Rassegna stampa 26 maggio 2016

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Rassegna stampa 26 maggio 2016
RASSEGNA STAMPA di giovedì 26 maggio 2016
SOMMARIO
“Le immagini del barcone rovesciato al largo della costa libica - scrive Beppe
Severgnini nell’editoriale in prima pagina sul Corriere di oggi - resteranno nei nostri
occhi. L’assurda festosità dei colori, l’acqua blu del Mediterraneo centrale, i tuffi
dallo scafo inclinato. Poi soltanto piccoli uomini sparsi nel mare immenso. Rari nantes
in gurgite vasto. Virgilio li descriveva così, duemila anni fa. In quel racconto
naufragava la flotta troiana di Enea, punita dalla dea Giunone. Oggi naufraga l’Europa,
tirata a fondo dalla propria sufficienza. Bambini, donne e uomini rischiano
l’annegamento e gli squali a poca distanza da Lampedusa, in una bella giornata di
maggio. Scene che dovrebbero essere mostrate in tutte le scuole d’Italia stamattina,
insieme a una carta geografica. Solo la generosità e la rapidità della nostra Marina
Militare, alla guida della forza europea (Eunavformed), ha impedito che un incidente
folle diventasse una tragedia orrenda. Non la prima, come sappiamo. Imprevedibile?
No. Prevedibile e previsto, invece. Si diceva: appena la primavera si sarà assestata e il
mare si sarà calmato, riprenderanno le partenze dalla Libia. È accaduto, ovviamente.
In tre giorni, con quaranta operazioni di soccorso, sono state raccolte in mare seimila
persone. Centinaia di migliaia sono in attesa, pronte a partire. Migranti africani, senza
i requisiti per essere considerati profughi e restare in Europa. (…) Non sanno dove
sono, non sanno dove vanno, non sanno come navigheranno. Succede spesso che i
migranti, dopo aver visto le condizioni di trasporto, si rifiutino di salire a bordo, e
vengano imbarcati a frustate, come bestie. Il traffico di essere umani oggi è la
seconda industria libica, dopo il petrolio. Creiamo corridoi umanitari!, chiede
qualcuno. Non permettiamo quest’abominio. Ma se il passaggio in Europa fosse sicuro,
i migranti non sarebbero decine di migliaia, diventerebbero milioni. Il compromesso è
quello che vediamo: sperare che i disperati non partano, salvare quelli che lo fanno,
ospitare i profughi, respingere gli altri. Qualcuno la chiama ipocrisia: è solo
impotenza…”.
“L’autogol della Messa negata”: dalla corrispondenza in evidenza pubblicata sul nuovo
numero di Gente Veneta, in uscita oggi, emerge un episodio di cronaca spicciola
eppure in qualche modo espressiva del momento attuale. “Cara Gente Veneta scrivono Claudio e Cristina Baraldi -, vorremmo portare alla attenzione dei lettori uno
sgradevole episodio accaduto, giovedì 10 maggio, nella parrocchia di S. Maria Goretti e
S. Giovanni Barbarigo a Carpenedo. Come tutte le sere di maggio (alle ore 20.30) il
Parroco, con la partecipazione dei fedeli, celebra il S. Rosario nelle vie circostanti la
parrocchia; in particolare, nella serata citata, si doveva tenere la S. Messa in Via
Martiri delle Libertà 240 - Quadrante. In questo condominio, tra l'altro, vive una
inferma grave, che gradiva particolarmente partecipare, pur essendo costretta a
letto, alla celebrazione dell'Eucarestia, che doveva essere nel cortile condominiale.
Purtroppo l'amministrazione del condominio ha negato il permesso, adducendo un
"ritardo" nella richiesta di effettuare la cerimonia. Ai lettori lasciamo le debite
considerazioni”. La redazione di Gente Veneta ha così risposto e commentato: “A noi
questa vicenda sa tanto di autogol da parte di una persona che non ha ben compreso negando il permesso alla sua effettuazione - il valore, lo spirito e l'impegno di una
proposta di spiritualità. C'è da esserne dispiaciuti, così come sono dispiaciuti i
condòmini nel cui cortile si sarebbe dovuta celebrare la liturgia, che in questi giorni
hanno manifestato al parroco la loro solidarietà e l'amarezza per l'episodio. Ci risulta,
tra l'altro, che il parroco sia stato tutt'altro che in ritardo nel chiedere
l'autorizzazione per la celebrazione. Aldilà di ogni fraintendimento che possa essere
alla radice di questo spiacevole episodio, ci sembra necessario sottolineare due cose.
La prima è che una messa celebrata nel cortile del condominio, rispettosa - nei tempi
e nelle modalità - del contesto, non avrebbe prodotto alcun disturbo. La seconda è
che la Chiesa, nelle sue varie articolazioni e grazie alle sue molte iniziative, è una
grande artefice di coesione sociale e di qualità della vita individuale e collettiva. Cosa
sarebbe, per esempio, la città di Mestre se la comunità cristiana non avesse
contribuito grandemente, specie dalla metà del '900 a oggi, ad amalgamare le tante
differenze di una popolazione eterogenea e “immigrata”? Come sarebbe la qualità
della vita se non ci fosse stato e non ci fosse il grande impegno di parroci, religiosi e
tanti laici? Parrocchie, scuole, luoghi di cura sono il tessuto che ha evitato o mitigato
le lacerazioni e che ha accresciuto il comune benessere. Non si chiede a nessuno di
lodare l'azione della Chiesa, ma di riconoscerne il valore sì. Perché viene a vantaggio
di tutti, anche di chi - nella sua libertà - sceglie di non unirsi ad una comunità nella
preghiera. Senza vietarla, però” (a.p.)
2 – DIOCESI E PARROCCHIE
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XII Bissuola, S. Maria della Pace. Questa sera si apre la sagra
Pag XXVII Il rosario in musica con Toni Pagliuca di Alvise Sperandio
Sacra rappresentazione a Mestre
LA NUOVA
Pag 24 Oggi si accende la sagra di Catene. Stand e musica di Massimo Tonizzo
3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 8 Senza stancarsi
All’udienza generale Papa Francesco parla della necessità di pregare
AVVENIRE
Pag 3 Giovani e comunità cristiana, ristabilire la comunicazione di Paola Bignardi
La ricerca diventa emotiva, l’urgenza è farsi incontro
IL FOGLIO
Pag I Il dramma di Papa Francesco di Stanislaw Grygiel
Amoris laetitia svela l’impossibilità di coniugare il discernimento nei casi concreti con il
compito della chiesa di predicare la Verità. Troppa casistica, servirebbe Pascal
WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT
“Basta comprare petrolio dall’Isis e vendergli armi!” di Andrea Tornielli
Intervista con il vescovo Maroun Elias Nimeh Lahham, vicario patriarcale per la
Giordania. Il dramma dei profughi che hanno raddoppiato la popolazione del Paese.
«L’Europa è centrata su se stessa e vuole applicare i suoi criteri a tutto il mondo. Questo
è sbagliatissimo»
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 10 L’ultimo tabù degli italiani. Il silenzio sul milione di bambini che vive in
povertà assoluta di Dario Di Vico
Le nuove disuguaglianze
AVVENIRE
Pag 1 Prova di maturità di Massimo Calvi
Due anni dopo, ecco il nuovo non profit
Pag 3 Per un sistema equo e inclusivo di Flavio Felice e Fabio G. Angelini
Chiesa ed economia sociale di mercato
LA NUOVA
Pag 1 Stipendi, il massimo e il minimo di Ferdinando Camon
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
IL GAZZETTINO
Pagg 20 – 21 La Biennale “ripara” il mondo. Baratta: una sfida per i sindaci di
Sergio Frigo, Paolo Navarro Dina, Lidia Panzeri e Enzo Di Martino
Padiglione Italia: il pensare, l’agire, l’incontrarsi. Tra migrazioni e identità, i padiglioni
stranieri. Il commento: il passo indietro delle Archistar e il riscatto della funzione sociale
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag IX “Don Vecchi” 7 per i giovani di Alvise Sperandio
Spunta l’idea per un nuovo centro di accoglienza agli Arzeroni. Ospitalità per il sostegno
agli anziani e il rilancio dei vecchi mestieri. Il 18 giugno l’edificio numero 6 per disabili e
genitori separati
Pag XX “Vogliamo pregare”. Il duello continua di Giuseppe Babbo
Jesolo: nulla di fatto dopo l’incontro tra islamici e Comune. Si va verso manifestazione e
richiesta danni
LA NUOVA
Pag 23 Novecento euro per la chiesa (di S. Girolamo)
Pag 31 Moschea in via Aquileia, muro contro muro di g.ca.
Jesolo: nulla di fatto nell’incontro tra sindaco, comunità islamica, Sel e comitati per i
diritti civili
8 – VENETO / NORDEST
IL GAZZETTINO
Pag 11 Malato di Sla va a morire in Svizzera di Gianandrea Rorato
Operaio di 54 anni di Mansuè (Treviso) ha posto fine alle sue sofferenze in un clinica
specializzata. La famiglia: ha deciso autonomamente ed è partito da solo, rispettiamolo
CORRIERE DEL VENETO
Pag 2 Rifugiati, aumentano i bocciati. Ma lo stallo prolunga l’ospitalità di Angela
Pederiva
Richieste di asilo tra ricorsi e controricorsi. Dall’inizio dell’emergenza oltre 21mila arrivi
10 – GENTE VENETA
Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 21 di Gente Veneta in uscita
venerdì 27 maggio 2016:
Pagg 1, 23 Così comunica un Campione di Chiara Semenzato
Verità, relazione, contatto: cosa si impara da Francesco. A Zelarino il Prefetto della
Comunicazione della Santa Sede, mons. Dario Viganò, racconta lo stile del Papa
Pag 1 Firenze come Venezia: danni da acqua e incuria di Serena Spinazzi Lucchesi
Pag 1 La politica fa più bello il mondo: lo dicono i parroci di Giorgio Malavasi
Pag 3 Povertà ovunque e trasversale: è l’effetto della crisi di Marco Monaco
La recessione è alle spalle ma la sua “onda lunga” è attuale. Al convegno della Caritas
veneziana i dati del Veneto: 7000 nuovi utenti in un anno. Molte le persone sole, uomini
separati o vedovi/e. E c’è chi ha un lavoro ma è povero
Pagg 8 – 9 Una marcia in più per 147 insegnanti di Giulia Busetto
Ora formati all’insegnamento della religione nelle paritarie. Il Patriarca: «In voi i
bambini possono incontrare l’opportunità di una vita. Siete il confine tra sagrato e
chiesa». Roberto Azzalin: un percorso di tre anni che ha accresciuto le competenze ma,
insieme, le motivazioni all’insegnamento della religione
Pag 11 Più collaborazione fra comunità, cioè più comunità di Gigi Malavolta
Dopo la lettera pastorale del Patriarca: edificare una vera e forte comunità locale è la
prima risposta all’isolamento e all’individualismo della post-modernità
Pag 15 Quarto, l’appello dei parroci: «La politica fa più bello il mondo» di Giorgio
Malavasi
Nell’imminenza delle elezioni per il nuovo sindaco don Gianpiero Lauro e don Gianni
Fazzini sottolineano, controcorrente, quanto grande sia il valore dell’impegno politico:
«La fede ci fornisce la passione e il coraggio di “stare in piazza” per collaborare con gli
altri a costruire il bene comune». Candidati sindaco a confronto, venerdì 27 alle 18 in
sala parrocchiale
Pag 18 Dopo-tornado: aiuti pubblici ingessati e “sviati” di Silvia Marchiori
Bilancio, a quasi un anno dal drammatico 8 luglio 2015 in Riviera, della ricostruzione
nelle zone più colpite, tra solidarietà e attese deluse. Dagli sms 211mila euro: i donatori
credevano di aiutare le famiglie, in realtà sosterranno il restauro di opere pubbliche. La
Regione ha stanziato tre milioni, ma per avere un contributo del 15% serve una costosa
documentazione
Pagg 20 – 21 A Eraclea si elegge il sindaco: la corsa è a tre. A Caorle si presenta
un poker di candidati di Pierpaolo Biral e Riccardo Coppo
Pag 22 Superare i limiti, per il gusto di farcela: questo è lo sport di Chiara
Semenzato
Incontro con Luca Grion, filosofo e runner, per guardare alla pratica sportiva da un’altra
angolazione: «Ci mettiamo alla prova e alla fine capiamo di essere migliori di quel che
pensavamo»
Pag 25 «Morti dieci bersaglieri io ce ne metto un’altri dieci»: parole dalla
guerra di Chiara Semenzato
Lettere e documenti dall’archivio del Duomo di Mestre in un libro di Sergio Barizza e
Stefano Sorteni. «Cara mama...»: le lettere alla famiglia dei soldati che soffrono in
trincea. E i dispacci gelidi del comando militare per avvisare del soldato caduto
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Il naufragio dell’Europa di Beppe Severgnini
Pag 5 La ripresa degli sbarchi di Fiorenza Sarzanini
Ogni giorno duemila arrivi, i trafficanti hanno trovato nuovi scafi da far salpare
Pag 6 Retorica e incultura, così l’Italia è sempre in emergenza di Paolo Conti
Pag 18 “Io, più forte dell’Isis”
Jinan, la storia di una ragazza fuggita dalla schiavitù del Califfato
Pag 29 Gli americani poveri che si fidano di Trump di Alan Friedman
Le ragioni di una scelta
LA STAMPA
Clinton-Trump la sfida si avvelena di Gianni Riotta
Il Paese sempre più radicalizzato è disgustato da entrambi i leader. La media dei
sondaggi vede Clinton in lieve svantaggio. Solo un mese fa aveva 10 punti percentuali in
più del tycoon
IL FOGLIO
Pag 3 Il grande sorpasso ateo
In Inghilterra i cristiani sono minoranza. La secolarizzazione radicale
IL GAZZETTINO
Pag 1 Trump come Berlusconi, scossa alla politica di Giuliano Da Empoli
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2 – DIOCESI E PARROCCHIE
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XII Bissuola, S. Maria della Pace. Questa sera si apre la sagra
Si apre oggi alla parrocchia di Santa Maria della Pace a Bissuola la stagione delle sagre
cittadine. La XVII edizione della manifestazione proporrà come di consueto fino al 30
maggio serate di intrattenimento, giochi per bambini e proposte gastronomiche. Si
comincia alle 18.30 di oggi con la vernice della Rassegna di arte contemporanea nei
locali del patronato. Alle 19 aprirà lo stand gastronomico e alle 20.45 ci sarà
l’appuntamento con il ballo liscio con "Renato e gli amici". Nelle serate successive si
esibiranno Baffo dj e il Gruppo Cubanito, l’orchestra "I Romantici", lo "Hillbillies country
group". Nella serata conclusiva di lunedì 30 è in programma al serata spettacolo "La
musica è passione", la tombola e, in conclusione, l’estrazione della lotteria di
autofinanziamento della parrocchia.
Pag XXVII Il rosario in musica con Toni Pagliuca di Alvise Sperandio
Sacra rappresentazione a Mestre
Mestre - Toni Pagliuca, ex del gruppo le Orme, e Vittore Ussardi, maestro compositore,
domani venerdì - alle 21 nella chiesa di Santa Maria Ausiliatrice della Gazzera presentano "Decine", la sacra rappresentazione in chiave moderna del rosario, la
preghiera che a maggio è tradizionalmente dedicata alla Madonna. Ogni Ave Maria delle
50 che sono recitate nei cinque misteri contemplati, ha una base e un arrangiamento
diverso da tutte le altre. La diversificazione dell'orchestrazione riguarda solamente la
prima parte, perché essendo la seconda riservata alla risposta dell'assemblea dei fedeli,
per facilità si fonda su una stessa nota e la stessa ritmica. L'Annunciazione è costruita
sugli strumenti ad arco; la Visitazione su quelli a corda; la Natività su quelli a fiato; la
Presentazione al tempio su quelli a percussione; e la Predicazione al tempio è tutta una
corale a cappella. Ne scaturisce un rosario originale, per alcuni versi alternativo,
certamente da ascoltare. Tra le voci soliste quelle di Andrea Saccoman, Alessia Busetto,
Anna Tosato e Elisabetta Montino. L'intento dei due artisti è che il progetto possa essere
esportato in altre chiese cittadine, nei teatri e magari trasformarsi in un tour nazionale e
internazionale dove l'opera possa essere presentata con un approccio multidisciplinare
coinvolgendo anche l'uso di opere pittoriche e balletti. «Questo è il più bel lavoro della
mia vita», dichiara Pagliuca, nel cui studio di registrazione sempre alla Gazzera quella
che era nata come un'idea è poi divenuta realtà.
LA NUOVA
Pag 24 Oggi si accende la sagra di Catene. Stand e musica di Massimo Tonizzo
Marghera. Si avvia verso i quarant’anni la tradizionale sagra di Catene, una delle più
apprezzate e storiche di Marghera che a partire da oggi toccherà il traguardo delle 39
edizioni, con due settimane dense di appuntamenti. Come di consueto, gli ultimi giorni di
maggio e la prima settimana di giugno per via Trieste e dintorni significano “Catene in
Festa”, la sagra organizzata dalla parrocchia della Madonna della Salute ormai
appuntamento imperdibile per gli abitanti di tutta Marghera e non solo. Quest'anno la
festa andrà in scena da oggi al sei giugno sotto il tendone allestito a fianco della Chiesa
Madonna della Salute di Catene, e prevede tornei, spettacoli, animazione per bambini,
serate danzanti e momenti gastronomici con piatti tipici locali. Tra gli appuntamenti di
grande successo confermati dalle passate edizioni, domenica 5 giugno il mercatino di
beneficenza dalle 9 alle 18 con la presenza di più di 30 espositori, mentre venerdì 3
giugno a partire dalle 19 si terrà la terza edizione della “Marcia della Salute di Catene”.
