CONSUMO DI CARNE E INSICUREZZA

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CONSUMO DI CARNE E INSICUREZZA
CONSUMO DI CARNE E INSICUREZZA ALIMENTARE NEL MONDO
Franco Viciani - già Senior Economist FAO
Insicurezza alimentare nel mondo
Secondo le stime del recentissimo rapporto FAO/IFAD/WFP sull’insicurezza alimentare 1, 805 milioni di
persone al mondo sono in condizione di cronica sottoalimentazione, non sono cioè in grado di far fronte al
fabbisogno energetico quotidiano.
Negli ultimi anni c’è stato un miglioramento a livello globale, in gran parte dovuto a cambiamenti positivi in
Cina, nei paesi del sud-est asiatico e in America Latina. D’altro canto, in Africa la situazione si è
ulteriormente aggravata: anche se la percentuale della popolazione sottoalimentata è diminuita, il numero
complessivo di coloro che soffrono la fame si è ulteriormente accresciuto 2.
Variabilità climatiche, eventi bellici e repentine oscillazioni nei prezzi possono inoltre generare oscillazioni
nella disponibilità di cibo tali da accentuare le situazioni di estrema vulnerabilità di chi si trova al margine
fra la mera sopravvivenza e la fame.
Sottoalimentazione e malnutrizione spesso coincidono. Ma sono due fenomeni diversi. La sottoalimentazione
è misurata essenzialmente in termini di apporto calorico. La malnutrizione è invece dovuta a carenza o ad
eccesso di alcuni elementi nutritivi. Solo per citare alcuni esempi, secondo stime della FAO del 2013, due
miliardi di persone al mondo soffrono di carenza di uno o più micronutrienti e il 26% dei bambini presentano
un ritardo di crescita. Per contro, si stima che 1 miliardo e 400 milioni di persone siano in sovrappeso, di cui
500 milioni obese.
Consumo di carne
Che ruolo può giocare il maggiore o minore consumo di carne e di altri prodotti di origine animale
sull’insicurezza alimentare? Innanzitutto cerchiamo di valutare le dimensioni attuali e in prospettiva del
consumo di tali prodotti.
Si stima che nei paesi più ricchi il consumo giornaliero medio di carne sia di circa 200 grammi pro capite.
Nei paesi più poveri il consumo è di gran lunga inferiore, ma aumenta velocemente nei cosiddetti paesi in via
1
FAO/IFAD/WFP - The State of Food Insecurity in the World, September 2014 (FAO = Food and Agriculture Organization of the
United Nations; IFAD = International Fund for Agricultural Development; WFP = World Food Program).
2
Dall’inizio del secolo corrente, secondo le stime della FAO, il numero delle persone sottoalimentate (undernourished) è passato da
222 milioni a 161 milioni in Asia orientale, da 118 a 64 nell’Asia sud-orientale, da 61 a 37 in America latina, mentre in Africa il
numero di coloro che soffrono quotidianamente la fame è cresciuto da 209 a 227 milioni. Si pensi comunque che in Asia nel suo
complesso (compresa quindi l’India) permangono tuttora 526 milioni di persone che vivono in condizioni di sottoalimentazione. Si
tratta di dimensioni enormi e preoccupanti.
di sviluppo presi nel loro insieme. Più specificamente, tra il 1980 e il 2005, la FAO stima che il consumo di
carne sia aumentato del 16% nei paesi del mondo “occidentale” e ben del 377% nei paesi dell’Asia orientale
e sud-orientale (del 434% in Cina), mentre è diminuito del 7% nell’Africa sub-sahariana.
Sostenibilità dell’aumento dei consumi di carne e di altri prodotti di origine animale
Il prevedibile forte aumento della domanda di prodotti animali pone seri interrogativi sulla sostenibilità nel
tempo dell’aumento di produzione ipotizzato. L’impatto dei futuri andamenti di consumo e di produzione di
carne e di altri alimenti di origine animale è connesso a diversi fattori, riconducibili in sintesi a
(a)
(b)
le conseguenze ambientali dell’allevamento intensivo;
l’insieme delle implicazioni a carattere socio-economico ad esso collegate.
