Pdf Opera - Penne Matte
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Pdf Opera - Penne Matte
Dapprima sentì l’acqua fredda pungerle la guancia. Poi mosse la bocca e si accorse che le sue labbra erano impastate di sabbia bagnata e riarse di sale. Infine riuscì a schiudere le palpebre. Quando la sua vista tornò a farsi nitida, vide che era una su una spiaggia. Vedeva la schiuma della risacca salire e scendere sotto i suoi occhi, il cielo notturno venato dalle luci dell’alba. Appena si rese conto dov’era, un pensiero le attraversò la testa da parte a parte come una scossa e la destò dallo stordimento. Che ci faceva lì? Il panico cominciò ad occuparla per intero. L’avrebbero vista. Tra poco avrebbe fatto giorno e a quel punto l’avrebbero vista, soccorsa e infine identificata. L’avrebbero stipata dentro un recinto di sbarre e filo spinato a dividersi un letto con decine di persone in una camerata lercia, come aveva sentito dire a tanti. Non poteva finire così, doveva andare avanti, a Nord, la sua unica destinazione possibile. Prima di partire le avevano raccomandato che, se non voleva finire a dare le sue impronte e le sue generalità nel posto sbagliato, doveva proseguire senza mai farsi vedere, confusa tra le folle e al riparo da ogni sguardo. Doveva andarsene subito allora, alzarsi e correre via. Non riusciva però a rimettersi in piedi. Non aveva la forza di muoversi. Cercò allora di radunare tutte le sue residue forze per potersi issare da quel bagnasciuga. Digrignò così tanto i denti che temette di poterli scheggiare, le sembrava di dibattersi disperata dentro un sarcofago. Eppure tante volte, pur con il caldo e la fame a gorgogliare nello stomaco, aveva superato ogni ostacolo. C’era sempre stata una scintilla dentro di sé che le aveva sempre permesso di superare prove più grandi di lei. Stavolta però era diverso. La sua volontà non aveva mai affrontato tutto quello sfinimento. Provò una, due, tre volte, ma alla fine fu in grado di muovere le braccia. Affondò le mani nella sabbia melmosa e la strinse tra le dita fino a scavare due solchi. Fece leva su di esse per iniziare ad alzarsi finché, dopo altrettanti sforzi, sollevò prima un ginocchio e poi l’altro, riuscendo così a stare carponi. Ansimava, sentiva il cuore scoppiarle, tuttavia era confortata dal risultato raggiunto. Rimase ferma in quella posizione per un po’ a riprendere fiato. Un’onda più grossa andrò a infrangersi contro di lei arrivando a coprirla fino agli avambracci. Appena sentì di avere recuperato un po’ di energia, inspirò tutta l’aria che poteva immagazzinare nei polmoni e riuscì a mettersi in piedi. Dapprima tutto attorno a lei iniziò a traballare, le sue gambe furono lì lì per cedere più volte ma, dopo vari barcollamenti, trovò il suo baricentro. Si era alzata, ce l’aveva fatta. Scosse la testa e strizzò gli occhi più volte per schiarire la vista offuscata e tornare del tutto presente a sé stessa. Nel frattempo si era fatto giorno. Quanti sono morti per noi Lungo il cammino fatale Gloria eterna agli eroi Morti sono per l’ideale Gloria eterna agli eroi Morti sono per l’ideale Era l’inno del suo paese. Lo ripeteva in quel momento senza alcuna sosta. Non c’era niente da celebrare in quel momento però. Era solo una litania che passava e ripassava tra le labbra per tenersi vigile. Scandiva le parole, si concentrava per non dimenticarne nemmeno una, non poteva permettersi di dare spazio ad altro nella sua testa. Non doveva sentire né il caldo che la soffocava, né la sete che la opprimeva, né la stanchezza che la gravava. Se avesse mollato stavolta sapeva con certezza che non sarebbe più riuscita a rialzarsi. Quanti sono morti per noi Lungo il cammino fatale Gloria eterna agli eroi Morti sono per l’ideale Gloria eterna agli eroi Morti sono per l’ideale Superata la spiaggia, si ritrovò ad attraversare un fitto bosco di pini. C’erano alberi a perdita d’occhio, non vedeva altro innanzi a sé. O forse si era persa e stava girando in tondo? Quanto ancora avrebbe potuto trascinarsi in quelle condizioni, esausta e assetata, mentre un sole implacabile filtrava dai rami della pineta e l’aria si faceva sempre più torrida? Si appoggiò al tronco di un albero appena sentì le gambe farsi troppo fragili per sorreggerla. Il frinire delle cicale era così forte che sovrastava qualsiasi altro rumore in quella pineta. All’improvviso si ricordò di quando le dissero che le cicale cantano così forte d’estate perché alla fine della stagione sarebbero morte. Bandì però subito quel ricordo dalla sua mente, prima che lo potesse trovare una profezia. Si fece forza allora e si rimise in marcia. Quanti sono morti per noi Lungo il cammino fatale Gloria eterna agli… Impiegò qualche istante prima di capire se quello che aveva davanti agli occhi era vero oppure era un’allucinazione. Il bosco di pini non era altro che un piccolo parco retrostante la spiaggia. Attraversandolo fino alla fine si giungeva ad una stretta strada dall’asfalto divelto in più parti. Oltre quella c’erano solo dei campi ricamati da muretti a secco e completamente invasi dal grano selvatico. A interrompere quel panorama tutto uguale c’era però un casolare. Si sentì irradiare di speranza a quella vista. Trovò nuove energie per vincere la gravità della fatica. Giunta al lato della strada infatti, si rese conto che quella casa non era abbandonata. Aveva un aspetto curato, con le sue mura tinteggiate di bianco e le tegole del tetto intonse e ognuna al suo posto. Per raggiungerlo bastava attraversare quella strada e immettersi in un viottolo sterrato, al cui lato destro il casolare si affacciava. Non poteva andare avanti in quelle condizioni, doveva chiedere aiuto. Gli avrebbe chiesto solo un po’ d’acqua, nient’altro, e poi si sarebbe nascosta da qualche parte in mezzo a quella campagna deserta finché