Albert O. Hirschman, la vita e il lascito

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Albert O. Hirschman, la vita e il lascito
Albert O. Hirschman, la vita e il
lascito
Albert O. Hirschman, la vita e il lascito
Pier Giorgio Ardeni
La vita e il percorso intellettuale di Hirschman, dall’Europa, all’America latina, agli Stati Uniti,
dai problemi dello sviluppo ai rapporti tra economia e politica, sempre alla ricerca dei fenomeni
non spiegati
Albert Hirschman se n'è andato, all'età di 97 anni, ormai fragile e malato, dopo una vita che ha
attraversato il Novecento, vivendolo fino in fondo tutto, con spirito indipendente, libero, fiero,
senza abiure e sempre con lucidità e passione. Il suo lascito è enorme, enorme il vuoto che
resta, in un mondo dove non sembra più esserci posto per un pensatore che aveva sempre
saputo guardare oltre i confini, trasgredendo, sovvertendo. E che pure, da trasgressore e
sovvertitore è riuscito a farsi apprezzare, a segnare un sentiero, dalle grandi istituzioni
internazionali come dai pensatori e dai movimenti alternativi. Una mente unica che ha trasceso i
confini delle discipline e i loro fondamenti, un esemplare umanista attento all'umanità, che
sapeva sempre vedere oltre e indicare un'altra via oltre a quella del consenso. In Hirschman, vita
e pensiero si fondono, l'uomo non è separabile dalla sua esperienza, la sua
competenza non è separabile dal suo
sapere. Il suo essere uomo dell'accademia
– professore nelle più prestigiose università del mondo – nasceva dall'essere fatto le ossa sul
campo, personalmente e come "esperto". E il suo sporcarsi le mani sapeva essere
fruttuoso e creativo perché traeva linfa dalla sua cultura, dal suo sapere. Un economista
anticonformista, è stato detto, come si dice di quelli che cantano fuori dal coro, un intellettuale, un
pensatore. La sua fu in tutti i sensi una
histoire croisée transnazionale e in ultima analisi trans-disciplinare di studioso itinerante.
Una biografia che attraversa il Novecento
Nacque nella Berlino ancora imperiale il 7 aprile 1915 come Otto Albert Hirschmann, figlio di una
famiglia di ebrei assimilati, colti, laici, chiamato Otto in onore di Bismarck, che il padre Carl
considerava un grande patriota. Il giovane "O A", battezzato protestante, fu educato
negli studi letterari e nella musica classica, senza contraddizione tra il suo essere tedesco e il
sentirsi cosmopolita, e crebbe nella Germania di Weimar, in quel parossismo sperimentalista che
la caratterizzò ingurgitando "novità" contro la "tradizione". Dal '23 al '33 fu
iscritto al
Lycee Français di Berlino, per iscriversi poi, nel 1932, all'Università. A 16 anni, si unì ai giovani
del Partito Socialdemocratico e con la sorella Ursula, di due anni più grande, lì vi incontrò
Eugenio Colorni, la cui stanza d'hotel di Berlino veniva usata per la stampa di volantini
antifascisti. I giovani Hirschmann partecipano alla protesta contro il crescente movimento
nazional-socialista e nell'estate del 1933 si trasferiscono a Parigi, fuggendo l'ascesa dei nazisti e i
fuochi del
Reichstag. Albert, a Parigi, si iscrive all'
Ecole des Haute Etudes Commerciales (anche se, confesserà, voleva andare a
Science Po) e poi all'
Istitut de Statistique de la Sorbonne, dove nel 1935 consegue il diploma. Nel 1935 Ursula sposa
Eugenio, dal quale ebbe poi tre figlie: Silvia, Renata ed Eva. Questa studierà e diverrà
un'economista e sposerà poi Amartya Sen, con il quale stabilirà una proficua relazione
intellettuale. [1]
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Mentre Eugenio, Ursula e le figlie vivono la vita degli antifascisti esuli a Parigi, Albert passa un
anno alla London School of Economics, 1935-36, frequentando i corsi di Robbins e Von Hayek e
facendo amicizia con un gruppo di giovani economisti, tra i quali Abba Lerner. Torna in Francia,
frequenta gli antifascisti vicini a Colorni come Emilio Sereni e Angelo Tasca e decide di recarsi in
Italia, continuando a frequentare gli antifascisti, per conseguire, nel frattempo, il dottorato in
economia all'Università di Trieste. È di questo periodo il suo primo articolo, che verrà pubblicato
in Italiano, sul
Giornale
Conseguito
degli Economisti.