Quest’anno il percorso si svilupperà su un tracciato di 5 e 10 chilometri e abbraccerà le
zone di Catene e Villabona, con la partenza e l’arrivo della corsa al parco Catene. Le
consuete serate musicali, invece, vedranno l'apertura di domani affidata al ritorno
dell’amatissimo Max Pianta e delle sue cover di Renato Zero, ma l’appuntamento più
atteso è per il 2 giugno, con l'Abba show dedicato alla storica band svedese, anticipato
nel pomeriggio dalla festa della scuola materna. Di contorno, stand gastronomici, lotteria
di beneficenza e festa degli anniversari di matrimonio.
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3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 8 Senza stancarsi
All’udienza generale Papa Francesco parla della necessità di pregare
Nella vita quotidiana «non si tratta di pregare qualche volta, quando mi sento. No, Gesù
dice che bisogna “pregare sempre, senza stancarsi”». Lo ha ricordato il Papa all’udienza
generale di mercoledì 25 maggio, in piazza san Pietro. Proseguendo le riflessioni sul
tema giubilare alla luce del Vangelo, il Pontefice ha commentato la parabola del giudice e
della vedova narrata da Luca (18, 1-8) per parlare della preghiera come fonte di
misericordia.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno! La parabola evangelica che abbiamo appena ascoltato
(cfr. Lc 18, 1-8) contiene un insegnamento importante: «La necessità di pregare
sempre, senza stancarsi mai» (v. 1). Dunque, non si tratta di pregare qualche volta,
quando mi sento. No, Gesù dice che bisogna «pregare sempre, senza stancarsi». E porta
l’esempio della vedova e del giudice. Il giudice è un personaggio potente, chiamato ad
emettere sentenze sulla base della Legge di Mosè. Per questo la tradizione biblica
raccomandava che i giudici fossero persone timorate di Dio, degne di fede, imparziali e
incorruttibili (cfr. Es 18, 21). Al contrario, questo giudice «non temeva Dio né aveva
riguardo per alcuno» (v. 2). Era un giudice iniquo, senza scrupoli, che non teneva conto
della Legge ma faceva quello che voleva, secondo il suo interesse. A lui si rivolge una
vedova per avere giustizia. Le vedove, insieme agli orfani e agli stranieri, erano le
categorie più deboli della società. I diritti assicurati loro dalla Legge potevano essere
calpestati con facilità perché, essendo persone sole e senza difese, difficilmente
potevano farsi valere: una povera vedova, lì, sola, nessuno la difendeva, potevano
ignorarla, anche non darle giustizia. Così anche l’orfano, così lo straniero, il migrante: a
quel tempo era molto forte questa problematica. Di fronte all’indifferenza del giudice, la
vedova ricorre alla sua unica arma: continuare insistentemente a importunarlo,
presentandogli la sua richiesta di giustizia. E proprio con questa perseveranza raggiunge
lo scopo. Il giudice, infatti, a un certo punto la esaudisce, non perché è mosso da
misericordia, né perché la coscienza glielo impone; semplicemente ammette: «Dato che
questa vedova mi dà fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a
importunarmi» (v. 5). Da questa parabola Gesù trae una duplice conclusione: se la
vedova è riuscita a piegare il giudice disonesto con le sue richieste insistenti, quanto più
Dio, che è Padre buono e giusto, «farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte
verso di lui»; e inoltre non «li farà aspettare a lungo», ma agirà «prontamente» (vv. 78). Per questo Gesù esorta a pregare “senza stancarsi”. Tutti proviamo momenti di
stanchezza e di scoraggiamento, soprattutto quando la nostra preghiera sembra
inefficace. Ma Gesù ci assicura: a differenza del giudice disonesto, Dio esaudisce
prontamente i suoi figli, anche se ciò non significa che lo faccia nei tempi e nei modi che
noi vorremmo. La preghiera non è una bacchetta magica! Essa aiuta a conservare la
fede in Dio, ad affidarci a Lui anche quando non ne comprendiamo la volontà. In questo,
Gesù stesso - che pregava tanto! - ci è di esempio. La Lettera agli Ebrei ricorda che «nei
giorni della sua vita terrena Egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a
Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito»
(5, 7). A prima vista questa affermazione sembra inverosimile, perché Gesù è morto in
croce. Eppure la Lettera agli Ebrei non si sbaglia: Dio ha davvero salvato Gesù dalla
morte dandogli su di essa completa vittoria, ma la via percorsa per ottenerla è passata
attraverso la morte stessa! Il riferimento alla supplica che Dio ha esaudito rimanda alla
preghiera di Gesù nel Getsemani. Assalito dall’angoscia incombente, Gesù prega il Padre
che lo liberi dal calice amaro della passione, ma la sua preghiera è pervasa dalla fiducia
nel Padre e si affida senza riserve alla sua volontà: «Però - dice Gesù - non come voglio
io, ma come vuoi tu» (Mt 26, 39). L’oggetto della preghiera passa in secondo piano; ciò
che importa prima di tutto è la relazione con il Padre. Ecco cosa fa la preghiera:
trasforma il desiderio e lo modella secondo la volontà di Dio, qualunque essa sia, perché
chi prega aspira prima di tutto all’unione con Dio, che è Amore misericordioso. La
parabola termina con una domanda: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la
fede sulla terra?» (v. 8). E con questa domanda siamo tutti messi in guardia: non
dobbiamo desistere dalla preghiera anche se non è corrisposta. È la preghiera che
conserva la fede, senza di essa la fede vacilla! Chiediamo al Signore una fede che si fa
preghiera incessante, perseverante, come quella della vedova della parabola, una fede
che si nutre del desiderio della sua venuta. E nella preghiera sperimentiamo la
compassione di Dio, che come un Padre viene incontro ai suoi figli pieno di amore
misericordioso.
AVVENIRE
Pag 3 Giovani e comunità cristiana, ristabilire la comunicazione di Paola Bignardi
La ricerca diventa emotiva, l’urgenza è farsi incontro
La comunicazione tra i giovani e la comunità cristiana è sostanzialmente interrotta; anzi,
in crisi è la comunicazione intergenerazionale e questo riguarda tutti gli aspetti della
vita, compreso quello religioso. Non è una novità, ed è un fatto che non si può
considerare a cuor leggero: se le generazioni non riescono a comunicare, significa che i
giovani crescono in una solitudine che li costringe a reinventarsi il senso della vita e le
forme del vivere insieme; che gli adulti hanno un patrimonio che non riescono a
trasmettere, una ricchezza che non possono consegnare, un’eredità destinata a rimanere
senza destinatario. Le storie religiose dei giovani intervistati nell’ambito della ricerca
realizzata dall’Istituto Toniolo sul rapporto tra le giovani generazioni e la fede (raccolta
nel volume Dio a modo mio) narrano di percorsi tradizionali, che in genere si sono
interrotti dopo la celebrazione dei sacramenti: famiglie che hanno avviato i figli alla
Messa domenicale, che li hanno mandati a catechismo, che li hanno indirizzati talvolta
verso esperienze associative. Percorsi che non hanno portato a un’adesione di fede
secondo i canoni tradizionali, ma che più spesso hanno fatto nascere insofferenza e
distanza. È la storia di tanti ragazzi che conosciamo e che, giunti a celebrare il pieno
inserimento nella comunità e l’avvio della fase matura della loro esperienza spirituale,
hanno tagliato i ponti con la Chiesa e con le forme canoniche del credere. Qualcuno
potrebbe obiettare che la pastorale propone percorsi educativi dopo la Cresima, ma essi
riescono a coinvolgere solo chi è già dentro un’esperienza di vita cristiana, e non la
maggioranza che vi si è allontanato. A questo punto non ci si può non domandare che
cosa non ha funzionato, a meno che ci si accontenti di coltivare il gruppetto piuttosto
esiguo dei giovani che mantengono i contatti con l’ambiente ecclesiale, magari perché
coinvolti come animatore o collaboratori delle varie attività pastorali. Nel ricordo che i
giovani hanno del loro cammino di formazione cristiana vi sono attività troppo simili a
quelle della scuola e che hanno proposto ai ragazzi obblighi, riti, precetti... Ne hanno
ricavato il senso angusto della costrizione e non l’apertura gioiosa alla vita. È facile che
la realtà sia diversa, ma questo è ciò che è rimasto nella memoria dei giovani. D’altra
parte, la conoscenza di molti itinerari di formazione cristiana dice che essa è
tendenzialmente deduttiva, volta a comunicare verità immutabili mettendo tra parentesi
le domande delle persone. È il modello secondo cui sono stati formati gli adulti di oggi,
cresciuti in un mondo diverso dall’attuale; riproponendolo, essi accrescono il senso di
estraneità dei giovani dalla comunità cristiana e dalle sue proposte. E i giovani si
sottraggono, si ritirano semplicemente nel loro mondo, senza conflitto e senza
opposizione, ma portando con sé interrogativi esistenziali cruciali che non sanno a chi
rivolgere. L’educazione alla fede avviene in un’età in cui le grandi domande della vita
non si sono ancora poste; quando arrivano, non ci sono più legami con interlocutori e
contesti in cui affrontarle. Così i percorsi esistenziali proseguono nella solitudine; quando
arrivano i momenti della crisi, quando la vita chiede di prendere posizione davanti alle
sue sfide, allora ciascuno pesca nel proprio patrimonio religioso ciò che gli serve, con
un’operazione selettiva che, alla lunga, configura esperienze religiose soggettive,
emotive, estemporanee. L’ascolto del mondo giovanile dice un desiderio di dialogo e di
confronto, che interpella la comunità cristiana. I giovani non chiederebbero una vita
cristiana radicalmente diversa da quella ufficiale, ma prassi ecclesiali vive, in grado di
agganciare la loro ricerca di fede a un contesto comunitario significativo; chiedono
relazioni, testimoni credibili, esperienze e contesti che permettano una reinterpretazione
aggiornata delle forme dell’essere cristiani oggi. In papa Francesco i giovani vedono uno
di questi testimoni, di cui fortemente avvertono il fascino, tanto da farne un riferimento
importante, il più significativo dopo quello delle figure familiari e degli amici. I giovani,
con la libertà che hanno nei confronti di ogni istituzione e di ogni autorità, mettono il
dito su piaghe vive nell’attuale contesto ecclesiale. E non tanto gli scandali degli ultimi
tempi, che si condannano da soli, ma le prassi pastorali che sono percepite come
inadeguate e che generano estraneità: l’anonimato delle assemblee ecclesiali, la
mancanza di spirito comunitario, i precetti dati senza che se ne comprenda il senso, i
linguaggi antiquati e lontani dalla sensibilità attuale. Si tratta di aspetti che fanno
problema anche a tanti adulti, senza che questi giungano a consumare una lontananza
formale che tuttavia, interiormente, c’è già. I giovani, con il loro senso di estraneità
dalla comunità cristiana, mostrano il bisogno di una Chiesa più autentica e più
evangelica: in fondo danno espressione a un’istanza che è di tanti. Loro lo dicono
staccandosi, perché non hanno avuto modo di convincersi che vale la pena giocarsi per
cambiare le cose; perché non hanno trovato negli adulti degli alleati credibili per dar vita
alla Chiesa del futuro. La generazione giovanile di oggi, non estranea né ostile alla
dimensione religiosa della vita, rischia di incamminarsi sulla strada di un’esperienza di
fede emotiva e soggettiva se la Chiesa non saprà mostrare il valore insostituibile di una
comunità che custodisce una Memoria, che dà un riferimento oggettivo alla ricerca, che
apre al futuro, che mostra con la vita la bellezza di un’esistenza interpretata nella luce
del Vangelo. E potrà farlo solo con mitezza, con misericordia, con gratuità, uscendo e
andando incontro, allargando le braccia per accogliere. Nei comportamenti quotidiani, si
tratta di sostenere una ricerca che è un processo aperto, senza approdi definitivi. I
giovani di oggi non accettano la fede per l’autorità della proposta dei loro genitori o del
prete della parrocchia o perché così fanno altri: cercano ragioni personali per credere e
questo li pone sulla strada di una ricerca faticosa, tanto più difficile quanto più solitaria.
Il loro atteggiamento costituisce una grande risorsa educativa, premessa di una fede
personale, convinta; ma è al tempo stesso un percorso rischioso, che non si può fare in
solitudine. La sfida di ogni cammino educativo è sostenere il processo di
personalizzazione della fede come dialogo tra tradizioni vive e la coscienza personale,
con le sue domande e le sue crisi. Questo chiede figure di educatori disposti a rinunciare
al ruolo di maestro per assumere quello più esigente di testimone, disposti ad
accompagnare, capaci di interagire e sostenere un processo che non ha come approdo
un nuovo modello formativo, ma la capacità di stare dentro una ricerca sempre aperta.
Compiti severi e urgenti questi, per la Chiesa che non può fare a meno dei giovani, pena
il rassegnarsi al suo stesso invecchiamento. Se avrà il coraggio di mettersi veramente in
cammino con tutti i giovani, potrà diventare una Chiesa migliore, veramente missionaria
ed evangelica.
IL FOGLIO
Pag I Il dramma di Papa Francesco di Stanislaw Grygiel
Amoris laetitia svela l’impossibilità di coniugare il discernimento nei casi concreti con il
compito della chiesa di predicare la Verità. Troppa casistica, servirebbe Pascal
L'esortazione Amoris laetitia sembra svelare il dramma interiore di Papa Francesco.
Formato nella tradizione pastorale dei gesuiti, che si orienta secondo il principio "del
discernimento degli spiriti nella situazione concreta" e anche secondo la regola che
"bisogna entrare nella casa dell'altro uomo attraverso la sua porta e uscirne attraverso
la propria", il Papa propone una praxis pastorale di questo genere nei confronti degli
uomini dal "cuore indurito" (Mt 19, 8). Questi edificano le loro dimore sulla negazione
delle "Dieci Parole" (Decalogo) "scritte dal dito di Dio" (Es 31, 18) sull'uomo che Dio sta
creando nel Suo Figlio "fino a ora" (Gv 5, 17). Le edificano sul loro cogito che dubita se
sia vero che Cristo "non aveva bisogno che qualcuno gli desse testimonianza su un
altro", poiché "sapeva quello che c' è in ogni uomo" (Gv 2, 25). Attraverso il cogito, che
è anche un pratico volere, s'insinua nella Chiesa il dubbio ariano se Cristo sia davvero
Dio e se i sacramenti siano ciò che la fede della Chiesa dice di vedere in essi, ovvero non
siano che segni vuoti scritti sotto la spinta emotiva nelle situazioni concrete. Amoris
laetitia ci costringe a una profonda riflessione sulla fede, sulla speranza e sull'amore,
cioè sul dono della libertà ricevuto da Dio, poiché essa stessa non porta un chiaro
messaggio riguardo al "dono di Dio" che sono la verità, il bene, la libertà e la
misericordia. Basta aprire la Bibbia per sapere che con il "dono di Dio" gli uomini fin "da
principio" ebbero difficoltà e non sempre i sacerdoti li aiutavano a vincere la loro "dura
cervice" (Es 32, 9). Con il "dono di Dio" incontrarono difficoltà il sacerdote Aronne e suo
fratello Mosè. Questi, vedendo il vitello d'oro "fabbricato da Aronne" che sotto la
pressione del popolo "gli aveva tolto ogni freno, così da farne il ludibrio dei loro
avversari", si accese d'ira e spezzò le tavole dei Comandamenti dati da Dio a Israele.
Alla domanda di Mosè: "Che ti ha fatto questo popolo, perché tu l'abbia gravato di un
peccato così grande?", Aronne provava a scusarsi, senza riuscire: "Tu stesso sai che
questo popolo è inclinato al male. Mi dissero: 'Facci un dio, che cammini alla nostra
testa, perché a quel Mosè, l'uomo che ci ha fatti uscire dal paese d'Egitto, non sappiamo
che cosa sia capitato'". Allora Mosè disse: 'Chi sta con il Signore, venga da me!'". A
quelli che si unirono a lui ordinò di brandire le spade e di uccidere persino i loro fratelli,
parenti e amici. "'Ricevete oggi l'investitura dal Signore - disse loro - ciascuno di voi è
stato contro suo figlio e contro suo fratello, perché oggi Egli vi accordasse una
benedizione'" (Es 32, 14-29). Il giorno dopo Mosè ritornò al Signore per implorare un
misericordioso perdono per Israele (ib. 30). Dio gli ordinò di tagliare due nuove tavole e
di scrivere su di esse ancora una volta le "Dieci Parole" (Decalogo) e Mosè salutò il
Signore con queste parole: "Dio misericordioso e pietoso, lento all' ira e ricco di grazia e
di fedeltà /... / che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza
punizione" (Es 34, 6-7). Presto però anche lui, Mosè, cedette alle pressioni della gente
malata di "sclerosi del cuore" (sklerokardia, Mt 19, 8) che "da principio" colpisce gli
uomini che vivono nel matrimonio. Egli permise agli "sclerotici" di ripudiare le mogli,
ovvero i mariti, quando non trovino "grazia" ai loro occhi (Dt 24, 1). Si comportò così
secondo la tesi marxista che la quantità si tramuta nella qualità quando raggiunge la
massa critica, cioè che il male commesso spesso cessa di essere male e diventa un
bene. E' su questa massa critica dei matrimoni malati che Mosè appoggiò la sua
antropologia. Marx doveva conoscere la logica di situazione di Mosè e ne trasse quelle
conclusioni che oggi fanno sì che la sociologia e le statistiche assumano il ruolo che
spetta al Decalogo. I sacerdoti e i Mosè che oggi dovrebbero aiutarci a vivere nella
presenza della Parola del Dio vivente, storicamente incarnata e presente in mezzo a noi
per sempre nell'Eucaristia, si trovano tra l'incudine e il martello. Da un lato su di loro
esercitano pressioni gli uomini "di duro cuore" e da un altro lato li inquietano le parole di
Cristo che, poiché in Lui Dio crea l' uomo, "sapeva quello che c'è in ogni uomo" (Gv 2,
25): "Fu pure detto: Chi ripudia la propria moglie, le dia l'atto di ripudio; ma io vi dico:
chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di concubinato, la espone all'adulterio, e
chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio" (Mt 5, 31-32). Alcuni dei nostri
pastori e "arcipastori", cercando di non commettere apertamente l'errore di Mosè e nello
stesso tempo di non esporsi anche alle critiche da parte dei "cuori sclerotici", ci
assicurano che l'indissolubilità del matrimonio è fuori discussione. Entrano però in un
vicolo cieco quando comunque pretendono che il pensiero pratico sui matrimoni falliti si
appoggi anche su una piccola parola - "ma" - che permetta loro di costruire commenti
casistici con i quali giustificare l'adulterio. Propongono una casistica "sì, ma" che prende
in considerazione non tanto la coscienza dell' uomo, quanto la sua inclinazione al male.