la polizia di frontiera non avesse smesso di cercarla. Prima di partire aveva cercato di raccogliere quante più informazioni possibili sui rischi a cui sarebbe andata incontro, se mai fosse riuscita a toccare terra dopo la traversata. Scandagliando un’enorme matassa di fandonie ed esagerazioni, sapeva ormai per certo che la gente del posto, quando vedeva quelli come lei senza documenti, correva a dirlo alle autorità, in modo da non passare per complici degli scafisti. D’un tratto ebbe un capogiro e la vista cominciò ad annebbiarsi. Si appoggiò al muretto a secco che costeggiava il viottolo sterrato e si fermò di nuovo per riprendersi. Il cuore le batteva così forte che sembrava fosse in procinto di uscirle dalla cassa toracica, la testa si stava annebbiando e le gambe vacillavano sempre di più. Disse a sé stessa le ultime parole di incitamento che riusciva ancora a ricordare e percorse i pochi metri che ormai la separavano da quella casa tenendosi saldamente aggrappata al muretto. Quando finalmente si ritrovò davanti al cancello del casolare, si aggrappò con tutte le sue forze alle sue sbarre verticali, come se dovesse resistere ad una forza che l’avrebbe trascinata via. Tuttavia era salva. La casa di sicuro infatti era abitata in quel momento. Accanto alla porta di ingresso c’era una finestra aperta, adornata con delle tende bianche leggermente smosse dal vento caldo che proveniva dal mare. Poi però, senza alcun preavviso, il suo corpo si accasciò su sé stesso come una camera d’aria sgonfia, sentì un forte dolore alla mano e niente più. Per quanto avesse puntato la sveglia, la sua camera da letto si surriscaldò già con il sopraggiungere delle prime luci, costringendola ad alzarsi ben prima del previsto. Si sentiva tutta sudaticcia e appiccicosa, forse era anche più stanca rispetto a quando si era coricata la sera prima. Aveva passato una notte intera a rigirarsi sul letto sperando di trovare un angolo sul materasso che fosse fresco a sufficienza, invano. Non poteva nemmeno accendere il ventilatore, alla sua età dormire con quel getto di aria fredda puntato addosso significava non potersi mettere in piedi il giorno dopo per i dolori reumatici. Si alzò allora, stanca e infastidita dopo una notte pressoché senza riposo. Andò in bagno a lavarsi per togliere la patina di sudore che le aveva lasciato addosso l’afa della sera prima e poi in cucina, a mettere su un caffè che le desse un minimo di carica per affrontare un’altra giornata torrida. Portò la tazzina fumante e il ventilatore in sala da pranzo per avere un po’ di refrigerio mentre guardava alla televisione le notizie del mattino. Il vento caldo di quella mattina infuocata infatti penetrava dalla finestra aperta, smuovendo leggermente le tende che aveva lei stessa cucito l’inverno scorso. Acceso l’apparecchio ben presto si accorse che tutti i canali lanciavano un unico titolo: edizione straordinaria, strage di migranti in mare. Riconobbe il porticciolo dell’isola in cui viveva, le strade del paese in cui si recava solo per sbrigare qualche incombenza e le facce dei suoi abitanti a cui non aveva mai concesso confidenza. Ora però quei luoghi mai lambiti da nessun evento sembravano essere diventati l’epicentro di ogni attenzione possibile. Vedeva scorrere davanti ai suoi occhi immagini di bambini terrorizzati, poliziotti, medici con le pettorine delle organizzazioni caritatevoli, ambulanze, persone sfatte dal terrore e dalla fatica, bare. Ciascun telegiornale rilanciava di minuto in minuto la notizia dell’accadimento con scritte così grosse che sembravano urlassero il peso del dramma in corso. I media riportavano che la notte precedente un barcone con a bordo un impressionante numero di migranti a bordo si era rovesciato, naufragando a largo dell’isola. Nell’isola da tempo correva voce che, da Sud, gente su piccole imbarcazioni di fortuna tentava di attraversare quel tratto di mare per giungere a migliori approdi. Alcuni pescatori riuscivano a trarli in salvo, altri si fermavano a notare che i pesci si stavano facendo sempre più pasciuti, e chiudevano la discussione con una smorfia. Nulla però poteva fare presagire l’avvento di una tragedia di quelle proporzioni. Spense la televisione subito. Avrebbe dovuto prendere il motorino e andare in paese, mettere le sue conoscenze di medico al servizio di quei superstiti. Non poteva farlo però. Se si era rifugiata da quelle parti era per vivere al riparo degli sguardi altrui, in un posto dove nessuno avrebbe avuto modo di capire il motivo del suo stare lì. Il passato doveva rimanere segregato dietro la porta che aveva chiuso quando decise di andarsene. Tutta quella folla, quella gente venuta da fuori, quelle divise… Troppo pericoloso esporsi. Doveva fare come aveva sempre fatto: chiudere tutti gli spiragli dentro i quali poteva insinuarsi la vita di un tempo. Se lo era ripromesso più volte: mai guardarsi alle spalle, mai permettersi un ripensamento, non un passo indietro. Si sentiva nervosa, vedere quelle immagini l’aveva destabilizzata. Reagì a quello stato d’animo cercando di impedire alla sua testa di pensare. Prese allora il suo grosso annaffiatoio, lo riempì di acqua e uscì fuori di casa per abbeverare le piante in cortile. Cacciò un urlo appena mise piede fuori dalla porta e l’annaffiatoio le cadde rovinosamente dalle mani. Cos’era, un cadavere quello che stava al di là del cancello di casa sua? C’era una donna di colore esanime davanti a lei. Si precipitò al suo fianco per vedere se fosse viva o meno. Tirò un sospiro di sollievo: appurò subito che respirava e che non era fredda. “Mi senti, riesci a sentirmi?” Le parlava mentre cercava di scuoterla, senza ottenere reazioni di sorta. Si accorse che aveva la pelle riarsa e la fronte molto calda: di sicuro non beveva da tempo. Si guardò attorno per vedere