la “vita buona” del monaco - Abbazia Madonna della Scala

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la “vita buona” del monaco - Abbazia Madonna della Scala
LA “VITA BUONA” DEL MONACO.
ALLA SEQUELA DI GESÙ, IL MAESTRO
Ab. Donato Ogliari osb *
* Abate dell’Abbazia “Madonna della Scala” in Noci (BA).
Variazioni sul tema: Educare alla vita buona del Vangelo, Orientamenti pastorali dell’episcopato
italiano per il decennio 2010-2020 (=Educare alla vita buona del Vangelo), Cap. 2: “Gesù, il Maestro”.
Per il cristiano Gesù non è un semplice maestro tra i tanti, ma l’unico vero Maestro, colui che,
più che per insegnare una nuova sapienza o una nuova dottrina, è venuto nel mondo per offrire
all’umanità se stesso, la sua persona, nel cui insegnamento e nelle cui opere è compendiata la
salvezza di Dio. Per questo motivo Gesù si è presentato come la via che conduce alla verità e alla
vita (cf. Gv 14,6), come colui, cioè, nel quale gli uomini possono trovare la piena realizzazione
di sé secondo il disegno che Dio ha su ciascuno di loro. Così, come avvenne per i due discepoli
di Emmaus (cf. Lc 24,32), Gesù continua ad aprire la mente di quanti sono desiderosi di
ascoltarlo, e non cessa di riscaldare il loro cuore con parole nelle quali riluce “la verità, che
rivela l’uomo a se stesso e ne guida il cammino di crescita nella libertà” 1, lungo i sentieri della
vera vita.
Le parole di Gesù, dunque, non sono semplici parole umane. Sono “parole di vita eterna” (cf.
Gv 6,68), in grado di spalancare orizzonti nuovi e definitivi e di riscattare l’esistenza del
credente dal fascino effimero delle cose di quaggiù innalzandola verso le realtà che non
tramontano: “In lui ogni uomo trova il senso ultimo del suo esistere e del suo operare: la piena
comunione di amore con Dio nell’eternità”2.
Ma come si modula il magistero di Gesù? E, di riflesso, che cosa implica tale magistero per il
credente che desidera fare di Gesù il centro propulsore della propria esistenza?
1
2
Educare alla vita buona del Vangelo, n. 19.
Loc. cit.
2
1. In ascolto di Gesù il Maestro
L’evangelista Marco introduce la narrazione della moltiplicazione dei pani e dei pesci con
l’annotazione che, alla vista della grande folla che lo seguiva, Gesù “ebbe compassione di loro,
perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose” (Mc
6,34).
“La prima azione di Gesù – scrivono i Vescovi italiani – è l’insegnamento: «si
mise a insegnare loro molte cose». Potrebbe sorgere spontanea la domanda se non
sarebbe stato più opportuno provvedere subito al nutrimento di tanta gente. Gesù,
però, è cosciente di essere anzitutto il Maestro: per questo, con l’autorevolezza che
viene dal Padre, comincia con l’indicare le vie della vita autentica. Egli rivela il
mondo nuovo voluto da Dio e chiama a esserne parte, sollecitando ciascuno a
cooperare alla sua edificazione nella pace”3.
E ancora:
“La folla segue Gesù mossa dalla speranza di ricevere qualcosa di decisivo. Pur
provenendo da città e situazioni diverse, appare animata da un desiderio comune.
Gesù stesso si fa interprete delle attese profonde dei presenti. Lo sguardo che rivolge
loro non è distaccato, ma partecipe, perché non scorge una folla anonima, bensì
persone, di cui coglie il bisogno inespresso”4.
