppure i sedativi che provocano incoscienza. Ma l’uso della sedazione richiede una «seria motivazione», a causa della necessità di prepararsi spiritualmente alla morte. «La prudenza umana e cristiana suggerisce per la maggior parte degli ammalati l’uso di medicinali che siano atti a lenire o a sopprimere il dolore, anche se ne possono derivare come effetti secondari torpore e minore lucidità. Quanto a coloro che non sono in grado di esprimersi, si potrà ragionevolmente presumere che desiderino prendere tali calmanti e somministrarli loro secondo i consigli del medico… 484-496:REGDOC 17-2008.qxd 8-09-2010 16:41 Pagina 493 La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici… è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente (anche all’avvicinarsi della morte e si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita)… In questo caso, infatti, è chiaro che la morte non è voluta o ricercata in alcun modo, benché se ne corra il rischio per una ragionevole causa: si intende semplicemente lenire il dolore in maniera efficace, usando allo scopo quegli analgesici di cui la medicina dispone. Gli analgesici che producono negli ammalati la perdita della coscienza meritano invece una particolare attenzione. È molto importante, infatti, che gli uomini non solo possano soddisfare ai loro doveri morali e alle loro obbligazioni familiari, ma anche e soprattutto che possano prepararsi con piena coscienza all’incontro con Cristo. Perciò Pio XII ammonisce che “non è lecito privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo”» (CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, dich. L’eutanasia, 5.5.1980; EV 7/360ss). 3. Rispettare il mistero del morire Vi sono molti modi di pensare la morte e vi sono molti modi di trattarla come evento. Possono avere un carattere medico, psicologico, filosofico e religioso. In questa sezione l’approccio comprende alcuni di questi modi, ma cerca di esplorare qualcosa della realtà e del significato della morte sotto la prospettiva del «mistero». Vedendola in questo modo non la rendiamo oscura, ma cominciamo a riconoscere che si tratta di un avvenimento che rivela qualcosa su noi stessi, le nostre relazioni e la nostra storia, più e meglio di quanto possa avvenire attraverso qualsiasi altra categoria. Essa ci permette di comprendere un po’ la profondità dell’essere umano. La prospettiva del mistero ci colloca anche in una relazione diversa con ciò che accade. Molto spesso sul piano professionale ci viene chiesto di essere oggettivi, di distanziarci dal processo o avvenimento immediato, per far sì che il nostro giudizio rimanga chiaro e distaccato da qualsiasi pressione o contaminazione emotiva. Naturalmente c’è in questo qualcosa di saggio, ma quando si tratta di comprendere il processo del morire in termini di «mistero» scopriamo che non possiamo restare al di fuori di esso come se si trattasse di risolvere un qualche problema logico o fisico. Senza perdere nulla del giudizio o della competenza professionali, vedendo la morte e il morire in termini di mistero comprendiamo che siamo in qualche modo parte dell’intero evento. Il «mistero» non è qualcosa che ci permette di restare a distanza; sia che siamo coinvolti nella cura, sia nell’offrire un sostegno attraverso la nostra presenza, questo è un evento che ci tocca, perché al cuore di esso c’è la natura mutevole di tutte le nostre relazioni. Il «mistero» ci offre un contesto molto più pieno per l’esplorazione dei molti diversi aspetti della realtà della cura, che in quel momento è necessaria nella vita della persona. Ci permette di iniziare a esplorare qualcosa della sua natura spirituale. «Mistero» non significa che smettiamo di pensare, riflet- tere, agire e cercare di comprendere l’esperienza alla quale partecipiamo. Significa che c’è qualcosa di talmente ricco di significato da non poterlo mai esaurire. Fra tutti gli altri modi di pensare, educare, agire e in mezzo a tutte le decisioni che si devono prendere, spesso sotto pressione, il «mistero» mantiene aperto uno spazio che lascia entrare qualcosa di più grande e più profondo. Esso ci permette di prendere tempo per riflettere sul significato di questo momento per la persona, per coloro che la assistono, per tutti noi. Ci ricorda che non dobbiamo minimizzare