dove avesse l’annaffiatoio e vide che era riverso a terra davanti la porta di casa. Andò subito a raccoglierlo e versò il suo contenuto sulla faccia di quella sconosciuta. Vide allora che la donna cominciò a reagire muovendo la testa e leccando avidamente le labbra inumidite dall’acqua. Che doveva fare a quel punto? Non poteva chiamare un’ambulanza. Avrebbe significato attirare curiosi, come giornalisti ingolositi dalla storia di quello strano ritrovamento e, soprattutto, poliziotti a caccia di migranti da identificare. Non poteva nemmeno lasciarla lì a morire sotto il sole cocente. Cercò di mettere insieme nel più breve tempo possibile una soluzione che potesse salvare sia quella donna sia il suo isolamento. Nel frattempo il frinire delle cicale si faceva sempre più furioso. Impiegò un’indefinibile lasso di tempo prima di tornare pienamente cosciente. Per un po’ le sembrò di stare in un limbo, una terra di nessuno tra le veglia e il sonno. Quando riuscì finalmente a riprendersi, si accorse che era stesa su un giaciglio comodo e pulito, così tanto che le sembrava di trovarcisi sopra per la prima volta in vita sua. Era ormai da tanto che le sue ore di sonno si scandivano in anfratti di fortuna, con un occhio sempre aperto in attesa di un pericolo imminente o di un incubo ricorrente. Si guardò attorno e vide che si trovava in una camera da letto, forse una stanza degli ospiti. Il suo letto era posto sotto una finestra che dava su un albero di limoni dai rami robusti e dalle foglie brillanti. Le pareti della stanza erano tinteggiate di chiaro, con una greca rosa al centro che attraversava tutte e quattro le mura. Per il resto poi pochi mobili in legno scuro, dall’aspetto massiccio, quelli soliti di una camera da letto: un armadio, un piccolo scrittoio, una cassettiera con uno specchio e un comodino posto accanto al suo letto. Cercò di mettere ordine tra i pensieri e i ricordi per dargli un filo logico e capire come fosse finita lì e in che posto si trovasse, ma in quel momento anche un atto del genere era una prova che le forze in suo possesso non potevano affrontare. D’un tratto entrò una donna bianca di mezza età nella stanza con un vassoio in mano che poggiò sul ripiano della cassettiera. Alla sola vista il cuore le si fermò in gola. Chi era? L’aveva già denunciata? L’avrebbero prelevata da lì per prenderle le impronte? Doveva scappare, subito. Cercò di alzarsi da quel letto, ma subito intervenne la donna bianca a fermarla. “Cosa fai? Non devi alzarti ancora!” “Dove sono? Dove mi trovo?” disse alla donna, ma lei non rispose alla domanda, farfugliava ancora parole che avrebbero dovuto tranquillizzarla. Non poteva parlarle con la sua lingua madre, non l’avrebbe mai potuta capire. In fondo il suo idioma natio era poco più che un lessico familiare che nessuno capiva fuori dai suoi confini. Parlare la propria lingua con orgoglio era stato motivo di lotta per il suo popolo. Tuttavia, per contare qualcosa in un mondo che già poco li apprezzava, fu necessario per lei, come per tutti, tornare a praticare la grammatica dei loro vecchi occupanti. Ricadde all’indietro e poggiò di nuovo la testa sul cuscino. Chiuse gli occhi, deglutì e si prese tutto il tempo per concentrarsi ed esprimersi in maniera comprensibile. “Dove mi trovo?” chiese nuovamente. “Sei in Europa, se è questo quello che ti interessa.” le disse la donna. Questa si diresse poi verso la cassettiera, versò dell’acqua in un bicchiere, ci sciolse qualcosa dentro e si riavvicinò al letto. “Avanti, bevi questo.” le disse aiutandola a sollevarsi. Quell’acqua aveva un zuccherosissimo sapore posticcio di frutta. Lo trovò insopportabile e cercò di fermarsi, ma la donna insistette. “Tutto, lo devi bere tutto. Sono dovuta scendere in paese a prendere questi medicinali…” disse con un tono vagamente accusatorio. “Eri su quel barcone che è affondato?” le chiese non appena finì di bere. “Cosa?” “Il barcone… Non ricordi? C’è stato un naufragio l’altra notte, ci sono stati dei morti. Tu eri lì?” Aveva dei vaghi e incoerenti ricordi di quanto accaduto, tutto le appariva strano e distante. Rammentava il peschereccio fatiscente su cui si era imbarcata con centinaia di altre persone, il rumore del motore, ma per il resto era come se lei stesse figurando per sé stessa le immagini descritte da altri. “Sì…” “C’era qualcuno lì con te?” “No…” “No, ecco… Intendevo dire, stanno ancora cercando dispersi…” “Sono partita da sola.” “Meno male allora…”- disse distogliendo lo sguardo da lei – “Oh, ascolta…” continuò, ma appena tornò a guardarla vide che era sprofondata di nuovo nel sonno. Si svegliò di soprassalto questa volta, con il cuore che era un martello pneumatico, il respiro strozzato, delle urla disperate a risuonarle nelle orecchie, la mente bloccata sul ricordo di un atto irreparabile. La donna bianca era davanti a lei a scuoterle le spalle. “Ehi, ehi! Va tutto bene! Va tutto bene!” le disse energicamente mentre cercava di svegliarla. Le servì qualche istante per riuscire a distinguere con certezza il sogno dalla realtà. Si passò una mano sulla fronte che grondava di sudore freddo. “Tieni, prendi questo.” le disse la donna porgendole di nuovo un bicchiere. L’odore però era diverso rispetto all’ultima volta. “Che cos’è?” “È una cosa che ti aiuta a calmarti.” “Calmarmi?” “Sì, per farti stare meglio.” “Non ho bisogno di nulla! Io non sono pazza! Lo volete capire sì o no?” ruggì furibonda, lasciando la donna interdetta. Si pentì subito della sua reazione così violenta. “Scusami.” “Non preoccuparti.” Vide che dalla finestra non proveniva più la luce sgargiante del sole estivo, ma si stagliavano invece i colori del tramonto. Ora era lucida abbastanza per rendersi conto di trovarsi in casa di una sconosciuta da chissà quanto. Avendone finalmente le forze, si sollevò senza più