R E C E N S I O N I - Sandrine Nicoletta

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R E C E N S I O N I - Sandrine Nicoletta
RECENSIONIda145
5-06-2003
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R E C E N S I O N I
STEFANO ARIENTI
MASSIMO KAUFMANN
IN ARCO
MASSIMO KAUFMANN, Rapsodia, 2002.
Olio su tela, 180 x 200 cm.
Quasi coetanei, Arienti e Kaufmann non
avevano mai realizzato una personale insieme. La mostra, curata da Luca Beatrice, mette
a confronto la maturazione artistica di due vite parallele, due amici, due artisti italiani affermatisi tra la fine degli anni ’80 e l’inizio
dei ’90, che lavorano da circa vent’anni con
coerenza, attenzione e impegno.
Stefano Arienti, spesso concettuale, attento ai fenomeni sociali, collettivi, spirituali,
attratto da materiali leggeri, dalla carta, da
piccoli ready-made, da oggetti sottratti a un
feticismo popolare e quotidiano, presenta in
questa occasione opere in marmo bianco di
Carrara. Questo materiale che ben si presta
alla monumentalità non contraddice la delicatezza e la levità caratteristiche dei suoi lavori. Le lastre di marmo, spesse solo due centimetri, hanno la dimensione di una tela,
120x80, e sono delicatamente traforate. I fori,
realizzati con il trapano, delineano con tanti
piccoli punti le sagome di grandi figure religiose della contemporaneità: Madre Teresa di
Calcutta, Padre Pio e Papa Woytila. In realtà
sono Agnes, Francesco e Karol, come specifica l’artista nei titoli. Miti dei giovani, di fedeli e non, sono visti da Arienti come esseri
umani che hanno sacrificato la loro immagine
al mondo, a un pubblico vorace di idoli.
Massimo Kaufmann, invece, propone
grandi dipinti astratti dove trionfa il colore.
Nella teoria dei colori, Goethe affermava che
le tonalità calde come il rosso, il giallo e il
verde sono positive e suggeriscono calore ed
allegria. I romantici esaltavano le potenzialità
emotive del colore che come la musica può
toccare le corde del cuore. L’astrazione lirica
di Kaufmann ci regala una danza di punti colorati, ora più densi ora più radi, luminosi come astri in una notte stellata, fitti come nebulose. L’immaginazione di chi guarda è libera
di intravedere forme, mappe, paesaggi, ciò
che vuole. Alcuni dipinti — confessa l’artista
— nascondono immagini erotiche tratte da
antichi disegni del Kamasutra.
Questi nuovi quadri, alquanto differenti
da precedenti lavori, rappresentano per
Kaufmann il confluire delle sue esperienze
passate e la felice conquista di una dedizione
completa alla pittura.
Elisabetta Tolosano
GIAN MARCO MONTESANO
GALLERIA DI SAN FILIPPO
GIAN MARCO MONTESANO,
Volare, 2002. Olio su tela, 200 x 200 cm.
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All’Esposizione Internazionale di Parigi
del 1937, l’aquila imperiale trionfava sulla
torre progettata da Albert Speer, mentre la
falce e il martello erano innalzati con impeto
da una coppia di giovani compagni che dominavano il monumento di Boris Jofan; l’architettura monumentale del nazionalsocialismo e quella altrettanto celebrativa
dell’URSS si sfidavano in una nazione democratica. Questi padiglioni simbolo dei
due poteri totalitari sono i soggetti di due
grandi oli su tela del 1999 di Gian Marco
Montesano. L’artista rispetta nei dipinti
quella tonalità grigio seppia delle vecchie
foto in bianco e nero. Unica nota di colore il
rosso delle bandiere che sventolano.
Queste ed altre opere, dove compaiono
giochi ginnici, il Führer, Stalin, Mussolini, la
porta di Brandeburgo e altri soggetti legati alle
vicende europee del XX secolo, fanno parte di
una serie approfondita dall’artista nel passaggio dal vecchio al nuovo millennio. Bellissima
l’installazione inedita, Cinema Italia, composta da 100 disegni su carta che riassumono
cent’anni di storia italiana. Con ombreggiature e luminismi che si rifanno alla tecnica fotografica, Montesano ripercorre luoghi, volti,
ambienti e tradizioni cattoliche nazionali; è
una carrellata di eventi pubblici e privati, dalla
bambina sulla sedia che nel 1900 sventola la
bandiera sabauda, al volto di Carmelo Bene
con la didascalia tutto è bene… quel che non
finisce mai. E poi attori, politici, artisti, gente
comune (Carnera, Rodolfo Valentino, Pio XII,
De Gasperi, Totò, Alberto Sordi, Andreotti,
Sofia Loren, Toni Negri e tanti altri) compreso
un bell’autoritratto in divisa d’alpino. Curata
da Luca Beatrice e Guido Curto, la mostra
s’intitola A ritroso, per l’esattezza ‘ndarera,
in omaggio ai natali torinesi dell’artista.