il significato della morte. Se lo facciamo, perdiamo qualcosa della profondità della vita. 1. Lo choc della morte Il fatto della morte è molto diverso dalla realtà. Il fatto è un dato; possiamo cercare di ritardarlo o negarlo, ma non possiamo evitarlo. Comunque il quando, il come e le circostanze in cui la morte avviene creano un momento profondamente personale, che appartiene a ciascuno in modo esclusivo e irripetibile. Ogni essere vivente deve morire ma, nonostante questa realtà comune, è sempre la mia morte. La morte non è qualcosa con cui possiamo familiarizzare. Anche se è imminente e attesa, quando avviene ha il carattere di uno choc. C’è una strana interruzione del flusso del tempo e dell’abituale attività quotidiana. Questa cesura è lo choc della finalità, un’assolutezza che né la nostra esperienza di vita né la nostra immaginazione hanno mai incontrato realmente prima. È il momento in cui giungiamo a un confine, al di là del quale non riusciamo a vedere; il punto oltre il quale non possiamo viaggiare. In quel momento la nostra vita – ogni vita – sembra contemporaneamente più piccola e più fragile di quanto pensavamo e più ampia ed enigmatica di quanto possiamo immaginare. Gran parte del nostro pensare e trattare la morte è governata dalla paura e dalla compassione. Non sorprende quindi che sviluppiamo delle difese per affrontare questo momento. La nostra cultura, che così spesso ci presenta la finzione della morte nei film e alla televisione, collude anche paradossalmente con le nostre difese, spingendo fisicamente e psicologicamente la realtà della morte ai margini. Nel momento della morte, nel piccolo spazio fra l’ondata delle emozioni e dei ricordi, del sollievo o della rabbia, prima che veniamo sopraffatti dalle procedure o cadiamo nel torpore, c’è un momento di silenzio. Per quanto breve possa essere, in quel silenzio noi riconosciamo qualcosa di intangibile. Non abbiamo parole per parlarne. Per un momento tutto sembra sospeso e toccato da una tranquilla solennità o persino riverenza. A volte questo accade nel momento stesso della morte, a volte in seguito, nel ricordo. Anche nelle morti improvvise o violente si può scoprire la traccia di quello spazio silenzioso. Esso contiene una conoscenza familiare e ora al tempo stesso stranamente nuova: la morte rivela il valore della vita – una vita, una persona, indipendentemente dalla sua condizione o posizione sociale. Illumina e manifesta la sua propria forte verità senza mai esaurire il significato di una vita o svelarne tutti i segreti. IL REGNO - DOCUMENTI 15/2010 493 484-496:REGDOC 17-2008.qxd 8-09-2010 16:41 Pagina 494 C hiese nel mondo 2. La morte e le nostre domande più profonde Se vediamo la morte solo come un insuccesso medico, allora non comprendiamo che il vero dono della medicina non è il fatto di essere semplicemente una scienza, ma una sapienza: come vivere la vita in quella pienezza di cui la morte è parte. Questo richiede la comprensione della totalità della persona e della totalità di una vita. Quando la vera cura lo comprende, trova il tempo per la realtà sfaccettata del morire. Donare tempo è la risorsa più preziosa di tutte. Se conosciamo la limitatezza del tempo di cui disponiamo, abbiamo bisogno di coraggio e generosità di spirito per essere più liberali con esso. Nel processo del morire ognuno – la persona che muore e le persone che la assistono – sarà toccato in qualche modo dalle domande più profonde della vita. Che cosa significa? La morte è il momento in cui le nostre esistenze finiscono nel nulla o la morte è il passaggio a qualcosa che non conosciamo? Abbiamo bisogno sia di capacità sia di coraggio per onorare e rispettare queste domande quando sorgono. Spesso non troveremo una risposta che eguagli la loro semplicità e profondità, ma la cura della persona che muore nonché di coloro che condividono il loro tempo con essa consiste spesso nell’assicurare una presenza piuttosto che nella certezza dell’argomentazione. Chiunque siamo – la persona che muore, un familiare, un amico, l’operatore sanitario – la morte esige da tutti noi umiltà. 