troppi problemi dal cuscino e si mise seduta sul letto. “Non capisco… Ma da quanto tempo è che sono qui?” “Da un giorno e mezzo.” “Stai scherzando?” “Certe volte eri in dormiveglia. Ne approfittavo per darti i medicinali.” “Oddio...” disse affondando la faccia tra le mani. “Di cosa hai paura?” “Di essere fermata.” “Da me? Saresti in ospedale se avessi voluto dire a qualcuno della tua presenza, non credi?” Sollevò la testa e la guardò dritta negli occhi. “Mi chiamo Farah.” “Io sono Lea.” Farah provò ad alzarsi da letto, ma dopo pochi passi tutto attorno a lei iniziò a traballare. Lea accorse per sorreggerla. “Ce la faccio…” “Non credo proprio.” “Sono stufa di stare a letto.” “Allora siediti. Vieni in sala da pranzo, prova a mangiare qualcosa.” Farah si mosse rimanendo saldamente appoggiata a Lea. La guardò con attenzione. Le diede a prima vista una sessantina di anni. Non aveva un aspetto particolarmente curato, con quei suoi capelli lunghi e bianchi raccolti in una treccia e il fisico appesantito dagli anni. Con quegli occhi azzurri solcati dalle rughe e la pelle sottile degli avambracci e delle guance arrossata dal sole, Lea le ricordava le ricche turiste del Nord che popolavano i resort marittimi del suo paese, quando ancora per loro non c’erano rischi. La sala da pranzo era adiacente la camera dove Farah aveva dormito. Era una grande stanza con un tavolo al centro, un televisore posto innanzi ad esso e un divano bianco sul lato destro. Dalla finestra alla sua sinistra Farah potè scorgere il cancello a cui si era aggrappata prima di non ricordare più nulla. Lea la fece accomodare su una delle sedie che circondavano il tavolo. Farah si accorse che sulla sua mano sinistra era posto un grosso cerotto circondato da una garza. “Probabilmente sei caduta a peso morto su uno dei sassi che ci sono sulla strada sterrata – le spiegò Lea – Stai tranquilla, è solo un’escoriazione, un graffio. Aspettami qui intanto.” Si allontanò dalla stanza e torno poco dopo con un piatto ricolmo di cibo in una mano e una tovaglietta nell’altra. “Vuoi andare via di qui in fretta? Pulisci il piatto allora.” disse Lea sedendosi accanto a lei. Ancora sentiva tra le dita il rilievo delle sue costole sporgenti mentre l’aiutava a stare in piedi. Era un piatto traboccante insalata di riso. Farah ne prese una grossa cucchiaiata e iniziò a mangiare. Non ricordava più da quanto tempo non mettesse in bocca del cibo con il piacere di farlo, senza doverlo trangugiare pur di evitare gli stenti. Lea la guardava. Era giovane quella donna sì, ma non riusciva a capire quanto. Aveva dei lineamenti più sottili e ossuti rispetto alle donne della sua razza e portava i capelli molto corti, sembrava avesse uno spesso e uniforme strato di pece nera sulla calotta cranica. Forse in un’altra situazione l’avrebbe anche trovata bella: non era difficile supporre che la vita le avesse indurito l’espressione costringendola a celare ogni debolezza. I vestiti che aveva addosso quando l’aveva trovata non erano puliti e lei non aveva niente della sua taglia, così le aveva preso in paese un’enorme maglietta che doveva fungere da camicia da notte, da cui comunque vedeva sporgere come pomelli le spalle. “Grazie…” sussurrò Farah appena vuotò il piatto. “Di niente.” “Perché stai facendo tutto questo? Io non so se avrei fatto una cosa del genere per te.” “Temo che neppure io lo sto facendo per te.” “E cosa stai facendo allora?” “Forse sto solo cercando di perdonarmi.” Farah non ribatté. Non riusciva a capire se era la frase in sé ad essere criptica oppure se era lei a non avere colto le sfumature di una lingua non sua. *** Continuava a rigirarsi nel letto, senza trovare motivo per una tregua. Ora che pian piano si stava riprendendo, prendere sonno diventava sempre più difficile. Appena chiudeva gli occhi, non c’era più nulla a proteggerla dagli incubi. Forse avrebbe dovuto andare da Lea e chiederle con umiltà di darle quel medicinale che l’avrebbe fatta stare meglio. Forse doveva solo arrendersi all’idea che non stava più bene. Provò ad alzarsi, sentiva di esserne adesso in grado. Rimase ferma, in piedi, per verificare se ancora rischiava di cadere rovinosamente per terra al minimo sforzo. La testa non le si offuscava più e le sue gambe parevano finalmente essere solide abbastanza per tenerla su. Era così poco rispetto a quanto aveva affrontato e quanto era pronta ad attendersi. Scoprirsi però di nuovo padrona del suo corpo scatenò in lei un’euforia così genuina che pensava di averne scordato i contorni. Provò allora a muoversi per la stanza. Accese l’abat-jour posta sopra il comodino accanto al letto e subito la camera si tinse tutta di un tenue color ocra. Farah si guardò attorno stavolta nel pieno possesso delle sue facoltà mentali e cominciò a indagare per capire chi fosse la donna che l’aveva soccorsa. Aprì le ante dell’armadio, i cassetti del comò, lo stipite del comodino: erano tutti vuoti. Sicuramente quella era solo una stanza degli ospiti, un guscio vuoto pronto ad animarsi solo in presenza di una persona di passaggio. Si avvicinò allora allo scrittoio. Notò che la parete a cui era appoggiato il mobile aveva un alone, a dimostrazione che lì c’era un tempo attaccato un quadro. Sul ripiano non c’era nulla, così aprì velocemente il cassetto, arresa fin da subito all’idea che anche lì non avrebbe trovato alcunché. Invece, con suo grande stupore, un oggetto si palesò ai suoi occhi. Era un’agendina dalla copertina di plastica blu e solo pagine bianche al suo interno, fatta eccezione per una, su cui era scritto con una grossa ed incerta calligrafia mamma papà vi voglio bene. Eppure era sicura che Lea vivesse sola in quella casa. Forse l’agendina non era altro che un oggetto privo di valore, poggiata lì per essere dimenticata e quella frase solo lo scarabocchio di un