Come le folle che seguivano Gesù, anche noi andiamo a lui con un nostro bagaglio di
attese, di desideri e di bisogni, che talora rimangono inespressi, ma che tuttavia fanno parte di
noi. Il Maestro ci invita a rivolgerci a Lui così come siamo, purché i nostri orecchi siano tesi
ad ascoltare docilmente la sua Parola e ci si lasci illuminare e guidare da essa, intravedendo in
essa lo sguardo luminoso del Signore che si posa su di noi e ci invita a ri-centrare in Lui il
nostro quotidiano cammino. Questo sguardo che ci raggiunge e che, scandagliando nei recessi
più interni del nostro spirito, ci attrae a sé generando l’ascolto obbedienzale della sua Parola e
la sequela fedele e gioiosa di Lui, è ciò che rende possibile il nostro stesso tendere a Gesù,
Maestro buono (cf. Mc 10,17) e veritiero (cf. Mt 22,16).
Nella sua essenzialità, è qui racchiuso anche il programma delineato da san Benedetto.
Egli, fin dalle primissime battute della sua Regola, con poche e luminose parole, dà voce a
questa consapevolezza, esortando il monaco a porsi dinanzi a Dio con tutta l’intensità
auscultante di cui è capace il suo cuore:
“Ascolta, o figlio, gli insegnamenti del tuo maestro (praecepta magistri) e volgi
ad essi l’orecchio del tuo cuore”5.
3
Ibidem, n. 18.
Ibid., n. 17.
5
BENEDETTO, Regola (=RB), Prol. 1a.
4
3
Anche se nel contesto immediato san Benedetto attribuisce il termine “maestro” all’abate, è
convinzione comune che, in filigrana, egli alluda al Cristo (di cui l’abate fa le veci6) e, tramite
Lui, allo stesso Dio Padre. In tal modo egli conferisce alla relazione monaco-abate – e all’ascolto
obbedienziale che regge tale relazione – una connotazione che non si ferma al solo rapporto
fiduciale tra i due, un rapporto di tipo antropologico, ma che, alla luce della fede, lo sorpassa
elevandolo a una dimensione teologica e collocandolo in Dio stesso, il Maestro per eccellenza
che Gesù è venuto a rivelarci con la sua persona7.
In secondo luogo, poiché gli insegnamenti di Dio (e di Gesù) sono stati codificati nella Sacra
Scrittura, ne consegue che anche ad essa si debba riconoscere il ruolo di “maestra”. Lì, infatti –
per chi desidera farla propria – vi è riflessa la volontà di Dio sull’uomo e vi è delineata la via del
bene e della salvezza. Non per nulla, al termine della sua Regola, san Benedetto sente il bisogno
di ribadire:
“In verità quale pagina o quale parola d’autorità divina dell’Antico e del Nuovo
testamento non è la norma più retta per la vita umana (rectissima norma vitae
humanae)?”8.
Subordinata alla Sacra Scrittura – sulla quale è saldamente fondata e dalla quale attinge le sue
motivazioni portanti – anche la stessa Regola è presentata al monaco in veste di “maestra”. Lo
dimostra chiaramente la seguente ingiunzione del legislatore:
“Tutti sono tenuti a seguire in tutto la Regola come loro maestra (omnes
magistram sequantur regulam), e nessuno abbia la temerarietà di scostarsene”9.
Anche la Regola, dunque, ha una funzione pedagogica eminente in quanto mutua la volontà
del Signore per coloro che desiderano seguirlo all’interno di un contesto cenobitico e che –
sottopostisi liberamente al suo giogo soave e all’autorità dell’abate che se ne fa interprete10 –
6
Cf. RB 2,2; 63,13.
Le risonanze bibliche concernenti il rapporto Dio-Israele possono, ad esempio, essere rintracciate anche nei
seguenti passi della Regola: “(L’abate) mostrerà ora la severità del maestro (dirum magistri) ora il tenero affetto del
padre” (RB 2,24b); “Come è doveroso che i discepoli obbediscano al maestro (oboedire magistro), così anche spetta
al maestro disporre tutte le cose con saggezza e giustizia” (RB 3,6); “E così si compiono velocemente, si può dire in
modo simultaneo, l’enunciazione del comando del maestro (praedicta magistri iussio) e l’esecuzione da parte del
discepolo, entrambe le cose insieme con la prontezza sollecitata dal timor di Dio” (RB 5,9); “Spetta al maestro
(magistrum condecet) parlare e insegnare; tacere e ascoltare si addice al discepolo” (RB 6,6).