Se si dovesse andare avanti così, c'è da aspettarsi che a breve seguirà il caos, in cui le
persone soggette all’inclinazione al male andranno in giro per le parrocchie e perfino per
le diocesi in cerca dei casuisti più furbi. Oggi ci serve urgentemente un Pascal, che scriva
"Le nuove Provinciali". Le parole di Cristo sono chiare e univoche. Spiegando alla gente il
Decalogo, ordina in modo inequivocabile: "Sia /.../ il vostro parlare sì, sì: no, no; il di
più viene dal maligno" (Mt 5, 37). Tuttavia gli uomini dai "cuori sclerotici" preferiscono il
chiaroscuro che fanno del frammentario "sì" e del chiassoso "no" e che loro ritengono la
più grande conquista della loro intelligenza. E' di questo chiaroscuro che formulano un
concetto della misericordia tale che nel momento di essere emotivamente mossa dalla
povertà altrui lascia la Verità dell' Amore nell'agonia nel Giardino degli Ulivi. Ciò significa
che questo concetto serve come la misericordia che usano i cavalieri quando danno il
colpo di grazia a chi già è ferito a morte. Molti politici di oggi, sfruttando il caos
dottrinale nella Chiesa, non trovano più difficoltà nel comportarsi come si comporta il
Grande Inquisitore di Dostoevskij. Non comprendendo il dono divino della libertà che
viene dalla verità, il vecchio cardinale di Siviglia rinchiude Cristo in prigione. Ben presto
però, travagliato dalla presenza della Parola che inquieta la sua coscienza al punto da
costringerlo a giustificarsi davanti a se stesso, La espelle dalla società. Oggi Cristo tace,
come tace in Siviglia. Mostra la misericordia sia ai vecchi che ai giovani Inquisitori,
baciandoli sulla bocca. Questo bacio brucia i loro cuori come brucia il cuore del cardinale
di Siviglia? Non sappiamo, poiché li differenzia il fatto che il cardinale di Siviglia permane
ostinatamente nelle proprie idee, mentre gli Inquisitori politici di oggi permangono
ostinatamente nel vuoto, in cui tutto è banale per loro. Crea il vuoto nell'uomo il suo
distanziarsi da Cristo, che convinse gli uomini quanto al peccato (cfr. Gv 16, 8) con la
Sua testimonianza data alla verità pensata in Lui e per Lui nell'atto della creazione del
mondo e dell'uomo. Nel Giardino degli Ulivi i discepoli di Cristo dormono, mentre Egli è
in agonia accanto a loro. Essi invece, in modo assonnato e quindi irresponsabile, si
adattano alla politica correttezza imposta da un Inquisitore invisibile che fa da padrone
nella quarta Roma delle organizzazioni internazionali. I discepoli creano le narrazioni
pastorali, scambiando il sogno per lo stare desto, la malattia per la salute, il peccato per
la virtù. Si piegano a se stessi sempre più lontano dal mondo reale. "Gesù sarà in agonia
fino alla fine del mondo: non bisogna dormire fino a quel momento" (B. Pascal). Il
traditore si avvicina con un bacio di morte. Sotto la croce resteranno soltanto un mistico
e le donne, e a seppellire Gesù li aiuteranno i suoi amici segreti. I discepoli invece si
rintaneranno nei loro nascondigli. "Ci sono tante forze nel popolo, Ci sono tanti uomini;
Entri infine il Tuo Spirito E svegli gli addormentati" (Stanislaw Wyspianski,
"Wyzwolenie", II) Il poeta polacco Stanislaw Wyspianski scrisse questa preghiera nel
1902, quando in Europa non c'era lo Stato polacco, ma c'era la nazione polacca che
desiderava la libertà e sognava di recuperarla. Oggi è l'Europa che ha bisogno di una
tale preghiera, ne ha bisogno soprattutto la Chiesa. E' alla Chiesa che incombe l'obbligo
di predicare in modo orante la verità che tutti apparteniamo a Dio e che perciò a noi tutti
si riferiscono le parole con cui Cristo, dopo aver spiegato il senso del Decalogo, conclude
il grande discorso sul Monte delle Beatitudini: "Siate voi dunque perfetti come è perfetto
il Padre vostro celeste" (Mt 5, 48). Il vero, il bene e il bello di ogni essere ricevono la
vita dall'Ideale che è Dio. San Giovanni Paolo II disse ai giovani che sono obbligati a
esigere da se stessi le cose ideali, anche quando gli altri non le esigono da loro. Oggi,
quando la deformazione ariana della Parola del Dio vivente s' insinua nelle menti dei
teologi e persino dei vescovi, il che in pratica significa fermare i cristiani nell'errore
antropologico di Mosè e di Marx, che cioè conosce il bene colui che lo vede dal punto di
vista del male, come è attuale il monito del giovane Karol Wojtyla: "Non si può pensare
soltanto con un frammento di verità, bisogna pensare con tutta la verità" ("Fratello del
nostro Dio")! Fra breve Cristo dirà: "Chi sta con il Signore, venga da me!". Invece di
mettere le spade nelle mani di quelli che si schiereranno dalla parte del Signore, coma
fece Mosè, Cristo metterà nella loro bocca le parole di fuoco: "Chi ama il padre o la
madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di
me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me" (Mt 10, 37-38).
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“Basta comprare petrolio dall’Isis e vendergli armi!” di Andrea Tornielli
Intervista con il vescovo Maroun Elias Nimeh Lahham, vicario patriarcale per la
Giordania. Il dramma dei profughi che hanno raddoppiato la popolazione del Paese.
«L’Europa è centrata su se stessa e vuole applicare i suoi criteri a tutto il mondo. Questo
è sbagliatissimo»
Come fermare l’Isis? Bisogna smettere di comprare il suo petrolio e basso prezzo e
smettere di vendergli le armi. Monsignor Maroun Elias Nimeh Lahham, già arcivescovo di
Tunisi e oggi vicario patriarcale per la Giordania, è a Rovigo per partecipare a una tavola
rotonda sulla misericordia nell’ambito del Festival Biblico. In questo colloquio con Vatican
Insider racconta il dramma dei profughi in Giordania, che hanno raddoppiato la
popolazione del Paese. E spiega perché sia un fallimento l’idea di «esportare la
democrazia».
Qual è la situazione dei profughi in Giordania?
«La Giordania, Paese di sei milioni di abitanti, ne accoglie tre di profughi: vuol dire il 50
per cento della sua popolazione. Questo è dovuto prima di tutto alla sua ospitalità, che è
un valore della cultura araba e poi al fatto che questi profughi provengono dall’Iraq e
dalla Siria cioè da Paesi confinanti. Adesso speriamo che questa situazione non si
trasformi come quella dei profughi palestinesi sessant’anni fa, perché la Giordania non
può sopportare numeri come questo».
Come vivono queste persone? E la Chiesa che cosa fa?
«Dipende. Per i siriani c’è un collaborazione molto stretta tra il Governo giordano e la
Caritas giordana. Una piccola parte dei siriani vive nei campi profughi. Ce ne sono tre, il
più importante è quello di Zaatari: a un certo punto erano arrivati a 140 mila ma adesso
sono diminuiti perché poco a poco tornano nei loro villaggi che sono stati liberati. E poi
vivono nelle città della Giordania, con una situazione mai vissuta prima da noi. Faccio un
esempio: Mafraq, una città al nord del paese, ha 50mila abitanti e 70mila profughi
siriani. Una trasformazione a tutti i livelli e anche qualche problema. Mentre per gli
iracheni bisogna distinguere. La Giordania ha avuto quattro ondate di profughi dall’Iraq:
1991, 1993, 2003 e 2014. L’ultima è quella dopo la caduta di Mosul e della piana di
Ninive. Questi sono tutti cristiani, cattolici. E lì quello che ha fatto il governo è stato solo
di permettere loro di venire, anche senza passaporti, perché avevano perso tutto. Poi li
ha affidati alla Caritas che pensa a tutto: cibo, casa, cure mediche, istruzione.
Ultimamente la Conferenza episcopale italiana ha adottato un progetto di scolarizzazione
per 1500 ragazzi, con il costo di un milione e mezzo all’anno. La Cei lo ha adottato per
due anni. Speriamo che fra due anni i profughi iracheni siano tornati nel loro paese e che
la Giordania torni ad avere una vita più normale».
I profughi vogliono tornare nei loro paesi?
«I siriani più che gli iracheni. Perché i primi hanno le loro terre e le loro case, mentre gli
iracheni sono arrivati da Mosul e dalla piana di Ninive, dicono di non voler tornare, anche
se il Paese fosse pacificato. Affermano di essere stati derubati dai loro vicini musulmani,
dopo la loro partenza. Io credo che lo dicano perché hanno davanti ai loro occhi una
terza opzione, quella di partire per gli Usa e il Canada. Quando vedranno che le opzioni
sono soltanto due, quella di tornare nel loro Paese pacificato o rimanere in Giordania
senza diritto di lavoro, penso che qualcuno tornerà. Anzi, ho letto ultimamente che
qualche iracheno cristiano che era già arrivato in Europa è tornato in Iraq perché non si
è adattato».
Che cosa si può fare per fermare l’Isis?
«Questa è una guerra mondiale a pezzi, come dice il Papa. La guerra non è solo in Siria
e per la Siria, ci sono tante parti coinvolte: l’America, la Russia, l’Europa, la Turchia,
l’Arabia Saudita, il Qatar. C’è un’ipocrisia gigantesca da parte degli occidentali,
specialmente degli americani, che comprano il petrolio di Daesh, dello Stato Islamico, a
un prezzo bassissimo. Daesh ha preso dei pozzi di petrolio e lo vende a prezzi bassissimi
pur di avere soldi. Ma non solo: comprano petrolio e vendono loro armi. Se non chiudete
questi rubinetti...».
Il Papa, quando si riferisce alla guerra e al terrorismo, parla sempre anche del traffico di
armi. Chi le dà all’Isis?
«Ma certo! Durante la sua visita in Giordania, al sito del battesimo, ha detto che quelli
che vendono le armi sono dei criminali. E lo sono!».
Nell’intervista a La Croix il Papa ha detto che anche l’Occidente deve riconsiderare molto
della sua politica, ad esempio nell’«esportare la democrazia»...
«L’esempio più chiaro è l’Iraq. Appena arrivati gli americani hanno sciolto l’esercito
iracheno, e da quel giorno l’Iraq non è più un Paese, è tornato a dimensioni
apocalittiche. La democrazia non si esporta, la democrazia non si dà, la democrazia si
raggiunge, passo dopo passo. L’Occidente ha conosciuto una sola forma di democrazia.
Non è detto che la democrazia europea o occidentale sia quella da applicare in Cina o in
Medio Oriente. Papa Francesco parla sempre della Chiesa che non deve essere centrata
su se stessa. Mi sembra che l’Europa sia così: vuole applicare i suoi criteri a tutto il
mondo e questo è sbagliatissimo, socialmente e anche politicamente».
Noi in Europa viviamo un periodo in cui spesso, a motivo dei fatti che accadono, siamo
soliti usare molte semplificazioni. Come vivete il rapporto con l’Islam nella vostra
regione?
«Nelle nostre terre il rapporto con l’islam è diversissimo dal rapporto che esiste in
Occidente. Per un motivo molto semplice: nelle nostre terre l’Islam è maggioritario, noi
siamo il tre per cento della popolazione e dunque dobbiamo fare delle concessioni.
L’Islam quando è maggioritario non si mette in discussione. Però in Europa l’Islam sarà
sempre minoritario, è inutile pensare che l’Europa sarà musulmana. È una paura che
non è fondata. L’islam in Europa si deve forgiare una giurisprudenza fatta per un Islam
minoritario. Finora la giurisprudenza musulmana è fatta per un Islam che comanda, e gli
altri si devono sottomettere. I nostri rapporti, nel dialogo a livello di vita normale, di
studi, di intellettuali, sono ottimi. Ma tutto questo si ferma davanti al matrimonio:
quando si arriva a quello, il cristiano dice io sono cristiano, il musulmano dice io sono
musulmano. E questo è accettato da ambedue le parti, anche perché se qualcuno
trasgredisce questa situazione di statu quo, il 99 per cento di matrimoni misti tra
cristiani e musulmani falliscono. Il concetto di matrimonio non è lo stesso, il ruolo della
donna, dei figli, non è lo stesso».
Esiste un unico Islam o ci sono tanti Islam?
«Esistono tanti modelli di musulmani. L’Islam è come il cristianesimo, è uno. Dipende da
come tu lo vivi, quali versetti del Corano tu prendi. In effetti, i problemi non sono tra le
fedi, ma tra la gente che crede in queste fedi. C’è il cristiano fanatico, c’è l’ebreo
fanatico, e c’è il musulmano fanatico. È vero che la proporzione dei musulmani fanatici è
molto più grande rispetto a quella dei cristiani, anche perché la matrice del Vangelo è
l’amore e la pace».
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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 10 L’ultimo tabù degli italiani. Il silenzio sul milione di bambini che vive in
povertà assoluta di Dario Di Vico
Le nuove disuguaglianze
Come italiani siamo generosi con le adozioni a distanza ma fatichiamo ad accettare che
da noi vivano 1,1 milioni di bambini in povertà assoluta. Che diventano 2 milioni se
esaminiamo la povertà relativa, un bambino su 5. Persino nella rissosa lotta politica è
rimasto quest’ultimo tabù: la paura di ammettere che in Italia ci sono situazioni che una
volta definivamo da «Terzo mondo» e che non coinvolgono solo ragazzi stranieri. Questa
amnesia convive con un paradosso: la quota crescente di bambini poveri si accompagna
alla diminuzione delle nascite. Nel 2015 sono state 488 mila, 15 mila in meno del 2014 e
nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia a oggi. È anche il quinto anno consecutivo che la
fecondità cala, ora è pari a 1,35 bambini per donna, cifra che andrebbe ancora ridotta se
conteggiassimo le sole mamme italiane. La presenza di minori indigenti fa a pugni poi
con la tradizione culturale di un Paese che ha sempre manifestato calore per i propri
figli/cuccioli tanto da sovra-accudirli e, almeno per le classi abbienti, riempirli di corsi di
nuoto/danza, apprendimento della seconda e terza lingua, controllo compulsivo via
iphone. I sociologi segnalano, infine, un ulteriore trend: il futuro appare incerto e si
fanno meno figli anche per concentrare benessere, cure e risorse su uno solo.
La mappa del rischio - Il recente Rapporto Istat ha dedicato attenzione al fenomeno
indicando nei minori il soggetto che in termini di povertà e deprivazione ha pagato il
prezzo più elevato della crisi, peggiorando anche rispetto agli anziani. L’indice di povertà
relativa che tra il ‘97 e il 2011 per i minori aveva oscillato su valori attorno all’11-12%,
nel 2012 ha superato il 15% e ha raggiunto il 19% nel 2014. Al contrario tra gli anziani che nel ‘97 presentavano un indice di povertà di 5 punti più grave dei minori - si è
osservato un progressivo miglioramento e oggi la povertà relativa degli anziani nel 2014
è stata di 10 punti meno dei giovani. La crescente vulnerabilità dei minori è legata alle
difficoltà economiche e occupazionali dei genitori, il miglioramento della condizione degli
anziani è dovuta (invece) anche al progressivo ingresso tra gli ultra 65enni di
generazioni con titolo di studio più elevato e redditi sicuri. Commenta la ricercatrice
dell’Istat Linda Laura Sabbadini: «C’è da rifocalizzare la mappa del rischio-povertà e le
misure di contenimento vanno rapportate alle nuove emergenze, superando vecchi
cliché e individuando strumenti mirati per i singoli segmenti di popolazione». Ma dove si
addensa il pericolo di indigenza minorile? I bambini del Sud e quelli che vivono con un
capofamiglia che ha frequentato appena le elementari presentano un rischio 4 volte
superiore a quello dei residenti al Nord e dei figli di diplomati. I parametri che si usano
per definire la deprivazione sono di tipo materiale (carenza di vestiti, giochi e cibo) e
immateriale (possibilità di festeggiare il compleanno o fare almeno una settimana di
vacanza l’anno) ma conteggiano, ad esempio, anche lo spazio per poter studiare in casa.