il dottorato [2]
nel 1938, torna in Francia, dove lavora
come economista all'Istituto di Ricerche Economiche e Sociali, va in Spagna volontario per
combattere a fianco della Repubblica, rientra nel '39, quando la Germania invade prima ad est e
poi ad ovest i paesi vicini. Albert si arruola allora nell'esercito francese sotto altro nome – Albert
Hernant – per non essere passato per traditore. Ma ha già violato più di una regola. Dopo
l'occupazione germanica e la resa di Vichy, lavorerà con Varian Fry e l'
Emergency Rescue Committee per aiutare i transfughi ebrei, artisti e intellettuali, a fuggire
oltreoceano. E anch'egli passerà il confine un'altra volta, sui Pirenei – travestito da pastore ma
con un libro di Montaigne in tasca!, come racconterà un giorno sua moglie Sarah – , per volare in
America, dove conoscerà Sarah, che sposerà (restando insieme per più di 70 anni). Tra il '41 e il
'43 è a Berkeley, in California, grazie ad una borsa di studio, e dal '43 al '46 si arruola
nell'esercito americano, tornando in Europa per combattere, in Italia. Eugenio Colorni, che
scriverà dal confino il manifesto europeista di Ventotene con Ernesto Rossi e Altiero Spinelli,
verrà ucciso dai fascisti nel maggio del '44 a Roma. Ursula si unirà poi a Spinelli, vivendo a
Roma, e con il quale avrà due figlie: Barbara e Sara.
Dal '46 al '52, Hirschman lavorò al
Federal Reserve Board, contribuendo al Piano Marshall, e dal '52 al '56 fu prima consigliere e poi
consulente del governo colombiano. In seguito, otterrà vari incarichi accademici a Yale (195658), Columbia (1958-64), Harvard (1964-1974) e infine all'
Institute for Advanced Studies di Princeton (dove resterà dal 1974 fino alla morte).
Hirschman fu consulente in quasi tutti i paesi dell'America Latina, lavorando per la Banca
Mondiale e altre istituzioni e scrisse moltissimo, da economista che "sperimenta dal
vivo", sulle idee che andò maturando sui
meccanismi e le politiche dello sviluppo economico, in decine di libri, articoli e interventi. Citiamo
qui i suoi libri più importanti, da
The Strategy of Economic Development (1958) a
Journeys Toward Progress (1963), da
Development Projects Observed (1967) a
Exit, Voice, and Loyalty (1970), da
The Passions and the Interests: Political Arguments for Capitalism before Its Triumph (1977) a
Essays in Trespassing: Economics to Politics and Beyond (1981), da
Shifting Involvements: Private Interest and Public Action (1982) a
Rival Views of Market Society and Other Essays (1986), da
The Rethoric of Reaction (1991) a
A Propensity to Self-Subversion (1995), fino all'ultimo
Crossing Boundaries (1998).
Attraversare confini, non credere nell'ortodossia
Hirschman poté sperimentare la combinazione di quella che fu chiamata l'epoca d'oro della
teoria con "l'infanzia" di grandiosi modelli di sviluppo, onnicomprensivi e olistici,
applicati alle economie "emergenti" dei paesi in via di sviluppo. E presto conobbe il
disincanto. Eppure, Hirschman fu l'autore di alcune delle più importanti e longeve ipotesi teoriche
che ancora si trovano nei manuali di economia, come quella della
crescita sbilanciata, i concetti di legami
anteriori e
posteriori,[3]
la metafora dell'effetto "tunnel" e quella della defezione e della protesta.
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Hirschman fu al centro della produzione teorica economica senza diventare mai
mainstream ma anzi rimanendo volutamente ai margini di quei sentieri che sarebbero poi divenuti
autostrade del pensiero, che via via hanno caratterizzato l'evoluzione delle discipline
economiche, oggi riservate a chi corre
fast and furious dentro all'econometria, alla matematica sofisticata e alla formalizzazione basate
sull'agente razionale rappresentativo, il principio utlitaristico e l'ottimalità. E dentro
quell'evoluzione del pensiero economico – e della disciplina dell'
economia dello sviluppo che invecchiava con esso – Hirschman ha accettato il suo esilio
intellettuale, non come Gunnar Myrdal, ma volontariamente, non riconoscendosi in una disciplina
rinsecchita nel formalismo incapace di spiegare la complessità del mondo, ma cercando nel
colore delle dimensioni sociali, politiche e morali risposte più soddisfacenti.