3. Piangere la propria morte Si sono fatte molte ricerche ed esperienze altamente positive sul processo del lutto e sugli aiuti che si possono offrire alle persone in lutto per l’elaborazione della perdita. Ma a volte dimentichiamo che anche la persona che muore è in lutto. L’imminenza della morte suscita una complessa varietà di emozioni, pensieri e bisogni. Proprio per questo la gestione del dolore riveste un’importanza fondamentale. Il controllo dei sintomi certamente può offrire alla persona che muore il tempo, l’energia e la libertà di affrontare le questioni e le relazioni che devono essere affrontate. Il processo del morire non solo rende reale la morte, ma cambia anche le mie relazioni, specialmente la mia relazione con me stesso e con la mia vita. Improvvisamente posso sentirmi solo e angosciato. Vorrei essere tranquillo, generoso e controllato, ma sotto molti aspetti so di non esserlo e di non poterlo essere. La sofferenza e la confusione non colpisce solo il mio corpo, ma anche la mia anima e la mia vita interiore. Può darsi che io scelga la negazione; posso voler affermare me stesso e «rabbia, rabbia contro il morire della luce» (D. THOMAS, «Do Not Go Gently into that Good Night», in The Poems of Dylan Thomas, New Directions, New York 2003); posso scivolare in una passività generata dalla mancanza di speranza e dalla disperazione. Il processo del morire e l’imminenza della morte non eliminano necessariamente l’originario grande impulso di vivere. A un certo punto, se ho il tempo e lo spazio, devo impa- 494 IL REGNO - DOCUMENTI 15/2010 rare a dire i miei arrivederci. Oltre che gli arrivederci alle persone e ai luoghi, c’è l’arrivederci a sé, al me stesso che sono stato, al me stesso che volevo essere; devo fare il lutto di questi «me stesso» e di queste «vite». Vi sono anche i volti, le esperienze, i momenti che si presentano alla mia mente spontaneamente e a volte dolorosamente, opportuni o importuni. Vi sono le relazioni che hanno costruito la mia vita, i fili di cui è intessuta la «mia» storia. Devo anche rinegoziare la mia relazione con il mio corpo; comprenderla in modo nuovo, comprendere le sue richieste, i suoi limiti e la sua grazia in questo momento assolutamente unico e irripetibile. Qualunque sia stato il mio atteggiamento nei riguardi del mio corpo in passato, ora so che non può essere più ignorato o dato per scontato. Il processo del morire può essere un tempo nel quale, per scelta o costrizione del momento, non posso più mantenere un atto o pretesa. Le illusioni – positive e negative – si dissolvono e io sono lasciato con una verità, una realtà che non posso controllare; un’esperienza che posso comprendere a fatica. Vi sono i rimpianti come anche le realizzazioni, piccole cose che significano qualcosa solo per me. A volte su questa soglia della morte possiamo scoprire una libertà, che abbiamo negato o alla quale abbiamo opposto resistenza in altri tempi, di dire cose che devono essere dette o di ripristinare situazioni che erano andate perdute o si erano spezzate. In questo luogo non familiare del morire, le cose familiari possono confortarmi. Hanno fatto parte della «mia casa»; assumono un valore simbolico perché sono permeate di ricordi e sentimenti. Questo è vero anche per il ritmo naturale delle stagioni. Inverno, primavera, estate e autunno: quante stagioni ho vissuto? Esse sono il solido naturale cantus firmus (la voce o melodia costante che sottende tutta la polifonia e ne costituisce la base) dell’improvvisazione della mia vita. Questo tempo prezioso del lutto può essere anche un tempo di nuova creatività; un tempo di riparazione nel quale la mia vita continua a dare vita, specialmente a coloro che amo e dei quali mi curo – figli, figlie, partner, nipoti, amici –; non vi sono limiti alle relazioni che costituiscono una vita umana. Persino la mia relazione con le cose materiali diventa importante. Come abbiamo bisogno di tempo per costruire una vita e abitare un mondo, per farne la nostra casa, così abbiamo bisogno di tempo e sostegno per lasciarlo. In questo momento spesso riusciamo a vedere e a comprendere questo in modi che prima non sarebbero stati possibili, e ciò può donare maggiore intensità o riconciliazione. Oltre alla sofferenza della perdita può esservi anche un senso di gratitudine. E così mi trovo in questo movimento di riunione e trasmissione; trattenere e lasciar andare finché giunge il momento in cui sono pronto. 