Dio riconcilia a sé il mondo in Cristo

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Dio riconcilia a sé il mondo in Cristo
(2Cor 5,17-21)
S. Agostino (Tagaste 354 - † Ippona 430. I suoi resti si conservano a Pavia) scrive: «La
Chiesa è il luogo in cui l'umanità deve ritrovare l'unità e la salvezza. È il "mondo riconciliato"»
(Sermoni 96,7,9; Catechismo 845).
S. Paolo è l'unico autore del NT che parla esplicitamente di riconciliazione (καταλλαγή,
katallagé) per esprimere la novità assoluta compiuta da Dio in Cristo: siamo stati riconciliati con Dio
per mezzo della morte del Figlio suo (Rm 5,10). Oggi constatiamo con una certa sorpresa che il
linguaggio della conciliazione si è affermato in campo giuridico (in caso di incidenti stradali, nelle
aule dei tribunali, negli accordi internazionali), ma è divenuto raro in campo ecclesiale. I
confessionali vengono disertati, o comunque si preferisce parlare di penitenza e di confessione. Ci
chiediamo: il cammino di conversione è corretto quando prevede la penitenza, la confessione e quindi
la riconciliazione, oppure il cammino deve essere inverso: la riconciliazione, la penitenza e la
confessione? In altre parole, chi pecca ha la responsabilità di chiedere perdono, di espiare il male
commesso e quindi riconciliarsi con Dio? Per poter rispondere a queste domande ci lasciamo
illuminare dalla 2Corinzi (57 d.C.) di Paolo, definita «lettera della riconciliazione».
2Cor 5,17: [Fratelli,] se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate;
ecco, ne sono nate di nuove (εἴ τις ἐν Χριστῷ, καινὴ κτίσις• τὰ ἀρχαῖα παρῆλθεν, ἰδοὺ γέγονεν
καινά).
- se uno è in Cristo (εἴ τις ἐν Χριστῷ). La formula ἐν Χριστῷ è tipica di Paolo che la utilizza per
indicare la partecipazione alla morte e alla risurrezione di Cristo. Tale partecipazione si realizza
tramite l'azione dello Spirito Santo. Per questo l'essere ἐν Χριστῷ non è diverso dall'essere ἐν
πνεύματι, in Spirito (cf Rm 8,9).
- una nuova creatura (καινὴ κτίσις). Frutto della morte e risurrezione di Cristo è il diventare nuova
creatura (kainè ktísis), immagine tipica del linguaggio apocalittico. Il superamento di realtà vecchie
e il sopraggiungere di una «nuova creazione» è un motivo ricorrente nei profeti, specie nel Secondo
(cc. 40-55) e nel Terzo Isaia (cc. 56-66). Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche!
Ecco, io faccio una cosa nuova (hinni oseh chadashàh, Is 43,18-19). Ecco infatti, io creo nuovi cieli e nuova
terra; non si ricorderà più il passato (Is 65,17; cf Is 48,6; 66,22). Queste stesse immagini vengono
riprese in Ap 21,1-2: E vidi un cielo nuovo e una terra nuova (Καὶ εἶδον οὐρανὸν καινὸν καὶ γῆν
καινήν): il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c'era più. E vidi anche la città
santa, la Gerusalemme nuova (καὶ τὴν πόλιν τὴν ἁγίαν Ἰερουσαλὴμ καινὴν εἶδον), scendere dal cielo,
da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo (ἡτοιμασμένην ὡς νύμφην κεκοσμημένην τῷ
ἀνδρὶ αὐτῆς). L'uso insistente dell'aggettivo ebr. chadàsh, gr. καινόs, kainós, nuovo indica una
novità non cronologica, bensì qualitativa: si tratta di una realtà mai esistita prima. È nuovo il
cosmo che viene inaugurato, avendo superato il potere del male, simboleggiato dal «mare»
(θάλασσα) che «non c'è più» (οὐκ ἔστιν ἔτι). Al primo cielo, alla prima terra, alla scomparsa del
mare, non segue un altro cosmo, bensì la visione di un cielo nuovo e di una terra nuova. Questa
visione compie quanto profetizzato dal profeta Isaia: Ecco, io creo nuovi cieli e nuova terra (65,17).