Ho sempre disprezzato le diagnosi troppo unilaterali e uniformi, ho sempre preferito immaginare
l'inatteso. Ho sempre aborrito i principi generali e le prescrizioni astratte. Penso sia necessario
avere una "lanterna empirica" o "visitare il paziente" primi di poter dire di
aver capito cosa c'è che non va. È cruciale capire la peculiarità, la specificità e anche gli aspetti
inusuali di ciascun caso.
Io so bene che il mondo sociale è variabilissimo, in continuo cambiamento, che non vi sono leggi
permanenti. Eventi inattesi accadono in continuazione, nuove relazioni di causalità prendono
corpo... col tempo persino le nuove idee contraddicono quelle vecchie.
L'auto-sovversione è sempre stata una mia caratteristica... […]
L'idea di trasgredire, di oltrepassare un limite è per me fondamentale... non sopporto di essere
confinato in uno spazio, in un'area di pensiero, mi rende infelice. Quando vedo che un'idea può
essere sperimentata in un altro campo, allora mi appassiono all'idea di avventurarmi...
Sono sempre stato contro il metodo di certi scienziati sociali... che studiano cosa è successo in
un certo numero di paesi, che so, cinquanta, e da lì partono per tirare conclusioni su cosa è
probabile che accadrà nel futuro.
Nel trattare i molteplici e complessi problemi dello sviluppo abbiamo imparato che dobbiamo
evitare generalizzazioni di ogni tipo ed essere sordi, come Ulisse, al canto seducente del
paradigma unico.
In molti hanno sottolineato come la nozione di
confini sia centrale in tutto il lavoro di Hirschman, con al centro il concetto di
violazione (trespassing) come
topos focale del suo itinerario "anticonformista". Questo
violare non fu una mera posa estetica, che nel suo caso anzi esso ebbe una fortissima densità
esistenziale: fu a causa del nazismo che dovette attraversare confini, ma egli, a sua volta, si
diede da fare per salvare le vite di molti aiutandoli ad attraversare confini. E questo continuò a
farlo anche quando aiutò amici e colleghi a fuggire dalle dittature latino-americane. Lungo tutto
l'arco della sua vita ha sperimentato, nelle parole di Lepenies, "la vasta gamma delle
possibili modalità dell'uscita, sia che questa fosse sui Pirenei che da un'area disciplinare
all'altra".
Eppure, nonostante sia stato definito un "anticonformista" – perché non voleva
davvero conformarsi – Hirschman non è mai stato neppure un eterodosso
dichiarato, perché schierarsi era contro la sua natura. Seppe essere estremamente critico
dell'ortodossia ma riuscì ad essere sempre rispettato, riconosciuto dall'attribuzione di un premio
del
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Social Science Research Council a lui intitolato, forse perché sempre
ragionevole, umile, dedicato a dare un senso all'imponderabilità dell'azione umana.
Se è vero che ogni azione umana è tesa al raggiungimento di una qualche soddisfazione, il
pensiero economico ortodosso limita tale soddisfazione all’utilità individuale. Hischman era
convinto che le passioni e gli interessi contano più delle preferenze utilitaristiche. Se
contestualizziamo i comportamenti umani all’interno di un sistema di valori, allora vedremo
quanto la relazione fra comportamenti individuali e dinamiche collettive possa portare a risultati
diversi e lontani da quelli previsti dall'approccio della massimizzazione dell'utilità individuale. Il
suo contrasto con Mancur Olson – che nell'indagare la logica dell'azione collettiva concludeva
quanto questa fosse generalmente
illogica dal punto di vista del ritorno individuale – fu netto. Solo un economista che guarda al
mondo con gli occhi di umanista poteva giungere a tali conclusioni: mai dimentico che l'uomo è
un essere complesso, come complesse sono le interrelazioni umane, Hirschman, invece di
semplificare tale complessità – come avrebbe fatto l'economista preoccupato del suo
"modello" per via della "trattabilità" –, la enfatizza, evidenziando i
molteplici possibili risvolti di un'azione o di un comportamento, consapevole che è la complessità
e non la semplicità a governare le strutture sociali, consapevole infine che i soggetti – gli
"attori economici" – sono in definitiva degli individui ed in quanto tali sono condizionati
nelle loro scelte dal momento storico, dai loro valori e dalle loro passioni, dal loro
contesto, che non possono – e non devono – essere mai trascurati ai fini della mera purezza
formale.