8
RB 73,3.
9
Ibidem, 3,7.
10
I monaci benedettini sono, infatti, dei cenobiti “che vivono in un monastero sotto una regola e un abate” (RB 1,2),
e che fanno “soltanto ciò che suggerisce la Regola del monastero o l’esempio dei più anziani” (RB 7,55). Anche i
sacerdoti che desiderano diventare monaci o che sono ordinati in monastero devono osservare integralmente la
Regola (cf. RB 60,5.9; 62,3-4.11). Va da sé che anche l’abate e il priore del monastero non sono esenti dalla fedeltà
amorosa alla Parola di Dio e dall’osservanza rispettosa ed esemplare della Regola: “L’abate non deve insegnare,
stabilire o comandare nulla che sia contrario ai comandamenti di Dio” (RB 2,4); “Soprattutto l’abate osservi e faccia
osservare integralmente questa Regola” (RB 64,20; cf. anche 3,11); “Quanto più [il priore] è al di sopra degli altri,
tanto più deve osservare la Regola” (RB 65,17). Il disprezzo della Regola, sia da parte di un monaco che di un
7
4
intendono fare dei suoi insegnamenti la guida sicura ai propri passi. È solo perché poggia sulla
Parola di Dio, dalla quale trae la sua linfa vitale, che il codice benedettino può essere proposto
come un percorso efficace di vita cristiana ed essere assunto dai monaci come canovaccio della
propria sequela del Cristo:
“In tal modo, non scostandoci mai dal suo insegnamento (ab ipsius magisterio)
[dal magistero di Dio e della sua Parola, così come è recepito nella Regola], saremo
perseveranti nel monastero fino alla morte nell’impegno di conformarci alla sua
dottrina...”11.
Del resto, nel descrivere quella che definisce l’ “orrenda specie dei sarabaiti”, san Benedetto
rimprovera loro il “tirocinio dell’esperienza (experientia magistra)” 12, nel quale, invece, il vero
monaco viene forgiato costantemente grazie a una regola che gli fornisce le coordinate entro le
quali declinare la sua quotidiana ricerca di Dio.
Va da sé, infine, che anche quanto proposto dalla Regola di san Benedetto – pur fondato sulla
Sacra Scrittura – va riletto alla luce del Magistero della Chiesa che, in quanto garante della verità
insegnataci dal Cristo, è essa stessa, a pieno titolo, maestra:
“Avendo il compito di servire la ricerca della verità, la Chiesa è anche maestra.
Essa «per obbedire al divino mandato: ‘Istruite tutte le genti’ (Mt 28,19), è tenuta ad
operare instancabilmente ‘affinché la parola di Dio corra e sia glorificata’ (2Ts 3,1)
(...) Per volontà di Cristo la Chiesa cattolica è maestra di verità e sua missione è di
annunziare e di insegnare autenticamente la verità che è Cristo, e nello stesso tempo
di dichiarare e di confermare autoritativamente i principi dell’ordine morale che
scaturiscono dalla stessa natura umana»13”14.
2. Un ascolto che si fa vita
La Parola di vita consegnataci da Gesù dovrebbe talmente compenetrare la nostra esistenza di
credenti da ispirare e illuminare il dono di noi stessi ai fratelli. Tale dono, infatti, si profila
all’orizzonte come scaturente dall’ascolto obbedienziale della Parola di Dio che, per sua natura, è
“operativa” e feconda: “Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano
senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi
semina e il pane a chi mangia, 11così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a
me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho
mandata” (Is 55,10-11).
La stessa, interna coerenza non può che riproporsi con Gesù, Parola-di-Dio-fatta-carne,
superiore, è punito severamente: cf. , ad esempio, RB 23,1ss; 23-30 passim; 43-46 passim; 69-70 passim; 65,18-20.
11
Ibid., Prol. 50a.
12
“Nessuna regola li ha messi alla prova nel tirocinio dell’esperienza così come viene provato l’oro nel crogiolo”
(Ibid., 1,6b).
13
CONCILIO VATICANO II, Dignitatis humanae, n. 14.