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La novità riguarda il modo di concepire e vivere l'alleanza con Dio, come già previsto da Geremia:
Ecco verranno giorni - oracolo del Signore -, nei quali con la casa d'Israele e con la casa di Giuda concluderò
un'alleanza nuova (31,31: berit chadashah). Tale alleanza prevede: interiorizzazione del dono di
Dio mediante la sua legge scritta nel cuore, universalizzazione della conoscenza di Dio dal più
piccolo al più grande, perdono dei peccati. Applicata al cielo e alla terra «visti» dal veggente, la
nuova alleanza di Dio coinvolgerà tutto il suo popolo. Questo cielo nuovo e questa terra nuova è il
dono che Dio fa a ogni credente.
pronta come una sposa adorna (ἡτοιμασμένην ὡς νύμφην κεκοσμημένην, lett. «preparata come
sposa adornata). Questi due participi perfetti passivi (dei verbi ἑτοιμάζῳ e κοσμέῳ) qualificano la
sposa come un'opera di Dio, ma tale sposa non è una persona fisica, ma un corpo sociale evocato
da «la città santa, Gerusalemme nuova» (Ap 21,2.9-27). Nell'evento pasquale di Gesù Cristo la Chiesa
riconosce la svolta storica che ha segnato la fine di Babilonia la grande prostituta (17,1: τῆς πόρνης
τῆς μεγάλης, espressione del potere del male; cc. 17-18), e ha dato vita a Gerusalemme la sposa, la
moglie dell'Agnello (21,9: τὴν νύμφην τὴν γυναῖκα τοῦ ἀρνίου, espressione della comunione con
Dio; cc. 21-22): attraverso le pagine della Bibbia la liturgia ci aiuta a leggere la storia presente e a
celebrare la presenza amante di Dio che offre un futuro al suo popolo. La realtà «nuova» per
eccellenza che la comunità cristiana celebra è la novità assoluta di Gesù Cristo. Le espressioni del
profeta Isaia (43,18-19; 65,17) sono riprese, ma viene annunciato il compimento delle sue attese: è
nuovo il cosmo (cielo e terra) ed è nuova la storia (Gerusalemme). Tutto è nuovo: «Ecco, io faccio
nuove tutte le cose», afferma solennemente colui che siede sul trono (Ap 21,5). La città assomiglia a
una sposa ornata e pronta per lo sposo (21,2); l'angelo annuncia di mostrare la sposa dell'Agnello e
poi fa vedere una città (21,9-10). Queste due immagini sono interscambiabili e riassumono in sé
l'idea di relazione. La città evoca direttamente una vita sociale, fatta di rapporti e contatti con
tante persone; la città è il segno della convivenza umana. Similmente la donna richiama la
relazione personale e la vocazione all'amore e alla comunione. Ma entrambi questi simboli hanno
due risvolti: la città può essere Babilonia o Gerusalemme e la donna può essere una prostituta
(πόρνη) o la sposa (νύμφη). Il Kýrios ha reso possibile una nuova vita di relazione con Dio e con
l'umanità: ha condannato cioè la prostituta Babilonia (cc. 17-18) e ha creato la novità della sposa
Gerusalemme (cc. 21-22).
Paolo utilizza la formula καινὴ κτίσις, kainè ktísis solo 2Cor 5,17 e in Gal 6,15: Non è infatti la
circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l'essere nuova creatura. In entrambi i casi, la nuova
creazione si riferisce a quanti sono «in Cristo», a quanti si pongono al di là dell'essere giudeo o
greco. In tal senso, la «nuova creatura» si è realizzata soprattutto con l'evento della morte e
risurrezione di Cristo.
- le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove (τὰ ἀρχαῖα παρῆλθεν, ἰδοὺ γέγονεν καινά).
Per confermare l'esistenza della καινὴ κτίσις, Paolo riprende il linguaggio di Is 43,18-19: Non
ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Paolo non precisa quali siano le realtà
vecchie e quali le nuove, ma certamente la novità consiste nell'essere «in Cristo».
5,18: Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha
affidato a noi il ministero della riconciliazione (τὰ δὲ πάντα ἐκ τοῦ θεοῦ τοῦ καταλλάξαντος
ἡμᾶς ἑαυτῷ διὰ Χριστοῦ καὶ δόντος ἡμῖν τὴν διακονίαν τῆς καταλλαγῆς).
- Tutto questo però viene da Dio (τὰ δὲ πάντα ἐκ τοῦ θεοῦ). Paolo inizia a parlare di riconciliazione
spostando l'attenzione sull'opera di Dio. Tra gli autori del NT, soltanto Paolo utilizza il
vocabolario della riconciliazione. Giovanni Calvino (1509-1564, teologo francese, con M. Lutero fu
il massimo riformatore religioso del Cristianesimo europeo degli anni venti e trenta del Cinquecento)
definiva questi versi come la sintesi di tutto il pensiero di Paolo.