autore sconosciuto. Tuttavia Farah sentiva che sistemare quell’unico oggetto in mezzo ad un ambiente così spoglio non era un caso, ma celava un senso, come solo può averlo il frutto di una scelta calcolata. Si allontanò dalla stanza e ritornò in cucina. Era tutto buio, ma la porta di casa era aperta. Possibile che Lea fosse andata a dormire lasciandola spalancata, come se niente fosse? Si avvicinò allora per chiuderla. “Lasciala aperta.” Era la voce di Lea che proveniva dal cortile all’ingresso. “Ma… sei sveglia?” le chiese. Lea era seduta su una sdraio al fresco, un posacenere in una mano e una sigaretta nell’altra. “Anche tu lo sei.” “Non riesco a dormire…” “Nemmeno io. Esci fuori anche tu, su.” Farah attraversò la soglia dell’uscio e si mise a sedere sui gradini che conducevano alla porta. Rimasero in silenzio per alcuni minuti, mentre i grilli cantavano e Lea continuava a tirare la sua sigaretta. “Forse… Forse dovrei prendere quella medicina, avevi ragione…” disse Farah d’un tratto. “Come dici?” “Sai, quando ti ho detto che sto bene, non sono pazza…” “E cosa sei invece?” “So bene cosa ero.” “E cioè?” “Una studentessa che voleva fare l’insegnante.” “E ci sei riuscita?” “Sono arrivati prima gli islamisti.” Lea subito spense la sigaretta nel posacenere e si girò a guardarla con lo sguardo preoccupato. “Aspetta, vado a prenderti il calmante…” “No, no, ti prego, non è necessario proprio adesso!” “Non vuoi andare a letto?” La sola idea di chiudere gli occhi e ritrovarsi di nuovo ostaggio dei frutti malati del suo inconscio già le accorciava il respiro. Stare là fuori, con l’odore buono della campagna nelle narici e il ricamo delle stelle sopra la testa la rilassava invece. “Non ora.” “Nemmeno a me va di dormire.” “Sei pazza anche tu?” “Sono come te: sono bravissima a dire cosa ero…” “E cosa eri?” “Un medico. Ero un medico una volta. Curavo le persone, le volevo salvare.” “E ci sei riuscita?” “No Farah. Non le ho più salvate le persone ad un certo punto. Per questo mi trovo qui adesso.” Lea aprì il pacchetto di sigarette ma lo richiuse immediatamente appena si accorse che era ormai vuoto. “Io vado a letto. Vieni, ti do il calmante, così puoi dormire anche tu.” *** Era un continuo andirivieni di elicotteri quella mattina. “Che sta succedendo? Perché questi elicotteri?” chiese Farah mentre facevano colazione. “Oggi celebrano i funerali delle vittime del naufragio. Sono venuti politici e dignitari fin qui.” “Cosa?” disse lei con gli occhi sbarrati. “Sì… Non so se faccio bene a dirtelo, ma faranno la diretta della cerimonia in tv. Se vuoi…” Avvenne all’improvviso, incontrollabile come l’eruzione di un vulcano. I suoi sensi andarono tutti in corto circuito e la strapparono a forza da lì per trascinarla altrove. Si ritrovò la testa mitragliata da quelle immagini e quei suoni che ogni giorno lottava per rendere inaccessibili alla sua mente. Che cosa abbiamo fatto? Non è stata colpa nostra! “Farah, che cos’hai?” Com’è possibile? Com’è possibile? Vedete se qualcuno è ancora vivo! “Farah! Mi senti? Stai male?” Lea si alzò di scatto dalla sedia per raccoglierla mentre la vedeva accasciarsi senza forze come una bambola di pezza. La sollevò dalla sedia e la coricò sul divano. Le mise un cuscino sotto la testa, prese dal tavolo un bicchiere pieno d’acqua dentro cui rovesciò un cucchiaino di zucchero e provò a farglielo bere, ma il liquido non andò oltre le labbra serrate e scivolò sul mento e il collo. Meno di un minuto dopo però Farah si svegliò. Davanti ai suoi occhi vide Lea con un’espressione atterrita. “Stai bene? Mi senti?” continuava a chiedere Lea scuotendola. “Si… Sono ancora qui…” rispose con un filo di voce, quasi ad avere conferma che nulla l’avesse davvero riportata indietro. “Forse dovrei portarti in ospedale…” “No! L’ospedale no!” “Ma lo vedi anche tu che…” “Non è il mio fisico il problema. Certe volte i ricordi vengono tutti fuori, così, senza che io possa controllarli. Poi svengo. Non è la prima volta.” Lea si allontanò allora dal suo capezzale per rimettersi a sedere sulla sua sedia. Le sue conoscenze mediche riuscirono subito a decifrare quelle frasi e a classificarle all’interno di una precisa diagnosi. “Farah… Il tuo problema ha bisogno eccome del parere di un medico apposito…” Farah girò la testa e condusse il suo sguardo dritto verso quello di Lea. “So che cosa intendi dire.” “Non sei diventata pazza, non sto dicendo questo…” “E anche se fosse? Cosa potrebbe fare un medico? Quel che è stato è stato. E quel che ho fatto pure. Devo solo imparare a conviverci e a non guardarmi mai più indietro.” Lea non ribattè. Versò di nuovo dell’acqua nel bicchiere e affondò un altro cucchiaino di zucchero al suo interno. “Tieni, beviti questo. Io nel frattempo sparecchio.” Si alzò dalla sedia e iniziò a sfaccendare in silenzio. Forse avrebbe dovuto dire qualcosa, anche una frase di circostanza, invece di lasciare morire in quel modo un discorso gravato da ombre così pesanti. Ma perché aprire bocca se tanto non aveva nulla da dirle? Non aveva la minima idea su come rendere il passato un corpo estraneo da cui potersi allontanare. Il tempo cura ogni ferita aveva sempre sentito dire, e da quei solchi un giorno usciranno farfalle. Dalle sue di ferite però continuava a sgorgare solo sangue. Nessun lasso di tempo era stato in grado di cicatrizzarle. “Penso sia ora che io mi rimetta in viaggio.” le disse una mattina Farah. “Non sono d’accordo, non sei ancora in condizione.” “Ormai sto bene.” “Il fatto che tu riesca a muoverti dalla tua stanza alla cucina senza svenire non vuol dire che tu sia tornata in forze. Ma non lo vedi come sei magra?” “In qualche modo farò. Non posso approfittare della tua ospitalità a lungo, io…” D’un tratto il rombo di un motore echeggiò in tutta la casa. Lea si affacciò alla finestra del salone