14
Educare alla vita buona del Vangelo, n. 21.
5
indipendentemente dal riscontro oggettivo. Certamente, nel nostro brano evangelico (Mc 6), la
prodigiosa moltiplicazione dei pani appare come il completamento e la traduzione concreta
dell’insegnamento di Gesù, che, a sua volta, finisce col generare, in chi riceve, una risposta fatta
di accoglienza e di condivisione:
“Il dono della parola si completa in quello del pane: «spezzò i pani e li dava ai
suoi discepoli perché li distribuissero». L’ascolto della parola costituisce la premessa
indispensabile della condivisione. (...) Nello stesso tempo, Gesù si prende cura dei
bisogni concreti delle persone, preoccupandosi che tutti abbiano da mangiare. (...)
Gesù è la parola che illumina e il pane che nutre, è l’amore che educa e forma al
dono della propria vita: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37)”15.
Inoltre, come apprendiamo dalla stessa pagina di Vangelo, Gesù passa dall’insegnamento
all’azione sospinto da un sentimento di compassione amorevole, sentimento che connota tutta la
sua opera evangelizzatrice:
“Lo smarrimento della folla suscita in Gesù una “compassione”, che non è un’emozione
superficiale, ma è lo stesso sentire con cui Dio, nella vicenda dell’esodo, ha ascoltato il
gemito del suo popolo e se ne è preso cura con vigore e tenerezza. Il bisogno delle persone
interpella costantemente Gesù, che risponde ogni volta manifestando l’amore
compassionevole del Padre”16.
L’urgenza di passare dall’insegnamento alla prassi, sotto la spinta dell’amore
compassionevole del Padre e quale espressione viva della fecondità della Parola, è un compito
che attende ogni cristiano. San Benedetto, al riguardo, è adamantino, lui che alla teoria ama unire
subito la prassi. Ecco, perché, già all’inizio della sua Regola, dopo avere invitato il monaco
all’ascolto, lo esorta a passare prontamente e decisamente all’azione: “Accogli docilmente
l’esortazione che ti dà un padre che ti ama e mettila in pratica con fermezza”17.
Tuttavia, come ci ha indicato la pagina di Vangelo in questione, se c’è una responsabilità
personale che deve sostenere il cammino di fede e di vita cristiana dei singoli, vi è tuttavia anche
una responsabilità corale che si esprime nella comunione e della condivisione attenta e sollecita:
«Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37). Nel miracolo della moltiplicazione dei pani
emerge con chiarezza questo forte richiamo alla corresponsabilità. Non ci si può accontentare di
credere che basti fare un po’ di bene a livello individuale, per sentirsi a posto e mettere a tacere
la coscienza. Il cristiano è un uomo di comunione e di condivisione. Egli è, per sua natura,
membro del “corpo di Cristo” che è la Chiesa, nella quale egli vive e opera alla luce di
dinamiche relazionali che sono fondate sul Cristo morto e risorto, che sono cioè radicate nel
dono paradigmatico che Gesù ha fatto di se stesso e che ripropone ad ogni cristiano che desideri
porsi coerentemente alla sua sequela divenendo, come Lui, un “essere-per-gli-altri”.
Facendo nostro il pensiero della Regola benedettina, possiamo senz’altro affermare che in una
comunità monastica la corresponsabilità e la condivisione si muovono lungo la direzione della
“obbedienza reciproca”:
15
Ibidem, n. 18.
Ibid., n. 17.
17
RB, Prol. 1b. Si veda anche: “… metti in pratica con l’aiuto di Dio questa Regola…” (RB 73,8).
16
6
“Anche tra loro i fratelli devono obbedirsi a vicenda (sibi invicem ita oboediant
fratres), nella consapevolezza che per questa via dell’obbedienza andranno a Dio”18.