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- ci ha riconciliati con sé mediante Cristo (καταλλάξαντος ἡμᾶς ἑαυτῷ διὰ Χριστοῦ). I termini
καταλλάσσω, katallássō (riconcilio) e καταλλαγή, katallagé (riconciliazione) sono poco utilizzati nel
NT (cf 1Cor 1,18-21; Rm 5,10-11; 11,15). Di fatto, il linguaggio della riconciliazione è tipico delle
relazioni diplomatiche o politico-militari. La novità di Paolo deriva dal capovolgimento del
modello di riconciliazione. Infatti, mentre nelle religioni antiche sono gli esseri umani a cercare la
riconciliazione con Dio, soprattutto attraverso preghiere e riti espiatori, in Paolo (2Cor 5,18-20; Rm
5,8-10) è Dio stesso che decide di riconciliare gli uomini o il mondo con se stesso. In tal senso,
salta qualsiasi paradigma diplomatico e resta soltanto l'azione gratuita di Dio, senza attendere la
minima risposta dal versante umano. Non si è mai visto un Dio che riconcilia gli uomini con se
stesso, senza tenere conto del pentimento, della penitenza e dei riti espiatori (nell'AT si
conoscono ben 14 tipi di sacrifici cruenti). Dio ci ha riconciliato per mezzo di Cristo e senza di lui
non è concepibile alcuna riconciliazione di Dio con gli uomini e con il mondo.
- ha affidato a noi il ministero della riconciliazione (δόντος ἡμῖν τὴν διακονίαν τῆς καταλλαγῆς). Il
ministero, la diaconìa della riconciliazione è una tipica formula di affidamento. Infatti, non è un
compito affidato a tutti i credenti bensì a quanti hanno ricevuto il «ministero dello Spirito» (3,8) e «il
ministero che porta alla giustizia» (3,9). L'origine della riconciliazione resta l'evento della croce.
5,19: Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le
loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione (ὡς ὅτι θεὸς ἦν ἐν Χριστῷ κόσμον
καταλλάσσων ἑαυτῷ, μὴ λογιζόμενος αὐτοῖς τὰ παραπτώματα αὐτῶν καὶ θέμενος ἐν ἡμῖν τὸν λόγον
τῆς καταλλαγῆς).
- Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo (θεὸς ἦν ἐν Χριστῷ κόσμον καταλλάσσων
ἑαυτῷ). La riconciliazione divina è stata realizzata ἐν Χριστῷ, in Cristo, ossia nell'evento della
croce, e non soltanto «mediante Cristo» (v. 18). In tale prospettiva, il kósmos, destinatario della
riconciliazione di Dio, corrisponde a tutti gli uomini.
- non imputando agli uomini le loro colpe (μὴ λογιζόμενος αὐτοῖς τὰ παραπτώματα αὐτῶν). La
riconciliazione gratuita praticata da Dio diventa possibile solo se i peccati di tutti non vengano tenuti in conto, altrimenti si ricade in un modello di riconciliazione a partire dal basso, ossia dagli
stessi esseri umani, e non dall'alto. Per questo, Paolo avverte l'esigenza di precisare che Dio non
«ha accreditato» (λογίζομαι) le cadute degli uomini. Il verbo logízomai («tengo conto, imputo,
accredito, valuto») è tipico del linguaggio economico-amministrativo. Con la riconciliazione ἐν
Χριστῷ, Dio ha annullato i debiti degli esseri umani nei suoi confronti; un aspetto che sarà
evidenziato in Col 2,14: Annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era
contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce. Vedi la reciprocità del perdono (Mt 6,14-15); la
parabola del servo spietato (Mt 18,21-35).
5,20: In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che
esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio (ὑπὲρ Χριστοῦ οὖν
πρεσβεύομεν ὡς τοῦ θεοῦ παρακαλοῦντος δι' ἡμῶν• δεόμεθα ὑπὲρ Χριστοῦ, καταλλάγητε τῷ θεῷ).
- In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori (ὑπὲρ Χριστοῦ οὖν πρεσβεύομεν, lett. «per Cristo
dunque facciamo l'ambasciata»). In posizione enfatica troviamo l'espressione ὑπὲρ Χριστοῦ che
può indicare favore e sostituzione nello stesso tempo. È proprio degli ambasciatori fare le veci e
operare con l'autorità di colui che li manda.
- Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio (δεόμεθα ὑπὲρ Χριστοῦ,
καταλλάγητε τῷ θεῷ). L'esortazione di Paolo diventa intensa e accorata, poiché si accompagna
all'implorazione: vi supplichiamo. L'imperativo aoristo passivo καταλλάγητε, katallágēte è un
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passivo che funge da riflessivo: riconciliatevi o lasciatevi riconciliare con Dio. Per quanto la
riconciliazione sia un dono gratuito di Dio, necessita sempre della risposta umana.
5,21: Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi
potessimo diventare giustizia di Dio (τὸν μὴ γνόντα ἁμαρτίαν ὑπὲρ ἡμῶν ἁμαρτίαν ἐποίησεν, ἵνα
ἡμεῖς γενώμεθα δικαιοσύνη θεοῦ ἐν αὐτῷ).
- Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore (τὸν μὴ γνόντα ἁμαρτίαν
ὑπὲρ ἡμῶν ἁμαρτίαν ἐποίησεν). Una sentenza lapidaria e fulminante chiude la dimostrazione del
nostro brano. Gesù Cristo è colui che non aveva conosciuto peccato e che Dio stesso rese tale. La
congiunzione ὑπὲρ, hypèr non ha valore vicario o sostitutivo bensì di vantaggio: Gesù non fu reso
peccato da Dio al posto nostro, affinché su lui Dio potesse abbattere tutta la propria collera, bensì
in nostro favore, «perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio». Mentre la concezione vicaria
lascia la situazione umana immutata, quella del vantaggio conferisce agli esseri umani doni che
non possedevano in precedenza: la giustizia divina, la ricchezza di Cristo (cf 2Cor 8,9), lo Spirito
in quanto promessa (cf Gal 3,14), la figliolanza divina (cf Gal 4,5), la giusta esigenza della Legge (cf
Rm 8,4) e la gloria che i gentili rendono a Dio (cf Rm 15,9).
La prospettiva vicaria della redenzione, pur presente nel NT (cf Gv 11,50; 1Gv 2,2), è limitante
rispetto al paradosso paolino, perché si riduce al ristabilimento di una condizione previa del
peccato, mentre i credenti ricevono qualcosa d'inaudito che appartiene soltanto a Cristo, nostra
giustizia (1Cor 1,31).
- perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio (ἵνα ἡμεῖς γενώμεθα δικαιοσύνη θεοῦ ἐν
αὐτῷ). Qual è il significato della δικαιοσύνη θεοῦ, della giustizia di Dio attribuita ai credenti? Il
parallelo che illumina maggiormente la nostra espressione è quello di 1Cor 1,30: In Cristo Gesù che
divenne per noi sapienza da parte di Dio, giustizia, santificazione e redenzione. Il genitivo giustizia di Dio è
soggettivo: non siamo noi ad essere diventati, per nostra iniziativa, giustizia di Dio, ma è soltanto
Dio che ci ha resi sua giustizia. Per Paolo non è sufficiente il riconoscimento delle proprie colpe
per ottenere la giustizia divina, ma soltanto con l'inserimento «in Cristo» i credenti sono stati
giustificati, al punto che anch'essi possono definirsi giustizia o giustificazione divina.
L'amore di Cristo non soltanto unisce, sospinge e avvolge ma crea un continuo tormento in
noi: L’amore del Cristo infatti ci possiede (γὰρ ἀγάπη τοῦ Χριστοῦ συνέχει ἡμᾶς); e noi sappiamo bene
che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. 15Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non
vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro (2Cor 5,14). Il tormento suscitato da
Cristo in noi è quello di non relazionarci più con gli altri per tornaconto (v. 16: κατὰ σάρκα, alla
maniera umana), ma di vivere da creature nuove.
In conclusione:
Il ministero della riconciliazione investe tutta la Chiesa. Nella mia esperienza di fede
mi sento più vicino al figlio maggiore o minore della parabola del figliol prodigo?
Paolo asserisce che tutti sono stati riconciliati in Cristo. Nella storia della Chiesa questa
verità spesso è stata ignorata, provocando divisioni, concezioni settarie, mentalità individualistica,
farisaica, formale, bigotta. Credo davvero nella gratuità della riconciliazione da parte di Dio?
Riesco a vivere il perdono come un esempio di gratuità dell'amore?
Nella misura in cui ci lasciamo riconciliare con Dio, diveniamo a nostra volta ministri
della riconciliazione. Il compito di rimettere i peccati in Mt 18,18: tutto ciò che scioglierete sulla terra
sarà sciolto in cielo, e in Gv 20,23: A coloro che perdonerete i peccati, saranno perdonati è conferito
all'intera comunità; in Mt 16,19 è riservato solo a Pietro: tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto
nei cieli.
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