Trasmissione intergenerazionale - Il disagio sfocia in prima battuta nell’abbandono della
scuola e al Sud colpisce il 2-3% dei bambini: una media considerata inaudita in campo
europeo. La onlus Save the children - molto attiva e autorevole - ha pubblicato di
recente uno studio sulla povertà educativa: solo il 13% dei bambini tra 0 e 2 anni riesce
ad andare al nido e usufruisce di servizi integrativi e i divari tra le regioni sono
impressionanti. Tra Emilia e Campania/Calabria/Puglia ci sono anche 25 punti di
distanza. Dopo l’assenza precoce dalle aule, e compiuti i 14 anni, i ragazzi scompaiono
nella nebulosa dei Neet, ne sappiamo poco e ne vediamo ricomparire alcuni come
esercito di riserva della criminalità o nelle bande degli ultrà del calcio. Dormono a casa
dei genitori ma durante il giorno stanno sulla strada alternandosi tra lavoretti, bullismo e
vicinanza alla droga. «La povertà minorile è grave per i danni che reca nell’immediato
ma ancora di più perché è una condanna, determina in negativo tutto l’iter successivo di
vita» sostiene Enrico Giovannini, ex ministro del Lavoro e ora presidente dell’Alleanza
italiana per lo sviluppo sostenibile. Siamo dunque nel pieno della «trasmissione
intergenerazionale della disuguaglianza», per questi giovani non partirà nessun
ascensore sociale e anzi sono intrappolati sin dall’infanzia nella marginalità. «Non
converrebbe allora - si chiede Maurizio Ferrera, direttore scientifico di Secondo welfare intervenire per sostenerli quando ancora la loro esistenza si può raddrizzare, invece di
chiudere gli occhi e doverli poi supportare per tutta la vita con scarsa efficacia e spreco
di risorse».
Proposta provocatoria - Prima di avventurarci nel campo dei rimedi è il caso di ragionare
sulla rappresentanza di questi interessi deboli. La nostra spesa sociale è concentrata
nella tutela della vecchiaia (nel 2014 equivaleva al 14% del Pil!) e spesso mancano le
risorse per altri interventi più lungimiranti. Senza addentrarci in semplificazioni del tipo
«meno ai nonni, più ai nipoti» è chiaro che le ragioni dei primi vengono difese in tanti
modi: con la loro presenza nella vita civile, con la rivalutazione del valore dell’esperienza
nella gestione delle complessità ma anche con organizzazioni che esercitano pressing sui
decisori pubblici. I sindacati dei pensionati, non è certo una novità, hanno un notevole
peso nelle confederazioni e presidiano con costanza i temi che li riguardano ma chi
difende, invece, le ragioni dei minori poveri? Per rispondere a questa domanda le Acli più
di 10 anni fa con l’ex presidente Luigi Bobba, ora sottosegretario del governo Renzi,
avanzarono una proposta provocatoria: far votare i bambini attraverso una doppia
scheda affidata alle loro mamme. «Solo così il suffragio sarà veramente universale»
sostenne e tirò fuori persino una frase del filosofo Antonio Rosmini, «Un voto per ogni
bocca da sfamare», ricordando come un’identica idea avesse animato nei mesi
precedenti 43 deputati del Bundestag. La proposta è rimasta al palo anche se ogni tanto
rispunta carsicamente perché nonostante tutte le dissertazioni sulla disintermediazione
in realtà ci si accorge che chi non ha voce (i bambini o le partite Iva) vorrebbe essere
«mediato» e quindi caso mai il problema è riequilibrare il peso delle lobby. Le politiche
contro la disuguaglianza passano anche di lì. Rispetto al passato, va detto, qualcosa si
sta muovendo e c’è un protagonismo di soggetti assai diversi tra loro come le fondazioni
ex bancarie e alcune sigle del terzo settore che fa ben sperare. Proprio nei giorni scorsi
Giuseppe Guzzetti ha presentato a loro nome un fondo per il contrasto della povertà
educativa che spenderà 400 milioni in 3 anni.
La cultura «anzianista» - Quando si passa alle famose policy c’è subito un bivio. Una
vecchia visione, fortissima a sinistra, chiede di tassare i ricchi e redistribuire ai poveri
ma si presta a mille controindicazioni non ultima l’alta pressione fiscale e il rischio che il
ritorno avvenga in modo inefficiente e comunque tardi. Sarebbe dunque da preferire una
visione alternativa nella cultura e nella tempistica ovvero intervenire affinché i giovani
non si portino dietro il peso del retroterra familiare. Senonché la delega all’assistenza
inserita nella legge di Stabilità 2016, che avrebbe dovuto trasformare in provvedimenti
quest’idea razionalizzando l’attuale spesa per l’assistenza, è stata via via svuotata e ciò
nonostante che Bruxelles ci abbia intimato di intervenire sull’indigenza dei minori. Come
è possibile, si dirà, che la politica italiana con la sua retorica antiausterity si faccia
cogliere in fallo dai grigi eurocrati persino in materia sociale? In realtà la lotta alla
disuguaglianza «sin da piccoli» non è nel Dna della cultura politica italiana, la sinistra
che oggi monopolizza il potere è anzianista e filosindacale e il renzismo non ha
saputo/voluto cambiare marcia. Anche perché ha la presunzione di voler incassare un
dividendo subito, da qui la predilezione per lo strumento dei bonus (per i bebè o i 500
euro per la cultura ai giovani). «Il riorientamento della spesa sociale verso i minori dà
effetti differiti nel tempo - spiega Ferrera - ed esce dall’orizzonte elettorale, così si teme
di far arrabbiare gli elettori a cui sono stati tagliati i trattamenti di favori e di esporsi al
rischio di punizione nelle urne». Perché come si sa i poveri non votano e i minori
tantomeno.
AVVENIRE
Pag 1 Prova di maturità di Massimo Calvi
Due anni dopo, ecco il nuovo non profit
Con il mese di maggio ogni anno in Italia fa la sua comparsa, per restare attivo più o
meno tutta l’estate, un tipo di volontario un po’ particolare, utilissimo, ma che operando
nell’ombra e in un ambito non particolarmente nobile o elevato raramente viene
considerato per il valore che produce. È il cuoco delle salamelle. Il signore o la signora
che, passando le ore più calde della giornata alla piastra o alla griglia, permette la
riuscita di ogni festa di fine anno della scuola, dell’asilo, della società sportiva, della
parrocchia, della cooperativa sociale. Il cuoco delle salamelle (delle braciole, dei
panzerotti, della pasta, della polenta...) rappresenta una delle più pure forme di
volontariato, tra le meno istituzionalizzate e più libere, l’impegno speso per regalare la
gioia di un pasto condiviso. È la minuscola 'mattonella' di servizio che, insieme a migliaia
di altre in ambiti diversi, permette a quel vastissimo mondo chiamato società civile, non
profit o Terzo settore, di andare avanti, svolgere il suo servizio per gli altri e celebrare
ogni volta la sua festa. Ne parliamo perché da oggi, con il via libera definitivo alla
Camera della riforma del Terzo settore, per questo universo composto da 300mila
organizzazioni, 5 milioni di volontari e 1 milione di occupati, possono cambiare molte
cose. Augurarsi che la trasformazione sia solo in meglio non è cosa di poco conto. Sotto
il cappello del Terzo settore, una definizione un po’ fredda per dire che si tratta di realtà
tra lo Stato e il mercato, c’è tanta parte della nostra vita e spesso dell’impegno diretto di
molti di noi, oltre che di vari servizi di cui usufruiamo: l’associazione vicina agli anziani,
la squadra di calcio o di basket dei figli, la cooperativa che gestisce asili nido o centri
estivi, la fondazione che sostiene centri e strutture per disabili, l’associazione culturale,
l’impresa sociale che offre servizi socio sanitari a costi accessibili. Un’economia e una
società rigorosamente senza scopo di lucro. C’è un intero mondo che entra dunque in
una fase nuova. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi aveva annunciato la riforma due
anni fa esponendosi, come è nel suo stile, nella promessa che il Terzo settore sarebbe
un giorno diventato il Primo. Forse è un po’ difficile, ma nella riforma gli elementi ci sono
tutti, se non per scalare la classifica dei settori, almeno per far diventare grande il non
profit, rafforzarlo a livello di risorse e capitali, offrirgli la possibilità di valorizzare la
componente imprenditoriale e di innovazione, fornirgli insomma molti strumenti per
compiere quel salto, anche in termini di emancipazione, che si auspicava invano da
troppi anni. Il rischio che molti paventano è quello di vedere il Terzo settore crescere
fino al punto di prendere il posto dello Stato nella gestione di molti servizi di welfare.
D’altro canto c’è chi teme, nel possibile vuoto lasciato dalla ritirata degli enti pubblici,
l’avanzata dei privati con solo scopo di profitto. È per questo che, anche guardando ai
decreti attuativi, sarà importante rispettare l’equilibrio raggiunto con la delega. Questa
riforma pone le basi perché vi siano più trasparenza, maggiore ordine grazie a un unico
quadro giuridico, più certezza delle risorse, migliore capacità di attirare capitali e risorse
finanziarie da investitori esterni, una valorizzazione e anche un rafforzamento in termini
di concretezza del volontariato. Perseguire finalità civiche, solidaristiche e di utilità
sociale, in forma privata e senza scopo di lucro, nel nome dell’interesse generale – così
come recita la legge – è la vera sfida per il non profit e la nuova impresa sociale. Ora di
fronte a un bivio etico: cedere al fascino del capitale e lasciarsi contagiare dalle pratiche
più estreme del mercato o riuscire a contaminare l’economia in senso positivo e civile
portando il meglio della propria identità? È difficile che possa essere una legge a
deciderlo. Grandi si diventa, maturi ci si dimostra. Per questo al non profit servirà
mantenere viva la propria anima, il volto e il servizio dei milioni di volontari che ogni
giorno fanno senza chiedere. Il cuoco delle salamelle come la signora dell’Alzheimer
cafè. Che in fondo siamo tutti noi.
Pag 3 Per un sistema equo e inclusivo di Flavio Felice e Fabio G. Angelini
Chiesa ed economia sociale di mercato
«Ti rivolgo, o vecchia Europa, un grido pieno d’amore: Torna a te medesima, sii te
stessa! Riscopri le tue origini. Ravviva le tue radici. Rivivi quei valori autentici che hanno
fatto gloriosa la tua storia e benefica la tua presenza tra gli altri continenti». Queste le
parole pronunciate da Giovanni Paolo II nello storico pellegrinaggio a Santiago di
Compostela nel 1982 e riprese da Benedetto XVI nell’Angelus del 24 luglio 2005. Questo
manifesto europeista è stato fatto proprio anche da papa Francesco nel discorso
pronunciato lo scorso 6 maggio, in occasione della consegna del premio Carlo Magno.
Con il suo stile inconfondibile, il Pontefice ha voluto dapprima ravvivare la nostra
sensibilità sulle radici più profonde dell’Europa, richiamando quell’umanesimo che nasce
dalla capacità di integrare, di dialogare, di generare che sono iscritte nel codice genetico
dei popoli europei e, nello stesso tempo, ha proposto un’idea aggiornata di Europa, in
linea con il «complesso quadro multipolare dei nostri giorni», sfidandoci a pensare un
paradigma economico inclusivo ed equo, che investa sulle persone, creando posti di
lavoro e qualificazione. Significativamente, a tal proposito, rinviando all’Evangelii
gaudium, alla Laudato si’ e ai suoi illustri predecessori, Francesco ha fatto riferimento
all’Economia sociale di mercato, cogliendo in modo estremamente semplice e diretto
l’essenza del modello economico su cui è stata costruita l’integrazione economica
europea da parte dei suoi padri fondatori. Come ci hanno insegnato i padri dell’economia
sociale di mercato, rappresentata in Italia, da personalità quali Sturzo e Einaudi, si tratta
di un paradigma incentrato su una specifica proposta istituzionale, da riferimenti
culturali, etici e giuridici, orientata a generare inclusione, equità e sviluppo integrale,
mediante la continua vigilanza contro la concentrazione del mercato e la discrezionalità
della politica. Questo riferimento del Papa non deve stupire, se si considerano
l’attenzione del Magistero sociale a un sistema economico che riconosca il «ruolo
fondamentale e positivo» dell’impresa, della libertà, del mercato, della creatività e del
diritto di proprietà, inquadrati in un solido quadro valoriale e giuridico, il cui fondamento
sia l’intangibile dignità della persona (Centesimus annus, 42). Nella prospettiva della
Dottrina sociale della Chiesa, del resto, l’opzione preferenziale per i poveri non si traduce
in un assistenzialismo che mortifica la carità. Sul fronte della lotta alla povertà, essa
richiede un impegno costante a elevare i più deboli, perseguendo un’idea di sviluppo
che, attraverso l’inclusione, tenga conto non solo alla crescita economica, ma anche
dello sviluppo umano integrale, di cui la crescita è solo un aspetto: necessario, ma non
ancora sufficiente. Da questa visione e dalla carità cristiana discendono i concetti di bene
comune, di solidarietà e di sussidiarietà che sono alla base di quel «nuovo umanesimo
europeo» auspicato da Francesco, ma anche della civitas humana evocata
dall’economista Wilhelm Röpke, tra i padri dell’economia sociale di mercato. Con questo
discorso Francesco, conferma la volontà di porre la Dottrina sociale della Chiesa al
centro del dibattito economico e istituzionale europeo, quale contributo indispensabile
per risvegliare l’Europa dal suo torpore. Inoltre, egli contribuisce a cogliere un tratto
fondamentale della economia sociale di mercato: la grande sfida inclusiva e solidale di
fronte alla quale è posta l’economia europea e rispetto alla quale, in un contesto di
contrazione delle risorse pubbliche, occorre un deciso investimento sul lato della
sussidiarietà orizzontale, dell’accesso al credito, dell’istruzione, della mobilità sociale,
dell’imprenditorialità e del lavoro. Lungo questa via, investendo la responsabilità di tutte
le istituzioni ordinate secondo il principio di sussidiarietà, la ricerca del bene comune può
diventare la leva di un progetto di crescita dell’economia europea e un modello da
proporre ai Paesi in via di sviluppo, per l’edificazione di un’autentica civitas humana.
LA NUOVA
Pag 1 Stipendi, il massimo e il minimo di Ferdinando Camon
È passata inosservata una notizia importante, lanciata dal cuore del Veneto, Padova.
Risale a sabato scorso. Ci è stata richiamata alla memoria domenica, quando un’altra
notizia, anch’essa importante, è giunta dalla Francia. Rievochiamole e parliamone. Il
direttore generale della Banca Etica di Padova ha informato che il suo stipendio, il più
alto nell’azienda, è di 4,6 volte superiore allo stipendio più basso: «Per statuto – ha
spiegato -, non può superare di sei volte lo stipendio minimo». Dunque l’azienda ha
stabilito che tra il peggio pagato e il meglio pagato il divario deve stare nel rapporto da 1
a 6. Platone aveva la stessa idea: nel libro “La Repubblica” propone il rapporto da 1 a 5.
Il giorno dopo dalla Francia quaranta intellettuali denunciavano la pratica delle superaziende di applicare un rapporto enormemente superiore, e cioè di 1 a 240. E
chiedevano al governo di metterci un alt, stabilendo per legge che gli stipendi più alti
non possano superare di oltre 100 volte gli stipendi più bassi: il rapporto di 1 a 240
diventerebbe di 1 a 100. Con un taglio di oltre la metà. Quel che è sorprendente, nella
notizia francese, è che la lettera con la petizione, partita con 40 firme, in un giorno ne
ha raccolte 10mila. E il primo ministro Manuel Valls ha dichiarato: «La penso allo stesso
modo, sono convinto che questa sia la strada che dovremo imboccare». Se quella
petizione francese fosse lanciata in Italia, raccoglierebbe anche qui una marea di
adesioni, e sarebbe un gran bene. Ma ci lascerebbe comunque un rammarico: il rapporto
di 1 a 100 è ancora troppo alto. L’Italia è in crisi, la Francia pure. Bisogna uscirne. Ma, o
si esce tutti insieme o non si esce. E per uscire tutti insieme bisogna eliminare le
disuguaglianze mostruose, come quella che, dicono i francesi, nelle loro aziende
prevedono stipendi annuali da 5mila euro in basso e da 1 milione e 200mila in alto. Chi
sta in basso, non ha da mangiare. Chi sta in alto, compra ville e barche. Che interesse
ha, chi sta in basso, a lavorare perché un sistema del genere continui? Se il primo
ministro francese dice che prima o poi bisognerà passare al rapporto di 1 a 100, vuol
dire due cose: che si può farlo e che è giusto farlo. Non retroattivamente, questo non si
può, ma d’ora in avanti. Non è che da noi le cose siano molto diverse. Né per gli
stipendi, né per le pensioni. Però, se si deve reimpostare la piramide retributiva, se in
basso i francesi hanno adesso salari minimi da 460 euro, col rapporto da 1 a 100 in alto
verrebbero ad avere stipendi da 46.000 euro mensili: in tempo di crisi, e per uscire dalla
crisi, non è la cifra adatta. Il rapporto fissato dalla Banca Etica, di 1 a 6, ricalcando il
modello pensato da Platone, resta comunque inferiore al rapporto stabilito dalla Olivetti,
quando la Olivetti nasceva: alla Olivetti il rapporto era di 1 a 10. Ho lanciato la
discussione su Facebook, e qualcuno mi ha risposto: però così l’azienda muore, perché i
manager migliori se ne vanno. L’esperienza della Olivetti dimostra il contrario: la Olivetti
è cresciuta fino a diventare una delle migliori aziende al mondo, arrivando ad inventare
una calcolatrice che era l’antesignana del computer. L’aveva chiamata Divisumma.