Non è la mano invisibile a regolare i mercati, avrebbe detto dalla sua esperienza sul terreno.
Marx aveva detto, citò, che "l'umanità affronta sempre solo i problemi che può
risolvere", ma forse sarebbe meglio dire che "l'umanità affronta sempre solo i
problemi che crede di poter risolvere". Non esiste una mano invisibile che beneficamente
occulta le difficoltà e fa funzionare le cose. Al contrario, c'è una "mano che nasconde"
le difficoltà e ci confonde, illudendoci che le cose siano più semplici di quello che in realtà sono.
Così come bisogna saper imparare dagli errori, bisogna anche saper imparare dalle verità, e
cioè che a volte sono altre le preferenze a guidarci, non solo quelle del tornaconto e dell'utilità.
Anche questo è un lascito irripetibile, per la professione dell'economista. Un economista dello
sviluppo e ha saputo parlare agli altri economisti, agli scienziati della politica e alle scienze sociali
tutte.
Protesta o defezione, il tunnel della diseguaglianza
Uno dei principi su cui si regge la moderna concezione dello Stato e della cittadinanza,
affermatosi con le rivoluzioni americana e francese e poi persino con quella russa, è che un
sistema di governo è accettato dai cittadini quando questi vi si
riconoscono, perché ritengono che chi li governa
rappresenti le esigenze, i bisogni e i desideri della maggioranza. Persino nel caso in cui chi
governa rappresenta le esigenze di una minoranza ma
rispetta quelle della maggioranza, il sistema viene considerato "accettabile" (che
spiega peraltro perché anche dove si hanno elezioni con meno del 50% dei voti il sistema possa
comunque essere stabile). Il consenso si rompe quando non vi è rispetto, le ingiustizie (percepite
o reali) si assommano e non vi è possibilità di manifestare la propria insoddisfazione. Se si dà la
possibilità di manifestare la propria protesta, quale che ne sia il risultato, questo avrà l'effetto di
creare un dialogo, viceversa sarà rottura. Defezione e protesta sono i due esiti possibili: sono
vitali quei sistemi che consentono la protesta (e se poi riescono a metabolizzarla sono addirittura
vincenti), sono esiziali quei sistemi la cui via d'uscita è solo una: la rottura. I primi riusciranno a
mantenere il consenso e l'unità – la lealtà –, i secondi andranno verso la disgregazione.
Negli anni Settanta, i messaggi di Hirschman ebbero un'eco formidabile. Aveva attraversato un
altro confine, e si era affacciato sul terreno delle relazioni sociali e politiche. Le sue osservazioni
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acute, pungenti, lasciavano il segno. Come l'idea della "tolleranza verso la
diseguaglianza". Che l'eguaglianza sia un concetto universale è quasi innegabile, per la sua
naturalezza. Chi può forse ipotizzare che non siamo tutti uguali e quindi abbiamo
diritto ad avere tutti le stesse aspettative e prerogative e a trarre gli stessi benefici dalla società?