per vedere cosa stesse succedendo. Un’ auto tutta impolverata stava attraversando il vialetto sterrato, avvicinandosi sempre di più al villino, finché non si fermò davanti al cancello. “Farah, nasconditi. Non farti vedere per nessun motivo. Vado io.” Farah corse nella sua stanza, mentre Lea andava incontro a quell’improvviso visitatore. Pensò di nascondersi dentro l’armadio,ma era in ansia per la donna che l’aveva soccorsa. Non sembrava dal tono delle sue ultime parole che fosse quella una visita in qualche modo gradita. Si acquattò vicino al letto, sotto la finestra che dava sull’albero di limoni, per cercare di sentire cosa dicessero e, in caso di pericolo, intervenire. Aveva l’esperienza per farlo, bastava solo metterla a frutto. L’auto si fermò, sentì una portiera sbattere e una voce maschile. “Buongiorno!” “Buongiorno…” “Quindi è qui che ti nascondevi?” “Io non mi sto nascondendo. Io qui ci vivo.” “E vivi bene vedo… Questa casa l’ha fatta costruire tuo marito? Ma è possibile farlo in questa parte dell’isola? Oh, dimenticavo: se il parlamento fa le leggi, chi può dire di no ad un parlamentare?” “Non osare insinuare nulla, non te lo permetto! E adesso vattene via da qui, lasciami in pace!” “Perché, che fai sennò? Chiami la polizia? È già qui la polizia Lea! Io sono la polizia!” “Questo non ti dà nessun diritto…” “Non venirmi a parlare di diritto proprio tu! Tu sei qui al sicuro perché è stato tuo marito a insabbiare tutto quello che hai fatto!” “Ma se non è neppure più marito, tu non sai nulla, io sto qui perché sto bene, non devo rendere conto a nessuno!” “Hai ragione, hai davvero ragione! Una persona che non ha nulla da nascondere se ne va in giro per il paese con l’aria tutta furtiva mentre sta accadendo il finimondo, perché tanto sa che non ha nulla da rischiare da tutta quella polizia lì presente. Giusto no?” “Cosa vuoi da me? Vuoi arrestarmi per quello che ho fatto? Non ci sei riuscito una volta e ora ci riprovi?” “Ma io adesso ho nuove prove. E tuo marito, anzi, il tuo ex marito, non conta più nulla. Chi ti proteggerà ora?” “Io… Io non ti credo.” “Vuoi mettermi alla prova?” “A te non te ne frega niente della giustizia. Tu vuoi solo prenderti una rivincita.” “Io mi sono stufato di vedere gente come te farla sempre franca e vivere serenamente.” “Ti sembro una persona serena?” “Fai come ti dico. Raccogli i soldi e i gioielli che hai se vuoi stare in pace. Io tornerò tra due giorni, stessa ora.” Farah sentì a quel punto di nuovo la portiera dell’auto chiudersi e il tipico rombo di un motore che corre a marcia indietro. Vide Lea fare ritorno in casa e così accorse subito da lei. “Che sta succedendo? Chi era quell’uomo?” Non la degnò di una risposta, si diresse senza nemmeno guardarla nella sua camera da letto. Farah la rincorse. “Ti sta ricattando? Era un poliziotto, giusto?” “Farah…” “Me ne vado allora, non ti posso mettere nei guai, io…” “Farah, non è questo il problema, stai tranquilla. L’hai detto tu stessa: quel che è stato è stato e io devo solo imparare a conviverci. E adesso scusami, vado a stendermi, ho mal di testa.” Il bicchiere con dentro il calmante era posato sul suo comodino. Farah lo guardava, stesa su un fianco sul suo letto. Non dormiva, non voleva nemmeno farlo. Lea era sempre stata evasiva, ma ora aveva eretto un vero e proprio muro attorno a sé barricandosi nella sua camera, senza neanche uscire per mangiare. Capì che doveva andarsene al più presto da quella casa. Non poteva permettersi di farsi trascinare da quella storia. Era inutile dare peso alle preoccupazioni di Lea sul suo stato di salute, questa è gente sazia pensava, non sa quanto un corpo può arrivare a temprarsi se pressato dal bisogno. Organizzò dunque i suoi pensieri per renderli di nuovo pronti al cammino da intraprendere. Le servivano di nuovo i suoi vestiti, doveva inoltre sapere come andare via da quell’isola, se c’erano natanti disposti a traghettarla sulla terraferma e cosa avrebbero chiesto in cambio. I grilli però non smettevano di cantare quella sera, disturbando il flusso dei suoi pensieri. Chiuse allora la finestra della sua stanza, ma il rumore del loro verso continuava lo stesso ad imperversare. Si alzò allora per andare a chiudere la porta, quando si accorse che il rumore proveniva dalla sala da pranzo. La porta di ingresso della casa era di nuovo aperta. Farah la attraversò e trovò come l’ultima volta Lea seduta sulla sdraio a fumare. “Ti è passato il mal di testa?” Lea si girò di scatto verso di lei, come se si fosse ridestata da un sogno. “Farah… Non stavi dormendo?” “Ho molti pensieri per la testa. Devo cominciare a pensare come lasciare questo posto.” Lea non le rispose e Farah si sedette di nuovo sui gradini. “Quella strada asfaltata… Dove porta?” chiese all’improvviso “Quella? A scendere verso il paese.” “E a salire?” “Da nessuna parte. Se si prende a salire quella strada poi si interrompe e porta su una scogliera a ridosso sul mare. Un tempo si voleva fare una sorta di passerella per i turisti da quella parte, quella strada doveva portarci la gente… Non se ne è fatto nulla alla fine. Non c’è nemmeno un parapetto sulla scogliera, nulla, ma alla fine a chi importa? Non ci viene nessuno su quest’isola. Troppo lontana, troppo spoglia, il traghetto che alla minima mareggiata non può partire… Qualche casa, una farmacia, le barche con i pescatori e nient’altro. Questo posto è tutto qui.” “E tu sei qui per questo?” “Per cosa?” “Perché non c’è nessuno?” Lea scosse la testa sorridendo. “Tu dovevi essere una studentessa molto brava, non è così Farah?” “Oh… Perché scusa?” Aspirò con avidità la sigaretta e poi la schiacciò dentro il posacenere. “Farah, devo chiederti io adesso un piacere.” “Ma certo, dimmi.” “Non andartene. Finché torna quell’uomo, non lasciarmi sola.” “Ma…” Lea si alzò dalla sdraio e