4. Il dono dell’essere presente Non esiste alcun copione su come si debba morire o lo si faccia. Nel migliore dei casi la comprensione è sempre 484-496:REGDOC 17-2008.qxd 8-09-2010 16:41 Pagina 495 esitante, perché in questa nuova relazione non so chi sono né che cosa posso diventare. Posso rimanere sorpreso sia della mia serenità sia del mio panico. Morendo sono profondamente vulnerabile proprio perché questa è la mia esperienza, un’esperienza che nessuno può fare al posto mio. Quando la medicina lo comprende, può usare tutte le sue risorse per creare le condizioni migliori per sostenere la persona. Ma la risorsa più importante di tutte è la presenza attenta e sollecita. Non è facile essere vicino a una persona in questo processo. Anche se ci armiamo di capacità professionale, l’umano in noi resta vulnerabile. Ma quelli che sono necessari sono precisamente doni sia umani sia professionali. La capacità consiste non tanto nell’avere risposte, quanto nell’essere capaci di ascoltare ed essere presenti con grande attenzione, e così cercare di creare una relazione di fiducia e generosità. In questa cura attenta e sollecita io posso anche creare uno spazio e un tempo per accogliere con rispetto delle confidenze, per aiutare a reggere paure e dubbi, per rassicurare una vita che viene riconosciuta e apprezzata a prescindere dalla sua apparenza esteriore. In questo momento il dono più prezioso non è semplicemente il dono professionale di una cura competente, ma il dono umano del volersi prendere cura. Chi cura ha bisogno di risorse sia personali sia professionali per farlo. 5. Sul lutto di parenti e amici Ciò che si è detto sull’esperienza del morire vale anche per i parenti e gli amici. Le nostre vite sono un delicato tessuto di relazioni nelle quali si conserva e forma la nostra identità. Quest’interrelazione diventa ancora più significativa quando la persona che conosciamo e di cui ci prendiamo cura passa attraverso l’esperienza della morte. Uno dei maggiori servizi che possono essere offerti in questa situazione è un’informazione accurata e simpatetica. Davanti a una persona che sta morendo abbiamo un doppio bisogno: conoscere ciò che sta accadendo a essa e conoscere ciò che sta accadendo a noi stessi. Questa conoscenza è fondamentale per aiutarci ad adeguare i momenti che passiamo accanto alla persona morente e scandagliare le risposte più appropriate. È importante conoscere il processo fisico del morire, ma è altrettanto importante conoscere e comprendere almeno un po’ anche la dimensione emotiva, psicologica e spirituale. Spesso gli operatori sanitari possono aiutare i familiari o gli amici a essere presenti in un modo più naturale, a riconoscere la paura, la rabbia, la confusione e la sofferenza che loro stessi provano e non possono esternare. Spesso l’operatore sanitario può anche permettere le risposte più naturali – il contatto fisico, parlare, cantare e condividere – che sono molto consolanti sia per la persona morente (anche se può non esserne «cosciente») sia per i familiari e gli amici. Questo crea quell’altra qualità dello spazio, nella quale è permesso non essere competenti ed efficienti o avere il pieno controllo della situazione; nella quale è possibile essere sopraffatti, incapaci di esprimersi e confusi. Queste risposte non sono sconfitte; sono la misura dell’a- more e della cura che abbiamo e dell’immensità dell’evento al quale assistiamo e nel quale siamo coinvolti. Di fronte alla morte dobbiamo imparare un nuovo modo di essere: non aver paura della passività e del senso d’impotenza, ma accettare il fatto che a un certo punto il «fare» finisce e ciò che serve maggiormente è essere presenti; fare del nostro meglio per comprendere, prenderci cura, amare, aspettare e accettare la sofferenza oppure il sollievo di levare gli ormeggi. Il rispetto per il corpo della persona morta riveste un’importanza vitale per tutte le persone coinvolte. Non è solo una delle ultime cose che possiamo fare per chi è morto, ma diventa un semplice atto che compendia tutti i nostri valori, sia che siamo parenti, amici o personale sanitario. Nella riverenza e nella cura del corpo, indipendentemente dal fatto che abbiamo una fede o meno, noi compiamo un atto profondamente umano e umanizzante, che fa parte della liturgia naturale della vita