Siamo in crisi, e, come dice il Manzoni, la crisi aguzza il cervello: qualcosa dovremo
pensare anche noi italiani. Se la petizione francese girasse anche qui, io la firmerei, ma
a malincuore. Preferirei il modello Olivetti, 1 a 10. O, meglio, ancora, il modello della
Banca Etica: 1 a 6. Se in un’azienda uno guadagna un sesto dell’altro, sta male, ma è
pur sempre un uomo. Se invece guadagna un duecentoquarantesimo, non è più un
uomo, ma un subumano. Un’azienda non può andar bene, se una parte dei suoi
lavoratori son trattati come subumani.
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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
IL GAZZETTINO
Pagg 20 – 21 La Biennale “ripara” il mondo. Baratta: una sfida per i sindaci di
Sergio Frigo, Paolo Navarro Dina, Lidia Panzeri e Enzo Di Martino
Padiglione Italia: il pensare, l’agire, l’incontrarsi. Tra migrazioni e identità, i padiglioni
stranieri. Il commento: il passo indietro delle Archistar e il riscatto della funzione sociale
Se vi era sembrata molto politica l’ultima Biennale d’arte di Enwezor, andate a visitare
quella di Architettura di Alejandro Aravena, di cui è in corso l’affollatissimo vernissage, e
poi ne parleremo. Bella è bella, non c’è dubbio: suggestiva, emozionante, stimolante,
capace di far concorrenza - quanto a spettacolarità - alla "sorella maggiore", la rassegna
d’arte (di cui ha superato il numero di visitatori della prima gestione Baratta). Al tempo
stesso però i contributi arrivati a Venezia dagli 88 progettisti invitati da Aravena e dai 65
paesi del mondo presenti con un loro padiglione, in risposta al tema "Reporting from the
front", sono tutti all’insegna di quel "politically correct" che sembrava definitivamente
seppellito dai populismi di ogni latitudine; e solo la grande varietà di "paesaggi" umani e
geografici qui rappresentati (dalle tribù dimenticate dell’Amazzonia, alle megalopoli
orientali, alle periferie urbane americane ed europee) evita l’effetto ripetizione. Viste da
qui, dunque, le questioni cruciali del nostro tempo - la sostenibilità dello sviluppo e la
crisi dell’accoglienza sotto l’assedio delle migrazioni - sembrano in via di soluzione, o
quanto meno collocate entro il giusto quadro di riferimento: come dice il presidente
Paolo Baratta «di fronte a questi problemi possiamo fingere che non esistano, o
prenderne atto e cercare di capire come affrontarli per ricavarne delle possibili
opportunità, migliorando contestualmente anche la nostra qualità della vita». Inevitabile
il richiamo al Nordest, in cui «basta aprire Google Earth per vedere quanto il territorio ha
pagato allo sviluppo di capannoni sovradimensionati, e comprendere quanto sia
impellente interrogarsi su come rimediare. Per questo ci rivolgiamo ai sindaci, che
saranno lo snodo di questa svolta». In pratica quella che si presenta a Venezia è
un’architettura (e un’urbanistica) che nel «dare forma ai luoghi in cui vive la gente»
(Aravena), è più attenta che nell’era degli archistar al sociale, al risparmio, al riuso, e si
propone di intervenire sui guasti creati ovunque dal nostro modello di sviluppo con delle
operazioni di "rammendo" che la creatività dei progettisti trasforma in "ricamo". Gli
esempi si sprecano, e ci torneremo nei prossimi giorni: ma si possono citare, per restare
vicini, la novità assoluta della presenza della Biennale in terraferma con gli interventi
sulle città-porto presentati da Stefano Recalcati a Forte Marghera; e, su Marghera, il
prestigioso contributo di Renzo Piano col progetto di recupero messo a punto coi suoi
giovani collaboratori dello studio G124; ma poi ci sono gli interventi italiani presentati
nel nostro più che sobrio Padiglione nazionale, di cui parliamo sotto; e poi le scuole rurali
ricostruite in Thailandia (dopo il terremoto), in Amazzonia (padiglione peruviano) e sulle
Ande (bella video-installazione di Elton-Léniz al Padiglione Centrale), la maxi discarica
diventata un paradiso verde in Colombia e i mattoni creativi del Paraguay (sempre ai
Giardini), i progetti di "ritessitura" della vita di relazione presentati dal Giappone, e quelli
per la riduzione delle disuguaglianze del padiglione francese. Non si contano gli
interventi finalizzati all’integrazione dei migranti, non solo nel padiglione tedesco, che si
presenta con le porte aperte e una efficace elaborazione concettuale sul tema
dell’accoglienza, ma anche in quello belga, e persino nella Finlandia che di porte ai
profughi non ne ha spalancate poi molte. In questo fiorire di interventi dal basso non
stupisce che grandi nomi come Norman Foster e Herzog & De Meuron finiscano in fondo
all’Arsenale, accanto alle architetture illegali e in autocostruzione del Collettivo A+ di
Barcellona o al progetto Warka Water per il recupero di acqua dagli sbalzi termici in
Africa. Anche nel privilegiare i materiali da costruzione, naturalmente, la rassegna di
Aravena è decisamente connotata: non solo quelli riciclati dall’ultima Biennale o
dall’Expo, ma anche tanto legno, tanto cotto, tanto cartongesso, persino il fango delle
costruzioni del Bangladesh, e poi tende e tessuti grezzi. Anche se proprio il materiale
riciclato ha tradito gli allestitori: le didascalie, incollate su tavolette di cartongesso, con
supporti di tondini arrugginiti e un mattone come base, nel buio delle Corderie risultano
quasi illeggibili, e spesso poco collegate al loro oggetto. Un po’ più di tecnologia avrebbe
aiutato.
I criteri di ricerca sono tre: pensare, agire e incontrarsi. E se proprio vogliamo ce ne è
anche un quarto: prendersi cura. É tutta qui la chiave di lettura del progetto "Taking
care-progettare per il bene comune" a cura di TamAssociati, pool di architetti veneziani
(Massimo Lepore, Raul Pantaleo, Simone Sfriso) che ha avuto l’onore di allestire il
Padiglione Italia, il biglietto da visita "nazionale" alla Biennale Architettura. «Questa
mostra - sottolineano i curatori - vuole generare una nuova consapevolezza civica.
Pensare è una ricognizione sul tema del bene comune e del rapporto con lo spazio
comune; incontrare vuole dire analizzare 20 progetti di architettura in Italia e all’estero
per svilupparne i campi di indagine, su temi squisitamente ambientali (legalità, salute,
abitare, ambiente, istruzione, gioco, cultura, scienza, alimentazione, lavoro). Infine il
tema "Agire" che coinvolge cinque studi di architettura italiani e altrettante associazioni
del sociale (Associazione biblioteche, Emergency, Legambiente, Libera, Uisp), che
saranno dotate di "dispositivi mobili" come uno spazio di lettura, un ambulatorio mobile,
una unità di monitoraggio ambientale, un campo da gioco e un presidio per la
convivenza). Tutto questo verrà realizzato attraverso una raccolta civica di fondi
denominata "Taking Care-periferie in azione", la prima in Italia realizzata con queste
modalità Www.periferieinazione.it.
Venezia - Domani il ministro, sabato il premier. Dario Franceschini sarà presente domani
alle 16.30 alla Biennale Architettura per l’inaugurazione del Padiglione Italia. Ma sabato
mattina arriverà anche il presidente del Consiglio Matteo Renzi che ieri ha messo nero su
bianco nella sua newsletter Enews: «Non penserete che il viaggio intercontinentale (per
il G7 in Giappone, ndr) mi allontani dal consueto tour nel Paese. Torniamo venerdì notte
e sabato mattina, alle 11, siamo a Venezia per l'inaugurazione della Biennale. Poi alle 14
firmiamo un importantissimo accordo a Trieste per il Porto Vecchio, con 50 milioni di
investimenti che si sbloccano».
Il tema dei migranti è ampiamente presente nei padiglioni stranieri della Biennale,
quest’anno con il nuovo record di 65 e le nuove partecipazioni di Filippine, Kazakistan,
Nigeria, Yemen. Tema presente là dove te lo aspetti, come il padiglione della Grecia con
il suo documentario dei disperati che approdano alle isole, e là dove non te l’aspetti:
l’Austria, tacciata di xenofobia, che mostra le strade dell’accoglienza della sua capitale.
Persino gli Stati Uniti, pur così lontani dallo scenario mediterraneo, affidano al gruppo
Zago il compito di progettare delle residenze per i 68mila rifugiati che il presidente
Obama intende accogliere a Detroit. Ma la più coinvolta è la Germania, che presenta una
frontiera aperta, estesa a tutto il territorio, per fare con gli immigrati ”Heimat“, concetto
che include la nozione di casa e quella di patria. Fioriscono diverse soluzioni
architettoniche, predominano le forme della capanna-rifugio o dei campi profughi persino
in un paese, come il Sahara Occidentale, che ancora non esiste come nazione e che
esibisce una struttura quanto mai precaria ai giardini, di fronte al palazzo centrale. Altro
tema trasversale è quello dell’identità, che raggiunge il suo acme nel neo padiglione
dello Yemen, all’Arsenale. Di fronte al perdurare della guerra civile l’(utopico) rimedio è
la scritta “Conserva il magnifico Yemen”, come dimostra il documentario sulla bellissima
capitale Sanaa. Persino il padiglione degli Emirati Arabi, quello degli avveniristici
grattacieli di Dubai, presenta una tipologia di case tradizionali nel contesto di un
ambiente dove ancora dominano i dromedari. Una rilettura più politicizzata del proprio
passato la danno il Messico, con riferimento ai campesinos e l’Uruguay con i tupamaros.
Elegante nei suoi antichi costumi, e nostalgico anche il padiglione cinese, con la parata
di strumenti di vecchi mestieri e piccole tende a conservare esempi di monumenti
secolari. Il Perù, invece, riscopre la sua Amazzonia, una risorsa ecologica ma anche
aperta al futuro delle nuove generazioni, per cui si costruiscono scuole in legno. La
rassegna dei padiglione all’Arsenale comprende anche la provocazione della Turchia con
una nave molto sbrecciata (quasi il residuo di un naufragio) a significare i rapporti oggi
un po’ logori con Venezia e ai tempi della Serenissima molto proficui. Per tornare ai
giardini il Giappone ancora deve fare i conti, in termini urbanistici, con il disastro
nucleare di Fukushima; la Gran Bretagna scandisce i diversi tempi dell’abitare: il più
veloce quello legato al wifi; l’Australia, tutta in azzurro, invita a fare un tuffo nella sua
piscina, elemento architettonico assai diffuso. Ecologico il padiglione israeliano. Non
tentate di entrare nel padiglione canadese: lo troverete sbarrato da tanti sacchi di
terriccio delle miniere di Sulcis (Sardegna) quella da cui si poteva estrarre un grammo di
oro per ogni miliardo di grammi di terra. Poi, dopo, che la miniera è stata prelevata da
una compagnia canadese, solo la desolazione del disastro ambientale.
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag IX “Don Vecchi” 7 per i giovani di Alvise Sperandio
Spunta l’idea per un nuovo centro di accoglienza agli Arzeroni. Ospitalità per il sostegno
agli anziani e il rilancio dei vecchi mestieri. Il 18 giugno l’edificio numero 6 per disabili e
genitori separati
Un nuovo centro Don Vecchi, questa volta per giovani in cerca di lavoro. Neanche il
tempo di finire il numero 6 che sarà inaugurato sabato 18 giugno, che la Fondazione
Carpinetum guarda già avanti. E, a quanto pare, la splendida avventura intrapresa più di
20 anni fa da don Armando Trevisiol è destinata a continuare con un altro tassello
destinato ad andare incontro a una delle esigenze più sentite in questi anni di dura crisi
economica: sostenere l'occupazione di chi esce dalla scuola oppure dall'Università.
«Vorremmo, da un lato, promuovere le mansioni socio-sanitarie affinché siano i nostri
giovani a potersi occupare degli anziani che le nostre strutture ospitano, in un'ottica di
incontro e scambio generazionale di esperienze e saperi; dall'altro, riservare a loro
alcuni appartamenti perché possano uscire da casa o avere un punto di appoggio se
provengono da altre città proprio per lavorare», spiega il consigliere d'amministrazione
Edoardo Rivola. Il quale rivela un particolare interessante: proprio per creare nuove
opportunità d'impiego, la Fondazione ha avviato un dialogo con le associazioni di
categoria cittadine per mettere in piedi dei protocolli d'intesa e unire le forze per
centrare l'obiettivo. Così, solo per fare un esempio, in forza dell'intesa che potrebbe
essere raggiunta con gli artigiani, potrà capitare che un ragazzo che va ad abitare al Don
Vecchi 7 venga occupato in un'azienda iscritta a quella organizzazione, anche per
sostenere il recupero e il rilancio di alcuni vecchi mestieri che tra gli italiani sembrano
passati di moda. Lo stesso presidente e parroco di Carpenedo, don Gianni Antoniazzi,
nelle ultime domeniche ha spiegato che dopo aver offerto accoglienza agli anziani (centri
1-5) e adesso alle cosiddette nuove povertà o particolari criticità abitative (6), è giunto il
momento di impegnarsi sui giovani. Qualcuno di loro, peraltro, potrebbe avere un ruolo
importante anche nella riorganizzazione degli spazi e dei servizi caritativi che si sta
profilando e che dovrebbe coinvolgere pure l'altro punto di forza che ha fatto eccellere il
modello ideato da don Armando: il polo del volontariato. Per la nuova sfida, oltre all'idea
c'è anche il progetto perché il nuovo complesso, da una sessantina di alloggi, sorgerà
nella stessa area di via Marsala agli Arzeroni già di proprietà della Carpinetum e dov'è
possibile realizzare in tutto quattro lotti. Dopo il numero 5 aperto due anni fa, il 6
prossimo al taglio del nastro in programma tra tre settimane e il 7 che ora sta
prendendo corpo, ne resterebbe a disposizione un altro ancora, perché continui la storia
iniziata nel lontano 1994 con il primo centro in viale Don Sturzo.
Il Don Vecchi 6 sorge a fianco del 5. Completamente finanziato dalla Fondazione, anche
grazie alle tantissime offerte ricevute dalla gente e qualche lascito testamentario, è
costato poco più di 4 milioni di euro. I suoi 60 appartamenti, concessi in comodato d'uso
temporaneo, ospiteranno padri e madri separati con o senza figli; disabili in cerca di
autonomia; lavoratori stagionali in trasferta; parenti che assistono i propri cari degenti in
ospedale; giovani coppie nelle fasi d'avvio della vita comune; e altri casi di emergenza.
Sono già partiti i colloqui tra la direzione e gli interessati per gli inserimenti.
Pag XX “Vogliamo pregare”. Il duello continua di Giuseppe Babbo
Jesolo: nulla di fatto dopo l’incontro tra islamici e Comune. Si va verso manifestazione e
richiesta danni
L'incontro è stato definito "cordiale e aperto", ma le posizioni continuano a rimanere
opposte. Il duello sul centro culturale islamico non è ancora terminato e la
manifestazione di protesta potrebbe essere organizzata in estate, assieme ad una
richiesta danni. Nulla di fatto dunque dopo l'incontro dell’altra sera in municipio tra il
sindaco Valerio Zoggia ed rappresentanti dell'associazione culturale Incontro, riunione
alla quale hanno partecipato il vicesindaco Roberto Rugolotto, l'assessore alla Sicurezza
Luigi Rizzo, Salvatore Esposito di Sel, Nazzareno Fuser del comitato per i diritti civili e
Kamal Houssein, rappresentante della comunità islamica. «Abbiamo semplicemente
ribadito alcune questioni che erano già note - spiega il sindaco -. Da parte nostra non c'è
alcuna preclusione perché all'interno del centro di via Aquileia si possa svolgere
un'attività culturale come quella richiesta, a patto che venga concluso l'iter per il rilascio
dell'agibilità dell'immobile: la pratica è stata avviata e gli uffici sono in attesa della
documentazione necessaria». Il centro però non potrà diventare un luogo di preghiera
come vorrebbero i fedeli islamici. «Non siamo contrari al fatto che loro possano praticare
il loro culto religioso - ribadisce Zoggia - ma serve un immobile urbanisticamente
compatibile con questo utilizzo, perché quello di via Aquileia, pur con l'agibilità, non ha
quel tipo di destinazione». «Attendiamo il rilascio dell'agibilità - ha risposto Salvatore
Esposito -. Secondo noi è anticostituzionale negare il diritto di pregare e in questo senso
esiste una sentenza della Suprema Corte che ci dà ragione: se verrà impedito di pregare
valuteremo se organizzare la manifestazione di protesta, quindi di chiedere i danni al
Comune. Inoltre segnaleremo tutte quelle processioni religiose lungo via Bafile o le
messe organizzate al Pala Arrex, perché avvengono in luoghi diversi rispetto a quelli di
culto».
LA NUOVA
Pag 23 Novecento euro per la chiesa (di S. Girolamo)
Novecento euro per la chiesa Hanno impiegato un sabato di maggio per sensibilizzare
quanti passavano a tenere presenti le necessità di restauro dell’antica chiesa di S.