si mise a sedere accanto a Farah, il suo viso a pochi centimetri da quello della sua ospite. “In cambio ti aiuterò a lasciare quest’isola. Ti darò tutto quello ti serve. Ma non lasciarmi sola in questo momento.” Farah si mise a pensare un attimo, poi annuì. “Va bene. Rimarrò finché potrò esserti utile.” Le avrebbe detto di sì comunque. Era preoccupata per quanto aveva visto, avrebbe fatto ogni cosa per tirarla fuori da qualsiasi guaio. Non era però solo la ricerca di una moneta che potesse ripagare la gratuità con cui Lea le aveva salvato la vita. Farah si sentiva legata a Lea. In quella donna si celava qualcosa che sentiva di condividere. Erano entrambe due naufraghe che avevano trovato in quell’isola un approdo. Arrivò puntualissimo come due giorni prima e trovò di nuovo Lea dietro le sbarre del cancello. Farah invece era nascosta, accovacciata sotto la finestra del salone. Non se la sentiva di stare in un luogo più riparato della casa. Voleva essere quanto più vicina possibile a Lea in quel momento, sapere di potere intervenire in maniera tempestiva se le cose fossero volte al peggio. Teneva tra le mani un coltello da cucina e ogni tanto alzava la testa e controllava la situazione dalle fessure delle tapparelle. Riusciva a vedere Lea di spalle da quella posizione. Era dritta e tesa come un’asta incuneata nel terreno. “Ecco, questo è quello che ho. Prenditelo e vattene.” “Tutto qui?” “Sono stata ai patti, ora tocca a te. Vattene e non farti più vedere.” “Come dici tu… Ah, ma prima, permettimi una domanda: che ci facevi in giro per il paese proprio durante tutto quel casino? Sei venuta fin quaggiù per nasconderti dopo tutto quello che è successo… E poi pensi bene di farti una passeggiata proprio quando c’erano tutti quei poliziotti, quei militari… Voglio dire, perché?” “Non sono affari tuoi. Ora sei pregato di andartene.” “Stai per caso nascondendo qualcuno? Magari qualcuno scampato al naufragio? Un povero clandestino? Non lo sai che è un reato?” Farah a sentire quelle parole si mise in allerta come un animale e trattenne il respiro, in attesa di capire che mossa intraprendere da lì a pochissimo. “Io non ho nascosto nessuno se è questo quello che vuoi insinuare.” “Davvero? Allora fammi entrare in casa. Qui fa caldo sai?” “Non osare nemmeno.” “Lea,Lea… Sei come un libro aperto sai? Ma appunto, non c’è più tuo marito a proteggerti dalle tue malefatte, spedendomi a lavorare in un paesino sperduto dove non avrei potuto più dare fastidio a nessuno, capito?” “Non è stata una malefatta!” “Hai ragione, si chiama omicidio.” “Lui stava soffrendo!” “Questo non ti avrebbe dato comunque il diritto!” “Basta, lasciami in pace, ma cosa vuoi da me? Perché vuoi torturarmi così?” urlò furiosa Lea. “Facciamo così. Domani torno di nuovo, alla stessa ora. Fammi trovare altri soldi. Ah, sbrigati a levarti dai piedi il negretto che tieni in casa, perché domani vorrò anche un caffè, siamo intesi?” L’uomo si rimise in macchina, ingranò la retromarcia a tutto gas lasciando dietro di sé una nuvola di polvere della strada sterrata. Farah aspettò di non sentire più l’eco del motore di quella macchina per uscire fuori di casa e correre da Lea. La trovò aggrappata alle sbarre del cancello, lo sguardo perso verso un punto invisibile, gli occhi rossi per il pianto. “Lui sa che sono qui?” le chiese Farah. Lea non le rispose. Farah la prese per le spalle e la voltò verso di sé. “Rispondimi! Lui sa che sono qui?” “Io… Io non ce la facevo più a vederlo in quel modo… Non ho resistito più…” disse Lea singhiozzando. “Che cosa?” “Quando non ha potuto più dipingere… Lui era un’artista sai? Avrebbe studiato pittura! Eravamo così orgogliosi, ci chiedevamo ma da chi ha preso?, appendevamo i suoi quadri... Ma poi non ce l’ha fatta più… Riusciva solo a scarabocchiare qualcosa, o a scrivere quanto ci volesse bene da tutte le parti, perché non poteva più dircelo a voce, si sentiva in colpa a vederci così, anche se provavamo ad essere forti…” “Lea…” “Mio marito mi ha detto allora di andarmene. – continuò Lea cercando di ricomporsi - Mi avrebbe protetta, in cambio dovevo sparire dalla sua vista. Allora sono scappata via e non faccio altro che questo da allora: scappare, senza mai girarmi dall’altra parte.” Senza curarsi delle conseguenze, Farah la strinse a sé in un abbraccio, con tutte le forze che aveva. Lea non oppose resistenze e con il volto appoggiato sulla sua spalla, si sciolse di nuovo in pianto senza freni. “Quanto tornerà quell’uomo? Domani?” “Sì… - rispose Lea tirando su con il naso – Non devi farti trovare in alcun modo da lui.” “Non preoccuparti per me. Verrà domani alla stessa ora?” “Sì, alla stessa ora.” “Perfetto.” Faceva veramente caldo quel giorno. Anche stando ferma, Farah sentiva il sudore colarle copioso lungo le tempie. Soffriva quella temperatura torrida più di quel giorno in cui, esausta e disidratata, era collassata davanti la villa di Lea. Forse non era tanto il clima, pensò, è che si era rammollita. In quei giorni di riposo forzato aveva trovato un giaciglio comodo, aveva mangiato bene e con regolarità, si era lavata senza problemi. Quelle comodità forse l’avevano resa immemore delle asprezze della sopravvivenza. Fatto sta che stare a lato di quella strada malamente asfaltata senza il ristoro almeno dell’ombra di un albero la stava mettendo alla prova. Poi però vide stagliarsi all’orizzonte quella macchina e si mise all’erta. Appena la vettura fu abbastanza vicina per poterla vedere alzò il braccio e fece il classico gesto dell’autostop. L’auto rallentò fino a fermarsi davanti a lei, così Farah poté avvicinarsi al finestrino del conducente, che venne prontamente abbassato. “Che c’è? Ti sei persa?” disse l’uomo. “Sì. Potrebbe accompagnarmi in paese?” L’uomo sogghignò a vedere una giovane donna di colore con un pesante accento