umana e che conferisce dignità non solo alla persona morta ma a tutti noi. 6. Le risorse della fede religiosa La morte e il processo del morire richiedono tutte le nostre risorse: cliniche, professionali, umane e spirituali. Dobbiamo affrontare questo momento senza pregiudizi. Spesso le persone che non hanno fede scoprono di essere aperte a essa in modo inaspettato. Allo stesso tempo, le persone che hanno vissuto con una forte convinzione di fede possono scoprire che essa le abbandona. Proprio per questo la comunità è fondamentale, sia essa la comunità religiosa o la comunità umana di coloro che si sono presi cura della persona deceduta e che si forma in quel momento. Le diverse religioni affrontano la morte e la sua comprensione in modi diversi. Tutte hanno un loro modo di collocarla in un quadro di credenze e di significati. Tutte hanno un loro modo di raccontarla e trasporla in simboli e riti, inserendola così in una storia più grande di vita presente e di vita futura. Anche se noi non comprendiamo quella struttura di credenze e i suoi simboli, o anche se siamo atei o agnostici al riguardo, ogni persona ha diritto alla propria fede e alla propria comunità non solo nel momento della morte, ma specialmente nel tempo che la precede. Per molte fedi la morte non è la fine né della persona morta né della relazione che essa ha con la propria famiglia, gli amici o la propria comunità. Spesso vi sono liturgie per ricordare, celebrare e pregare tutto questo, specialmente quando si crede che la vita e la comunità continuino al di là della morte. Ogni persona ha diritto che la sua fede sia riconosciuta, assistita e trattata con rispetto. Allo stesso modo, anche se la persona morente non ha avuto una fede esplicita prima di quel momento, può decidere di volerla esplorare e trarre qualche consolazione e forza dalla sapienza delle grandi comunità di fede. Ancora una volta, una buona cura della fine della vita comprenderà questo aspetto e, ritenendolo altrettanto importante al desiderio di mettere a disposizione del paziente le varie strategie mediche, ci terrà anche a mettere a disposizione risorse spirituali e religiose. Per questo è importante che il personale sanitario abbia una qualche comprensione delle specifiche credenze e prati- IL REGNO - DOCUMENTI 15/2010 495 484-496:REGDOC 17-2008.qxd 8-09-2010 16:41 Pagina 496 C hiese nel mondo che spirituali delle persone che ha in cura, come è importante che sia in grado di fare appello a persone esperte in campo religioso per essere affiancato nella cura del morente e dei suoi familiari e amici. 7. La morte in una prospettiva cristiana La fede cristiana affronta la morte con una comprensione e speranza assolutamente uniche. Vede in essa un momento di verità, il momento in cui dobbiamo accettare la realtà della nostra vita, le sue relazioni e le sue azioni; ma trova in essa anche un’infinita garanzia di amore e comprensione. Questo perché la fede cristiana vede la morte come l’atto che svela la verità fondamentale della nostra esistenza: il fatto che ogni persona umana è creata per Dio e da Dio. Lì, nell’ultimo momento della nostra vita, noi conosciamo tutto questo ed è proprio in quel momento, nel momento in cui siamo più vulnerabili, che Dio si è posto con misericordia e amore. Lo ha fatto attraverso il suo Figlio, Gesù Cristo, che affronta personalmente questa realtà della morte – della nostra morte – sulla croce. E questo momento, che potrebbe essere un momento di totale svuotamento e disperazione, viene cambiato per sempre dalla risurrezione di Cristo. Qui c’è il dono della vita, e non semplicemente la vita così come è stata, ma come sarà: una pienezza inimmaginabile, un compimento di tutto ciò che siamo, una partecipazione alla vita divina di Dio che è l’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. È una vita d’inestimabile valore e poiché è la vita di Dio stesso che è amore, sarà una vita formata da tutte le nostre relazioni d’amore. La vita risorta è una vita incarnata, ma una vita nella quale la stessa materia è trasformata in modo da poter accogliere la pienezza della vita eterna. Ogni cristiano vive in questa verità e in questa speranza. Nella Chiesa cattolica essa viene celebrata ogni giorno nell’eucaristia e nella vita sacramentale della