Girolamo. E in poche ore hanno raccolto 900 euro. Protagonisti dell’iniziativa alcuni
studenti del Gritti, guidati dall’insegnante Maria Chiara Rossi e che ora, a pochi giorni di
distanza ed accompagnati dalla dirigente scolastica Emanuela Cecchettin, hanno
provveduto a consegnare il ricavato del loro impegno nelle mani di suor Gabriella
Signori, superiora delle Suore Figlie della Chiesa.
Pag 31 Moschea in via Aquileia, muro contro muro di g.ca.
Jesolo: nulla di fatto nell’incontro tra sindaco, comunità islamica, Sel e comitati per i
diritti civili
Jesolo. Centro preghiera in via Aquileia, muro contro muro tra il Comune, la comunità
bengalese, ma anche Sinistra Italiana e comitato per i diritti civili. Rapporti rispettosi e
civili, ma comunque fermi da entrambe le parti. La comunità vuole pregare, il sindaco
Valerio Zoggia ribadisce che la legge regionale lo vieta. Quindi si attende l’agibilità della
struttura, ma il Comune farà rispettare la legge: niente preghiera. Dall’altra parte si
chiede il rispetto della Costituzione sulla libertà di culto e della Corte Costituzionale in
merito alla legge regionale. Quindi entreranno per pregare e inevitabilmente sortiranno
sanzioni e altri provvedimenti. Il sindaco ha incontrato i rappresentanti dell’associazione
Incontro, con Kamal Hoassain, poi Salvatore Esposito e Nazzareno Fuser. C’era anche il
vicesindaco Roberto Rugolotto e l’assessore alla sicurezza Luigi Rizzo all’incontro,
richiesto dalla comunità per chiarire alcuni aspetti legati all’utilizzo del locale preso in
affitto dall’associazione culturale. «È stato un confronto dai toni distesi e volto al dialogo
come mi auspicavo e nel quale abbiamo, come amministrazione, semplicemente ribadito
alcune questioni che erano, peraltro, già note», spiega il sindaco, «la prima riguarda
l’utilizzo del locale preso in affitto. Non c’è alcuna preclusione perché all’interno si possa
svolgere un’attività culturale come quella richiesta a patto che venga concluso l’iter per il
rilascio dell’agibilità dell’immobile che, come più volte specificato, è stato oggetto di un
condono dopo una cambio di destinazione d’uso e quindi necessita del rilascio di una
nuova agibilità. La pratica è stata avviata, gli uffici sono in attesa della documentazione
necessaria da parte di chi ha presentato la richiesta». Sull’utilizzo come luogo di
preghiera chiara la posizione dell’amministrazione: «Non siamo contrari che possano
praticare il loro culto religioso e non c’è alcun tipo di pregiudizio visto che Jesolo è da
sempre una città aperta a tutti. Abbiamo cercato però di spiegare che per utilizzare un
luogo come centro anche di preghiera oltre che per le attività culturali la comunità
Incontro ha la necessità di trovare un immobile urbanisticamente compatibile con questo
utilizzo, perché quello di via Aquileia, pur con l’agibilità, non ha quel tipo di destinazione.
Che Jesolo sia una città aperta lo dimostra che ogni anno viene concesso lo stadio Picchi
per le celebrazioni di fine Ramadan».
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8 – VENETO / NORDEST
IL GAZZETTINO
Pag 11 Malato di Sla va a morire in Svizzera di Gianandrea Rorato
Operaio di 54 anni di Mansuè (Treviso) ha posto fine alle sue sofferenze in un clinica
specializzata. La famiglia: ha deciso autonomamente ed è partito da solo, rispettiamolo
La malattia lo aveva indebolito fino a stremarlo e lui ha scelto l’eutanasia: Lucio
Vendramini, operaio di 54 anni di Mansuè, è morto lunedì in una clinica svizzera nella
quale è praticato un "accompagnamento alla morte" che in Italia è proibito dalla legge.
Vendramini era malato da sei anni di sla (sclerosi laterale amiotrofica), una patologia
che non lascia scampo e che lo aveva anche costretto nel 2013 a lasciare il lavoro di
operaio in una ditta di arredi per bagno a Navolè di Gorgo al Monticano. La sla è una
malattia che progressivamente irrigidisce e indebolisce i muscoli. L’uomo era
consapevole di essere condannato e, a poco a poco, si è fatta strada nella sua mente la
possibilità di porre fine alla sua esistenza quando la sofferenza gli avesse impedito di
condurre una vita decente. Ma per fare questo non poteva restare in Italia: doveva
andare in uno Stato, come la Svizzera, che a determinate condizioni permette
l’eutanasia. Vendramini ha maturato la decisione nella più completa autonomia, senza
coinvolgere nessuno tra coloro che gli sono sempre stati vicini in tutti gli stadi della
malattia. E nessuno dei familiari lo ha accompagnato in Svizzera, dove è stato ricoverato
e dove è stata portata a termine la procedura della "dolce morte", come da volontà
dell’ammalato. Dalla famiglia è arrivata soltanto la conferma del decesso: «Lucio se n'è
andato lunedì scorso, ha deciso di porre fine alla sua sofferenza in maniera definitiva».
Vendramini era molto conosciuto tra Mansué e Gorgo. Lascia la compagna, due sorelle e
un fratello, tutti residenti a Mansué. Per motivi burocratici, dopo la procedura di
cremazione, occorrerà ancora qualche giorno per la cerimonia di addio. Infatti per il
rimpatrio, come spiegano gli stessi familiari, bisognerà attendere il nulla osta sia delle
autorità svizzere sia di quelle italiane. Sarà poi sepolto nel cimitero di Mansuè. Nessuno
vuole commentare nella famiglia di Lucio Vendramini. Soltanto una portavoce racconta:
«Ha maturato questa sua decisione in maniera autonoma. Alla fine ha deciso come
meglio ha creduto e dunque non possiamo che rispettare la sua volontà. Purtroppo Lucio
se n'è andato lunedì scorso, dopo aver deciso di porre fine alla sua sofferenza in maniera
definitiva. Circa sei anni fa gli era stata diagnosticata una grave forma di sla, la malattia
neurodegenerativa che conduce progressivamente alla morte. Oltre ad amare il suo
lavoro fino a quando è potuto andare in azienda era un appassionato di motociclismo. Ha
deciso di andarsene con grande dignità, lontano dal suo paese e dalla sua famiglia, in
una clinica svizzera dov'era ricoverato». «Dire che era una persona splendida è dire
poco» affermano i titolari della Idea Group di Gorgo, dove aveva lavorato per quasi 15
anni fino al 2013. E proseguono: «Ha lavorato da noi per anni, dal 1999 e fino al 2013,
ossia fin quando le condizioni fisiche glielo hanno permesso. Di certo era un ragazzo
d'oro, molto riservato, ma un grande lavoratore. E infatti la notizia ha rattristato tutti
qui: siamo un'azienda quasi familiare, ci conosciamo tutti».
CORRIERE DEL VENETO
Pag 2 Rifugiati, aumentano i bocciati. Ma lo stallo prolunga l’ospitalità di Angela
Pederiva
Richieste di asilo tra ricorsi e controricorsi. Dall’inizio dell’emergenza oltre 21mila arrivi
Venezia. Quanti sono i profughi (o presunti tali) arrivati in Veneto negli ultimi due anni?
Fra Mare Nostrum prima e Triton poi, secondo i calcoli del ministero dell’Interno sono
giunti a queste latitudini 21.821 migranti, di cui 8.701 risultano ancora presenti
all’interno delle strutture temporanee di accoglienza o del Sistema di protezione per
richiedenti asilo e rifugiati. Fra questi in 8.188 hanno presentato richiesta di
riconoscimento dello status, ma sulle 1.844 istanze finora esaminate, 1.196 sono state
respinte dalle commissioni territoriali che fanno capo al Dipartimento per le libertà civili
e l’immigrazione. Eccoli quei «due su tre» che alcuni - ultimo in ordine di tempo il
governatore leghista Luca Zaia, nell’intervista al Corriere del Veneto di ieri - definiscono
per l’appunto «falsi profughi», «semplici migranti economici», «clandestini e basta». Va
detto subito che il responso dei commissari di Verona, Padova e Vicenza rappresenta
una sorta di giudizio di primo grado, appellabile (ed assai appellato, difatti) davanti al
tribunale civile di Venezia, dove peraltro molto spesso i giudici ribaltano il verdetto degli
organismi composti da rappresentanti di prefettura, questura, Comune e Alto
commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, generando a cascata ulteriori
impugnazioni da parte dell’avvocatura dello Stato contro le sentenze favorevoli agli
immigrati: un iter che dura anni, allungando l’ospitalità e la spesa. «Il fenomeno dei
ricorsi sta aumentando in maniera esponenziale - conferma Giuseppe Sacco, segretario
dell’Ordine degli avvocati di Venezia - e lo vediamo dal numero di domande di
ammissione al gratuito patrocinio, per la stragrande maggioranza in favore di migranti.
Ormai siamo arrivati a 150 alla settimana, una patologia di cui soffriamo a livello
organizzativo, con un’impiegata destinata solo a questo compito. Perciò abbiamo deciso
di informatizzare il servizio, per velocizzare le procedure fra gli studi legali, i nostri uffici
e l’Agenzia delle entrate». Ciò premesso la situazione nella commissione territoriale
scaligera e nelle sedi distaccate euganea e berica è tale per cui in poco più di cento
giorni, vale a dire dal 1. gennaio al 15 aprile 2016, sono state presentate 3.091 nuove
istanze per il riconoscimento del diritto di asilo, che sommate all’arretrato portano le
pendenze ad un totale di 8.188. Come anticipato, di queste ne sono state esaminate
1.844 e 1.196 hanno avuto esito negativo. Che ne è stato delle altre? Il vero e proprio
status di rifugiato, cioè il permesso quinquennale (e rinnovabile senza accertamenti)
accordato a chi dimostra in maniera fondata il rischio di persecuzione, è stato concesso a
74 richiedenti. Ad altri 76 è stata rilasciata la misura più attenuata della protezione
sussidiaria (permesso triennale, prorogabile previa verifica). Per ulteriori 281 è stata
proposta la protezione umanitaria (permesso di soggiorno annuale). I restanti 217 sono
invece risultati irrintracciabili. Siccome ai commissari restano da affrontare oltre seimila
pratiche, al netto delle domande frattanto sopraggiunte, è particolarmente attesa
l’attivazione della nuova succursale di Treviso. «Dopo l’istituzione da parte del ministero
- riferisce la deputata dem Simonetta Rubinato - mancano solo le nomine dei
componenti di questura e Anci. Nel frattempo intendo verificare in sede ministeriale la
possibilità di recuperare due “tesoretti” nell’ambito dei fondi per l’accoglienza. I migranti
potrebbero accantonare il 30% del pocket money, per ritrovarsi al termine dell'iter con
500 euro da investire nel loro futuro da profughi qui o da spendere per tornare a casa. I
Comuni ospitanti potrebbero invece vedersi restituire la quota avanzata dai ribassi dei
bandi, per destinarla ai casi di disagio sociale dei residenti».
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… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Il naufragio dell’Europa di Beppe Severgnini
Le immagini del barcone rovesciato al largo della costa libica resteranno nei nostri occhi.
L’assurda festosità dei colori, l’acqua blu del Mediterraneo centrale, i tuffi dallo scafo
inclinato. Poi soltanto piccoli uomini sparsi nel mare immenso. Rari nantes in gurgite
vasto. Virgilio li descriveva così, duemila anni fa. In quel racconto naufragava la flotta
troiana di Enea, punita dalla dea Giunone. Oggi naufraga l’Europa, tirata a fondo dalla
propria sufficienza. Bambini, donne e uomini rischiano l’annegamento e gli squali a poca
distanza da Lampedusa, in una bella giornata di maggio. Scene che dovrebbero essere
mostrate in tutte le scuole d’Italia stamattina, insieme a una carta geografica. Solo la
generosità e la rapidità della nostra Marina Militare, alla guida della forza europea
(Eunavformed), ha impedito che un incidente folle diventasse una tragedia orrenda. Non
la prima, come sappiamo. Imprevedibile? No. Prevedibile e previsto, invece. Si diceva:
appena la primavera si sarà assestata e il mare si sarà calmato, riprenderanno le
partenze dalla Libia. È accaduto, ovviamente. In tre giorni, con quaranta operazioni di
soccorso, sono state raccolte in mare seimila persone. Centinaia di migliaia sono in
attesa, pronte a partire. Migranti africani, senza i requisiti per essere considerati
profughi e restare in Europa. Ho passato tre giorni sulla portaerei «Cavour» che
sorveglia il tratto di mare fino al limite delle acque libiche. Ho visitato altre unità in
elicottero. Ho ammirato la calma e il mestiere di tutti, ma ho capito: queste giornate
lasceranno il segno. Dice l’ammiraglio Andrea Gueglio, comandante dell’operazione
europea: «Abbiamo saputo dai naufraghi che alcuni compagni di viaggio sono morti in
questo modo: il motore si fermava e loro si buttavano a nuoto, convinti che la riva fosse
appena oltre l’orizzonte». Non sanno dove sono, non sanno dove vanno, non sanno
come navigheranno. Succede spesso che i migranti, dopo aver visto le condizioni di
trasporto, si rifiutino di salire a bordo, e vengano imbarcati a frustate, come bestie. Il
traffico di essere umani oggi è la seconda industria libica, dopo il petrolio. Creiamo
corridoi umanitari!, chiede qualcuno. Non permettiamo quest’abominio. Ma se il
passaggio in Europa fosse sicuro, i migranti non sarebbero decine di migliaia,
diventerebbero milioni. Il compromesso è quello che vediamo: sperare che i disperati
non partano, salvare quelli che lo fanno, ospitare i profughi, respingere gli altri.
Qualcuno la chiama ipocrisia: è solo impotenza. Una cosa, forse, si potrebbe tentare.
Spiegare ai migranti cosa li aspetta. Se è vero che sono inconsapevoli dei rischi e delle
prospettive, proviamo a informarli. Cosa è stato fatto nei Paesi d’origine? Quali
alternative sono state offerte a chi vuole prendere il mare? La proposta italiana – il
Migration compact inviato il 15 aprile ai presidenti della Commissione e del Consiglio Ue,
Jean-Claude Juncker e Donald Tusk – rappresenta un passo sulla strada giusta. «Senza
una cooperazione mirata e rafforzata con i Paesi terzi di provenienza e di transito - ha
scritto Matteo Renzi - la crisi diventerà sistemica». Tutto corretto, salvo il tempo del
verbo. La crisi è già sistemica. Lo dimostrano le vicende di queste ore. L’estate
aumenterà i flussi, i soccorsi, le tragedie. È necessario scoraggiare le partenze
dall’Africa. Almeno, bisogna provarci. L’ho visto da vicino, nei giorni scorsi. Una portaerei
è una nave immensa. Davanti a un continente, diventa un punto nel mare. Sono eroici, i
marinai italiani ed europei: non lasciamoli soli.
Pag 5 La ripresa degli sbarchi di Fiorenza Sarzanini
Ogni giorno duemila arrivi, i trafficanti hanno trovato nuovi scafi da far salpare
Martedì scorso nel tratto di mare che separa la Libia dall’Italia erano in navigazione
quindici gommoni carichi di persone. In tre giorni sono approdati sulle nostre coste
5.892 migranti, molti altri arriveranno nelle prossime ore, una media di 2.000 ogni 24
ore. Il flusso torna continuo e questo basta agli analisti per ritenere che gli scafisti siano
di nuovo attrezzati per gestire i viaggi della speranza, che ci sia una nuova fornitura di
imbarcazioni. Poco importa che si tratti di mezzi vecchi oppure insicuri, obiettivo è farli
arrivare in acque internazionali e lanciare l’Sos, proprio come accaduto ieri mattina. La
convinzione degli esperti è che sia soltanto l’inizio, dai porti di partenza giungono notizie
di centinaia di migliaia di persone ammassate in attesa di ottenere un posto. E di
trafficanti pronti a tutto pur di ricominciare a fare affari. Anche utilizzando gommoni
cinesi e motori provenienti dal Qatar.
La doppia rotta da Egitto e Libia - Ormai sono due i percorsi battuti dalle organizzazioni
criminali per giungere in Europa attraverso la «porta» meridionale che si trova appunto
in Italia: Sicilia, talvolta anche Puglia e Calabria. Quello che parte dalla Libia, in
particolare da Zwara e dalle spiagge vicine. E quello che comincia in Egitto. Entrambi
redditizi, almeno a leggere i dati del Dipartimento per l’immigrazione guidato dal
prefetto Mario Morcone. Perché è vero che - nonostante l’impennata di questi ultimi
giorni - la media complessiva rispetto allo scorso anno ha fatto registrare un calo degli
approdi pari al 9 per cento. Ma è altrettanto vero che attualmente accogliamo 115.507
persone, oltre 10 mila in più del 2015. Eppure questo doveva essere l’anno della svolta,
grazie al piano dell’Europa per i ricollocamenti. In base all’agenda messa a punto del
presidente Jean Claude Juncker, l’Italia avrebbe dovuto poter trasferire almeno 40 mila
richiedenti asilo negli altri Stati membri della Ue. Invece quel progetto è fallito e in vista
dell’estate il nostro Paese si troverà a gestire una nuova emergenza.