Alcune conseguenze ambientali:
i)
ii)
iii)
iv)
v)
Secondo lo World Watch Institute circa la metà dei gas serra prodotti dall’uomo attraverso le sue
attività connesse all’agricoltura e all’uso della terra è riconducibile all’allevamento animale3.
L’espansione dell’allevamento zootecnico intensivo genera deforestazione e degrado dei terreni.
Si stima che tra il 2000 e il 2010 circa 13 milioni di ettari di foresta siano stati perduti o
convertiti ad altri usi. Al degrado dei terreni contribuiscono l’eccessivo sfruttamento dei pascoli,
il compattamento dei suoli e l’erosione riconducibili all’azione del bestiame.
La deforestazione e il degrado ambientale contribuiscono alla riduzione della biodiversità.
L’allevamento zootecnico intensivo è una delle cause più rilevanti di consumo e di inquinamento
delle acque, derivante dal rilascio nei bacini idrici di escrementi, antibiotici e ormoni, residui
chimici della concia delle pelli, fertilizzanti e pesticidi usati nelle coltivazioni di foraggio, e
sedimenti dall’erosione dei territori a pascolo. Il ciclo di rigenerazione dell’acqua potabile ne è
pesantemente influenzato. Il settore della produzione zootecnica è uno dei maggiori utilizzatori
di acqua, in una misura che è sicuramente destinata ad aumentare.
La tendenza attuale è di situare i grandi impianti di allevamento animale nelle vicinanze dei
centri urbani, così da ridurre i costi di trasporto dei prodotti. Questa tendenza comporta rischi di
trasmissione di malattie e di inquinamento ambientale dovuti a metodi di smaltimento massiccio
per lo più inefficienti e dannosi.
Il terreno destinato al pascolo o alla coltivazione di foraggi in terreni fertili sottrae spazio alla coltivazione di
vegetali per l’alimentazione umana in misura più che proporzionale rispetto all’estensione del terreno che
3
Worldwatch Institute – The State of the World 2009: Into a Warming World, Washington DC 2009
viene sottratto4. Infatti il bestiame di allevamento, e in particolare i bovini, sono trasformatori inefficienti di
proteine e di calorie: consumano molto più di quanto producano in termini di elementi nutritivi. Quindi, in
linea di massima, se si produce più per gli animali in terreni fertili si ridurrà in misura più che proporzionale
la disponibilità di cibo per gli uomini.
Implicazioni sociali dell’allevamento intensivo
L’impatto dell’allevamento intensivo sull’ambiente si ripercuote anche sulle disparità sociali. I cambiamenti
climatici rendono più precaria la capacità di sussistenza delle piccole unità produttive. L’espansione del
territorio dedicato a coltivazioni di foraggi e al pascolo, il disboscamento, l’impoverimento dei suoli, la
progressiva riduzione della disponibilità e della qualità delle risorse idriche danneggiano inevitabilmente i
piccoli agricoltori, sospingendoli verso terre più marginali o addirittura privandoli del terreno sufficiente per
la loro sussistenza. Anche per i pastori nomadi o parzialmente stanziali il degrado ambientale e climatico
induce a spostamenti delle mandrie e delle greggi verso territori sempre meno fertili, provocando un
progressivo impoverimento dei pascoli e delle condizioni di vita.
Inoltre, l’allevamento intensivo non solo tende a sospingere fuori dal mercato i piccoli produttori, ma riduce
altresì il fabbisogno di mano d’opera per unità di prodotto, facendo correre il rischio di un aumento della
precarietà e della disoccupazione.
Le popolazioni rurali più vulnerabili rischiano quindi seriamente di venir danneggiate su due fronti. Il primo
riguarda la ridotta e degradata disponibilità dei terreni e di altre risorse naturali; il secondo la loro ridotta
capacità di accesso al cibo dovuta ad un calo del reddito disponibile. Questo secondo aspetto incide anche sui
consumatori a basso reddito, i quali, malgrado una riduzione dei prezzi dei prodotti di origine animale,
possono tuttavia trovarsi ad avere minori disponibilità di reddito da lavoro.