Ma la realtà è più complicata: di fatto non siamo tutti uguali, lo vediamo tutti i giorni, e non solo
perché ci son i belli ed i brutti, ma perché c'è chi ha o ha ricevuto (legittimamente) di più e chi ha
di meno. Istintivamente, dice Hirschman, noi accetteremo il sistema in cui viviamo, fintantoché
riterremo che "si sta facendo qualcosa" per ovviare alla diseguaglianza. Ciò è vero
ovunque – e le vicende degli ultimi mesi ce lo confermano –: tanto più percepiamo che c'è
qualcosa di "sbagliato" nelle diseguaglianze che osserviamo, tanto più ci ribelliamo (e
a volte ci rivoltiamo). La reazione verso le diseguaglianze è come quella che si ha quando siamo
fermi in una galleria d'autostrada, dice Hirschman, e si formano due file in entrambe le corsie di
marcia. Se ci troviamo nella corsia di destra e vediamo un auto muoversi nella corsia di sinistra,
quella del sorpasso, non saremo invidiosi ma anzi penseremo che è un bene, perché è un segno
che la fila comincia a muoversi. Accettiamo questa "diseguaglianza", questo è il punto
di Hirschman, solo perché riteniamo che prima o poi "verrà il nostro turno". È questo
quello che egli chiamò l'effetto "tunnel", l'accettazione di una condizione di sofferenza
grazie all'aspettativa di un miglioramento. Tuttavia, se dopo un po' vediamo che la fila di sinistra
continua a muoversi e noi siamo ancora fermi, cominceremo a diventare impazienti e magari
vorremo cambiare fila. Questo è ciò che accade in molte situazioni: quando vediamo gli altri
arricchirsi e noi restiamo con il reddito di prima, non vogliamo forse anche noi arricchirci? Non ci
fa irritare, arrabbiare, rivoltare? È quello il momento critico, quando dalla speranza (di un
miglioramento) si passa alla disillusione: fintantoché gli individui mantengono viva la prospettiva
di un miglioramento, il sistema "regge". Questo è stato il collante fondante del
"mito americano": per cento che ci provano uno ce la fa, ma deve essere uno
qualunque, che possa dare speranza agli altri. Il sistema non deve essere percepito come
ingiusto, per funzionare e mantenere consenso. Il problema di molti paesi in via di sviluppo è
sempre stato, come fece notare Hirschman con il suo sguardo attento, che molti hanno percepito
l'avanzamento economico come prerogativa di certi gruppi sociali o etnici, il che ha generato
naturalmente disillusione e defezione (se non rivolta): è l'identità dei gruppi mobili che fa la
differenza.
Tutto questo ci lascia ora Albert O. Hirschman, in questo ventunesimo secolo che naviga a vista
obnubilato dalla ricerca del "benessere" economico a tutti i costi, anche quando
questo si accompagna ai più vari malesseri. Hirschman ha sempre rifiutato ogni tentativo di
canonizzazione delle sue idee o di riduzione del suo lavoro ad una unica "grande idea
centrale", anche se quella grande idea fosse stata quella di rifiutare tutte le sue idee. In un
mondo che non ha smesso di voler spiegare fatti e comportamenti umani attraverso modelli
totalizzanti – le ideologie non sono mai morte – per Hirschman la
reductio ad unum non ha mai soppiantato il principio aristoteliano che l'insieme non è uguale alla
somma delle parti, la complessità è una realtà con cui dobbiamo felicemente convivere, e la
diversità è un
bene. Di tante idee, di tante convinzioni, Hirschman ce ne lascia una soprattutto, che non c'è una
sola risposta ma molte.
Tutte le teorie e i modelli nelle scienze sociali, tutti gli immensi sforzi che vi stanno dietro, sono
motivati dal nobile, ma inconscio, desiderio di dimostrare la riducibilità del mondo sociale a leggi
generali! Io non cerco la legge generale: cerco il fenomeno non spiegato, il fatto strano.
Quindi, dal momento che tutte le leggi generali nelle scienze sociali sono destinate a fallire, la
loro ricerca – la
raison d'
être della scienza – dovrebbe fermarsi? Al contrario, dice Hirschman, nelle scienze sociali
dovrebbero avere uguale diritto di cittadinanza la ricerca di leggi generali come quella di fatti
unici. "
Forse il suo più grande nemico è proprio l'ortodossia...?", gli chiese Carmine Donzelli.
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"
Certo, l'ortodossia: ripetere sempre la stessa ricetta, la stessa terapia, per risolvere tipi diversi di
malattia; non ammettere la complessità, volerla ridurre a tutti i costi; mentre le cose reali sono
sempre un po’ più complicate...".
[1] Gli economisti ricorderanno il
Presidential Address alla Econometric Society del 1984 che Amartya Sen dedicò alla moglie Eva,
che venne a mancare in quel periodo e la cui dipartita improvvisa, in virtù del contributo che Sen
le riconosceva, impedì a Sen di tornare ad occuparsi di
Internal consistency of choice per un lungo periodo.
[2] "Nota su due recenti tavole di nuzialità della popolazione italiana", Gennaio 1938.
[3] Nel senso di arretrati e avanzati, ovvero
backward and forward linkages.
Sì
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