I gommoni cinesi con i motori del Qatar - La missione Frontex e l’attività della Marina
militare, della Guardia costiera e di tutte le forze navali e aeree impegnate nel
Mediterraneo, evidentemente non sono sufficienti a fronteggiare un’offensiva dei
trafficanti tornata molto aggressiva. Dopo le difficoltà dei mesi scorsi per reperire le
imbarcazioni, le bande criminali si sono organizzate e sono riuscite a ottenere decine di
mezzi. Alcune indagini svolte dai poliziotti dello Sco hanno accertato che uno dei canali
di approvvigionamento è quello di Internet. Ma non è l’unico. Sono state scoperte
«alleanze» che consentono agli scafisti di reperire gommoni cinesi e di assemblarli a
vecchi motori acquistati in Qatar. Materiale scadente che comunque serve a «coprire»
almeno la prima parte della traversata. Quando la barca va in avaria, scatta la richiesta
di aiuto e le navi che pattugliano quel tratto di mare intervengono per il salvataggio.
Come si è visto nelle immagini sul naufragio di ieri, ci sono anche alcuni pescherecci
provenienti dalla Tunisia che i trafficanti pagano poche migliaia di euro, sicuri che
potranno riempirli con centinaia di persone disposte a versare anche fino a 2.000 euro
pur di intraprendere la traversata.
Due nuovi «hotspot» da oltre 1.000 posti - Dopo la circolare diramata quindici giorni fa
dal Viminale per reperire nuovi posti per accogliere e assistere chi presenta richiesta di
asilo, i centri governativi e le strutture private messe a disposizione da Regioni e Comuni
sono quasi al limite della capienza. E dunque nei prossimi giorni bisognerà attrezzarsi
per reperire nuovi posti. Ma anche cercare di dare seguito alle istanze dei cittadini eritrei
che avevano ricevuto assicurazioni sul trasferimento urgente in altri Paesi dove avevano
chiesto di andare per raggiungere i familiari e invece sono stati bloccati perché gli Stati
non concedono il via libera al ricollocamento. La «road map» italiana già trasmessa a
Bruxelles prevede che oltre ai 1.600 posti nei centri di identificazione e smistamento - gli
ormai famosi «hotspot» - già allestiti, siano create due nuove strutture in Sicilia con le
stesse caratteristiche, vale a dire la presenza dei poliziotti e dei team internazionali per
le operazioni di fotosegnalamento e il successivo trasferimento nei luoghi dove gli
stranieri attendono di sapere se viene loro riconosciuto lo status di rifugiato o se invece
devono essere inseriti nella lista degli stranieri da espellere e rimpatriare. Il ministro
Angelino Alfano ha già deciso la creazione dei due nuovi «hotspot» in Sicilia, uno da 800
posti e uno da 300. In attesa che anche l’Europa faccia la propria parte.
Pag 6 Retorica e incultura, così l’Italia è sempre in emergenza di Paolo Conti
Una stessa, trasversale incultura, mina ciò che sorregge l’immagine, spesso retorica, del
Bel Paese: il patrimonio culturale, così come il paesaggio e il territorio sul quale
poggiano gli abitati. Quell’incultura è l’incapacità di darsi politiche di prevenzione e di
manutenzione, strumenti che invece costituiscono quella solida cultura civile che
previene tragedie e rassicura una comunità nazionale. Con la prevenzione e la
manutenzione si tutelano i tessuti urbani e rurali, i monumenti, le aree archeologiche, le
foreste e i boschi, i corsi d’acqua. Ma quelle due parole, in un’Italia abituata solo alle
emergenze, sono sconosciute a una classe politica in massima parte incapace di
occuparsi del futuro dei propri figli. L’ordine dei geologi, una combattiva pattuglia di
quindicimila professionisti guidati dal presidente Francesco Peduto, calcola che delle 700
mila frane censite nell’intera Europa ben 530 mila riguardano l’Italia. Le cause. Un
consumo violento del territorio, sempre più eroso e destabilizzato da un’edilizia che
tralascia la doverosa attenzione verso le caratteristiche del terreno e delle falde idriche:
in più bisogna aggiungere il peso delle piogge, non più assorbite dalla terra. C’è,
parallelamente, una colpevole mancanza di mantenimento delle reti idrauliche: i geologi
ricordano sempre come tra il 30 e il 70% delle società che gestiscono la distribuzione
dell’acqua registrino danneggiamenti, e quindi perdite, nelle tubature. Facile prevedere
gli effetti: l’infradiciamento di troppe aree, per non parlare di un costo industriale annuo
di 200 milioni di euro. Infine manca una adeguata rete di «ascolto» del territorio che
andrebbe assicurata giorno dopo giorno, e non solo in seguito ai disastri, alle morti, alle
tragedie. Un’inversione di tendenza va registrata con la nascita di #italiasicura, la
struttura di missione a Palazzo Chigi contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo
delle infrastrutture idriche. Ma, insistono i geologi, siamo ancora in una logica
emergenziale, lontani da una vera inversione di cultura. Disgraziatamente per questo
Paese, la mancanza di manutenzione e di prevenzione mina tanti beni monumentali e
storici, archeologici, paesaggistici. La (il)logica è la stessa che sfigura e sfrutta il
territorio. Ed è il lato più indegno di un’Italia che ostenta il Bello a parole ma con i
misfatti apre sempre più spazio all’Orrore.
Pag 18 “Io, più forte dell’Isis”
Jinan, la storia di una ragazza fuggita dalla schiavitù del Califfato
«Ci sono le voci delle donne in questo libro, quelle voci che nelle guerre non si sentono
quasi mai», scrive Barbara Stefanelli nella prefazione di «Jinan, schiava dell’Isis», che
esce oggi in edicola con Il Corriere e in libreria per Garzanti. «Io sono yazidi, curda,
irachena sul passaporto», dice l’autrice per definire la propria appartenenza a una
comunità religiosa, a un’etnia e a un Paese straziati da anni di violenze. Gli yazidi sono
la comunità più colpita dalla guerra dichiarata dall’Isis al mondo: fedeli all’angelo pavone
Tawsi Melek e agli altri sei angeli delle scritture, agli occhi degli integralisti sono
apostati, adoratori di demoni. Nel 2014, quando i miliziani conquistarono Sinjar, nel nord
dell’Iraq, gli uomini yazidi furono massacrati, le donne trasformate in schiave sessuali.
In questo libro, scritto con il reporter Thierry Oberlé, ci sono due voci di Jinan: prima
adolescente, capace di lottare con la famiglia per sottrarsi a un matrimonio combinato, e
poi, adulta ma senza esperienza del mondo, con i carcerieri dell’Isis.
Prima dei jihadisti: un matrimonio (mal) combinato - Ho quindici anni quando conosco
Walid a una festa di nozze. Le feste di questo tipo rappresentano una grande
opportunità per far colpo. I ragazzi si pavoneggiano: gonfiano il petto, si apostrofano
l’un l’altro, fanno i gradassi. Le ragazze si mettono in mostra, capelli al vento, pantaloni
aderenti e corpetti stretti. Walid mi corteggia. Mi colpisce per quanto è impacciato. Nei
mesi successivi ci rivediamo diverse volte con i pretesti più inconsistenti. Io, intanto,
compio sedici anni, età in cui si pone la questione del matrimonio. Lui mi confessa il suo
amore e, per provarmi il suo impegno, mi regala di nascosto un cellulare grigio della
Ericsson. Me lo porta in un caldo pomeriggio d’estate. Mia madre, come al solito, lo
caccia via sulla soglia: «Vattene! Non sei il benvenuto! Qui non hai niente da fare!».
Quel telefono diventa il filo invisibile della nostra passione. La prima sera mi dice «Ti
amo»; la seconda, «Ti adoro». Il nostro appuntamento quotidiano è fissato per l’una di
notte. Per due anni e cinque mesi, io e Walid andiamo avanti con un’ora di dialogo
amoroso ogni notte. E tutto questo senza mai perdere un appuntamento né farmi
scoprire dai miei parenti. So che sono contrari per principio a qualsiasi idea di
matrimonio con Walid. La mia famiglia non naviga nell’oro, e i miei genitori
aspirerebbero a un partito migliore. Walid è un operaio edile. Nelle grandi città curde in
pieno boom immobiliare, grazie al petrolio, passa da un cantiere all’altro e bussa di porta
in porta in cerca di lavoro. Un giorno fa il manovale, una settimana il muratore e un
mese il disoccupato. Per gli yazidi il matrimonio è, come tutti gli eventi più importanti
della vita, una questione di famiglia, ma anche di status sociale e di orgoglio. Non
abbiamo il diritto di sposarci al di fuori della comunità. Per aver infranto questo tabù,
Du’a, una ragazza di diciassette anni, è stata lapidata a morte nel 2007 dai membri della
sua famiglia, tra cui il padre, contrari alla sua unione con un sunnita. Mio padre pensa di
aver blindato il mio futuro: mi ha destinato a uno dei miei lontani cugini. Mia madre si
adegua alla scelta. Non faccio trapelare affatto il mio turbamento, ma sono determinata
a contrastare i progetti dei miei genitori. Walid ha un piano. Un giovedì, mi rapisce.
Scappo dalla terrazza, il cellulare e qualche effetto personale in una borsa come unico
bagaglio. Lui mi attende all’angolo della strada, poggiato contro un muro. Ci sposiamo
sabato 18 Maggio 2013 a Bajarok.
Donne e bambini: bottino di guerra da «smistare» - Stamattina ho in bocca il gusto
amaro della schiavitù. Addosso ho ancora la stessa veste leggera a metà polpaccio con
cui ho lasciato in fretta e furia la casa dei suoceri. Le decorazioni in giallo e blu sono
ormai macchiate. E non mi tolgo mai lo scialle. Bene o male, mi protegge dal sole, dal
freddo delle notti desertiche e dagli sguardi maschili. Urla di madri e di bambini mi
ridestano dal torpore. Hanno iniziato a portar via i ragazzini. Randa lo ha capito vedendo
entrare nel cortile un gruppo di miliziani dell’Isis dall’aspetto particolarmente sinistro.
Dopo una breve consultazione, iniziano a fendere le fila dei prigionieri. Randa stringe
Daud e gli parla con voce dolce. «Non potremo restare insieme, figlio mio. Tra poco
dovrai andare e io non potrò venire con te. Loro non vogliono. Dovrai andare via con gli
altri ragazzi». «Ma, mamma, devo proteggerti! Voglio restare qui!». «Tesoro, tu sei il
mio primogenito, il figlio mio adorato. Non c’è nulla che possiamo fare: sono più forti,
ma tieni viva la speranza». «Ti prego, non lasciare che mi portino via!» «Non so dove vi
porteranno, ma so che la fortuna ti assisterà. E io sarò sempre con te. Ti penserò ogni
giorno e ti ritroverò.» Randa ricaccia indietro le lacrime. Mentre un nodo le serra la gola,
canticchia una filastrocca sottovoce: Io canto una ninna nanna per il mio bimbo caro
Perché il vento del Nord gli accarezzi i capelli Io canto una ninna nanna dal profondo del
cuore... Due aguzzini si avvicinano sbraitando. Un jihadista è ormai accanto a loro,
accanto a noi. Randa stringe Daud al seno, poi gli rimette il berretto in testa. È
arrabbiata: «Non ve lo permetterò!».
«Forza! Andiamo!» sbuffa il jihadista. Chiama i rinforzi: arrivano due uomini a separare
madre e figlio brandendo i calci dei fucili d’assalto. I primi colpi centrano le costole, gli
altri lo stomaco. Randa e suo figlio sono piegati in due. Lei cade in ginocchio, supplica.
Daud viene trascinato verso l’ingresso del cortile e piazzato in mezzo ai suoi coetanei.
Non sono ancora uomini, solo ragazzini un po’ più alti. Daud si sfrega gli occhi con il
pugno, tirando la manica della felpa: ha perso il berretto.
La tana dei mostri: patto di resistenza tra prigioniere - Non sono più una donna sposata,
ma una schiava. I miei padroni sono seduti davanti a me, a bordo dell’auto che mi
conduce verso un’esistenza da reclusa. Stiamo correndo su una strada di campagna
lunga, dritta e deserta. Il contachilometri segna invariabilmente 160 chilometri all’ora.
Abu Anas preme sull’acceleratore, mentre Abu Omar sgrana il rosario. Durante il
tragitto, chiacchierano senza mai rivolgermi la parola. Rannicchiata sul sedile posteriore,
non esisto. Hanno comprato sei ragazze. Le altre cinque sono già nella villa del poliziotto
e del religioso. Io vado a completare la partita. Nalin siede a gambe incrociate accanto a
me, il sorriso benevolo. Benché abbia venticinque anni, un’età in cui le yazidi sono già
sistemate da tempo, è ancora nubile. Viveva con i suoi genitori a Erbil, ma
sull’argomento non dice altro. Suo fratello, con il quale comunicava spesso via Internet,
si è stabilito in Germania. «Se vogliamo avere una possibilità di venirne fuori, dobbiamo
essere solidali. Dobbiamo resistere insieme. Ho stretto un patto con le altre ragazze. Sei
pronta a unirti a noi?» La sua forte personalità è rassicurante. È un tipo di donna
piuttosto raro dalle nostre parti, in grado di tenere apertamente testa agli uomini. Nalin
ha la fibra di un capo. Conosco le mie compagne di prigionia. La maggior parte di loro
sono passate dal Galaxy Center di Mosul, un teatro in cui, come a Badush, erano
ammassate migliaia di donne. Jamila è misteriosa e solitaria. Era al quarto anno di studi
in letteratura all’Università di Mosul. È stata fatta evacuare dalla facoltà nel mese di
giugno, poco prima della presa completa della città da parte dell’Isis. È tornata al suo
villaggio, dove nel mese di agosto è stata catturata dall’Isis. Hevy fa la parrucchiera.
Lavorava nel salone del fratello. I lunghi capelli le ricadono sulla schiena in due spesse
trecce. Hevy è carina. Ha gli occhi color miele, la pelle dorata, il naso aquilino. A
ventisette anni, Bushra è la più anziana del gruppo. È una pastorella che non è mai
andata a scuola. Lei e Hevy entrambe timide e riservate. Con i suoi quindici anni, Evara
è la più giovane del club, ed è anche quella che piange di più. Molto emotiva, accoglie le
cattive notizie, che di certo non mancano, con cascate di lacrime. Nalin la prende in giro.
«Deve evitare piagnistei quando Abu Anas le dà uno schiaffo, perché altrimenti la
prossima volta gliene darà due. Le prefiche di professione sono come le prostitute:
esercitano il mestiere più antico del mondo. I nostri padroni vogliono vederci piangere e
fare sesso. È il loro forte. Non cadiamo nei loro tranelli. Non concediamo loro questi
piccoli piaceri. Resistiamo!»
La grande fuga fino alle pendici della Montagna sacra - Stasera i due Abu sono stanchi e
snervati. Abu Anas scaraventa in corridoio un sacco che ha portato dentro a fatica, tanto
è pesante. Non so cosa contenga. Giubbotti antiproiettile, forse. Abu Omar si precipita in
cucina per servirsi una bibita gasata dal frigo senza prestare attenzione alla presenza di
Jamila, intenta a cucinare per loro. «Mi dispiace che il povero Hussam sia morto. Allah
Yerahmu! Pace all’anima sua». «A proposito, stanotte non ci sarà nessuno a sorvegliare
la casa. Il guardiano è andato a Sinjar per sostituire Hussam e in caserma è un casino.
Sono esausto, ci penseremo domattina!». «Hai ragione. Anch’io sono stremato.
Andiamocene a dormire». Non appena i passi nella stanza al piano di sopra smettono di
risuonare, mettiamo a punto gli ultimi preparativi per la nostra evasione. Bisogna fare
silenzio, vietato parlare: comunichiamo a gesti. L’idea è quella di tenere le scarpe in
mano e lasciare il villaggio a piedi nudi per non attirare l’attenzione di nessuno. La porta
d’ingresso è chiusa a chiave, le imposte sbarrate e le finestre anche. Come previsto,
usciamo in punta di piedi dalla portafinestra. Una alla volta, scavalchiamo la recinzione.
Eccoci in strada, al riparo di un muretto. Di fianco all’edificio dei jihadisti, non si profila
nemmeno un’ombra. Via libera. Ci lanciamo sulla strada come uno stormo di passeri.
Spinta dalla paura di beccarmi una raffica di mitra alla schiena, corro in punta di piedi
fino all’angolo. Poi mi volto. Jamila è l’ultima a raggiungere il gruppo. Procediamo in fila
indiana. Improvvisamente, il rombo di un motore ci paralizza, mentre i fari di
un’automobile si avvicinano. Ci nascondiamo dietro un recinto. Lo stomaco mi si annoda.
Nel passarci accanto, il veicolo rallenta per aggirare il rottame di una macchina ribaltata,
prima di svoltare e sparire in direzione del campo jihadista. L’indice sulle labbra, Nalin ci
fa strada. All’uscita dal villaggio, deviamo per un sentiero fangoso. Dobbiamo trovare un
uadi, il letto di un torrente che viene giù dalla montagna. Una volta intercettato,
dovremmo risalirne il corso fino alla sorgente a raggiungere così il paese della libertà,
l’altopiano dei monti del Sinjar.
Pag 29 Gli americani poveri che si fidano di Trump di Alan Friedman
Le ragioni di una scelta
Donald Trump, in queste ore, ha superato per la prima volta Hillary Clinton nella media
dei sondaggi nazionali sul voto per la Casa Bianca. Si tratta di un margine talmente
stretto che potremmo definirlo un pareggio, ben dentro il margine d’errore. La Signora
Clinton sembra in difficoltà: sarà sicuramente il candidato dei Democrats ma resta alle
prese con un partito diviso, senza riuscire a scrollarsi di dosso l’immagine di persona
cinica e opportunista, che direbbe qualsiasi cosa pur di essere eletta. E anche se la sua
nomina non è in dubbio, Hillary Clinton deve ancora fare i conti con quella parte
consistente di Democrats che preferisce il populismo di sinistra di Bernie Sanders.