La mostra rappresenta un viaggio all’indietro nel secolo passato, ma anche nella
Torino dell’infanzia (Autunno a Torino, il
Po a Torino, Torino anno zero) rivisitati con
nostalgia e con una tecnica pittorica che ricorda il cinema neorealista. Autobiografismo, storia, immagini sacre tratte dalla cultura popolare sono temi accomunati da una
valenza concettuale che nega l’artista creatore che invece è colui che traspone in pittura linguaggi visivi già esistenti.
Elisabetta Tolosano
SANDRINE NICOLETTA
MAZE
La galleria è giù in fondo al cortile, al piano
terra di un basso fabbricato che un tempo era una
piccola fabbrica. La porta d’ingresso è spalancata
e, oltre la soglia, si vede una fuga di stanze. Nel
bel mezzo si staglia una struttura fatta di semplici
assi di legno. Chi entra deve passare sotto a un architrave sorretto da due stipiti. Sulla chiambrana
di questa porta, che non ha muri intorno né battenti, è sospeso, nell’angolo in alto a destra, un
monitor e sullo schermo a colori scorre in loop un
video, con l’immagine di un gabbiano che, pigolando e volando di tanto in tanto, sta lì all’entrata
come una sentinella di vedetta. Subito dopo si devono salire alcuni gradini. Si percorre quindi un
pontile che, attraverso un corridoio, immette in
un’altra stanza. Quando si giunge al fondo di
questa passerella-trampolino, tutta la struttura
ondeggia pericolosamente, perché le assi sono
appoggiate sopra una pila di pneumatici. A questo punto per andare oltre bisogna aprire una porta e fare un salto giù sul pavimento. Con questo
intervento site-specific, Sandrine Nicoletta esprime l’idea che tutta la nostra vita è fatta di percorsi
obbligati, insicuri e per andare avanti dobbiamo
correre dei rischi e in taluni casi avere il coraggio
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di fare un salto nel vuoto. Questa condizione esistenziale sospesa, precaria e fragile, propria di chi
anela alla libertà e all’infinito, era ribadita in modo ancor più chiaro dall’artista il giorno dell’inaugurazione con tre performance eseguite da tre diversi protagonisti: i Disertori. Un acrobata faceva
volteggi stando su una scala a pioli e usando una
sedia appesa al soffitto della galleria. Dall’altra
parte un fachiro stava accovacciato immobile come uno stilita appoggiato coi piedi su due trampoli a un metro da terra. Mentre nel minuscolo patio all’interno della galleria una bimba si dondolava indolente appesa ai rami di un albero rinsecchito. Tre personaggi alla Italo Calvino, sospesi a
mezz’aria, ma non per questo incerti o insicuri,
anzi sereni e in grado di controllare perfettamente
il proprio corpo in sintonia con l’anima. Così tutto
l’intervento nel suo insieme diventa un percorso
e un modello di vita.
Guido Curto
R E C E N S I O N I
VENEZIA
MONIQUE PRIETO
IL CAPRICORNO
La mostra di Monique Prieto è, in un certo
senso, un omaggio alla città di Venezia che la
ospita perchè in più di un dipinto è possibile riconoscere la sagoma di un Pantalone, un giullare o una dama del Settecento.
Le forme di Prieto infatti, nonostante siano
sottoposte a un severo processo di astrazione che
mira a spogliarle fino all'essenza, rimangono
sempre legate alla realtà da cui derivano e non
smettono mai di indurre lo spettatore ad azzardare intuizioni e interpretazioni nonostante nella
sua arte il mondo osservato e le storie da narrare
siano sempre un mezzo e mai il fine.
Nelle sette opere esposte sinuose silouhettes
dipinte con colori brillanti dati in modo uniforme e piatto si stagliano con violenza sulla tela
bianca creando un immediato contrasto tra figura e sfondo, immagine e supporto, pieno e vuoto,
senza alcuna mediazione o alcun compromesso.
Manca completamente il senso di una prospettiva, non c’è profondità, spazio o volume,
non si percepisce variazione tonale o rapporto
tra luce e ombra. Sono creazioni realizzate a
computer che l'artista completa con la stesura
del colore: un connubio affascinante di high-tech e immaginazione.
È forte il senso di eccitazione visiva che i lavori emanano, come se le forme fossero nuvole
in incessante trasformazione, entità in equilibrio
precario sempre in procinto di evolversi in altro
da sè con moto vibrante e inquieto.
C’è qualche cosa che avvicina i lavori di
Monique Prieto alla Color Field Painting americana degli anni Cinquanta e Sessanta o a tanta
arte astratta del giorno d’oggi, ma l’uso psicologico che ella fa di forme e colori, la costante propensione al gioco e all’ironia, la capacità di animare le tele con un sottile senso dell’humor, la
naturale vocazione ad un’arte divertente e
seria al tempo stesso la portano a essere un
caso unico e singolare.
Marta Savaris
SANDRINE NICOLETTA, Untitled, 2002. Wall painting, 315 x 606 cm.
MONIQUE PRIETO, Crutch, 2003. Acrilico su tela, 61 x 46 cm.
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