Specialmente nelle aree più povere del mondo, il rischio è che gran parte dei piccoli agricoltori, dei pastori,
dei contadini rimasti senza terra e dei nuovi disoccupati passino da uno stato di povertà relativa ad uno di
miseria e di denutrizione croniche: nelle zone rurali cresce il numero dei contadini che non hanno più terra
da lavorare; ma aumenta anche, specialmente in Africa, con la fuga dalle campagne dei maschi in età
lavorativa, il numero dei vecchi, delle donne e dei bambini abbandonati in condizioni di ridotta capacità
lavorativa, con crescente miseria e fame sia nelle zone rurali abbandonate dai migranti, sia nelle zone
peri-urbane dove essi accorrono.
Sarebbe tuttavia errato concludere che ogni forma di allevamento animale sia dannosa sia sul piano
ambientale che su quello delle disparità di reddito. Non va infatti dimenticato che persistono numerose forme
di allevamento e di conduzione mista da parte di piccole aziende agricole tradizionali e di famiglie rurali a
basso reddito che hanno importanza vitale per le persone che da esse dipendono.
4
Ovviamente non è questo il caso per terreni da pascolo che non si prestano a coltivazioni per l’alimentazione umana, quali savane o
steppe.
La FAO stima che circa un miliardo di persone nei paesi poveri dipendano in tutto o in parte da allevamento
del bestiame. Contrariamente a quanto avviene il più delle volte negli impianti di allevamento intensivo,
nelle piccole aziende contadine gli escrementi degli animali vengono riutilizzati in loco come fertilizzanti,
combustibili e, in certi casi, materiale da costruzione. I bovini sono spesso fornitori di energia lavorativa e
contribuiscono alla produzione agricola. Inoltre, gli animali (specialmente suini e pollame) allevati nelle
piccole aziende agricole unifamiliari o multifamiliari vengono sovente nutriti con sottoprodotti delle
coltivazioni vegetali. Viene così a crearsi un piccolo ma non trascurabile circolo “virtuoso”, difficilmente
realizzabile nei grandi impianti di allevamento zootecnico. Tali piccole unità produttive vanno per quanto
possibile protette, per evitare che anche esse contribuiscano ad accrescere il numero di coloro che migrano
alla ricerca disperata di fonti di sopravvivenza.
Prospettive di lungo termine e obiettivi di intervento
Sulla base del presunto aumento della popolazione e del reddito, la FAO stima che fra il 2000 e il 2050
l’aumento della domanda per alimenti di origine animale sarebbe tale da richiedere il raddoppio della loro
produzione complessiva (da 230 a 465 milioni di tonnellate di carne e da 580 a 1043 milioni di tonnellate di
latte all’anno). L’aumento più accentuato è previsto per la Cina e per altri paesi del sud-est e del sud
dell’Asia, accentuando quindi il divario con i paesi più poveri e, più in generale, il divario fra le classi più
abbienti e i gruppi di popolazione più vulnerabili.5
Uno studio pubblicato nel 2007 su The Lancet, la prestigiosa rivista medica, conclude che, solo per
mantenere nel 2050 lo stesso livello di inquinamento ambientale di oggi, occorrerebbe che il consumo di
carne si attestasse su una media complessiva di 90 grammi per persona al giorno, dei quali non più di 50
grammi di carne di ruminanti6. Tenendo conto che il consumo medio attuale di carne nei paesi più ricchi
viene stimato, come indicato precedentemente, a circa 200 grammi medi giornalieri e che le prospettive di
forte crescita sopratutto in Cina e in altri paesi asiatici comporteranno senza dubbio un sensibile aumento
della domanda di generi alimentari, una riduzione complessiva del consumo di carne nella misura prospettata
da The Lancet appare difficile da raggiungere.