Questa è la sfida, discreta e umile, ardua ed esaltante, con la quale i monaci sono chiamati a
confrontarsi quotidianamente. Se è vero che l’impegno prioritario del monaco è quello di cercare
Dio (quaerere Deum) e di tendere, nello stesso tempo, all’unificazione del proprio “io” in Cristo,
è altrettanto vero che egli ha scelto liberamente e coscientemente di vivere in un contesto
cenobitico. In tal modo egli dà voce al desiderio a che il Cristo regni sovrano al cuore dei
rapporti fraterni, in vista dell’edificazione di “un cuore solo e un’anima sola” (At 4,32) quale
espressione della volontà del Signore e in nome di quella suprema legge che è la carità: “Vi do
un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi
anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli
uni per gli altri” (cf. Gv 13,34-35).
In questo amore fraterno i monaci (come tutti i consacrati) sono chiamati ad eccellere
affinché, attraverso il loro esempio, possano gridare al mondo, nella quotidiana condivisione
della vita, che è possibile vivere nella pace e nella comunione dei cuori e delle menti; che è
possibile volersi bene ed essere solleciti gli uni verso gli altri; e che – pur nel rispetto dei ruoli e
nella consapevolezza dei propri limiti – è possibile essere non solo fratelli, ma anche con-fratelli
che vivono gomito a gomito portando con gioia e generosità i pesi gli uni degli altri (cf. Gal 6,2).
Il vivere insieme la ricerca di Dio nella sequela del Cristo, infatti, porta pressoché
spontaneamente a corroborarsi a vicenda nella fede, nella speranza e nella carità,
indipendentemente dalla diversità dei caratteri e dei modi di vedere o dalle umane ritrosie e
antipatie che caratterizzano qualsiasi tipo di vita comune. In una comunità monastica, ogni
giorno è offerto come una concreta possibilità di darsi gli uni gli altri la bella testimonianza della
“vita buona del Vangelo”.
3. La comunità generante ed educante
La corresponsabilità, quando è vissuta all’interno di una famiglia monastica porta ad una viva
consapevolezza dell’essere chiamati ad essere non solo “fratelli” e “sorelle” gli uni degli altri,
ma anche “padri” e “madri”.
Tale consapevolezza scaturisce, a monte, dal dono della rigenerazione battesimale grazie alla
quale siamo stati resi “figli di Dio” nella Chiesa, dalla Chiesa e per la Chiesa. Essa ci ha accolti
nel suo grembo materno perché, facendo l’esperienza dell’amore di Dio riversato nei nostri cuori
dallo Spirito (cf. Rm 5,5), lo possiamo a nostra volta riversare su quanti ci circondano19.
18
RB 71,1-2.
“La Chiesa educa in quanto madre, grembo accogliente, comunità di credenti in cui si è generati come figli di Dio
e si fa l’esperienza del suo amore” (Educare alla vita buona del Vangelo, n. 21). Sant’Agostino si rivolgeva alla
Chiesa in questi termini: «Oh Chiesa cattolica, oh madre dei cristiani nel senso più vero (…) tu educhi ed ammaestri
tutti: i fanciulli con tenerezza infantile, i giovani con forza, i vecchi con serenità, ciascuno secondo l’età, secondo le
sue capacità non solo corporee ma anche psichiche. Chi debba essere educato, ammonito o condannato, tu lo insegni
a tutti con solerzia, mostrando che non si deve dare tutto a tutti, ma a tutti amore e a nessuno ingiustizia» (AGOSTINO,
I costumi della Chiesa cattolica e i costumi dei manichei I,30,62-62).
19
7
Infatti, la Chiesa non è solamente chiamata a generare nel battesimo nuovi membri alla vita in
Cristo, ma anche a ri-generarsi continuamente al suo interno, e dunque nei suoi membri, nella
vita secondo lo Spirito (cf. Gal 5,25). E ciò avviene nella misura in cui essa prende sempre più
viva coscienza della dell’amore divino che la sostiene e che dà una garanzia di verità ai legami e
ai rapporti di fraternità e sororità che si intrattengono in essa.