straniero gironzolare in quella zona così sperduta. Aveva già capito tutto. “Me li fai vedere i documenti prima?” “Certo.” Con un gesto fulmineo, Farah estrasse un grosso coltello da cucina dalla schiena e lo puntò sotto il collo di quell’uomo. “Dammi la pistola. Adesso.” disse, affondando il coltello sopra il suo pomo d’adamo, abbastanza per far scorrere un rivolo di sangue lungo il collo. “C-che stai…” “Fallo!” gli abbaiò lei dritto all’orecchio. Allungò la mano verso il vano portaoggetti. “Lentamente. Non fare scherzi.” “Va bene… Faccio piano.” Tirò fuori la pistola dal vano e subito Farah gliela strappò dalle mani, mettendolo sotto tiro. Aprì la portiera e prese posto sul sedile posteriore, tenendo la pistola puntata contro la sua nuca. “Ok, adesso vai.” “I-in paese?” “No, prosegui dritto. Ti dico io quando fermarti.” Era in ritardo di più di un’ora. Farah era sparita poi. Aveva preso i suoi vestiti ed era sparita, senza un saluto, una parola, nulla. Non aveva senso, eppure Lea non riusciva a non vedere un nesso tra le due cose. Forse lei era scappata e lui l’aveva trovata e fatta portare in quei centri dove stipavano i migranti. O forse chissà, lui l’aveva trovata e poi… Decise di smetterla di indulgere nei catastrofismi. Le briglie della sua ansia dovevano essere tenute a bada. Doveva riflettere invece, capire cosa fare. Tornare in paese e cercarla? Oppure continuare ad attendere? Camminava nervosa come un leone in gabbia avanti e indietro davanti al cancello, finché non emerse in lontananza una figura ai suoi occhi. Strizzò gli occhi per capire chi fosse la persona che stava percorrendo il viottolo sterrato. Con suo immenso sollievo, vide che era Farah che stava facendo ritorno a casa. Attraversò il cancello e le venne incontro correndo. Più le due si avvicinavano però, più Lea notava con nitidezza in che stato era Farah in quel momento. Aveva grosse e irregolari chiazze di sangue rappreso sui vestiti, era sudata e camminava impettita, con uno sguardo che turbò Lea tanto era feroce. “Farah, ma cosa… Ma che ti è successo?” disse Lea appena se la ritrovò vicina. Farah non disse nulla, continuava a guardarla con quegli occhi che avrebbero fuso l’acciaio tanto erano determinati. “Sei ferita per caso? Coraggio, vieni in casa, lui alla fine non è ancora passato…” Continuava a rimanere immobile ed impassibile. Lea non sapeva cosa dire, era solo sconvolta a vederla in quello stato. Ad un certo punto, Farah fece un profondo respiro e cominciò a parlarle. “Quando la città in cui vivevo venne assediata dagli islamisti, i soldati regolari ci abbandonarono a noi stessi. Lasciarono tutto, armi munizioni… E scapparono, chi fuori dal paese,chi andò con i miliziani. Dovevamo scegliere: o scappare anche noi, oppure prendere quelle armi e difenderci. Ci siamo difesi, casa per casa, palmo a palmo ed eravamo insieme donne, uomini, anche ragazzini.” “Farah, ma cosa…” “Siamo riusciti a tener loro testa. Gli assedi logorano, si perde subito la motivazione. Un giorno credemmo di avere trovato uno dei loro covi. La presi io la decisione di attaccare l’obbiettivo. Il covo però era stato abbandonato di soppiatto. Dentro ci erano rimasti solo i prigionieri.” “Oh Dio…” “È da allora che sono cominciati gli incubi, le allucinazioni, gli scatti improvvisi… Mi hanno detto di andarmene, ero pazza, avevano paura che avrei alla fine puntato il fucile contro di loro. Ho deciso di venire in Europa allora, diretta a Nord per chiedere asilo.” “Farah lui… Lui l’hai incontrato? Sai dov’è ora? “La scogliera, hai presente?” Lea venne paralizzata da quelle scarne parole. Farah senza degnarla di ulteriore sguardo proseguì verso casa. “Perché hai fatto una cosa del genere? – urlò alle sue spalle Lea. – Che ti è saltato in mente?” Farah all’improvviso si fermò e si girò di nuovo verso di lei. “Tu perché mi hai salvata? Perché ti sei messa in pericolo fino a questo punto? Non ci credo che l’hai fatto per una sconosciuta.” “L’ho fatto… L’ho fatto per me, sì. Per redimermi. Ma cosa c’entra ora?” “Ecco, anche io sono in cerca di una redenzione. E so che la strada da fare è ancora tantissima. Per questo non posso permettere a nessuno di fermarmi. Io devo andare avanti, ad ogni costo.” Dopo l’eccezionale calura, improvvisamente la temperatura calò portando con sé pioggia e burrasca. Il mare mosso non permise per molti giorni altre traversate. L’attenzione di tutti quindi lasciò quell’isola, assieme ai poliziotti, ai dignitari, ai giornalisti. I consueti ritmi tornarono a scandire le vite degli abitanti dell’isola. Lea approfittò del ritorno all’anonimato di quel posto per scendere in paese. Prese degli indumenti di ricambio per lei, del cibo e li sistemò in uno zaino. Si salutarono così, mentre il sole volgeva al tramonto, l’una innanzi all’altra, davanti al cancello della villa. “Ho preso un accordo con uno dei pescatori. Ti nasconde nella sua barca e ti fa attraversa il canale che ci separa dal continente.” Farah la abbracciò con tutta la forza che aveva. “Tornerò. Appena potrò tornerò a trovarti.” “No, Farah. Non farlo. Se vuoi sopravvivere, non dovrai mai guardarti indietro. Vai sempre avanti, non farti mai imprigionare da ciò che hai alle spalle. Guarda sempre dritto davanti a te, non un passo indietro, mai.” Farah ebbe di nuovo la sensazione di non avere compreso appieno il senso di quelle parole pronunciate in una lingua che non era la sua. Tuttavia si tenne ben stretto a mente ciò che era riuscito a cogliere da quelle frasi. Il sole ormai era basso e la luce rimasta poca. Le due donne si abbracciarono nuovamente e si augurarono ogni benevole sorte. Farah si voltò e iniziò ad incamminarsi lungo il viottolo sterrato. Lea rimase alle sue spalle a guardarla allontanarsi, mentre la sua figura piano piano veniva inghiottita dal buio della sera.