5
Steinfeld, Henning et al. – Livestock’s Long Shadow: Environmental Issues and Options, FAO, Roma 2006
FAO - The State of Food and Agriculture: Livestock in the Balance, Roma 2009
Bruinsma, Jelle - The Resource Outlook to 2050: by how much land, water and crop yields need to increase by 2050? – Contributo
presentato al “FAO Expert Meeting on How to Feed the World”, Roma 2009
FAO - World Livestock 2011 – Livestock in food security. Roma, 2011
6
McMichael, Anthony J. et al. – Food, Livestock Production, Energy, Climate Change and Health, da The Lancet, Volume 370,
2007
Confrontando tale obiettivo con le proiezione della FAO che ipotizzano – se le cose andranno come sono
andate finora (un “se” peraltro niente affatto da prendersi per scontato) – il raddoppio da qui al 2050 della
produzione di carne e di altri alimenti di origine animale, è evidente che ci troviamo di fronte a seri
interrogativi sul comportamento alimentare umano.
Se si verificheranno gli obiettivi indicati da Lancet o le proiezioni della FAO non lo sappiamo. Sappiamo
però che nel secondo caso, le conseguenze per la sicurezza alimentare delle popolazioni più povere e
addirittura per il futuro del pianeta potrebbero essere seriamente dannose. Non appare probabile che un
cambiamento netto delle linee di tendenza avvenga per evoluzione spontanea, a meno che non si verifichino
eventi di carattere drammatico. Auguriamoci che quest’ultimo non sia il caso. In ogni caso, appare
necessario che intervengano sia modifiche nei modelli di comportamento individuale e sociale e nella cultura
alimentare della società civile, sia misure di intervento pubblico che correggano le attuali tendenze. In
estrema sintesi, tali modifiche e interventi dovranno mirare a che:
(i)
vengano ridotti drasticamente gli effetti ambientali nocivi dell’allevamento intensivo;
(ii)
i prezzi per le risorse naturali (terre, acqua, smaltimento di materiale inquinante) usate per
la produzione di carne riflettano il loro pieno costo economico ed ambientale, comprese
tutte le esternalità;
(iii)
si intensifichi la ricerca sulle varietà vegetali che possano rimpiazzare il contenuto
proteico e di altri micronutrienti dei prodotti di origine animale - e se ne favorisca la loro
diffusione;
(iv)
il consumo di carne e di altri prodotti di origine animale scenda nettamente nei paesi
occidentali, a vantaggio di diete prevalentemente vegetariane, suscitando così anche un
effetto/dimostrazione attraverso la riduzione del “tetto” di consumo verso cui gli altri
paesi dovrebbero convergere;
(v)
l’aumento del consumo di alimenti di origine animale venga tempestivamente e
significativamente contenuto nei paesi in via di rapido sviluppo economico;
(vi)
si intensifichi il lavoro di ricerca e di supporto a favore delle piccole aziende agricole
familiari o multifamiliari con l’intento di aumentarne la produttività;
(vii)
sia aggredito risolutamente il problema della fame nel mondo, assicurando alle
popolazioni più povere condizioni accettabili e durature di sicurezza alimentare e di
libertà dalla fame, incrementando il consumo di alimenti di origine vegetale, ma non
trascurando il necessario apporto di elementi nutritivi di origine animale specialmente per
i bambini, i vecchi e in generale le persone a più elevato rischio di denutrizione.
Su questo ultimo punto, va segnalato che la FAO ha prospettato linee strategiche di intervento, riassumibili
sotto il titolo del “Dual Track Approach”, o strategia del doppio binario: da un lato promozione dello
sviluppo rurale, dall’altro interventi di emergenza a favore delle popolazioni più vulnerabili, nel quadro di un
esteso programma di protezione sociale. Il contenuto più specifico di tali strategie è stato ampiamente
illustrato in documenti della FAO reperibili su http://www.fao.org.7
Concludendo, credo si possa tranquillamente affermare che al perseguimento della sicurezza alimentare nel
mondo contribuiranno significativamente una riduzione del consumo di carne e un maggior ricorso a diete
vegetariane nei paesi ricchi e in quelli in forte espansione economica.
7
FAO: “ANTI HUNGER PROGRAMME: a twin track approach to hunger reduction, Roma 2003
FAO’s Work on Social Protection: Report to the FAO Council, 2-6 December 2013
N.B. – Tutti I documenti prodotti dalla FAO sono reperibili sul sito sopra citato. Molti di essi sono disponibili
anche in italiano