Questo si riflette, dunque, anche sulla famiglia monastica. In essa, ogni giorno i monaci sono
chiamati ad educarsi vicendevolmente, a “tirar fuori”, ossia a generare un rinnovato e generoso
impegno nella sequela di Gesù, spronandosi gli uni gli altri a tenere desta la tensione evangelica
al cuore delle parole e dei gesti della quotidianità. Su questo sfondo, la vita monastica, a motivo
della “stabilità” che la contraddistingue – dove la stabilitas loci, avvalorata dalla stabilitas
cordis, consente, se lo si desidera, di costruire relazioni personali sempre più profonde –, offre
ampie e ripetute possibilità di rendere la vita fraterna il terreno sul quale misurare la qualità di un
cammino comunitario che sia autenticamente comunionale.
Come? Basterebbe, al riguardo, rileggere quelle splendide esortazioni – che altro non sono se
non alcune modalità educative – proposte da san Benedetto in un capitoletto della sua Regola di
ampio respiro e di cristallina profondità:
“Come vi è uno zelo amaro e cattivo che allontana da Dio e conduce all’inferno,
così c’è uno zelo buono che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna.
Questo è lo zelo che i monaci devono coltivare con il più ardente amore.
Eccone i modi: dunque «gareggino reciprocamente nel rendersi onore» [Rm 12,10];
sopportino con la più grande pazienza le infermità fisiche e morali dei fratelli;
facciano a gara nell’obbedirsi a vicenda;
non cerchino il proprio vantaggio, ma quello altrui;
manifestino con cuore puro carità fraterna;
temano Dio con amore;
amino l’abate con affetto umile e sincero;
non antepongano assolutamente nulla a Cristo,
il quale ci conduca tutti insieme alla vita eterna”20.
Questo educarsi o generarsi a vicenda nella vita del Cristo – impegno che tocca tutti
indistintamente e che non può lasciare indifferente alcun membro della comunità monastica –
riguarda però in maniera del tutto particolare lo stile con cui si accolgono e accompagnano i
giovani che bussano alla porta del monastero per essere iniziati alla vita monastica.
È chiaro a tutti che – dopo lo Spirito Santo, che ne è il primo agente – il compito di formare i
nuovi membri ricade sulla comunità monastica in quanto tale, ancor prima che su coloro che ne
sono primieramente deputati, ossia il maestro e colui che ne è ultimamente responsabile, cioè
l’abate. È la comunità, infatti, che genera nuovi figli alla vita monastica, attraverso la
testimonianza quotidiana della “vita buona del Vangelo”, una testimonianza “spicciola”, che
traspare non tanto dalle parole e dai bei discorsi quanto dalla fedeltà quotidiana alle cose
ordinarie, quelle che traducono in realtà la “scuola del servizio del Signore”21. È lì – in sostanza –
dove ci si confronta ogni giorno con la “misura alta” della vita cristiano-monastica. È lì, nella
perseveranza diuturna e fedele all’ora, labora et lege, con le sue fatiche e le sue gioie, che il
20
21
RB 72.
RB, Prol. 45.
8
monaco si forgia a immagine del suo Signore e Maestro, Cristo Gesù, facendo risplendere –
anche quando non se ne avvede – la bellezza dell’ideale abbracciato.
4. Le prove e la “vita buona del Vangelo”
Ogni uomo, in un modo o nell’altro, conosce il crogiuolo delle prove. Il cristiano, però, non le
affronta come qualcosa di ineluttabile, ma, illuminato dalla fede, è convinto che all’orizzonte di
ogni prova si staglia la luce feconda della Croce di Cristo. Essa è la grande scuola che ci insegna
a scoprire quel che la ragione da sola non riesce a comprendere; è la grande palestra che,
educandoci attraverso la sofferenza, ci permette di essere quello che il Signore ci chiama ad
essere. Sembra proprio essere questo il Leitmotiv che percorre tutta la storia della salvezza, e che
Cristo sintetizza nella sua vicenda terrena:
“Alla luce di Cristo, compimento di tutta la rivelazione, possiamo leggere nella storia
della salvezza il progetto di Dio che educa il suo popolo. Ripercorriamone le tappe
fondamentali.
L’esodo dall’Egitto è il tempo della formazione d’Israele (…). Il cammino nel deserto ha
un carattere esemplare: le crisi, la fame e la sete, sono descritte come atti educativi, «per
sapere quello che avevi nel cuore… per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma
che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,2-3). (…).