Trump, invece, continua a salire, e anche senza grandissimi sforzi. Continua a far
crescere consenso intorno a lui, in grande parte proveniente dagli americani meno
abbienti, meno istruiti e molto arrabbiati, la working class di americani maschi e bianchi
(ma non solo) che si sente in qualche modo marginalizzata. Quando ci si interroga sul
perché Trump continui ad attirare elettori, possono esserci diverse spiegazioni, non da
ultimo il tasso di «unfavorable ratings» vantato dalla Signora Clinton. Ma anche Trump è
visto negativamente da più della metà degli americani, quindi questo non basta. Bisogna
allora capire qual è il tipo di segmento demografico attirato da Trump, e come lui
potrebbe usare la sua demagogia e il suo talento per incitare la gente, anche per
allargare il suo elettorato fino a comprendere alcuni cittadini che normalmente votano
per i Democrats. La possibilità che Trump ripeta la magia di Ronald Reagan e crei i
«Trump Democrats» non è fantasia, è assolutamente plausibile. Lui stesso sta dicendo
da qualche giorno che pensa di poter addirittura attirare alcuni supporter di Bernie
Sanders. E anche questo non è da escludere, tale è la rabbia contro Hillary Clinton e
Wall Street sentita dall’elettorato di Sanders. A mio avviso, per comprendere la crescita
del voto a favore di Trump bisogna capire che l’America che vota per Trump e quella che
vota Sanders sono più simili di quello che la logica di destra e sinistra suggerirebbe. È
vero che hanno delle grandi differenze di opinione su alcuni temi, ma Trump e Sanders
sono d’accordo nel ritenere che il commercio libero sia un male che minaccia posti di
lavoro. Entrambi sono pieni di appeal agli occhi dei poveri o dei lavoratori del ceto
medio-basso, che faticano ad arrivare alla fine del mese. Sembrano vicini, anche se si
esprimono diversamente, sulla questione della disuguaglianza dei redditi e sul fatto che
in termini reali e netti gli stipendi di una grande fetta dei lavoratori in America non sono
cresciuti per oltre 15 anni. Bisogna ricordare come quasi 50 milioni di americani (il 15%)
si trovino sotto la soglia di povertà e un numero enorme di americani, altri 106 milioni,
(il 33%), viva con una somma equivalente a poco più del doppio della soglia di povertà.
Quindi non c’è da stupirsi del consenso incontrato da Trump e Sanders quando
prospettano la possibilità di aumentare le tasse per i ricchi e super-ricchi in America, una
posizione popolare ed efficace che entrambi condividono. Tutti e due propongono anche
un aumento dello stipendio minimo (7,25 dollari all’ora). Entrambi utilizzano una retorica
fortemente anti Wall Street, molto demagogica, che dà loro grande risonanza
nell’America profonda del Midwest, del Sud e del Far West. Gli attacchi di Sanders contro
Wall Street sono celebri, così come la sua critica contro Hillary Clinton, che beneficia di
finanziamenti provenienti da Wall Street. Trump, nonostante sia miliardario, fa lo stesso,
e lo fa con efficacia anche contro la signora Clinton. «È totalmente controllata da Wall
Street», ha dichiarato recentemente. La verità è che sia Trump sia Sanders, in modi
diversi, parlano alla pancia di milioni di americani che si sentono ingannati dal sistema,
trascurati dalla ripresa economica, più poveri e pieni di rabbia e frustrazione. In una
società divisa come mai prima, di fronte a una campagna elettorale che si presenta
come la più sporca della storia recente, c’è un trait d’union tra i popoli di Trump e
Sanders, una rabbia comune che li unisce. E per questo è possibile che il miliardario
newyorkese, come Ronald Reagan negli anni Ottanta, possa attrarre voti da elementi
alienati della working class bianca, che normalmente vota Democrats, e creare il
fenomeno dei «Trump Democrats» nel 2016. Non è da escludere. Qual e la realtà
politica? Alle primarie, finora, un totale di oltre 21 milioni di americani ha votato per uno
di questi due populisti. Trump ha preso 11 milioni di voti e Sanders quasi 10 milioni,
mentre Hillary Clinton da sola ha ottenuto 12 milioni di preferenze. Naturalmente questi
numeri non corrispondono direttamente al voto che verrà espresso a novembre, ma
Trump e Sanders stanno davvero attirando elettori che non hanno mai votato prima
oppure quelli indecisi, che vuole dire nuovi voti. Questo potrebbe favorire Trump.
Nonostante sia Clinton sia Trump abbiano problemi di immagine, circa l’82% dei
repubblicani dice ora che voterebbe per Trump e circa l’84% dei democratici per Hillary
Clinton. Tra chi non è iscritto a un partito, gli independents, i due rivali sono in pareggio.
Stando alle cifre di oggi, basterebbe una piccola fetta di defezioni, basterebbe che alcuni
tra quanti avrebbero appoggiato Sanders si schierino con Trump, ovvero l’arrivo di un
numero non grandissimo di «Trump Democrats», per favorire la vittoria di Trump.
L’America che vota per Trump e Sanders è un’America frustrata, e certamente anche
con una forte componente di anti-politica, non lontano del fenomeno del Movimento 5
Stelle in Italia. Così, per certi versi, i popoli di Sanders e Trump si uniscono, con più
similitudini di quanto si immaginerebbe. Tutto, purtroppo, è il risultato di una ripresa che
ha trascurato troppi americani. La paura e la rabbia spesso favoriscono i populismi, in
America, in Austria, in tanti Paesi.
LA STAMPA
Clinton-Trump la sfida si avvelena di Gianni Riotta
Il Paese sempre più radicalizzato è disgustato da entrambi i leader. La media dei
sondaggi vede Clinton in lieve svantaggio. Solo un mese fa aveva 10 punti percentuali in
più del tycoon
«Ai vecchi tempi...» si sente borbottare nella Washington che credeva di contare e conta
ogni giorno di meno, «ai vecchi tempi…» i titoli che han percorso ieri il web, e oggi sono
in prima pagina, mail proibite di Hillary Clinton e tasse eluse da Donald Trump,
avrebbero stroncato una candidatura, umiliato un leader, costretto un aspirante
presidente alla ritirata, davanti alla famelica pattuglia di reporter, taccuini e microfoni
inastati. Ora invece? Basterà il rapporto degli ispettori del Dipartimento di Stato, che
critica l’ex First Lady per avere usato una mail privata e non quella ufficiale del
ministero, e non avere tenuto un registro accurato della corrispondenza, a costringere la
Clinton a rinunciare alla corsa alla Casa Bianca? Servirà la reprimenda, estesa ad altri
segretari di Stato del recente passato, su tutti il repubblicano Colin Powell, almeno a
costringerla alle corde? Per Donald Trump l’affondo viene dal giornale inglese The
Telegraph, con una precisione di tempi che in Italia solleverebbe la sindrome del
complotto «ad orologeria», e anche negli Stati Uniti alimenta siti dietrologici. Trump è
accusato, con tanto di mail e di fotocopie dei documenti fiscali, di aver stornato 50
milioni di dollari (44 milioni di euro) di un investimento in debito, per eludere i controlli
dell’Internal Revenue Service, Irs, il fisco Usa. Dal gangster Al Capone al vicepresidente
di Nixon, Spiro Agnew, costretto alle dimissioni nel 1973 per corruzione e frode fiscale,
le tasse sono state mannaia micidiale negli Usa: riusciranno a scalpare la chioma (vera?
trapiantata? parrucchino? il dibattito tricologico infuria) di Trump? Ai «vecchi tempi…»
che giornalisti, parlamentari, docenti universitari e lobbisti evocano, non senza nostalgie,
nei ristoranti bene della capitale e di New York, le rivelazioni di maggio avrebbero avuto
conseguenze toste per Clinton e Trump. All’epoca del web e dei talk show, con la
narrativa dei Big Data a restituirci una conversazione politica irriducibile, controversa, i
riflessi potrebbero essere più modesti, a meno di nuove rivelazioni drammatiche,
evasione cronica per Trump, incriminazione diretta dell’Fbi (un’inchiesta è ancora in
corso) per Clinton. Lo staff di Hillary insinua già che alcuni dei funzionari che han redatto
il rapporto, «lavoravano per i repubblicani» (vero, altri però sono stati nominati dal
presidente democratico Obama) pur di aizzare tifo partigiano. Trump ha ribadito più
volte che non intende pubblicare la sua dichiarazione fiscale - rito tradizionale per i
leader moderni -, titillando l’orgoglio della sua base, che detesta tasse, Irs e
commercialisti. Sono in corso tre guerre politiche in America, Clinton contro Trump per
la Casa Bianca è la dominante, parallela a due rauchi conflitti fratricidi, con i ribelli del
socialista Sanders a minacciare rivolta alla Convenzione democratica, mentre
repubblicani moderati e intellettuali si ostinano - sempre più flebilmente - a contrastare
Trump. Le trincee partigiane dividono i partiti tra loro e all’interno, il clima si fa brutale.
Chi medita di votare Trump, non lo abbandonerà perché sconvolto dalla possibile
evasione fiscale (un palazzinaro arricchito con i casinò vi suggerisce rigore fiscale?). E
ben pochi democratici diserteranno il partito, solo perché Clinton ha usato un server
privato, o mandato una mail chiusa da un .com anziché state.gov. Non è una nobile
contesa, non è un’alata campagna elettorale, se mai ve ne sono davvero state in
passato. Gli americani, in maggioranza, sono disgustati da entrambi i leader,
considerano il sistema marcio, piagato da cinismo, mazzette, lobby rapaci. Se i militanti
rivali troveranno nei titoloni ragioni per odiare ancor di più «Hillary» o «Donald», tanti
loro concittadini si sentiranno ancor più alienati dal sistema. La rabbia è, ora, troppo
radicata per non spegnere, tra gli slogan dissennati, ogni dialogo raziocinante.
IL FOGLIO
Pag 3 Il grande sorpasso ateo
In Inghilterra i cristiani sono minoranza. La secolarizzazione radicale
Sembra inverarsi la profezia dell'ex arcivescovo di Canterbury, George Carey, secondo
cui la chiesa anglicana sarebbe diventata l'anima di "una nazione sostanzialmente atea".
Adesso un nuovo studio curato da Stephen Bullivant, docente alla St Mary's Catholic
University, che verrà presentato a Westminster, rivela che il 48,5 per cento di inglesi e
gallesi si ritiene "ateo" (era il 25 per cento nel 2011), mentre i cristiani sono appena il
43,8 per cento (e di questi soltanto una piccolissima percentuale è praticante). Il
cristianesimo perde così il suo primato anche soltanto nominale. Appare inarrestabile la
secolarizzazione del Regno Unito: i non credenti sono quasi raddoppiati assieme ai
musulmani. Come ha spiegato l' autore dello studio, Stephen Bullivant, "il cristianesimo
perde il primato come religione professata oltre che praticata". Già a dicembre la Corab,
la Commissione per la religione e il credo nella vita pubblica britannica, in un ponderoso
rapporto frutto di due anni di incontri, interviste, ricerche, arrivò a stabilire che
l'Inghilterra non è più cristiana e quindi le sue istituzioni vanno decristianizzate di
conseguenza. E' il tema della copertina del settimanale Spectator: "The last Christian",
dove si vede una anziana signora da sola in una magnifica cattedrale. "Si dice spesso
che le congregazioni della chiesa della Gran Bretagna si stanno riducendo, ma questo
non si avvicina ad esprimere il livello del disastro cui si trova di fronte il cristianesimo in
questo paese", aveva scritto lo Spectator. Se l'attuale tasso di declino continua, la
missione di sant' Agostino presso gli inglesi, insieme a quella dei santi irlandesi presso
gli scozzesi, arriverà a termine molto presto. L'anglicanesimo sparirà dalla Gran
Bretagna già nel 2033. Tra il 2012 e il 2014, la percentuale di cittadini britannici che si
identificano come anglicani è sceso dal ventuno al diciassette per cento (1,7 milioni di
persone in meno). Nello stesso periodo, il numero dei musulmani in Gran Bretagna è
cresciuto di quasi un milione, secondo un sondaggio condotto dal NatCen Social
Research Institute. I frequentatori di chiese nel Regno Unito stanno scomparendo a una
tale velocità che entro una generazione il loro numero sarà "tre volte inferiore a quello
dei musulmani che vanno in moschea di venerdì". Numeri da capogiro che riguardano
però tutte le grandi capitali della cristianità europea. Sarà per questo che Papa
Francesco nell'intervista a la Croix taccia di "trionfalismo" chi continua a parlare di
"radici cristiane dell'Europa"? Già, forse Francesco ha ragione. Forse è davvero un
fenomeno inarrestabile, recuperabile soltanto con una reconquista. Ma anche questa,
come i cristiani, è parola desueta, proibita.
IL GAZZETTINO
Pag 1 Trump come Berlusconi, scossa alla politica di Giuliano Da Empoli
E’ tuttora assai improbabile che Donald Trump diventi il prossimo presidente degli Stati
Uniti. Comunque vadano le cose, però, la sua irruzione sulla scena ha già prodotto un
effetto importante sul sistema politico americano: il vecchio partito repubblicano non
esiste più. Quella formazione venerabile - il Grand Old Party come lo chiamavano - nella
quale gli onori e le responsabilità si trasmettevano di padre in figlio e le dispute si
regolavano in famiglia, senza intaccare la facciata di rispettabilità che, sempre, andava
proiettata all’esterno, è volata in pezzi. Sta in questo, forse, l’analogia più profonda - per
quanto meno visibile - tra Donald Trump e Silvio Berlusconi. Chiaro, c’è il folklore: i
miliardi e le battute, il piglio dell’imprenditore ghe pensi mi e le ansie tricologiche. E su
tutto, quell’atteggiamento da uomo della provvidenza che accomuna i due personaggi,
come notava Romano Prodi su queste pagine. Ma al di là dello stile, contano le strutture.
All’inizio degli anni novanta, Silvio Berlusconi ha fatto irruzione su una scena politica in
fase di avanzata decomposizione, nella quale l’offerta politica (i partiti esistenti) non
corrispondeva più alla domanda dell’elettorato. Dando vita ad una nuova formazione,
Forza Italia - e aggregandone due, la Lega e Alleanza Nazionale - precedentemente
incompatibili, Berlusconi ha ristrutturato il sistema politico italiano, adeguandolo alla
domanda. Si possono giudicare come si vogliono gli esiti di quell’operazione (e chi scrive
non ne dà certo un giudizio positivo). Ma è indubbio che abbia spazzato via strutture che
non avevano più una ragion d’essere, nell’Italia dei primi anni novanta, per sostituirle
con un contenitore assai più capace di intercettare le aspirazioni e le paure di un pezzo
del Paese. Una cosa simile sta ora accadendo negli Stati Uniti. Certo, lì, il bipartitismo è
praticamente iscritto nella costituzione. Motivo per il quale, anziché creare un nuovo
partito, Trump ha semplicemente preso in ostaggio le primarie dei repubblicani. Ma
l’effetto è lo stesso: un marziano è sbarcato all’improvviso, rivelando la fragilità di
un’intera classe dirigente. Gli Stati Uniti sono un paese nel quale il 90% della
popolazione non ha visto crescere i propri redditi negli ultimi quindici anni. E nel quale
per la prima volta nella storia, l’aspettativa di vita dei maschi bianchi della working class
ha iniziato a diminuire. Accanto all’America vincente di Silicon Valley e delle città
creative, dei ceti emergenti e della società multietnica che vota prevalentemente
democrat, c’è un paese impaurito e risentito, fatto di campagne e di piccole città, di
operai (sempre meno) e di impiegati dei servizi a basso reddito (sempre di più) che si
sentono abbandonati. Non solo le loro condizioni di vita peggiorano, ma i media e le
élites gli dicono pure che è giusto così: che il loro tempo è passato, perché il futuro è
fatto di ologrammi globalizzati e inafferrabili. A questo elettorato, i sonnambuli del
vecchio partito repubblicano hanno cercato di propinare il terzo Bush consecutivo. Uno
che non aveva neppure tanta voglia di farlo, il presidente, ma che vabbè tutto sommato
un’investitura non poteva rifiutarla. Rispetto a questo establishment lunare, Trump ha
rappresentato una sveglia brutale. E basta guardare la curva dell’audience delle
trasmissioni e dei dibattiti ai quali partecipa per capire che lui, con quell’America bianca
e perdente e impaurita ci parla. Fosse anche solo per accarezzare i suoi istinti più retrivi
e brutali. In pochi mesi di campagna, Trump ha sovvertito rituali, procedure e abitudini
consolidati da decenni, se non da secoli. Ora, il tema è solo quello di capire fin dove
arriverà quest’opera di decostruzione radicale. I democratici partono chiaramente
avvantaggiati nella corsa alla Casa Bianca. La loro candidata non ha offeso a morte i due
terzi dell’elettorato americano (le donne, i neri, i musulmani, gli ispanici…) come ha fatto
Trump nel corso della sua campagna. Si trovano però nella scomoda posizione di
incarnare l’establishment in una fase nella quale l’America è attraversata da una
fortissima ondata di risentimento nei confronti delle sue classi dirigenti. In un clima del
genere, i numeri dei sondaggi e perfino le statistiche dei demografi, lasciano il tempo
che trovano. Bisognerà aspettare fino a novembre per capire se l’effetto Trump resterà
confinato tra i repubblicani o se travolgerà anche il partito democratico e le istituzioni
americane così come le abbiamo conosciute fino ad oggi.
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