comunità. Intesa in questo modo, nessuno affronta la morte da solo, ma ciascuno incontra in quel momento Cristo e la sua Chiesa – questa grande comunità di fede. Spesso nel momento della morte e attraverso il processo del morire la persona e coloro che le sono accanto sentiranno la presenza e la consolazione di questa comunità, visibile e invisibile. Anche nel loro dubbio, confusione o disperazione, nel loro silenzio o nella loro lotta, la comunità è presente. Una comunità non limitata al tempo, allo spazio o alla mera presenza fisica, ma una comunità di tutti coloro che «ci hanno preceduti segnati con il segno della fede», la comunità di coloro che già godono questa pienezza di vita, la comunità dei santi. Senza nascondere in alcun modo la realtà della morte e la fragilità con cui noi tutti la affrontiamo, la comunità della fede cristiana vive con la conoscenza che «per noi la vita non è tolta, ma trasformata». La morte ci apre a una realtà che finora intravvediamo solo oscuramente, una realtà sconosciuta ma non vuota o inesistente. È in quel momento che molti fanno proprie le parole del salmo ebraico: «Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza» (Sal 23,4). 496 IL REGNO - DOCUMENTI 15/2010 La fede è sempre più di un assenso intellettuale a qualche dottrina; è una relazione viva, personale con Cristo. Nella realtà della morte questa relazione è più forte che mai, perché Cristo ha affrontato personalmente questa realtà, per cui, facendo quell’ultimo viaggio e vivendo quegli ultimi momenti, noi camminiamo e viviamo in lui. Non possiamo mai prevedere o determinare il modo in cui affronteremo gli ultimi momenti della nostra vita, ma possiamo essere certi di Cristo e della fedeltà della sua Chiesa nei nostri riguardi sia che siamo deboli sia che siamo forti, sia che lottiamo sia che siamo quieti, svegli o in qualche altro spazio interiore. Ancora una volta, la Chiesa fa proprie le belle parole del salmo 90: «Chi abita al riparo dell’Altissimo passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente. Io dico al Signore: “Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio in cui confido”. Egli ti libererà dal laccio del cacciatore, dalla peste che distrugge. Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio…» (Sal 90,1-4). In questo modo il momento della morte diventa un momento di fede e di fiducia nella fedeltà di Dio. 8. Conclusione Una delle cose più importanti e più preziose che possiamo fare per una persona è quella di accompagnarla nelle ultime fasi della sua vita. Farlo bene non è mai semplicemente una questione di conoscenze cliniche o capacità professionali, per quanto preziose. La cosa più importante è il senso e la conoscenza di tutta la vita, della pienezza della persona e delle relazioni che costituiscono una vita. È questa conoscenza a permetterci di usare anche tutte le nostre conoscenze professionali e cliniche. Dobbiamo anche avere tempo: tempo per la persona morente, tempo per i suoi familiari e i suoi amici, tempo per il personale sanitario che si prende cura piuttosto che eseguire delle procedure. In questo tempo, non si possono incalzare la libertà di conversare, il ritmo dei processi sia interiori sia fisici. Il tempo è un dono prezioso e anche il silenzio e la sensazione di non riuscire a esprimerci sono importanti e reali. Questo è il tempo di stabilire nuove relazioni nonché di ristabilire, celebrare o curare le vecchie. Possiamo affrontare le ultime fasi della nostra vita solo con umiltà. Anche in questo caso, la cosa più preziosa è quella di essere sollevati dalle aspettative: noi non sappiamo come ci comporteremo o che cosa sentiremo o che cosa potremo dire. Un vero ambiente di cura è quello che ci aiuta ad abbandonare le aspettative e trovare le risorse di cui abbiamo bisogno per vivere con la realtà che ora ci viene chiesto di affrontare. La morte è il momento della verità per la vita umana e il suo significato. Qualunque cosa possiamo scoprire lì, non sarà il nulla. Possiamo cominciare a toccare un certo mistero che è stato presente nella nostra vita fin dall’inizio. Non è solo il fatto della morte. Può essere il mistero di un amore immeritato, la generosità di una cura che viene offerta non solo come capacità professionale o esigenza, ma come un dono umano.