Anche nell’annuncio dei profeti la storia è intesa come un cammino educativo, segnato da
conflitti e riconciliazioni, perdite e ritrovamenti, tensioni e incontri”22.
Dio, però, non ha mai smesso di far sentire la sua vicinanza e ha sempre vigilato sul suo
popolo eletto, proprio come fanno un padre e una madre, che, anche di fronte all’ingratitudine e
alle infedeltà di un figlio, non distolgono da lui il loro sguardo affettuoso e compassionevole.
“L’immagine paterna è proposta dal profeta Osea. Il Signore ama e perciò chiama il suo
figlio, Israele: gli insegna a camminare, lo prende in braccio e lo cura, lo attrae a sé con
legami di bontà e vincoli d’amore, lo solleva alla guancia e si china per nutrirlo, mettendo in
conto anche i fallimenti (cf. Os 11,3-4).
Isaia, a sua volta, propone un’immagine materna di toccante tenerezza: «Voi sarete
allattati e portati in braccio, e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola un
figlio, così io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati» (Is 66,12-13)”23.
Questo modo di educare da parte di Dio va inteso come un incoraggiamento a perseverare
anche in mezzo alle prove e alle sofferenze della vita considerandole – anche se non è facile
quando si è direttamente confrontati con esse – come un mezzo con cui il Signore ci plasma a
sua immagine e ci immette più intensamente nella sequela di Lui, la quale non può prescindere
dall’esperienza della croce.
Se volgiamo il pensiero alla Regola di san Benedetto, ci è sufficiente riandare a due passi
molto eloquenti. Il primo si trova al termine del prologo, dove il monaco è invitato a “partecipare
con pazienza ai patimenti di Cristo (passionibus Christi per patientiam partecipemur) per
22
23
Educare alla vita buona del Vangelo, n. 19.
Loc. cit.
9
meritare di condividere anche il suo regno”24. Indipendentemente dal grado di fatica o di
sofferenza che essa reca con sé, ogni prova è dunque una partecipazione ai patimenti di Cristo, il
cui frutto salvifico si riverbera in modo misterioso nelle innumerevoli passioni sofferte dai suoi
discepoli. Inoltre, questa consapevolezza, oltre ad orientare la nostra vita in senso escatologico
verso la pienezza della vita eterna, preserva anche dal cadere nell’egolatria e nell’idolatria delle
cose e del mondo25.
Il secondo passo, tratto dal capitolo dedicato all’umiltà, è quello nel quale è descritta la
cosiddetta “notte oscura” del monaco. Essa si verifica quando egli, “vedendosi imposte cose duri
e contrarianti, o addirittura subendo torti di qualsiasi genere, abbraccia dentro di sé in silenzio la
pazienza e resiste senza stancarsi o ritirarsi, poiché la Scrittura dice: Chi avrà perseverato sino
alla fine sarà salvato, e ancora: Sia forte il tuo cuore, e tienti saldo nell’attesa del Signore”26.
Qualunque sia la prova che il monaco sarà chiamato ad affrontare, egli avrà la certezza che il
Signore è là, accanto a lui. È là per illuminarlo, per soccorrerlo, per sorreggerlo. Egli è là – come
sempre – per condurlo per mano non solo nei tratti più esaltanti della sua esistenza ma anche in
quelli più bui, non solo nelle piccole o grandi conquiste ma anche nei piccoli o grandi fallimenti.
Sì, il Signore è là, sempre pronto a plasmare la vita del monaco nella forza e nella luce dello
Spirito Santo e a renderlo capace di vivere ogni cosa “dentro il rapporto con Cristo e come offerta
a Dio”27, e di calcare i sentieri della “vita buona del Vangelo” sospinto dall’ “indicibile dolcezza
dell’amore”28. •
24
RB, Prol. 50 (cf. Rm 8,17).
Cf. Educare alla vita buona del Vangelo, n. 24.
26
RB 7,35-37.
27
BENEDETTO XVI, Sacramentum caritatis 71.
28
RB, Prol. 49.
25